Racconto in musica 134: Panda (Sant’Antonio Stuntmen – Elvis)

Voi pensate che Internet ricordi tutto: non è così. C’è tutto un sottobosco di musica che finisce pian piano per sparire dalle memorie digitali, perché l’ormai abbandonato MySpace ha una perdita di dati sui suoi server, perché l* artist* che l’hanno creata non hanno pensato di farsi un canale su YouTube, perché Spotify non esisteva ancora e ormai non c’è più nessuno nel progetto per caricarci i pezzi (detto che c’è chi non li carica neanche adesso, magari per protesta riguardo alle royalties bassissime, e non mi sento di biasimare questa scelta): paradossalmente è musica di cui potete leggere, ma non ascoltarla. Prendiamo ad esempio i Keep Out, band di stanza a Pescara nei primi anni 2000: sappiamo che fanno un metal abbastanza ibridato, su metal.it per il loro disco del 2009 See it through sfoderano il paragone coi Tool, su metallized.it li definiscono tentacolari, ma nemmeno sul loro profilo su RockIt si riesce a trovare una nota (addirittura in due recensioni diverse il disco passa dai cinquanta ai sessantacinque minuti di durata). Cosa fare quando ti mandano un racconto con una loro canzone che fa da sfondo? Ti arrabatti, provi a cercare tracce in ogni angolo e, quando proprio ti devi arrendere, scandagli nella tua memoria e ricordi che l’etichetta che aveva pubblicato il disco dei Keep Out una volta (quando ancora era attiva) ti mandava dei dischi da recensire: ecco quindi che la band abruzzese, purtroppo mangiata dall’entropia, viene sostituita in corsa dai padovani Sant’Antonio Stuntmen, ormai anche loro disciolti ma di cui il silicio mantiene ancora il ricordo (sì, l’ultima frase è stata scritta solo perché volevo darmi un tono).

A farmi frugare fra i dischi è stato Apolae, che di uno dei Keep Out è stato compagno a scuola. Utilizza uno pseudonimo nelle sue pubblicazioni perché solo così riesce a scrivere liberamente, e questa libertà acquisita gli ha permesso di vincere qualche piccolo premio locale e di essere inserito nell’antologia The source. Scrivere sull’acqua, edita da Libromania (DeA). Online trovate i suoi racconti su Tango y Gotan, giusto per rimanere in tema musicale, e sulla rivista Nabu storie, mentre in proprio pubblica brevi racconti ispirati alle sue foto di viaggio sul profilo Instagram apolae_fotoracconti. Ama la sua famiglia e la letteratura, impegnandosi per coniugare entrambe le passioni.

Che dire dei Sant’Antonio Stuntmen, a parte affermare che hanno uno dei nomi più fighi che io abbia mai sentito? La loro è la carriera di mille altre band che ho visto nascere e crescere nella provincia, di quelle che se ti va male ti sciogli e si ricorderanno di te solo amici, parenti (forse) e recensori, mentre se ti va bene puoi diventare gli Slint. Facevano un miscuglio disordinato e accattivante di noise, punk, stoner e post-hardcore, in poche parole il cazzo che gli pareva visto che Kaene, l’ultima traccia del loro primo disco autoprodotto Into the aorta (2006, ripubblicato nel 2008 dalla Black Nutria Indipendent Label), ribalta tutto e si fa quasi pop nel suo incedere comunque distorto che sa di pomeriggi primaverili adolescenziali passati ad ascoltare musica invece di studiare. Io li scoprii così, affascinato dalla loro cazzonaggine (non ti prendi troppo sul serio se intitoli un brano superdeathbrutalgrindskifosilimbo), ma a quel tempo avevano già passato cinque anni a sudare in sala prove nella campagna cementificata padovana, creando legami con la scena rumorosa veneta che li portarono in giro con band come i Melt (che ancora sembrano vivere e resistere insieme a noi) e i clamorosi Mr. Bizarro and the Highway Experience, che mi capitò di vedere più di una volta e con cui i Sant’Antonio Stuntmen sembravano condividere la carica sul palco, visto che il quartetto padovano si esibiva pure con maschere da luchadores. Grazie ai contatti con due etichette estere, la DBDC Label di Nancy e la Church Of Noise di Berlino, riuscirono a portare la loro musica anche al di fuori del paese, poi l’abbandono di uno dei componenti, il chitarrista Zano, bloccò le operazioni per un certo periodo. Ripartirono coi live a fine 2010, col nuovo chitarrista Silva e con un disco già in testa, Guardingo, uscito nel 2012 sempre per Black Nutria e nei cui credits si legge che è stato registrato ad Agua Dulce, in Messico, dall’eroe locale Ignacio De La Cueva: dobbiamo credere ai quattro santi, credere che San Silva Martinez (protector del los viñedos), Santo Alejandro (protector de las baterías de alto voltaje), San Co (protector de los quesos y del forraje) e San Andreas (proteger el agua subterránea y la soldadura) sono volati davvero fino in Messico per registrare il loro ultimo disco, prima di far perdere lentamente le loro tracce? I want to believe.

Apolae ha creato una storia in cui la musica dei Sant’Antonio Stuntmen entra direttamente in scena, seguendo il protagonista nei suoi approcci con un’amica mentre nel locale si svolgono soundcheck e live: a farli arrivare lì e a portarli poi altrove è la Panda del titolo, che da semplice auto diventerà fonte di ricordi indelebili. Potete leggere il racconto subito dopo il brano che ne fa da ideale colonna sonora, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Panda, di Apolae

Parcheggiare a viale Pindaro? Tu stai fuori biascicò Alex che stava già un po’ bevuto, l’imbecille, che i bodyguard ci avrebbero annusato da metà fila, voi no ragazzi andate a farvi un giro la sentenza dal tipo pelato, lo chiamavamo Mastro Lindo spalle e orecchino, ma intanto Max indicava al nostro autista un posto stretto, un buco nella traversa di via Sforza, anche se a entrare da lì saremmo andati contromano ma sticazzi, Alex si buttò dentro e Bea giù a ridere come una scema, aggrappata alla mia coscia con un mignolo vicino alle palle perché aveva voglia quella sera, tutta in tiro sei una bomba wow tette e gambe, allora io mi tappai gli occhi mentre un suv ci caricò suonando dal senso opposto. Miracolo: la Panda s’infilò svelta in quella specie di parcheggio e lì la lasciammo per un pezzo, riposo meritato, tra un cassonetto dell’immondizia stracolmo e i gradini di un negozio chiuso.

Alla Fabbrica suonavano i Sant’Antonio Stuntmen, amici di Alex che era passato ai controlli all’ingresso per il rotto della cuffia, un misto di Veneto e rock alternativo, roba che non poteva piacermi neanche per sbaglio. E comunque a me il concerto serviva solo come scusa per stare incollato a Bea, chiaro. Nel locale rimbalzavano gli echi nervosi del soundcheck, misti al cicaleccio della gente che parlava impugnando i rum&pera come microfoni, li conosco questi sono forti, ci andavo a scuola a Padova, prendiamo una cosa? Vabbè dai, fino al palco in fondo alla navata, scarno e nero, zero effetti speciali e tanta adrenalina perché i ragazzi si giocavano la reputazione, con amici estranei e forse un talent scout nascosto sulla balconata laterale, a guardare dall’alto le alchimie dei quattro sudare sulle corde e sui piatti, attraverso riff e pattern, traccia dopo traccia.

Andati i primi brani l’ambiente si era scaldato e il gruppo annunciò Elvis, gran pezzo da pogare coi bracciali borchiati, forse contratto su alcuni passaggi ma di certo un buon successo, visto il calore della gente dopo aver tracannato i bicchieri di riscaldamento. Io e Bea ci agganciavamo spesso, prendevamo scuse per toccarci il culo o i fianchi, insomma era il momento giusto quando la guardai dritta con uno sguardo che diceva “andiamo” e lei per tutta risposta mi trascinò all’uscita. In tasca avevo già le chiavi della Panda, che Alex mi prestò in cambio di un favore che avrei dovuto fargli il giorno dopo, mi raccomando bello non sporcate e state lontani dalle puttane, sennò i papponi vi bussano al vetro, disse qualcosa del genere bucando il frastuono che riempiva la serata.

Guidammo fino ai bordi della pineta, senza addentrarci troppo per non rischiare. Il motore lo lasciai al minimo per ripartire in caso di problemi, anche se c’è era giusto qualche macchina a tremolare qua e là coi vetri appannati. Una lucciola si posò placida sul lunotto, poi Bea mi sbottonò la patta e io le alzai la gonna. Fu quella la notte in cui perdemmo insieme una cosa che non avremmo mai più riavuto.

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Un sogno lungo molte vite: Sciara di Marina Mongiovì

Sicuramente l’ho già detto (tendo a ripetermi), ma quando ho aperto questo blog/aspirante rivista letteraria io ero DAVVERO convinto che ci fosse un’orda di persone che non vedevano l’ora di pubblicare per il mio neonato progetto: mi affacciavo anche io in quel periodo al mondo delle riviste, spandevo racconti qua e là e la mia fame di pubblicazione la vedevo come una costante per tutt* l* giovani autor*. Sicuramente è così, ma vi basta dare un’occhiata al numero di racconti che sono stati scritti da me (soprattutto nei primi tempi) per capire che non ho avuto proprio tutto questo appeal nella lit-web. Fortuna vuole che uno dei miei racconti tentai di farmelo pubblicare su ‘tina, la storica rivista di Matteo B. Bianchi, venendo rifiutato ma ottenendo un ottimo consiglio: se l* autor* non arrivano a te, vattel* a cercare. Ho iniziato così a scandagliare il web alla ricerca di chi aveva uno stile che mi affascinava, creava storie che mi risuonavano, e alcun* di quest* hanno accettato la mia proposta di creare racconti brevi ispirati da (o associati a) canzoni del varipinto panorama musicale indipendente: fra quest* c’è stata anche Marina Mongiovì.

Nei racconti di Mongiovì (che trovate linkati qui) avevo trovato una forte personalità, una capacità di narrare allo stesso tempo precisa e vaga, pochi dettagli ma essenziali per catturarti e farti entrare in storie piuttosto oniriche. Queste capacità le ho ritrovate nel suo libro d’esordio Sciara, pubblicato a febbraio 2023 dalla casa editrice Kalós, una raccolta di racconti capace di trasportare all’interno di un contesto reale ma mantenendo l’aura del sogno, e questo non solo perché il sogno è l’espediente narrativo su cui si basa l’intreccio fra le varie storie.

Teresa è una giovane ragazza siciliana, impegnata nel rituale dell’imbottigliamento della salsa di pomodoro. Il primo racconto della raccolta è incentrato su di lei e sulle altre donne della sua famiglia, impegnate in una mansione che è anche una sorta di legame intergenerazionale: un’introduzione lenta, avvolgente, che attraverso le chiacchiere e i gesti delle protagoniste ci fa già scivolare nell’ambientazione della provincia catanese, raramente esplicitata con nomi di luoghi precisi ma chiara fin da subito. Dopo le fatiche della mattinata arriva il momento del pranzo, poi quello del riposo pomeridiano, e col sonno Teresa ci porta in un altro mondo: con lo stratagemma del sogno le persone che prima erano solo accenni diventano reali, ne seguiamo le vicende in un ordine dettato dai rapporti che li legano, scoprendo attraverso di loro i segreti della piccola comunità.

Avevano sette o otto anni quando, con i racconti del prete, scoprirono l’esistenza del male. Salvatore non aveva un’idea chiara di chi o cosa fosse: Satana, Satanasso, Lucifero, Diavolo, Mefistofele. Don Carmelo usava sempre nomi diversi, perché diverse potevano essere le sue sembianze: ora un arcangelo cornuto; dopo un insidioso serpente; un uomo con la testa di caprone; o ancora un drago a sei teste. Nei caldi pomeriggi d’estate, per le assolate e deserte vie del paese, Salvatore immaginava di incontrare il demonio sotto forma di biscia nera o con la testa cornuta di un enorme caprone. Al solo pensiero correva a perdifiato e, nella quiete meridiana, si sentiva solo lo scalpitio dei suoi piccoli piedi sul basolato.

Mammelle

Personaggio dopo personaggio, storia dopo storia, la comunità esplorata in Sciara assume contorni inquieti. Fra tradizioni e superstizioni, ruoli che sono come gabbie e cose che tutti sanno ma nessuno può dire, frammenti di vite o esistenze intere scorrono in un continuo andirivieni temporale: ci sono Anna, costretta a sottoporsi a reiterati supplizi volti a farle trovare marito, Orazio, che assieme ai pesci trova nelle reti le ossa dei morti in mare, Giorgio, a cui un caso di morte apparente apre le porte per diventare telepredicatore, e ancora delinquenti, reiett*, tutto un caleidoscopio umano di cui emergono vizi e virtù.

Leggere i racconti di Mongiovì mi ha lasciato una sensazione simile a quella provata, anni fa, con l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Come nel capolavoro del poeta statunitense, infatti, gli orrori quotidiani vengono esposti con grandissima sensibilità, portandoci ad avere pietà anche di chi si macchia di crimini atroci. Non abbonda di innocenti Sciara, ma poch* carnefici non sono stat* a loro volta vittime: al silente gioco al massacro si sottraggono solo i semplici, come la babba Angelina e Fofò, che i bombardamenti della seconda guerra mondiale hanno reso muto, o coloro che non si piegano a regole che appaiono immutabili,, che condannano l’omosessualità del puppo Michele e considerano fonte di malasorte l’irruenza e l’indipendenza di Nunzia. La società scandagliata dall’autrice è imbevuta di patriarcato, ma i ruoli imposti dalla tradizione stanno stretti a quasi tutt*: per ogni Assunta, la “Marchesa” che rifiuta un futuro da moglie e madre, ci sono una Carmela costretta a subire l’adulterio senza fiatare, una Nina prigioniera dell’isola in cui l’ha portata il marito, una Rosalia per cui la maturità del corpo diventa fonte di rabbia e frustrazione; persino Nuccio, il ragazzo attirato dalle promesse della malavita che si farà boss, sembra vittima di un sistema che lo vuole forte e ricco per essere davvero uomo.

La faccia seria di sua madre Lucia sentenziava: «Le signorine stanno a gambe chiuse».

E ancora: «In quei giorni è meglio che non ti lavi».

«Le signorine non giocano e non urlano sguaiate per le vanedde e stanno molto attente a quello che mostrano ai maschi».

«C’avi i so cosi», sussurravano tutti e, nella penombra della sua camera, Rosalia ringhiava come un animale ferito, chiusa nel suo cordoglio.

Ciò che riguardava le femmine, dalla vita in giù, non aveva un nome preciso. Erano cose: sangue infetto da occultare. Qualcosa che andava detto mormorando, con le bocche storte o risolini complici.

Signorina

La bravura di Mongiovì sta nel tessere questa tela rendendone vivido ogni filo. Descrive luoghi ed eventi con una prosa asciutta che mette in risalto ciò che è necessario, a ogni racconto aggiunge pezzi di un puzzle che alla fine risulta completo, e quasi non serve essere stati al carnevale di Catania per immaginarsi Michele ballare vestito da donna, aver percorso i gradini che portano alla chiesa di Sant’Alfio per immaginarsi i festeggiamenti durante la sua festa a maggio, essere stati al numero 13 di Vicolo Rizzo per immaginarsi l’unione di sacro e profano nel quartiere delle prostitute. Mongiovì narra quasi esclusivamente in terza persona, dimostrando di avere una voce forte e riconoscibile, ma si permette anche di sperimentare adottando il punto di vista di un gatto (Requiem per Giorgio Privitera) e maneggiando alla perfezione la seconda persona singolare (Per grazia ricevuta).

Sciara si conclude col risveglio di Teresa, non prima di un’onirica resa dei conti in cui alcuni torti vengono vendicati. Con lei ci risvegliamo anche noi, scossi e affascinati allo stesso tempo, perché nel mettere in fila tutte le storture che animano la sua Catania Mongiovì trasmette anche l’amore che prova per la sua terra: riuscire in un compito simile al primo libro non è semplice, e questo mi rende ancora più orgoglioso di averla contattata un giorno di due anni fa, proponendole di scrivere un racconto ispirato a una canzone del suo conterraneo Cesare Basile.

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Racconto in musica 133: Distruggere (Laila Al Habash – Sunshine)

Quanto sono belle le fiere del libro? Certo, dal punto di vista editoriale hanno le loro problematiche, soprattutto dal punto di vista dell’editoria indipendente, tipo i prezzi spropositati degli stand al Salone del libro di Torino (ma se non ci sei non sei nessuno, mi sembrano le fiere a cui partecipano le mie titolari per trovare clienti e poi magari non ne troviamo uno che vuole i nostri bottoni) o le recenti polemiche che hanno portato alcune delle case editrici che ci piacciono di più a non partecipare a Più libri più liberi in quel di Roma, ma rimangono comunque un posto dove fare incontri interessanti e scoprire nuovi orizzonti. Al recente Book Pride di Milano, fra la presentazione di una raccolta di racconti fantastici di autor* african* e un’interessante intervista con Cristiano Godano dei Marlene Kuntz (cui siamo vicini per la scomparsa di Luca Bergia, ex batterista e fondatore della band cuneese con cui qui a Tremila Battute siamo cresciuti), io e la mia compagna ci siamo fatti attirare dalla passione con cui la giornalista Giulia Cavaliere parla di musica per infilarci alla presentazione di Un lavoro da donne, antologia curata da Kim Gordon (storica bassista dei Sonic Youth) e dalla scrittrice Sinéad Gleeson che dà spazio alla musica raccontata da giornaliste, musiciste e artiste nel senso più ampio del termine visto che, guarda un po’, anche il mondo del giornalismo musicale è sessista. Qui a Tremila Battute non ci teniamo a fare i progressisti senza coerenza, il libro non lo abbiamo comprato (ma è più a causa della montagna di arretrati, anche se ammetto di aver letto solo critica musicale fatta da uomini) e pure la nostra playlist è pesantemente sbilanciata verso gli uomini, ma abbiamo approfittato di quella chiacchierata fra Cavaliere, la collega Alba Solaro e una musicista per andare a scoprire ciò che faceva proprio questa terza figura, e ne siamo tornati con canzoni molto belle nelle orecchie. Tutto il solito giro di parole semi-inutile, insomma, per dire che da quell’incontro ci siamo fatti suggestionare dalla musica di Laila Al Habash, ed è di lei che parliamo oggi.

Classe 1998, originaria della provincia di Roma trasferitasi di recente a Milano, ad Al Habash la musica entra nel sangue molto presto, tanto che a 13 anni già scrive canzoni: una cosa forse normale in una famiglia in cui anche le sorelle suonano uno strumento (questa cosa la ricordo dalla presentazione, ma può essere che ricordi male), meno se penso a casa mia dove mi sono ritrovato a suonare la chitarra a 18 anni perché quella c’era (abbandonata da mio fratello) e una batteria non me l’avrebbero mai concessa. Dovevano già essere canzoni con un bel potenziale dato che ancora minorenne attira le attenzioni di gente come il produttore Stabber, guru della scena romana che infatti la porta all’interno della grande famiglia di Bomba Dischi nel 2018: l’anno dopo per l’etichetta della capitale escono i suoi primi singoli Come quella volta, Zattera e soprattutto Bluetooth, che Netflix inserisce nella colonna sonora delle serie Summertime dandole già una visibilità molto ampia. Al Habash però pondera le sue scelte, si muove paradossalmente con una calma velocità e il suo pop venato di soul e R&B in cui risplendono echi nineties assume sempre più sfaccettature. Nel 2020 prepara il terreno con il singolo Rosé, in cui duetta con l’artista italo-svizzero-californiano Tatum Rush, poi nel 2021 spara in rapida successione tutte le sue cartucce: a febbraio esce l’Ep Moquette, alla cui produzione oltre al fido Stabber si aggiunge un certo Niccolò Contessa (di cui qui abbiamo notevole stima), a luglio appare su un billboard gigantesco a Times Square nell’ambito del progetto Equal di Spotify (che fa anche cose buone), poi a novembre esce il primo disco, Mystic motel, edito come il precedente Ep dall’etichetta Undamento.

Al Habash parla di relazioni, perlopiù sentimentali ma non esclusivamente (Oracolo è dedicata alla madre, Pianeta racconta un’amicizia complicata con notevole sensibilità), e lo fa con schiettezza e ironia, accompagnando i suoi testi con una voce che alterna sensualità e momenti quasi spoken word. Quello che stupisce di più, soprattutto in Mystic motel, è il caleidoscopio musicale di cui ammanta le canzoni: il pop gioioso e trascinante di Abbagli e Ponza, il soul di Complimenti, la carica delle frequenze basse che esplodono nei ritornelli di La fine tua fino a momenti più elettronici come Baby e la splendida Sabbia, tutta giocata su un giro lisergico che cattura e disorienta: alla fin fine che ci sia Coez a duettare con lei in Sbronza è la cosa che colpisce meno, perché Al Habash mette così tanta carne al fuoco che una collaborazione importante serve solo a certificare che il suo livello può e deve essere quello dell* grand*. In attesa del prossimo capitolo della sua storia musicale Al Habash si è dedicata a collaborazioni con altr* artist*, come Giuse The Lizia (il singolo Particelle, 2022) e Maria Antonietta (altra vecchia conoscenza del nostro blog), con cui duetta nel recentissimo singolo Per le ragazze come me.

Sunshine è la traccia che più mi ha colpito di Mystic motel, quella in cui si esplicitano maggiormente influenze hip hop che fanno anch’esse parte del bagaglio musicale dell’artista. Una storia d’amore in cui, nonostante la differenza d’età e la spacconeria, l’alfa della situazione non è l’uomo, come spiega (anche se non completamente) proprio Al Habash in questa intervista: mi sono fatto suggestionare da questi elementi e dalla ricetta che elenca sul finale del brano per costruire una storia di fragilità inaspettate e pessime capacità culinarie, che potete trovare subito dopo il brano che l’ha ispirata. Come al solito, buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Distruggere

Il lavello è pieno di padelle sporche, il tavolo della cucina sembra un campo di battaglia e il cadavere ce l’hanno nel piatto. Quattro tocchetti di pollo in diverse tonalità di bianco e rosa, più una salsina sopra che è probabilmente la fonte dello strano odore che si sente. Lui guarda il piatto per non guardare lei, che invece il piatto lo guarda perché non crede a quello che ha davanti agli occhi.

Eh non è che sia uscito proprio bene, fa lui, ma non gli esce manco mezzo sorriso sulla bocca. Sembra proprio giù di corda, forse ci credeva davvero quando le ha detto Stasera ti faccio una sorpresa, dammi la tua ricetta del pollo al curry e vedrai come te lo cucino.

Be’ non è l’aspetto che conta, fa lei, ma questo volatile sembra più crudo che a masticarlo ancora vivo. Deve essersi perso qualche passaggio fra il soffritto da cui iniziare e l’aggiustare di sale e pepe alla fine. E poi perché ha usato tutta quella roba? A cosa gli è servita se non è manco cotto al punto giusto?

Che dici assaggiamo?, fa lui, ma non sembra mica convinto. Lei lo guarda fisso negli occhi, vorrebbe dirgli Ma manco per il cazzo, però gli spiace. Non l’ha mai visto così abbattuto, gli mancano gli occhioni lucidi e sembrerebbe un cucciolo smarrito. Un cucciolo con vent’anni più di lei, che non sa manco cucinarsi una pasta quando è da solo in casa.

Vent’anni buttati nel cesso, pensa, ma non lo dice. Invece assaggia, rapida. Indolore, spera.

Prova a masticare, sotto lo sguardo ansioso di lui che rende ancora più difficoltosa e ridicola l’operazione, ma se non è l’aspetto quello che conta in questo caso il resto è pure peggio. Sputa il boccone nel piatto e si versa un bicchiere d’acqua, mentre lui china il capo e se lo prende fra le mani.

Ecco manco questo so fare, non so fare un cazzo, fa lui con la voce incrinata. Ma no, fa lei, è solo che t’avevo detto di aggiustarlo di sale e pepe, mica di distruggerlo. Fa un risolino, ma lui sembra davvero che stia per mettersi a piangere, così gli tocca alzarsi, abbracciarlo, rassicurarlo, dirgli Ma che c’hai oh, mica è morto nessuno. A parte il pollo, pensa, ed è pure morto per niente.

Mi ami lo stesso?, fa lui, e a lei tocca dire che sì, certo che lo ama, anche se ora sembra un ricatto. Gli tiene la testa nell’incavo fra la testa e la spalla, come un bambino, e non può fare a meno di pensare che potrebbe farsi vedere fragile anche quando è con gli amici, invece di arrivare a metterle una mano attorno al fianco quando parla con qualcuno, come se fosse una sua proprietà.

Dai ordino una pizza, fa lei, adesso mettiti tranquillo. Poi le scappa l’occhio sulla cucina e aggiunge Però col cazzo che pulisco io quel casino.

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Racconto in musica 132: Cenere (Lazza – Cenere)

E ora parliamo di Sanremo. Eh sì, ci tocca. Da qualche anno a questa parte la mia compagna mi ha convinto a seguire la kermesse (vent’anni di pseudogiornalismo musicale solo per poter scrivere KERMESSE) e non solo la finale, ma pure le serate precedenti, il che in era Amadeus significa tirare l’una e mezza/ due per quasi tutta la settimana, che poi è quello che faccio normalmente ma seguendo cose più interessanti. Non sono qui per fare la disamina di ciò che non va nel Festival della canzone italiana, ci vorrebbero ore e non ne verremmo a capo: il punto è che con le persone giuste, con lo spirito giusto e magari partecipando al Fantasanremo (la cui sigla di quest’anno è stata composta, nel vero senso della parola, dagli Eugenio In Via Di Gioia, già nostri ospiti parecchio tempo fa) la visione del Festival è un’esperienza divertente anche non essendo d’accordo su quasi NESSUNA delle scelte artistiche. Capita anche che fra la canzone palla di un egocentrico odioso, quella palla del vincitore annunciato, quella palla di un sequestratore di bambini e quella palla di uno da cui ti aspettavi dell’ironia e invece se ne esce con un video che ti ammazza moralmente io mi sia ritrovato a tifare per l’unico che almeno sembrava al passo coi tempi (anche grazie a Dardust, che a Sanremo è fra i pochi ad aver capito che magari gli anni 60 possiamo dimenticarceli invece di fare gare fra Morandi, Ranieri e Albano), l’unico o quasi che ti faceva dire “ah ma quindi siamo nel 2023?”. Questa è quindi la storia di come io mi sia ritrovato a tifare per Lazza nella cinquina finale di Sanremo, di come Alex Roggero abbia fatto la stessa cosa col suo gruppo di amici e di come una sera, dopo qualche birra, lui mi abbia proposto di scrivere un racconto basato sulla canzone che, alla fine, non è riuscita di poco a sconfiggere il monopolio delle canzoni palla: incidentalmente è anche la storia di come su un blog di musica indipendente stia entrando dalla porta principale l’artista che ha venduto più dischi in Italia nel 2022.

Ma potevo dire di no ad Alex? Ormai è arrivato alla sua quarta partecipazione, e dopo aver portato su queste schermate i Cigarette After Sex, i Fine Before You Came e i Verdena gli ho concesso volentieri di farci entrare nel mondo del commerciale che più commerciale non si può. Oltre a scrivere per questo blog Alex continua coi suoi progetti (vi ricordiamo del suo libro Non farlo), e se per caso siete a Milano alle 19 di venerdì 31 marzo potete venire alla libreria Alaska, dove dialogherà con Claudia Grande, autrice per Il Saggiatore del libro Bim Bum Bam Ketamina: di fianco c’è anche una vineria, venite a farvi un bicchiere con noi mente si parla di letteratura e stranezze assortite.

Non fingerò di conoscere vita, morte e miracoli delle scene trap e rap, non fingerò di conoscere nemmeno la carriera di Jacopo Lazzarini, in arte Lazza, per gli amici Zzala come il titolo del suo primo disco uscito nel 2017. Ciò che posso fare è un rimpastone di wikipedia, la passione per la musica iniziata con lo studio del piano e migrata poi verso l’hip hop, l’ingresso nei primi collettivi verso la fine degli anni ’10 e i primi mixtape a partire dal 2012 (il primo in assoluto, Destiny Mixtape, viene distribuito gratuitamente). L’uscita dal collettivo Blocco Recordz e l’ingresso nella famiglia 333 Mob è un punto importante, sia per la carriera di Lazza che per quella del neonato collettivo: come raccontato in questo interessante articolo il rapper di Calvairate e la sua crew arrivano a riempire i Magazzini Generali di Milano nel novembre 2017 con il tour di Zzala improvvisando, imparando pian piano come inserirsi nel panorama musicale e senza il budget delle major, che però fiutano l’affare e ovviamente si inseriscono. Lazza firma per la Island/Universal a fine 2018, continua a collaborare con alcuni dei nomi più importanti del panorama rap nazionale sia nelle proprie canzoni che come produttore (Ernia, Salmo, Fabri Fibra, Gué Pequeno) e a marzo 2019 fa uscire Re Mida, il suo secondo disco prodotto sempre con la sua crew. Il successo è enorme, tanto che ad ottobre dello stesso anno viene realizzata una versione deluxe del disco con bonus track e, soprattutto, Re Mida (Piano Solo), che contiene alcuni brani del disco riarrangiati per voce e pianoforte: un collegamento con le proprie origini musicali e un passo inaspettato per un rapper che, pur condendo le sue canzoni di temi abusati nella scena e che non posso far finta di sopportare (l’invidia degli altri, gli altri rapper che non sanno rappare, l’autenticità, la ricchezza ostentata e le donne viste perlopiù come oggetti), dimostra con questo progetto di avere una notevole sensibilità.

Questo suo lato esce in maniera maggiore anche in Sirio (2022), l’album con cui Lazza sfonda completamente e che diventa il disco più venduto dell’anno. Ad arrangiamenti più ammiccanti verso il grande pubblico il rapper affianca alcuni testi legati alla propria sfera emotivo/sentimentale, mostrando una figura più fragile di quella che parla dei suoi problemi con la grinta di un cane che è sempre e comunque pronto ad azzannarti. Il palco di Sanremo è stato il passo forse obbligato per ottenere una riconoscibilità artistica al di fuori della scena rap, ed è stato un passo decisamente azzeccato: a Lazza ora il difficile compito di capire come coniugare la fama mainstream con l’autenticità indipendente, ma dopotutto sono anni che ci canta di non essere cambiato e forse dovremmo credergli.

Il lavoro che ha fatto Alex con Cenere è rispettoso del testo di Lazza, e allo stesso tempo stravolge storia e ambientazione, giocando anche con prima, seconda e terza persona: una misteriosa figura parla al protagonista immobilizzato, inerme, e da lì si dipana una vicenda di cazzate a cui rimediare, debiti da pagare e, forse, un futuro migliore a cui aspirare. Potete entrare in questa storia subito dopo il link al brano che l’ha ispirata, possibilmente lasciandola in sottofondo per meglio cogliere i legami fra i testi: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Cenere, di Alex Roggero

Tu credi nell’oroscopo? No? Beh, classico dei Toro. Ma se questa mattina avessi letto il giornale probabilmente lo avresti saputo che sarebbe stata una brutta giornata. Tranquillo non ti sto psicoanalizzando. Stai calmo o ti farai male. Hai paura vero? Scommetto che non ricordi dove ti trovi. Eppure ci conosciamo da un po’ ormai. Sei già stato qui più di una volta. Vabbè non importa, tanto tra poco sarà tutto finito. Ti prego smettila di gridare, non rendere ancora più complicata questa cosa. Ora seguimi. Non fare domande, non abbiamo tempo. Ma davvero non mi riconosci? Certo che hai combinato un bel casino eh, che cazzo avevi in mente di fare? Ok, hai ragione, non sono affari miei. Ora però apri le orecchie, te lo dirò solo una volta. Adesso ti slegherò le mani, lo farò lentamente, se provi a fare cazzate sappi che entro dieci minuti qualcuno di molto meno ragionevole di me verrà a prenderti e fidati, non vuoi sapere cosa succederà a quel punto. Quindi stai calmo e respira. Ossigena bene quel cervellino da cavallo pazzo che ti ritrovi va bene? Ehi, dico a te Mr. SpaccoBottigliaAmmazzoFamilia. Ecco bravo, vedo che hai capito. La vedi quella Cabriolet? Ora tu ci salirai sopra e lo farai con calma e in silenzio. Non guarderai cosa c’è nel baule, non controllerai cosa c’è nel cruscotto, non farai un bel cazzo di niente ok? Ho già impostato il navigatore. Tu devi semplicemente seguirlo. Nessuna cazzata, nessuna improvvisazione. Sali su quella macchina e sparisci. Una volta arrivato a destinazione sarai ufficialmente libero. Per sempre.

Salgo in macchina, accendo la radio, abbasso il finestrino. Cerco di non pensare a niente. Metto in bocca una sigaretta. Guido nel modo più noioso che io riesca a immaginare. Una mano sul volante, l’altra fuori dal finestrino. Cento chilometri orari. Fisso. Non uno di più né uno di meno. Le altre macchine mi sorpassano lentamente sulla sinistra, io mi lascio sorpassare. Non posso rovinare tutto, non questa volta. Chissà se è davvero ancora viva. Che coglione, è tutta colpa mia. Come sempre. Chissà se vorrà ancora vedermi. Io al posto suo non vorrei nemmeno più sentir nominare il mio nome. Abbiamo perso tutto ed è solo colpa mia. Se potessi solo tornare indietro ora saprei cosa fare. Ma forse sono ancora in tempo, oggi finalmente metterò la parola fine a questo cazzo di debito e potrò ricominciare a vivere. Mancano solo dieci chilometri al punto segnato sulla mappa. Dieci chilometri e sarò finalmente libero.

Arriva nel parcheggio di un centro commerciale. Vede quattro uomini che lo stanno aspettando. Scende dalla macchina. Lo fa lentamente, con le mani bene in vista.

Rimane immobile, come chi non sa che fare. Sente delle parole, non quelle che avrebbe voluto sentire. Il freddo metallo di una pistola gli accarezza la nuca. Ha giusto il tempo di pensare un’ultima volta a lei, bella come Venere.

Si accascia al suolo. Finalmente anche lui potrà sparire come cenere.

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Elephants In The Room, Fvzz Popvli e il pericolo della narrazione unica (del rock)

(Chiedo scusa a Chimamanda Ngozi Adichie per la citazione impropria del suo discorso, che vi invito ad ascoltare)

Ho in mente quest’immagine. Alcun* amic* sono in un appartamento, fuori fa freddo e cosa c’è di meglio di una cioccolata calda se fuori fa freddo? Del rum direi, ma gli amic* in questione preferiscono non alcolizzarsi. Uno di loro ce li presenta: c’è quello con la testa fra le nuvole (lo si capisce dal fatto che guarda pensieroso fuori dalla finestra), quello imbranato (lo si capisce perché… mmm… porta un sacco di tazze in equilibrio senza romperle? Qui già qualcosa non quadra), quella ritardataria (lo si capisce perché arriva in ritardo) e quella patita del rock. Da cosa si capisce che è una patita del rock? Grazie per averlo chiesto: perché ha una maglietta con scritto sopra ROCK.

PERCHÉ HA UNA MAGLIETTA CON SCRITTO SOPRA ROCK?!?!?! Ma cosa aveva in mente chi ha creato la pubblicità del Ciobar del 2010, Salvini che indossa le felpe con i nomi delle località turistiche del nord Italia?

“Ciao sono Matteo Salvini, patito di Jesolo e del razzismo”

D’altronde quando il rock in Italia viene portato avanti da Virgin Radio forse non dovremmo stupirci se qualcun* che lavora nella pubblicità si ritrova a pensare che basti una maglietta per farti diventare rockettara. Quella di Virgin è una narrazione che fa dello “style rock” un pastone unico che A) mischia confusamente ribellione e status quo, perché è figo idolatrare le grandi rockstar ma tu non ti azzardare a fare altrettanto, e B) propaganda solo ciò che è già stato premasticato e digerito dall’industria musicale, il che non vuol dire che sia tutto merda (anche se il passaggio seguente è quello) ma di sicuro stai adeguando il tuo pubblico a non rischiare le proprie orecchie neanche per un secondo. Eppure il rock (che è morto, è in coma, è vivo o forse non lo è mai stato, non essendo una forma di vita basata sul carbonio come sostenevano i Verbena) è così bello da esplorare in tutti i suoi anfratti, negli angoli nascosti dove i riff durano quindici minuti o un album intero solo sei minuti (astenersi dall’ascolto i bigotti), nei punti dove si ibrida con qualunque altro genere e crea affascinanti mostri. È soprattutto una questione di suoni, intenzione, attitudine e passione che è limitante ridurre a un conglomerato unico, a un unico calderone rock in cui vale tutto e non vale niente. Le formazioni romane degli Elephants In The Room e i Fvzz Popvli ad esempio, senza andare agli antipodi del genere, posso dire che giocano allo stesso gioco ma non le metterei mai nello stesso campionato.

Il bel gioco dura poco

Gli Elephants In The Room (Daniele Todini, Emanuele Stellato e Eric Borrelli, insieme dal 2019) fanno un gioco pulito, ordinato, strofe piuttosto tranquille che lanciano l’assist ai ritornelli e batteria che si limita spesso al cassa/rullante per invogliare il pubblico a battere le mani. Nel loro disco d’esordio One step forward, two steps back (pubblicato il 24 febbraio dall’etichetta MZK Lab) mischiano una punta di funky (I love it) ad uno schema musicale che distorce le chitarre e il basso quanto basta per non sconvolgere l’ascoltatore, lasciando il compito alla voce di trainare veramente il tutto. Formula originale? Certamente no. Persino banale? Ni, perché non è facile creare una canzone che al primo ascolto ti si ficca in testa, volente o nolente, e la loro Baby io continuo a canticchiarmela a lavoro anche se non è nemmeno il brano che preferisco del lotto.

Meglio infatti I’ll be waiting, che all’inizio solare con chitarrina leggera e sognante oppone ritornelli che riescono a sorprendere (meno l’assolo a tutto wah, ma funzionale al casino finale), o la carica ammiccante di Should be running, che inspessisce il giusto una formula altrimenti fin troppo leggera. Gli Elephants In The Room praticano a memoria un gioco perfetto per l’airplay radiofonico, ma peccano di personalità: l’impressione è quella di avere di fronte una formazione che preferisce lo spettacolo al risultato, ma che quello spettacolo finisce per farlo in maniera troppo leziosa, passaggi sonori continui con pochissimi tiri nel cuore dell’ascoltatore. Non aiuta l’aver lasciato per il finale due brani fin troppo molli come Something about you e Waste of time, col ritmo che rallenta per portare a casa un risultato che alla fine non soddisfa. Sono giovani e hanno tempo per migliorare, magari portando imprevedibilità all’interno di uno schema che sembra troppo improntato sul dare al pubblico quello che pensano possa volere.

A favore dello sporco impossibile

I Fvzz Popvli sono più concreti, diretti, senza fronzoli. Il loro schema non è per forza originale, mischiando a tutto il fuzz che è possibile trovare sul campo lo stoner veloce di scuola Fu Manchu e lo space rock anni ’70, ma in III (uscito per Retro Vox Records il 3 marzo, in un profluvio di tre visto che è anche il loro terzo disco) le sbavature portano imprevedibilità, la cattiveria agonistica esalta. Cominciano senza troppi scossoni con Monnoratzo, quadrati come le squadre in cui non abbondano piedi buoni, poi tirano fuori dal cilindro i bizzarri riff filo-orientali di Kvng Fvzz e lasciano intravedere un po’ di fantasia fra le pieghe delle distorsioni sporche che ammantano il tutto. L’accelerazione però avviene a metà album, un uno-due letale portato avanti con il miscuglio neo-noir che esplode nel post-punk più fuzzato (o fvzzato) di sempre di Post shit e concluso dalla meticolosa confusione di Last piece of shame, un groviglio di distorsioni con pochissime pause che disorienta, sporca il gioco così tanto che appare impossibile ripulirlo.

Pure i Fvzz Popvli hanno un momento di stanca, traccheggiano a metà campo su 20 cent blues rischiando qualcosa e quando ripartano con Tied sembrano aver perso brillantezza, ma un assolo cosmico con finale ruvido e conciso permettono di arrivare all’Outro col risultato in saccoccia. Il power trio creato nel 2016 (o anno domini MMXVI, come preferiscono loro) dal bassista Datio e dal chitarrista Pootchie mette in campo un’esperienza maturata in pochissimo tempo (con tanto di tour europei), dimostrando che con la giusta carica il gioco sporco può risultare divertente quanto il miglior tiki-taka.

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Racconto in musica 131: Cavaliere di giugno (Feng Suave – Venus flytrap)

Non sempre con una band o un’artista l’amore è immediato. Mi sono messo come regola aurea di ascoltare molte volte un disco prima di scriverne perché anni fa il primo album dei Violacida, Storie mancate, mi sembrò inizialmente debole, già sentito, niente di che: al decimo ascolto mi era ormai entrato nelle vene, gli diedi un voto altissimo (quando ancora scrivevo recensioni con voti, un piacere perverso e una tortura messi insieme) e finii per organizzare addirittura due date della band di cui una, scoprii solo la sera stessa, sarebbe stata l’ultima della loro carriera (che continua nei progetti solisti di Ciulla e Gionata). Non so dire quale loro brano mi abbia fatto scattare la scintilla, di sicuro so dirlo dei Feng Suave, il gruppo di questa settimana: è stato la seconda volta che ho ascoltato Day one, canzone che chiude il loro secondo Ep Warping youth del 2020, quando già mi aspettavo l’improvvisa crescita similorchestrale (ma portata avanti solo da basso, chitarre e batteria) che trasfigura un brano intimo voce-chitarra in un’esperienza mistica che riesce a commuovermi e farmi provare nostalgia per un passato idealizzato che non ho mai neanche vissuto, ma questo effetto è ovviamente tutto tranne che razionale. Sarà amore per sempre? Sarà una cosa di un certo periodo e poi ognuno per la sua strada? Non lo so, ma intanto ringrazio Antonio Vangone per avermeli fatti scoprire.

Antonio è un amico di Tremila Battute di rara prolificità, soprattutto nella prosa brevissima. Oltre ad aver già pubblicato due racconti su queste pagine, e ad essere un assiduo frequentatore del multiperso, Antonio sta per uscire con una propria collezione di microfinzioni dal titolo Attribuzioni, pubblicata nella collana Glossa di piédimosca edizioni. Gli abbiamo chiesto se gli piacciono gli spaventapasseri e lui ha ammesso che sì, gli sono sempre piaciuti: solo grossi scoop su Tremila Battute!

I Feng Suave sono olandesi, per la precisione di Amsterdam, per cui nel nostro giro del mondo musicale oggi riusciamo a mettere un’altra piccola bandierina. Il loro nome vuol dire “vento liscio” ed è proprio una sensazione di leggerezza quella che lascia la musica composta da Daniël De Jong e Daniël Elvis Schoemaker, duo di produttori e songwriter che appaiono sulle scene musicali con questo progetto nel 2018, anno di uscita del primo Ep omonimo, autoprodotto come tutta la loro discografia. In soli quattro brani i Daniëls (da non confondersi con quelli che stasera faranno probabilmente incetta di Oscar con questo film) creano un mondo sonoro che pesca dal soul e dal pop psichedelico di Beatlesiana memoria per aggiungerci groove nei punti giusti (By the poolside), ottenendo un mix sensuale che si fa forza della voce acuta di De Jong per carezzare languidamente le orecchie dell’ascoltatore. L’intenzione sembra essere quella lì, ibridare il calderone pop con gli elementi giusti per far sciogliere il pubblico, ma l’estetica del duo è tutto tranne che seria e ammiccante (il nome se lo sono scelto leggendo l’etichetta di una bottiglia di shampoo) e ne è una riprova il video di Half moon bag, la canzone che apre il secondo Ep, Warping youth, pubblicato nel giugno 2020: modelli loro malgrado, i Daniëls esprimono tutta la mancanza di entusiasmo possibile, mentre scorrono le note di una canzone che si fa forza anche dell’ukulele per trasportare verso mete caraibiche ammantate di una sottile malinconia.

Warping youth è quasi un punto di passaggio, quello in cui perdono parte del proprio groove per lanciarsi definitivamente verso il fronte più psichedelico del pop, ma con ancora qualche ritrosia: a fare da spartiacque potrei mettere l’entusiasmante finale della già citata Day one, perché ciò che viene dopo pesca molto da quell’immaginario di grandiosità che non si dimentica della delicatezza. Per il successivo e, al momento, ultimo Ep, So much for gardening (2021), i Daniëls mettono insieme una banda ultravariegata di nove elementi, rendendo il loro pop ancora più arioso ed orchestrale, con momenti di pura delizia come l’ironica tirata anti-capitalistica Come gather ‘round. Si sono trasformati negli anni, mischiando gli elementi che compongono la loro musica in cocktail sempre diversi, ma la mutazione non li ha snaturati ed è possibile riconoscere il loro tocco in ogni nota dei (purtroppo pochi) brani che hanno prodotto.

Manca in realtà una canzone al lotto, ed è quella da cui Antonio ha deciso di farsi ispirare per il suo racconto. Venus flytrap è un singolo uscito nel novembre 2018, un brano su un amore vissuto con la consapevolezza di uscirne con le ossa rotte (la Venus flytrap del titolo è una pianta carnivora, e De Jong canta chiaramente “I’m just a bug and I’m yours to slowly digest”), permeato comunque della loro consueta leggerezza che riesce a rendere questo rapporto tossico bizzarramente romantico. Il racconto di Antonio prende gli elementi di natura (benigna e matrigna) e sensazioni intense della canzone e le trasfigura in una parabola di mutazione: da parte di quale animale, reale o meno, non è dato sapere (ma potete chiederlo nei commenti se siete curiosi), a voi provare a scoprirlo leggendolo qui sotto, subito dopo il brano che lo ha ispirato. Buon ascolto quindi, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Cavaliere di giugno, di Antonio Vangone

Nascere nel buio, nella fertile umidità. Strisciare tra radici e legno marcio. Succhiare, mordere e digerire per lunghi mesi. Raddoppiare, triplicare. Accumulare ciechi le forze per prove lontane, pericoli ancora inimmaginati.
Cambiare al nuovo freddo, scoprendosi deboli e immobili nell’attesa. Sciogliersi e continuamente ricostruirsi secondo disegni atavici. Mescolarsi al tempo che scorre senza poterlo percepire.
Una sera di metà primavera, d’improvviso uscire in sé stessi. Conoscere una prima tenerezza, poi inesorabilmente farsi duri. Conoscere il bisogno dell’altro, poi arrendersi al volo. Passare sotto crepuscoli inafferrabili, sbattere contro comignoli, stipiti, porticati, grondaie. Cercare senza successo, subire un urto troppo violento. Rimanere a pancia in su e sperare in una spinta, un soffio di vento, un becco o una scarpa.
Sopportare impotenti una nuova oscurità, rossa e ruvida, battuta da grandi gocce di pioggia.
La mattina, trovarsi mutati in una enorme creatura molle, avvolta in larghi fili che ne trattengono gli arti. Liberarsi rumorosamente dalla trappola. Seguire l’istinto fino all’acqua, raccolta nel bianco e nel liscio. Sentirsi caldi, calmi, sereni, alla luce di un’alba viva. Sentire una presenza avvicinarsi: un contatto, sentirlo tenero nella voce e dolce nell’odore e tenero da stringere, ma freddo e duro nello sciogliersi dalla stretta, nel venire respinti nella propria tana. Seguire le sue istruzioni senza capirle, cambiarsi d’abito e seguire il corpo giù dalle scale, salire nel ronzio dei suoi simili, di nuovo senza capire; fare cose senza capire, avere tanti strumenti senza capire che farsene, comandare su cose che non si capiscono. Tornare, andare, tornare; mangiare cose che non si capiscono, osservare cose intangibili, ascoltare rumori inutili.
Triturarsi in un’ira nuova, schiacciarsi in una stanchezza nuova, sollevarsi in un divertimento nuovo, allungarsi in un’ebbrezza nuova, contorcersi in un piacere nuovo. Sciogliersi presto in un terrore nuovo, l’ultimo breve spasmo, poi l’inizio dell’estate.

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Andare dove ti porta la musica: DOMOMENTÁL, il nuovo disco dei Sabbia

È necessario che tutti gli schizzi evolvano in un disegno? Questa frase, non mia ma di una fonte che mi venisse un colpo se mi torna in mente (pensavo fosse presa dal meraviglioso Waking Life di Richard Linklater, ma se proviene da lì non riesco a ritrovarla), mi è balenata in testa già dopo il primo ascolto di DOMOMENTÁL, il disco dei Sabbia che arriva a cinque anni dal precedente Kalijombre (entrambi pubblicati dall’etichetta Kono Dischi). Per chi è un affezionato lettore di questo blog il connubio psichedelico tra stoner e jazz della band biellese non risulterà nuovo, visto che gli abbiamo dedicato uno dei primi racconti in musica, ma il bello di certe band è che non si accontentano di replicare quanto già proposto, anche se quello che hanno proposto è già di suo personale e fuori dagli schemi. Cosa aspettarsi quindi dai nuovi quattro + due brani (le tracce iniziali e conclusiva, Marcobit part 1 e Marcobit part 2, fungono fondamentalmente da eteree intro e outro)?

La risposta, che è anche la risposta alla domanda con cui si apre l’articolo, arriva già con Ombelico, la seconda traccia del disco. Lenta e ossessiva, trascinata lungo il suo percorso da radi accordi di chitarra e basso, percussioni, fantasmatici vagheggi elettronici e un sax dolente, nei suoi nove minuti di durata la canzone ci porta in un viaggio senza meta. L’inquietudine ossessiva che la alimenta ha un crescendo ma è di lieve intensità, pronto a deludere le aspettative che crea, poi si scema verso il silenzio senza capire bene cosa si è ascoltato. È un grosso rischio partire in questa maniera, con una breve traccia introduttiva perlopiù elettronica che sembra presa da un vecchio film di fantascienza e farla seguire da un brano che sembra non voler andare da nessuna parte, e io stesso ammetto di essermi trovato spiazzato, eppure è proprio questo il punto in cui i Sabbia fanno selezione all’ingresso: loro vanno dove li porta la musica, anche in nessun luogo se è lì che devono andare, e Ombelico è proprio un viaggio senza scopo, un’attesa potenzialmente infinita, una tensione che non si risolve.

TagliCollaCarta sembra seguire questo canovaccio statico, aprendosi su un ritmo tutto strambo disegnato da un sax mononota, ma se le sonorità mantengono le stesse atmosfere plumbee ecco che gli strumenti trovano libero sfogo nella graniticità di basso e batteria e nelle ragnatele costruite da synth e tastiere (in sottofondo, ad alimentare l’inquietudine, arrivano anche dei vocalizzi riverberati), almeno fino a quando non viene decretato lo stop. Da lì un nuovo inizio, suadente, una di quelle crescite che mi hanno fatto innamorare della loro musica, le note centellinate e i riff protratti fino al momento in cui ti aspetti di sentire l’esplosione e poi ancora un po’ più in là, una spaghettificazione dell’ascoltatore che viene tirato e tirato finché finalmente il sax non arriva a concedere il giusto sfogo alle orecchie, forse troppo breve per dissetare dopo aver ricercato così a lungo la fonte ma comunque capace di ricordare che a quel gioco lì, quello della costruzione dell’attesa e del successivo appagamento, i Sabbia sanno ancora giocare eccome.

Così come sanno giocare coi ritmi tutti matti. Dopo una breve parentesi ambient la successiva Sguazza parte lancia in resta con l’ennesimo giro di sax ossessivo e trascinante, a cui basso e batteria si accodano mentre la chitarra ci cesella sopra con arpeggi delicati. Sei lì che ti aspetti un brano più quadrato e diretto, invece a metà i Sabbia si prendono una pausa, riprendono ad accelerare, impazziscono e sembra di tornare ancora a quella storia degli schizzi, un finale convulso che sporca volutamente il quadro fino a lì dipinto: è ancora un’illusione però, un miraggio nel deserto, perché il vero finale è sensuale e malinconico allo stesso tempo, abbastanza da giustificare l’influenza dei film porno anni settanta che la band sbandiera sul proprio profilo Facebook.

E la sensualità, carezzevole, ammiccante, è la cifra stilistica che contraddistingue Arancione, col suo basso rotondo a disegnare note su un ritmo percussivo tenue e riflessivo. Arancione come il colore di un tramonto nel deserto, infatti vengono in mente i Kyuss di Space cadet messi ko da una dose troppo robusta di ganja, almeno finché la chitarra non decide di cullarci aprendo spiragli di una Summer of love mai finita. Potrebbero accontentarsi di questo i cinque membri della band, un tuffo in un passato idealizzato dove rinfrancarci e sperare di restare per sempre, ma la sensualità è mischiata alla malinconia e ci rendiamo conto, nostro malgrado, che il luogo dove ci hanno portato è solo l’ennesimo miraggio, che il viaggio non è ancora finito. Sono ancora le note di chitarra a mostrarci quanto la nostra nostalgia è alimentata da un luogo che non esiste, che abbiamo solo immaginato, alternando riff pacati e strimpellate riverberate come carezze che prima ci blandiscono e poi ci consolano. Siamo ormai arrivati, il breve tempo di un vagheggio elettronico anch’esso meno passato di quel che vorrebbe sembrare con Marcobit part 2 (rubo una citazione, virandola in domanda, al giornalista musicale Erik Davis a proposito del primo album dei Boards Of Canada, così come riportata nel fantastico libro Ex Machina di Valerio Mattioli: “È il modo in cui le macchine ricordano il loro passato?”) e si conclude.

Potrei parlare di DOMOMENTÁL come dell’album della maturazione per i Sabbia, ma la band biellese sapeva cosa faceva già dalla prima canzone pubblicata sul proprio Bandcamp. Il nuovo disco è semmai la certificazione che da loro ci si può aspettare di tutto, che non gli interessa seguire le proprie orme solo per compiacere sé stessi o i propri fan, che la musica è prima di tutto ricerca e che la loro ricerca continua. Parlare di immediatezza per un gruppo che fa musica strumentale dal minutaggio elevato è un azzardo, ma sicuramente DOMOMENTÁL è meno immediato dei precedenti dischi: perdercisi dentro, dargli tempo per rivelare i suoi segreti, seguire quelle strade sonore che possono non portare da nessuna parte od ovunque, rimane però un’esperienza altamente consigliata.

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Racconto in musica 130: Il ciclo (Fernweh – Drift)

Cosa avete da fare la prossima settimana? Qui a Tremila Battute vi consigliamo una gita milanese, per due motivi. Il primo è che c’è BookPride, la fiera dell’editoria indipendente, e vagare fra gli stand di tante case editrici che credono fortissimo in forme laterali di letteratura è sempre una bella esperienza, nonché partecipare alle varie presentazioni/discussioni che si svolgeranno nelle aree adibite all’uopo (ci troverete pure noi, a chiacchierare insieme ad Angelo Calvisi del suo libro Mattoncini). Il secondo motivo è che il 12 marzo si chiude la mostra Bosch e un altro Rinascimento a Palazzo Reale, e per gli amanti dell’arte è una tappa imprescindibile. Certo, alcune delle opere del pittore fiammingo sono purtroppo già ritornate a casa, ma capolavori come il Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio o il Trittico del giudizio finale valgono da soli l’ingresso e la mostra è organizzata impeccabilmente per farvi entrare in quel mondo affascinante e inquietante allo stesso tempo (io ci sono rimasto dentro per tre ore, e sono volate): non è solo un modo di dire, perché al termine del percorso un’esperienza audiovisiva immersiva vi permetterà di vedere animarsi il Trittico del giardino delle delizie, grazie alla collaborazione fra lo studio milanese di multimedia design Karmachina e la band di cui i parliamo questa settimana, ovvero i Fernweh.

Formatisi a La Spezia nel 2015, i Fernweh (termine tedesco che possiamo tradurre, prendendo a prestito una delle frasi che si intersecano nella loro omonima canzone, come “nostalgia di qualcosa che non è ancora avvenuto e ci manca già”) sono un trio composto da Emiliano Bagnato (chitarre e sintetizzatori), Lorenzo Cosci (batteria e percussioni) e Daniel Leix Palumbo (tastiere e sintetizzatori). Iniziano come gruppo di improvvisazione live, spaziando fra mondi sonori affini al post rock, al noise e alla sperimentazione elettronica, ma presto il progetto prende due strade parallele: una prettamente da band, che li porta alla pubblicazione del primo omonimo album nel luglio 2018, e una da sound designer, propiziata dall’incontro con Paolo Ranieri di Karmachina. La collaborazione fra Fernweh e Karmachina inizia con Homage to Maya, performance multimediale che rende omaggio al lavoro della videoartista Maya Deren attraverso alcuni suoi lavori degli anni ’40, travalicando già i confini nazionali attraverso la presentazione del progetto in vari club e festival di video arte e cinema. Tramite il canale YouTube della band potete avere un assaggio di tutti i lavori portati avanti negli anni: Utopie radicali. Oltre l’architettura: Firenze 1966-1976, ospitato all’interno di Palazzo Strozzi fra ottobre 2017 e gennaio 2018 e dedicato al movimento radicale di design che animò in quel decennio il capoluogo toscano; Luminale, video mapping proiettato sulla facciata dell’Opera Antica di Francoforte che ne ripercorre la storia, dalla costruzione delle fondamenta nel IX secolo alla destinazione a sala concerti odierna, passando per il bombardamento che lo danneggiò durante la Seconda Guerra Mondiale e la successiva ricostruzione grazie al contributo della popolazione; Tríptiko, la già citata opera multimediale ispirata da Hieronymus Bosch, presentata per la prima volta ai Princess of Asturias Awards di Oviedo nel 2019.

Nel frattempo i Fernweh continuano anche con l’attività live, dividendo il palco anche con Tobjah dei C + C = Maxigross di cui vi avevamo già parlato poco tempo fa, ma sul fronte discografico tutto tace. Questo almeno fino al 24 febbraio, quando Tríptiko diventa anche un disco: musica elettronica che fonde suggestioni moderne con suoni d’epoca, anche senza la sua componente visiva l’opera mantiene tutto il suo fascino e porta l’ascoltatore in un altrove che passa dall’estatico al cupo, perfetto contraltare all’immaginario da cui prende spunto.

La traccia che mi ha influenzato non è presa però dall’ultimo lavoro dei Fernweh, bensì dalla prima traccia del loro disco d’esordio, Drift. Viaggio strumentale che parte da suggestioni algide prettamente elettroniche per animarsi in corsa con chitarre distorte e batteria, la canzone mi è sembrata la colonna sonora perfetta per una storia che avevo già in testa e che dai suoni della band ha attinto per trovare una forma diversa: potete leggere il racconto come al solito dopo il brano che l’ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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Il ciclo

Ascolta. Resta concentrato. La senti quella vibrazione? È qualcosa che si riesce solo a intuire. Una sensazione passeggera, come quando ti sembra di essere a un passo da una grande rivelazione. La radiazione di fondo dell’universo, l’elenco di informazioni attraverso cui tutto si assembla in una nuova forma. Pensi che a quel livello di profondità scatti un allarme per le nostre umili vicissitudini? Che una rivoluzione, un attentato riuscito o fallito, possano in qualche maniera turbare l’esistenza? Eppure a noi continua a importare, e siamo anche noi parte del creato.

Osserva. Non ti lasciare incantare dalle voci che dicono che siamo distaccati dalla natura. Non è così. Siamo elementi del grande gioco, solo un po’ più consapevoli degli altri. Questa consapevolezza ci ha portati qui, nella sala di regia dove si scrive il futuro, quel piccolo pezzo che ci riguarda direttamente. Tutto è collegato, puoi vederlo coi tuoi occhi. Lo squillo di un telefono, cartelli e megafoni branditi in strada, una colazione fatta con latte e biscotti piuttosto che con un toast al prosciutto. Il proiettile che trapassa il cranio, il sangue che si mischia col latte: danni collaterali. Il tè troppo caldo che scotta il labbro, un dado gettato in un vicolo: segnali. Se sai leggere le informazioni puoi capire il corso degli eventi. Se puoi capirlo, puoi anche cambiarlo.

Agisci. Sei qui per questo. Non ti fare scrupoli inutili. Se tutto è uno, come possiamo sbagliare? Se diamo una direzione diversa agli eventi, non è quella che avrebbero sempre dovuto prendere? Qualcuno ti dirà che stiamo mandando il mondo alla deriva, ma le parole vuote abbondano sulla bocca di chi non sa farsi carico delle proprie azioni. Il potere è solo un’altra faccia della responsabilità.

Ciò che facciamo va fatto. Ciò che facciamo è sempre stato fatto. La nostra libertà è compressa fra ciò che conosciamo e ciò che decidiamo di ignorare, ma è pur sempre libertà. Unisci i puntini, e otterrai un ciclo. Spezza il ciclo, e otterrai il controllo. Ottieni il controllo, e spera di non essere al centro di un ciclo di cui non abbiamo ancora compreso i margini.

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Tre podcast per capire (un po’ di più) il mondo

Il mondo oggi è un posto complicato in cui vivere. Non è che mille anni fa fosse più semplice viverci (sicuramente era più facile morirci, statistiche sulla vita media alla mano), figuriamoci nella preistoria con le battute di caccia ai mammut, ma la complessità ha assunto forme diverse: in parole povere, oggi abbiamo la possibilità di saperne molto di più sulla sorte di chi è lontano da noi, siamo connessi in svariate maniere col resto del globo e ciò che succede in un angolo estremo della Terra può avere ripercussioni anche su di noi. Gestire questa complessità non è semplice, viene da nascondere la testa sotto la sabbia (esattamente così), ma il quieto vivere non ci aiuterà certo a gestire le conseguenze degli eventi che preferiamo ignorare: ecco perché Tremila Battute ha deciso di venire in vostro soccorso, offrendovi tre validi podcast che possono aiutarvi a conoscere meglio situazioni internazionali di cui spesso sappiamo poco (quando non niente), adatti a qualunque livello di approfondimento.

L’infarinatura giornaliera – Stories di Cecilia Sala

Per quelli che vogliono partire in maniera soft, ma senza lesinare sulla qualità, Stories di Cecilia Sala è sicuramente il modo migliore per rompere il ghiaccio. Giornalista classe 1995, firma de Il Foglio e con un lungo curriculum giornalistico alle spalle, Sala pubblica dal lunedì al venerdì nella sua striscia giornaliera un breve approfondimento su fatti di cronaca internazionale, spesso direttamente dai luoghi in cui si sono svolte le vicende. Nonostante la brevità (le puntate durano all’incirca dieci minuti) la giornalista è abilissima nell’andare dritta al punto, facendo luce sia su aspetti poco dibattuti di eventi che hanno già un’eco mediatica importante (come la guerra in Ucraina e le proteste in Iran, di cui analizza fatti poco noti e riporta testimonianze dirette), sia su vicende che normalmente non trovano spazio sulla stampa e in televisione: è il caso ad esempio del Sud Sudan, cui ha dedicato quattro puntate in occasione della visita di Papa Francesco, offrendo direttamente sul campo un’ampia panoramica della nazione più giovane al mondo, piagata da una guerra intestina che ne mina qualsiasi possibilità di crescita.

Sala ha il pregio di andare a scovare anche storie più leggere ma non meno interessanti, come la crociata anti-smartphone della sedicenne newyorkese Logan Lane o le prove della stupidità di Bing, l’IA di Microsoft che fa sembrare ChatGPT ancora più intelligente (anche se i racconti basati su canzoni li scrive tutti uguali. Buuuuu ChatGPT, buuuuuuu!!!!!). Per seguirla in giro per il mondo basta collegarsi alla piattaforma del male a Spotify, che ne ha acquisito l’esclusiva da Chora Media.

L’approfondimento settimanale – Globo di Eugenio Cau

Il Post, oltre a essere un giornale online con una linea editoriale molto interessante, è anche una cornucopia di podcast per qualsiasi gusto, dall’ormai celeberrimo Indagini a quello per impallinati di videogiochi Joypad. Da pochi mesi è entrato a far parte di questa ricca offerta anche Globo, l’approfondimento di politica internazionale condotto dal giornalista Eugenio Cau, che si pone l’obiettivo di analizzare uno specifico contesto a puntata attraverso interviste con esperti. Dalla Cina al conflitto Israelo-Palestinese, passando per il Brasile post-Bolsonaro e per contesti meno “mainstream” come la Nigeria e il Nagorno-Karabakh, Cau e i suoi ospiti offrono in un’ora scarsa una panoramica ben più ampia di quella che possiamo percepire da un telegiornale qualsiasi, partendo spesso da quesiti apparentemente bizzarri (avreste mai pensato di dover sperare in un riarmo della Germania?). La qualità delle interviste è alta, l’autorevolezza degli ospiti anche (principalmente firme importanti del giornalismo, come il corrispondente dalla Germania del Corriere della sera Danilo Taino o il fondatore di China Files Simone Pieranni), il tono è pacato qualunque sia l’argomento trattato, che si tratti del travagliato rapporto dei britannici con la Brexit o delle testimonianze di Daniele Raineri, uno dei più importanti inviati di guerra italiani, dopo un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina.

Globo esce ogni mercoledì e potete recuperarlo facilmente dalle varie piattaforme di streaming, oppure direttamente dal sito del Post a questo link.

L’approfondimento giornaliero – Nessun luogo è lontano

In questo caso non si tratta propriamente di un podcast, bensì di un programma radiofonico che va in onda dal lunedì al venerdì fra le 16 e le 17 su Radio 24. In quell’ora giornaliera Giampaolo Musumeci e la sua redazione si avventurano oltre qualunque frontiera, analizzando situazioni e conflitti spesso dimenticati dai media. Difficilmente avrete sentito parlare della regione del North Kivu in Congo, probabilmente ignorate qual è la situazione nel Myanmar dopo il golpe militare che ha deposto la democraticamente eletta Aung San Suu Kyi, e la temibile compagnia mercenaria russa Wagner vi sarà nota per le sue efferate azioni in guerra, meno per il suo ruolo nell’instabile scacchiere del Sahel: Musumeci e la sua squadra è proprio lì che puntano l’obiettivo, con veloci dossier giornalieri e approfondimenti mirati che permettono all’ascoltatore di scoprire maggiori dettagli sugli eventi principali di politica internazionale, così come di venire a conoscenza di situazioni critiche meno “pubblicizzate” ma non per questo meno importanti. Il giro del mondo della redazione di Nessun luogo è lontano è anche nel segno del metal, visto che a ogni nazione visitata viene associata una band locale: per i fedeli del dio metallo la playlist Nessun metallaro è lontano è un ascolto obbligato (e ci sono anche gli ChthoniC, a cui Ilaria Petrarca ha dedicato un racconto su questo blog pochi mesi fa).

Per chiunque non ha la possibilità di connettersi nell’orario di programmazione (tipo me quando non ho la fortuna di fare le commissioni pomeridiane col furgone della fabbrica dei bottoni in cui lavoro) è possibile recuperare le puntate sulle varie piattaforme o direttamente dal sito di Radio 24, precisamente a questo indirizzo.

E allora, da dove avete intenzione di partire per conoscere meglio il mondo intorno a voi?

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Racconto in musica 129: Cinque gin tonic (Venerus – Dreamliner)

Se Tremila Battute fosse un paese sarebbe gemellato con Berlino. Ci sono motivazioni affettive (ci sono stato una sola volta, più di dieci anni fa, ma ne conservo un bellissimo ricordo. E ci ho visto pure i Pennywise!), letterario-musicali (vedi al capitolo Emma Nolde, giusto un paio di settimane fa) e, soprattutto, perché la capitale tedesca continua a sfornare collaborator*. Dopo Mattia Grigolo e Mattia Cecchini (a cui è unita dalla collaborazione con Rivista Eterna, di cui fa parte in quanto membro del comitato di valutazione) è infatti un’altra berlinese d’adozione, Francesca Addei, a palesarsi su queste pagine per proporre una sua storia, che per una casualità ancora più interessante prende ispirazione da un concerto berlinese di un artista della mia (sempre d’adozione) Milano, ovvero Venerus.

Ma partiamo da Francesca, romana che ci mette trentasei anni per lasciare, nel 2013, la capitale italiana alla volta di quella tedesca. Lì vive con un marito, un cane epilettico, una perenne carenza di vitamina D (che spero aiuti a pagare l’affitto o il mutuo) e diverse piante tutte incredibilmente ancora vive (non posso dire altrettanto delle poche che sono entrate in casa mia). Alla famiglia si è aggiunto da poco un lievito madre di nome Nino che già progetta la conquista del mondo, un mondo per cui Francesca ama viaggiare e che vorrebbe esplorare più di quanto già non faccia. Altro di sé preferisce non dire, perché non ama molto descriversi e parlare di sé in terza persona, lasciamo quindi spazio alla sua scrittura con i racconti pubblicati da Malgrado le mosche, Spazinclusi e le narrazioni che pubblica sul suo blog Don’t be So La-Di Da.

“Venerus per me era un suggerimento di Spotify, uno di quelli che ti fanno dire ‘che bel pezzo questo, fammi approfondire’. Fino a che un amico non mi ha parlato di un suo live qui a Berlino dove vivo e dove naturalmente i concerti di musica italiana sono più rari e quasi sempre di artisti già molto conosciuti, con un pubblico solido e garantito. Forte della sua voce e del suo piano Venerus ci ha tenuto incollate ed incollati fino all’ultima nota, con stile, gentilezza e cura e non avrei potuto essere più felice di aver preso quel biglietto quasi alla cieca.” Questo è il modo in cui Francesca è entrata in contatto con Andrea Venerus, cantautore, polistrumentista e produttore discografico che in pochissimi anni e con soli due Ep e un disco è riuscito a conquistare il pubblico italiano e non solo. Fondamentale per la sua carriera il trasferimento a Londra a diciotto anni, dove va a studiare musica ed entra in contatto con il multiforme caleidoscopio sonoro della capitale inglese. Il bagaglio con cui rientra in Italia è carico di suggestioni R&B e soul, condensate nelle atmosfere ritmicamente raffinate di A che punto è la notte, il primo Ep che pubblica nel 2018 sotto l’etichetta milanese Asian Fake, a cui unisce una voce sensuale e melodiosa che si appoggia perfettamente sulle note e le completa. Non pago di questo esordio Venerus comincia a collaborare con un ampissimo ventaglio di artisti nostrani, nomi come Gemitaiz, Franco126 e soprattutto Mace, che coproduce nel 2019 il suo singolo Love anthem No. 1: è il preludio al secondo Ep, Love anthem, a seguito del quale intraprende il suo primo tour e viene invitato anche ad aprire alcune date per Noemi.

Non c’è solo la propria musica però nell’universo di Venerus. Fra il 2019 e il 2020 produce infatti insieme a Mace il disco DNA di Ghali e in seguito collabora alla realizzazione di alcune tracce per l’album d’esordio dello stesso Mace, OBE, uscito nel febbraio 2021. A solo qualche mese di distanza esce nuovamente fuori il Venerus musicista, visto che la Asian Fake (in collaborazione con Sony) pubblica il suo primo album, Magica musica, sedici tracce leggere e sognanti che scivolano nelle orecchie dell’ascoltatore rimanendovi impresse a lungo, come sa fare la musica pop quando non è solo calcolo ma è soprattutto estensione dell’anima dell’artista. Al disco collaborano amici di vecchia data e non, un panorama variegato che va da Frah Quintale ai Calibro 35, e il successo con cui viene accolto convince Venerus a pubblicare, alla fine dello stesso anno, una versione live del disco in cui si manifestano tutta la carica e la libertà con cui si approccia alle proprie canzoni dal vivo. Il 2022 lo vede sempre sul palco, prima con il tour Estate degli angeli che descrive come un’esperienza più che come un concerto, poi con il Piano soltanto Europe che lo proietta nel continente, dove un’italiana trapiantata in Germania se ne innamora fino a farlo sbarcare qui.

Dreamliner è uno dei primi singoli di Venerus, uscito nel 2018 e già ammantato di quelle caratteristiche che caratterizzano la sua musica: atmosfera suadente, voce carezzevole su una base raffinata che guarda anche al jazz. Francesca ha deciso di abbinarla a un racconto che prende spunto proprio da una scena intravista al suo concerto berlinese, su cui ha poi ricamato una storia che parla, per dirla con le sue parole, di sorellanza e troppo alcool. Potete leggerlo subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Cinque gin tonic, di Francesca Addei

Apri gli occhi e nello specchio ci sei tu. Non ti piace osservarti al mattino, speri sempre che l’incontro con la tua immagine arrivi quando il gonfiore è già passato.

Questa però non è la tua casa e fai fatica a ricordare dove ti trovi, ciò che ti appare da subito chiaro è che nello specchio non ci sei solo tu: dietro la tua testa sbuca una massa di capelli arruffati.

Ti paralizzi, chiudi gli occhi e li riapri, a volte basta quel piccolo movimento per scacciare immagini indesiderate ma stavolta non è così.

Ti muovi in modo impercettibile, abbastanza da riuscire a non toccare quel corpo.

Percepisci che si tratta di una donna e nel frattempo ricordi: sei in un ostello, in una città che non è la tua, ieri sera c’è stato un concerto che hai aspettato per mesi.

La donna dietro di te ha il respiro pesante ed il fatto è di per sé rassicurante, una sconosciuta nel letto puoi gestirla ma solo a patto che sia viva.

Quando il concerto è finito sei andata nel bar accanto al locale, hai bevuto tre gin tonic e il mondo si è trasformato in un posto sfocato e delizioso da vivere.

Tutto chiaro: sei ancora sbronza e non esiste nessuna donna. A volte, quando ti metti a letto dopo qualche drink di troppo, riesci a tenere la testa appoggiata solo da un lato e se provi a girarla dalla parte opposta crolla l’argine della lucidità rimasta.

Forse è una cosa del genere, provi a chiudere gli occhi e poi a riaprirne solo uno ma la testa crespa è sempre lì e sospira beata nel sonno.

Al quarto gin tonic bevuto al bancone ti sei accorta di una coppia accanto a te, stavano litigando in modo concitato. Al quinto drink hai realizzato che non era solo una lite tra due fidanzati alterati perché hanno iniziato a spintonarsi e lei è volata a terra.

Tu l’hai aiutata a rialzarsi e lui si è avvicinato con aria minacciosa dicendoti, se non ricordi male, di farti i cazzi tuoi.

La testa crespa sembra ridere nel sonno e nel frattempo ricordi: hai preso lo sgabello e glielo hai spaccato in testa.

La ragazza ti ha guardata con occhi spaventosamente larghi, tu le hai teso una mano e siete scappate fuori mentre il gorilla si rialzava a fatica.

“Non so dove andare” ti ha detto la ragazza “vieni a dormire in ostello da me, domani ci pensiamo” le hai risposto mentre correvate una accanto all’altra nell’aria tiepida.

Due occhi si spalancano di colpo in mezzo a quella massa di capelli, la sconosciuta solleva di poco il busto appoggiandosi sul gomito, poi ti sorride allo specchio e domanda: “ho fame, secondo te la colazione è inclusa?”

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