Voi pensate che Internet ricordi tutto: non è così. C’è tutto un sottobosco di musica che finisce pian piano per sparire dalle memorie digitali, perché l’ormai abbandonato MySpace ha una perdita di dati sui suoi server, perché l* artist* che l’hanno creata non hanno pensato di farsi un canale su YouTube, perché Spotify non esisteva ancora e ormai non c’è più nessuno nel progetto per caricarci i pezzi (detto che c’è chi non li carica neanche adesso, magari per protesta riguardo alle royalties bassissime, e non mi sento di biasimare questa scelta): paradossalmente è musica di cui potete leggere, ma non ascoltarla. Prendiamo ad esempio i Keep Out, band di stanza a Pescara nei primi anni 2000: sappiamo che fanno un metal abbastanza ibridato, su metal.it per il loro disco del 2009 See it through sfoderano il paragone coi Tool, su metallized.it li definiscono tentacolari, ma nemmeno sul loro profilo su RockIt si riesce a trovare una nota (addirittura in due recensioni diverse il disco passa dai cinquanta ai sessantacinque minuti di durata). Cosa fare quando ti mandano un racconto con una loro canzone che fa da sfondo? Ti arrabatti, provi a cercare tracce in ogni angolo e, quando proprio ti devi arrendere, scandagli nella tua memoria e ricordi che l’etichetta che aveva pubblicato il disco dei Keep Out una volta (quando ancora era attiva) ti mandava dei dischi da recensire: ecco quindi che la band abruzzese, purtroppo mangiata dall’entropia, viene sostituita in corsa dai padovani Sant’Antonio Stuntmen, ormai anche loro disciolti ma di cui il silicio mantiene ancora il ricordo (sì, l’ultima frase è stata scritta solo perché volevo darmi un tono).
A farmi frugare fra i dischi è stato Apolae, che di uno dei Keep Out è stato compagno a scuola. Utilizza uno pseudonimo nelle sue pubblicazioni perché solo così riesce a scrivere liberamente, e questa libertà acquisita gli ha permesso di vincere qualche piccolo premio locale e di essere inserito nell’antologia The source. Scrivere sull’acqua, edita da Libromania (DeA). Online trovate i suoi racconti su Tango y Gotan, giusto per rimanere in tema musicale, e sulla rivista Nabu storie, mentre in proprio pubblica brevi racconti ispirati alle sue foto di viaggio sul profilo Instagram apolae_fotoracconti. Ama la sua famiglia e la letteratura, impegnandosi per coniugare entrambe le passioni.
Che dire dei Sant’Antonio Stuntmen, a parte affermare che hanno uno dei nomi più fighi che io abbia mai sentito? La loro è la carriera di mille altre band che ho visto nascere e crescere nella provincia, di quelle che se ti va male ti sciogli e si ricorderanno di te solo amici, parenti (forse) e recensori, mentre se ti va bene puoi diventare gli Slint. Facevano un miscuglio disordinato e accattivante di noise, punk, stoner e post-hardcore, in poche parole il cazzo che gli pareva visto che Kaene, l’ultima traccia del loro primo disco autoprodotto Into the aorta (2006, ripubblicato nel 2008 dalla Black Nutria Indipendent Label), ribalta tutto e si fa quasi pop nel suo incedere comunque distorto che sa di pomeriggi primaverili adolescenziali passati ad ascoltare musica invece di studiare. Io li scoprii così, affascinato dalla loro cazzonaggine (non ti prendi troppo sul serio se intitoli un brano superdeathbrutalgrindskifosilimbo), ma a quel tempo avevano già passato cinque anni a sudare in sala prove nella campagna cementificata padovana, creando legami con la scena rumorosa veneta che li portarono in giro con band come i Melt (che ancora sembrano vivere e resistere insieme a noi) e i clamorosi Mr. Bizarro and the Highway Experience, che mi capitò di vedere più di una volta e con cui i Sant’Antonio Stuntmen sembravano condividere la carica sul palco, visto che il quartetto padovano si esibiva pure con maschere da luchadores. Grazie ai contatti con due etichette estere, la DBDC Label di Nancy e la Church Of Noise di Berlino, riuscirono a portare la loro musica anche al di fuori del paese, poi l’abbandono di uno dei componenti, il chitarrista Zano, bloccò le operazioni per un certo periodo. Ripartirono coi live a fine 2010, col nuovo chitarrista Silva e con un disco già in testa, Guardingo, uscito nel 2012 sempre per Black Nutria e nei cui credits si legge che è stato registrato ad Agua Dulce, in Messico, dall’eroe locale Ignacio De La Cueva: dobbiamo credere ai quattro santi, credere che San Silva Martinez (protector del los viñedos), Santo Alejandro (protector de las baterías de alto voltaje), San Co (protector de los quesos y del forraje) e San Andreas (proteger el agua subterránea y la soldadura) sono volati davvero fino in Messico per registrare il loro ultimo disco, prima di far perdere lentamente le loro tracce? I want to believe.
Apolae ha creato una storia in cui la musica dei Sant’Antonio Stuntmen entra direttamente in scena, seguendo il protagonista nei suoi approcci con un’amica mentre nel locale si svolgono soundcheck e live: a farli arrivare lì e a portarli poi altrove è la Panda del titolo, che da semplice auto diventerà fonte di ricordi indelebili. Potete leggere il racconto subito dopo il brano che ne fa da ideale colonna sonora, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Scarica il numero Zero della fanzine di Tremila Battute a questo link!
Panda, di Apolae
Parcheggiare a viale Pindaro? Tu stai fuori biascicò Alex che stava già un po’ bevuto, l’imbecille, che i bodyguard ci avrebbero annusato da metà fila, voi no ragazzi andate a farvi un giro la sentenza dal tipo pelato, lo chiamavamo Mastro Lindo spalle e orecchino, ma intanto Max indicava al nostro autista un posto stretto, un buco nella traversa di via Sforza, anche se a entrare da lì saremmo andati contromano ma sticazzi, Alex si buttò dentro e Bea giù a ridere come una scema, aggrappata alla mia coscia con un mignolo vicino alle palle perché aveva voglia quella sera, tutta in tiro sei una bomba wow tette e gambe, allora io mi tappai gli occhi mentre un suv ci caricò suonando dal senso opposto. Miracolo: la Panda s’infilò svelta in quella specie di parcheggio e lì la lasciammo per un pezzo, riposo meritato, tra un cassonetto dell’immondizia stracolmo e i gradini di un negozio chiuso.
Alla Fabbrica suonavano i Sant’Antonio Stuntmen, amici di Alex che era passato ai controlli all’ingresso per il rotto della cuffia, un misto di Veneto e rock alternativo, roba che non poteva piacermi neanche per sbaglio. E comunque a me il concerto serviva solo come scusa per stare incollato a Bea, chiaro. Nel locale rimbalzavano gli echi nervosi del soundcheck, misti al cicaleccio della gente che parlava impugnando i rum&pera come microfoni, li conosco questi sono forti, ci andavo a scuola a Padova, prendiamo una cosa? Vabbè dai, fino al palco in fondo alla navata, scarno e nero, zero effetti speciali e tanta adrenalina perché i ragazzi si giocavano la reputazione, con amici estranei e forse un talent scout nascosto sulla balconata laterale, a guardare dall’alto le alchimie dei quattro sudare sulle corde e sui piatti, attraverso riff e pattern, traccia dopo traccia.
Andati i primi brani l’ambiente si era scaldato e il gruppo annunciò Elvis, gran pezzo da pogare coi bracciali borchiati, forse contratto su alcuni passaggi ma di certo un buon successo, visto il calore della gente dopo aver tracannato i bicchieri di riscaldamento. Io e Bea ci agganciavamo spesso, prendevamo scuse per toccarci il culo o i fianchi, insomma era il momento giusto quando la guardai dritta con uno sguardo che diceva “andiamo” e lei per tutta risposta mi trascinò all’uscita. In tasca avevo già le chiavi della Panda, che Alex mi prestò in cambio di un favore che avrei dovuto fargli il giorno dopo, mi raccomando bello non sporcate e state lontani dalle puttane, sennò i papponi vi bussano al vetro, disse qualcosa del genere bucando il frastuono che riempiva la serata.
Guidammo fino ai bordi della pineta, senza addentrarci troppo per non rischiare. Il motore lo lasciai al minimo per ripartire in caso di problemi, anche se c’è era giusto qualche macchina a tremolare qua e là coi vetri appannati. Una lucciola si posò placida sul lunotto, poi Bea mi sbottonò la patta e io le alzai la gonna. Fu quella la notte in cui perdemmo insieme una cosa che non avremmo mai più riavuto.
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