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Racconto in musica 141: Passione (Crywank – Song for a guilty sadist)

Quanto deve essere lungo un racconto? Qui su Tremila Battute sapete che, nomen omen (che è una delle due frasi che so in latino), la lunghezza massima è proprio di tremila battute, ma esiste una lunghezza minima da rispettare? Non mi sono mai effettivamente posto il problema, perché se c’è una minima (microscopica) prova che l’allenamento in scrittura serve è data dal fatto che ormai, quando stendo un racconto per il blog, riesco abbastanza facilmente a capire se sto sforando oltre il limite. Raramente però mi sono venute in mente storie che potessero risolversi in poche righe, almeno non per Tremila Battute.

Della massima brevità si è fatto in qualche maniera portavoce addirittura Ernest Hemingway, con la famosa scommessa sullo scrivere il romanzo più breve in assoluto. Il risultato fu “For sale: baby shoes, never worn” (Vendesi: scarpine per neonato, mai indossate), un capolavoro di sintesi il cui regno incontrastato, almeno nella mia testa, è stato intaccato di recente solo dalla microprosa scritta nel 1959 dall’autore guatemalteco Augusto Monterroso, Il dinosauro: “Quando despertó, el dinosaurio todavia estaba alí” (Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì). Il mistero che sia Hemingway che Monterroso creano attorno alle loro parole è denso di domande che rimarranno senza risposta, lasciano vagare con la mente a tutte le possibilità di tono (il bambino è morto o hanno solo sbagliato a comprare le scarpe? Il dinosauro è un temibile velociraptor o un pacioso brachiosauro?), genere e sviluppo, uno sviluppo che rimarrà per sempre solo potenziale… A meno che la Disney o qualche altra major non decida di acquisirne i diritti per un film, d’altronde se l’hanno fatto con Tetris chi può fermarli?

Ma perché tutta questa premessa? Perché Simona Lazzaro, pur non entrando in diretta competizione coi due mostri sacri di cui sopra, è riuscita a condensare in pochissime battute una storia che lascia intravedere solo il giusto, e lo ha fatto prendendo ispirazione da una canzone dei Crywank.

Parliamo di Simona innanzitutto. Autrice, editor e articolista, collabora con diverse testate giornalistiche, studia psicologia e, ovviamente, scrive anche per diletto e lo fa con ottimi risultati sia nella forma breve che in quella lunga. Ha pubblicato con Milena Edizioni due romanzi, Euterpe (2013) e Sirene (2014), racconti e riflessioni nelle raccolte curate da Antonio Schiena e Beniamino Soprano del sito Roba da scrittori, Roba da scrittori e Roba da scrittori – L’ombra dell’ignoto (il titolo del suo testo in quest’ultima, Onironauta, mi rimanda a questo splendido e viscerale disco dei purtroppo disciolti Kaleidoscopic) e, ovviamente, anche racconti sparsi nella lit-web: ne trovate uno sulla mai dimenticata Split di Pidgin, un altro sul sempre lodato multiperso e presto la troverete anche su Gargolla. Diversity ambassador, Simona ha anche vinto con un suo racconto un concorso indetto dall’Università Federico II di Napoli: si definisce una persona bizzarra che legge di tutto, scrive e, talvolta, morde, tanto che sui social la trovate come @mordescrive.

Che si può dire invece dei Crywank? Duo anti-folk di Manchester, nascono nel 2009 come progetto solista di Jay Clayton, che con la chitarra a tracolla e un bagaglio di disagio e rabbia nella voce comincia a registrare i primi album, James is going to die soon (2010) e Narcissist on a verge of a nervous breakdown (2012), settando già il tono di quello che sarà il progetto da lì in avanti: carica punk, autoproduzione, testi che parlano di tristezza, paranoia, miseria e tanto, tanto humor per farci una risata sopra. Nel 2013 a Clayton si affianca il batterista Daniel Watson e la formazione si completa, rimanendo stabile per tutti gli anni successivi (nel biennio 2015/2016 si aggiunge anche il bassista Tom Connolie, giusto il tempo di registrare il disco Don’t piss on me, I’m already dead e di partecipare al relativo tour, anche se un suo contributo alla chitarra è rintracciabile anche nell’Ep precedente Shameless valentines money grab), anni fatti di tour in tutto il mondo e di dischi rilasciati a ciclo continuo: al momento ne hanno registrati otto, a cui si affiancano una galassia di Ep e progetti paralleli di Clayton (fra cui l’album Following the lizard queen, pubblicato come Langdon Algier, una sorta di dichiarazione d’amore in sette canzoni a Lisa Simpson che sfiora l’ossessione).

Ma che fanno i Crywank? Potrei descriverveli come dei punk posseduti dal folk, dall’animo più bizzarro dei Butthole Surfers, dalla teatralità dei Tenacious D e dall’umorismo più macabro di Matt Groening (il titolo dell’album Don’t piss on me, I’m already dead è una citazione sempre dei Simpson, se non sbaglio a tradurre presa di peso dal finale del sorprendente corto di Barney Gumble), ma non renderebbe l’idea. La loro è una follia controllata, orecchiabile finché non fai caso ai testi o ai titoli (ce ne sono di infiniti, tipo When you eat yourself, first start with your head up your arse o The only way I could save myself now is if I start to firebombing), viscerale nel suo urlare la propria incapacità di trovare un posto nel mondo e comica nel riderci immancabilmente sopra. Non c’è una nota nei loro dischi che risulti meno che sincera (vabbé, non li ho ascoltati DAVVERO tutti, ma spero di rendere l’idea), sono come dei folletti usciti da un regno fatato di scherzi bizzarri, giunti a noi per ricordarci che la musica la si fa per esprimere qualcosa e non per vendere dischi. Insomma, come si fa a non amarli?

Per farmeli (e farveli) conoscere Simona ha scelto una delle canzoni forse più strambe del duo, Song for a guilty sadist, seconda traccia del disco Tomorrow is nearly yesterday and everyday is stupid. La confessione di un riluttante sadico diventa, nelle mani di Simona, una storia più ampia eppure sempre in equilibrio su quel labile confine fra il dire troppo e il dire troppo poco, su quella linea che, una volta conclusa la lettura, lascia un sacco di domande in testa e la voglia di saperne di più. Potete farvi avvolgere dalla sua narrazione subito dopo il brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Passione, di Simona Lazzaro

Aveva già estratto i molari e gli incisivi, quindi si dedicò ai canini.

Sputò l’ultimo insieme a un grumo di sangue e saliva.

La trovarono così: le braccia piene di morsi freschi e cicatrici, le pinze insanguinate accanto a sé.

Aveva fatto l’attrice in un passato non troppo remoto e per questo la notizia era rimbalzata rapida sulle pagine dei giornali locali.

Quando K. la lesse, ripensò per giorni alla luce obliqua dei pomeriggi che avevano trascorso insieme. Non disse nulla alla moglie; nascose il viso nella sciarpa che gli aveva regalato al compleanno e salì sul primo autobus.

Erano decenni che non si incontravano, almeno due vite, ma la riconobbe da lontano; prima ancora che chiamasse il suo nome, lei si era voltata nella sua direzione.

Dopo un po’ K. le chiese perché l’avesse fatto. “Perché” gli rispose, mentre accartocciava il viso in un sorriso sdentato “a volte ho desiderato morderti.”

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Racconto in musica 140: Male non può fare (Whitemary – Chi se ne frega)

Per anni ho considerato fine maggio come l’inizio ufficiale dell’estate, perché c’era il Mi Ami. Adoravo in particolare il venerdì, il rituale della mezza giornata di ferie per arrivare all’apertura e godermi ore e ore di gruppi conosciuti e sconosciuti, il riposo in collinetta col sottofondo della musica o appoggiato a un albero a leggere, cosa che un anno ha attirato un sacco di gente con la macchina fotografica manco fossi una specie rara (ci ho scritto un racconto su questa cosa). Ci sono tornato a volte anche il sabato, persino la domenica (ricordo una lavata sotto il palco a guardare una reunion dei CCCP, o forse dei CSI, o forse me la sono sognata e non voglio svegliarmi), perché la fetta di parco dell’Idroscalo a disposizione del Magnolia era un posto accogliente dove era bello passare il tempo anche se magari non tutta la selezione musicale ti piaceva, anche se quasi tutta la selezione musicale non ti piaceva: era l’inizio dell’estate, l’inizio della stagione dei festival.

Io parlo al passato ma il Mi Ami non è morto, anzi si sta svolgendo proprio in questo fine settimana. Vive e lotta ma non sono convinto che lo faccia più insieme a noi, non insieme a me almeno che, potendo dare una pacca sulla spalla al me del passato, riderei delle mie lamentele sull’ingresso alzato a venti euro a fronte del costo di 49 EURO PER SINGOLA SERATA di quest’anno (poi ok, l’abbonamento per l’anno prossimo è già fuori e ne costa 63 per tutte le serate, ma non è che per risparmiare devo pianificare il fine settimana da un anno all’altro). Rimangono però tanti festival più accessibili, alcuni ad ingresso gratuito come il Big Bang Music Fest di Nerviano o il Solidar Rock di Cassano D’Adda (scusate se mi mantengo sull’area attorno a Milano, e anzi segnalatemi quelli nelle vostre zone), altri a pagamento e immersi in belle situazioni, come il Woodoo Fest a Cassano Magnago o il Diluvio Festival nel piccolo borgo di Ome: in questi ultimi (e anche al Mi Ami, per onore di cronaca) ho trovato nella line-up finora rivelata un nome interessante che nelle ultime settimane ha cominciato a risuonare nelle casse della mia macchina, che poi è quello che ha ispirato il racconto di questa settimana. Tutti pronti a ballare con Whitemary?

Di Biancamaria Scoccia, alias Whitemary, ho scoperto molto grazie a questa intervista rilasciata a Rolling Stone. Abruzzese d’origine, romana d’adozione, inizia come cantante jazz e arriva all’elettronica per vie traverse, fulminata (anche se non istantaneamente) da un pezzo di Justice che le fa ascoltare il suo fidanzato (con cui collabora o collaborava nei Concerto, duo dal nome che non aiuta nelle ricerche su Google). Da lì a giocare con quel tipo d’immaginario il passo è breve, anche se giocare non è la parola giusta: in poco tempo Whitemary crea un suo mondo musicale, con la stessa serietà dedicata agli studi jazz in precedenza, e il primo risultato è l’Ep Alter Boy!, dove a una musica da club vagamente oscura si associano testi in italiano sintetici e graffianti. Avete presente quando Stromae ha fatto successo con la sua Alors on danse? Non vi sto dicendo che le due cose si somiglino, ma ascoltando i testi di Whitemary mi sono ricordato di quando scoprii che la canzone di Stromae aveva una valenza politica: anche i testi di Whitemary, pur nella loro brevità, danno da pensare, veicolano una disillusione tardo capitalistica (anche attraverso i titoli, penso a Sentimenti echonomy) che si sposa in maniera agrodolce con un impianto sonoro che normalmente parlerebbe solo al corpo.

Nel 2022 Whitemary alza la posta, viene inserita nel roster della benemerita 42 Records e fa uscire il primo disco, Radio Whitemary. Abbandonati (o quasi) gli effetti sulla voce, la sua musica continua a sposarsi alla perfezione con le parole, mantiene un alone cupo che avvolge e proietta in club dove rinchiudersi nell’oscurità rotta solo dalle luci stroboscopiche fino al mattino seguente, persi nell’illusoria tranquillità delle strofe di Radio che esplode poi come la tensione del nodo in gola che Scoccia si sente, nel movimento convulso delle membra a ogni Chi se ne frega recitato nell’omonima canzone, nello sfogo catartico solo apparentemente trattenuto di Credo che tra un po’ mi metto a urlare, nel giro di basso ipnotico di Numeri e basta. Non me ne intendo abbastanza di musica elettronica per proporvi similitudini fra ciò che fa Whitemary e ciò che potreste aver già sentito, quello che posso lodare ulteriormente nel suo disco è però l’estrema varietà d’approccio alla materia, le armonie e le metriche vocali che vanno in direzioni che non ti aspetti, tutto un insieme che funziona alla stragrande: se niente mi mette i bastoni fra le ruote il 22 luglio sarò fra gli alberi a Cassano Magnago a ballare, se volete ci vediamo lì.

Chi se ne frega è il pezzo che più mi ha colpito al primo ascolto, condensa in poco meno di quattro minuti e in pochissime frasi le dinamiche di una relazione che si basa più sull’attrazione che sulla ragione, o perlomeno questo è il film che mi sono proiettato io nella testa ascoltandola e muovendo la testa a ritmo mentre guidavo. Da lì a rendere protagonista del racconto una coppia il passo è stato breve, evidenziarne il rapporto fino a un certo punto problematico anche, ma che si può fare se l’attrazione funziona come una specie di magia? Per capire come affrontano la questione l* protagonist* della storia non vi resta che leggerla subito dopo il brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Male non può fare

Ti faccio tre esempi, così magari capisci la situazione.

  • Il martedì ho crossfit, non faccio manco in tempo a tornare a casa da lavoro per riuscire ad andarci e ok che poi lì sudo ma mi fa anche un po’ schifo andarci con i vestiti che puzzano. Te non hai mai niente da fare di martedì, stai lì sul divano ad ammazzarti di canne e guardare film che manco capisci. Non che me ne freghi niente eh? Fai bene, potessi lo farei anche io e giuro che mentre sono lì ad ammazzarmi di flessioni ci penso e mi dico “ma non potevo starmene sul divano?” Per cui cazzi miei se voglio faticare e ok, dico ok, che tocca a me lavare i piatti perché tu ti occupi dei pavimenti e gli accordi sono questi, ma se un cazzo di martedì che io sono a crossfit ti trovi il lavello pieno ti costa davvero così tanto lavarli, quei cazzo di piatti, invece di impilarcene sopra altri in una pila instabile che ancora un po’ e crollano?
  • La carta igienica serve a pulirsi il culo. Lo so che lo sai, è una delle basi della vita moderna. I nostri antenati se lo pulivano con le foglie di betulla o di sa il cazzo quale albero, che manco so come sono fatte le foglie di betulla, ma noi abbiamo la carta igienica. E un’altra delle basi della vita moderna è l’aiuto reciproco, anche la democrazia in fondo in fondo funziona grazie a questo principio. E allora com’è che io la carta igienica nuova te la faccio trovare sempre ma mai una volta che te sei capace di cambiare il rotolo quando sta per finire?
  • Lo sai che alla mattina io odio il mondo. Fosse per me dormirei tutto il giorno, e lo capisco che a un certo punto bisogna svegliarsi e magari abbiamo pure qualcosa di bello da fare e pensandoci poi mi riprendo. Però ho i miei tempi, mi serve spazio e se qualcuno mi parla devo trattenermi per non azzannarlo. E tu, ripeto, tu lo sai. E allora come cazzo è che appena apro gli occhi ne approfitti subito per farmi il resoconto di quello che hai sognato durante la notte, che non è mai manco interessante?

Ora, lo so che pure io sono insopportabile. Ce li ho i miei difetti, penso a tutte le volte che rischio di sboccarti in macchina perché bevo troppo, o a quanto dev’essere odioso sentirmi usare il sarcasmo ogni volta che apro bocca. Ma questo non fa che avvalorare la mia tesi: noi non possiamo stare insieme. È già un miracolo che siamo ancora in vita, altre persone le avrei ammazzate per molto meno.

E allora com’è che ogni volta che ci guardiamo negli occhi, anche quando pensiamo davvero che stavolta litigheremo di brutto perché lo abbiamo già fatto con altre persone, facendo anche volare i piatti e le sedie, allora com’è dicevo che invece alziamo le spalle e diciamo chi se ne frega? Secondo me è stregoneria.

Ecco perché c’è qua un prete. Non è che deve fare un esorcismo, mica arrivo a tanto, ma una benedizione ci sta. Mica voglio che ci molliamo eh, non sia mai, ma a me sta storia puzza. E ok che non ci credo a queste cose, che non ci credi neanche tu, ma male non può fare no? No?

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Diversi modi di affrontare la morte, o di come trovare un filo conduttore fra Giorgio Manganelli e il black metal norvegese

Il problema più importante, quello della morte, è trattato sempre e solo da incompetenti. Non conosciamo il parere di nessun esperto.

Francesco Burdin

Eh già, aveva proprio ragione Burdin (di cui consiglio la ripubblicazione del suo Manes. Sette variazioni su un tema universale a qualunque casa editrice, che trovarlo in giro mi sa che è parecchio dura): per quanto Epicuro abbia tentato già parecchi secoli fa di rassicurarci, affermando che “quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi”, la morte ci dà ancora parecchio da pensare. C’è chi la affronta con spirito, seguendo il proverbio yddish (vado a memoria, l’ho letto su un Dylan Dog di anni fa) “polvere eri e polvere tornerai, ma fra una polvere e l’altra un buon bicchiere non ci sta male”, chi si tormenta di continuo come faceva Massimo Coppola da bambino, chiedendosi perché telegiornali, quotidiani e giornali radio non aprissero con la notizia “Purtroppo neanche oggi è stato possibile capire cosa sia la morte e che senso abbia l’esistenza”, chi ci ride sopra in maniera dissacrante e provocatoria come il sito Il morto del mese. La morte è anche al centro di un libro e di un podcast con cui sono entrato in contatto nell’ultimo mese, e gli approcci alla materia non potrebbero essere più distanti: sono Il vecchio gioco di esistere, raccolta di epitaffi scritti da Giorgio Manganelli pubblicati dalla casa editrice Hacca, e Helvete/Inferno, podcast sulla scena black metal norvegese a cavallo fra gli anni 80 e 90, realizzato dal giornalista di Radio Capital Antonio Cristiano e prodotto dalla piattaforma OnePodcast.

Con dolore e letizia

Giorgio Manganelli io l’ho conosciuto attraverso La morte. Non la sua, avvenuta nel 1990 quando il mio apice a livello di letture era rappresentato da Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain con attorno il nulla, bensì La morte, progetto ambient funereo di Riccardo Gamondi (Uochi Toki) e Giovanni Succi (di cui vi ho parlato più e più volte) in cui il secondo prestava la sua voce per leggere passi inerenti la grande mietitrice estrapolati da libri e non solo. Fra i vari estratti ce n’era uno preso da Dall’inferno, libro di Manganelli uscito nel 1985, e quello è stato l’input essenziale per recuperarlo e, in seguito, recuperare anche lo splendido Centuria, uno dei libri che più ha influenzato il mio amore per la forma breve. Mi sono ripromesso mille volte di leggere altri suoi libri ma si sa, poi c’è la vita e la maledetta colonna di letture in arretrato che continua inesorabilmente ad aumentare: quando ho avuto l’opportunità di mettere le mani su Il vecchio gioco di esistere, però, non me la sono fatta sfuggire.

Avete presente cosa sono, in ambito giornalistico, i coccodrilli? Fino a qualche mese fa lo ignoravo, poi è arrivato Francesco Costa con la sua rassegna stampa giornaliera Morning a darmi delucidazioni: sono gli articoli in cui si ricordano i personaggi famosi passati a miglior vita, che nell’ansia che ogni giornale ha di dare per primi una notizia pare abbia portato alla consuetudine di scriverli in anticipo. Già: da qualche parte, in qualche archivio digitale, c’è un pezzo su Silvio Berlusconi che aspetta solo di essere pubblicato. Dubito che durante la lunga carriera giornalistica di Manganelli ci fosse questa consuetudine, men che meno me lo immagino aderirvi e Il vecchio gioco di esistere ne è la migliore testimonianza: in questo breve volume, condito da una prefazione della figlia Lietta, lo scrittore affronta in lettere “con dolore e letizia”, per citare il modo in cui saluta la dipartita dell’amica Giuliana Benzoni, la dipartita di alcuni personaggi famosi della sua epoca, spesso a lui legati da un rapporto di amicizia e non solo.

L’uomo pudico, ma savio uomo di lettere, amò scrittori scurrili ed ebbri, talora ebbri di angoscia, di quel cruccio che Frassineti ospitò alla propria tavola, nella propria vita; quietamente, sempre. Quelle traduzioni sono assolutamente dei classici, sono testi perenni. Forse ho toccato la parola che spetta a Frassineti; disperso l’effimero orrore della morte, di Augusto Frassineti resta una pietra dura lavorata, qualcosa di esatto e infrangibile, una dolcezza fattasi perfetta durezza, la concisa lucentezza del classico.

Era un uomo di rara eleganza linguistica (su Augusto Frassineti)

I commiati di Manganelli, da quelli scritti per il proprio psicanalista Ernst Bernhard a quello per un grande della letteratura mondiale come Jorge Luis Borges, trasudano umanità ma non pietismo: la morte appare come un passaggio lieve nei suoi scritti, quasi come fossero vergati per qualcuno che è ancora lì al suo fianco di cui lodare le gesta. Sono minuziosi nell’inquadrare caratteristiche specifiche delle personalità, come la convivenza nella figura di Augusto Frassineti di ironia, timidezza e ingenuità, o la capacità del pittore Gastone Novelli (che per l’Hylarotragoedia manganelliana disegnò le mappe) di definire Grecia “una serie di appunti meticolosamente ignari di storia e cultura”, e allo stesso tempo hanno la capacità di condensare gli elementi fondamentali che hanno reso una vita e una carriera degne di essere ricordate. Ammetto candidamente di conoscere poche delle figure commemorate all’interno de Il vecchio gioco di esistere, ma è la scrittura di Manganelli il fulcro dell’esperienza, il suo modo di giocare con le parole e creare immagini e mondi anche quando ciò che esplora sono biografie e non invenzioni della propria fantasia: spiace solo che il viaggio sia breve, sessanta pagine per accomiatarsi, per rimanere in tema, con un altro esempio della sua superba scrittura.

Ci fu molta ironia nell’opera di Borges, ma non fu ironia scettica e perfezionista, fu quella particolare ironia che è propria della letteratura, l’arte di sopravvivere dentro l’ingegnosa struttura delle parole, la folla delle proposizioni; sopravvivere in quella maniera trionfante e marginale che Borges sperimentò in guise estreme. Venerato in modi anche incauti, cui egli consentiva con una recitazione che pareva gioco e burla, Borges rappresentò una sorta di scrittore per il quale in realtà non c’è indulgenza: lo scrittore che sa che egli non ha nulla da dire nel duplice senso; non dice nulla e dice il nulla.

Una piaga sul volto della storia (su Jorge Luis Borges)

Se le morti celebri fanno riferimento a figure con cui le giovani generazioni hanno avuto poco a che fare, l’estratto conclusivo della raccolta si lega puntualmente alla realtà dei giorni nostri. Non un coccodrillo, ma il racconto dell’apparizione su una spiaggia adriatica di un capodoglio, degli inutili sforzi per fargli riprendere il mare e delle cause che ne hanno decretato la morte: alcuni inutili colpi d’arma da fuoco e, soprattutto, l’inquinamento. Ecco allora che nel sottolineare come “piace all’uomo pensare che sia una resa, questo consegnarsi alla violenza scientifica del minuscolo intossicatore del mondo” Manganelli evidenzia un tratto del nostro mondo contro cui abbiamo fatto ancora troppo poco: il mare piagato e lebbroso di cui parla è il nostro mare, e per la malattia che lo affligge, di cui siamo responsabil*, non siamo ancora riuscit* a trovare una cura.

Una storia di musica, fiamme e sangue

Non sono un amante del black metal. Ok, è un modo molto diplomatico per dire che è un genere che proprio non riesco a sopportare: i suoni, la voce, le atmosfere, tutto mi urta. Eppure i dettagli di una storia che ha a che fare con quell’ambiente sono arrivati anche a me, sono diventati una mitologia che di bocca in bocca è arrivata anche a chi col metal, con qualunque tipo di metal, non ha mai avuto niente a che fare. In quella storia fatta di passione per la musica estrema, di chiese bruciate e di morte ha fatto ordine Antonio Cristiano con Helvete/Inferno, il podcast in sei puntate con cui ripercorre le gesta di coloro che facevano parte dell’Inner Circle, un gruppo di giovani spesso nemmeno ventenni che crearono una scena musicale e allo stesso tempo una specie di setta satanica, rendendo sfumati i confini fra le due cose.

Parte da lontano Cristiano, e parte anche un po’ maluccio. Il modo in cui si mette a mistificare la difficoltà di reperire la musica negli anni 80 rispetto alla realtà iperconnessa di oggi sa un po’ di boomerata, ma ci mette poco a mettere sotto gli occhi una pratica che effettivamente differenzia parecchio le due epoche: l’interscambio di cassette da una parte all’altra del globo fra appassionati, uno sbattimento a cui nemmeno il peer to peer pre banda larga (se siete abbastanza vecchi per ricordarvene) può essere minimamente paragonato. Dalla pratica di mettere la colla sul francobollo e farselo rispedire, in modo da poterlo riutilizzare togliendo i resti del timbro postale, arriviamo velocemente in Norvegia, dove alcuni giovani musicisti stanno per far partire una rivoluzione sonora: fra di loro c’è Øystein Aarseth, chitarrista dei Mayhem, che di lì a poco prenderà il nome di Euronymous.

Immagina una meravigliosa chiesa antica in legno… cosa succede quando brucia? I cristiani si disperano, la casa di Dio va in fiamme, e le persone comuni soffrono perché qualcosa di bello è andato distrutto. Così diffondiamo dolore e disperazione, che è sempre una buona cosa.

Da un’intervista di una radio svedese a Euronymous nel 1993

Tempo fa ho parlato degli Slint in questo articolo, rimarcando come il loro successo fosse inspiegabile. In modo simile si può inquadrare la genesi del black metal, un genere che nasce in contrapposizione al death metal perché “quella era musica da poser”, che ha come pietra fondante un album la cui copertina doveva essere rosso sangue e invece esce rosa (un concetto su cui Cristiano calca particolarmente) che viene registrato in uno studio dove l’addetto al mixer praticamente non muove un dito: poteva uscirne fuori la demo dei [progetto morosa], il mio fallimentare progetto di reading distorto, invece ne esce fuori Deathcrush, il primo Ep dei Mayhem, l’inizio di tutto. Aarseth e il bassista e amico Jørn “Necrobutcher” Stubberud portano avanti il progetto dopo la defezione degli altri membri fondatori, piano piano il loro nome comincia a girare anche grazie a coincidenze fortunate (portano alcune copie in un negozio di Londra che si scopre poi essere fra i negozi presi a campione per le classifiche discografiche, il che li proietta nella Top 20 del magazine musicale Kerrang) e alla formazione si aggiungono il batterista Jan Axel “Hellhammer” Blomberg e un cantante che arriva dalla Svezia, Per Yngve Ohlin, che prenderà il nome di Dead: sarà lui a portare la morte vera nel black metal, dando avvio a una spirale che da autodistruttiva si espanderà alla nazione intera.

Cristiano è un narratore abilissimo e un biografo preciso, riesce a evidenziare i momenti fondamentali che hanno alimentato la spirale di fiamme e sangue che dalla primavera del 1991 ha cominciato a gravitare intorno all’Helvete, il negozio di dischi che Aarseth aprì a Oslo facendone il punto di ritrovo della neonata e crescente scena black metal. Ha la pazienza di aspettare il quarto episodio (su sei totali) per introdurre una figura fondamentale come Varg “Count Grishnackh” Vikernes, il musicista che con il moniker Burzum creò alcuni dei dischi fondamentali della scena e che per primo diede fuoco a una chiesa, la Stavkirke di Fantoft, dando il là a decine di roghi nei mesi a venire, e ha anche la capacità di rimarcare quanto gli atti criminali compiuti da alcuni membri dell’Inner Circle stridessero con attriti ben più banali, come la questione sui profitti che Aarseth, che distribuiva i dischi di Burzum con la sua etichetta Deathlike Silence, mai pagò a Vikernes: eppure furono proprio queste ultime motivazioni, insieme a una “lotta” per la leadership all’interno della scena, che portò il rapporto fra i due alle più estreme conseguenze.

Mi sono rimasti tutti fedeli tranne alcuni traditori. Solo i deboli e i falliti mi hanno tradito. Samoth e Faust degli Emperor hanno denunciato tutti alla polizia e hanno testimoniato il falso per salvarsi il culo. Sono codardi che si sono arresi senza combattere, cristiani del cazzo. Faust verrà punito, quando uscirà. Siamo tutti vichinghi, ci vendichiamo con il sangue: in questo paese comunista, con un cazzo di ebreo come primo ministro gli informatori sono considerati persone oneste.

Da un’intervista dal carcere a Varg Vikernes

Il più grande merito di Cristiano è però quello di mantenere distaccato il discorso musicale da tutto ciò che ci è girato intorno. Per quanto atroci siano stati i delitti commessi da alcuni membri dell’Inner Circle, per quanto confusamente fasciste e sataniste fossero le ideologie che li muovevano, gli album registrati dai gruppi della scena in quel periodo sono diventati pietre miliari del metal tutto, spesso registrati negli stessi Creative Studios di Kolbotn dove i Mayhem incisero Deathcrush solo perché era il primo studio discografico di cui avevano trovato il numero sull’elenco telefonico. Band come Immortal, Satyricon, Enslaved ed Emperor vanno avanti chi più chi meno con le loro carriere ancora oggi, i Darkthrone hanno il loro disco A blaze in the northern sky esposto nella Biblioteca Nazionale di Oslo, e di questo e degli altri dischi registrati agli inizi degli anni 90 Cristiano riesce a restituire le caratteristiche incuriosendo anche un profano del genere come me: martedì dopo il lavoro, bevendo una birra e fumando una canna con un amico, ci siamo concessi qualche breve ascolto di Deathcrush, e chissà che non approfondisca ulteriormente. Non mancano nel podcast interessanti contributi di chi quella scena l’ha vissuta parzialmente, anche se da lontano: i musicisti Fabban degli Aborym (attivi ancora oggi) e Roberto Mammarella dei Monumentum, quest’ultimo oggi dietro l’etichetta specializzata in black e doom metal Avantgarde Music. Nonostante la sua genesi il black metal è diventato parte integrante della cultura di una nazione, la Norvegia, da cui i membri più estremisti della scena volevano eradicare la cristianità: paradossalmente oggi, per diventare parte integrante del corpo diplomatico, la conoscenza del black metal è imprescindibile.

Nel 1985 usciva Dall’inferno di Giorgio Manganelli; un anno dopo, nel 1986, i Mayhem registravano in maniera grezza e casalinga la loro prima demo, Pure fucking armageddon. Che Euronymous, Deathcrush e gli altri componenti della prima formazione della band norvegese abbiano potuto leggere il libro di Manganelli è altamente improbabile, eppure l’inferno a loro modo l’hanno comunque portato in Norvegia. La morte e non Satana lega le storie di Manganelli e dell’Inner Circle, ma questa piccola coincidenza sembra proprio puzzare di zolfo.

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Racconto in musica 139: La notte mi dimentica (Ratatat – Nightclub amnesia)

La mia compagna ha gusti musicali molto diversi dai miei, ma è molto curiosa ed è più facile che dica di sì alla possibilità di un’esperienza nuova piuttosto che il contrario. Una delle prime volte che siamo uscit* insieme l’ho portata a vedere gli Eugenio In Via Di Gioia, e le sono piaciuti (io, nella specifica occasione, le sono piaciuto meno, ma è comunque una storia a lieto fine): negli anni le ho poi fatto scoprire Giorgieness, l’ho fatta ridere ai concerti/spettacoli di stand up comedy di Musica Per Bambini, ci siamo meravigliati insieme della conoscenza enciclopedica su Dante Alighieri sfoggiata con naturalezza e partecipazione da Giovanni Succi nei suoi interventi su L’arte del selfie nel Medioevo (non perdeteveli). Che bella storia vero? L’amore trionfa con l’aiuto della musica, degli arcobaleni e degli unicorni rosa, evviva! No.

O meglio, l’amore trionfa ma passa anche per delle prove, e nello specifico per la mia compagna questo significa passare per le forche caudine di concerti molto meno accessibili di quelli elencati sopra. Perché all’inizio le ho proposto artist* che pensavo potessero piacere anche a lei, poi me ne sono approfittato e le ho fatto sanguinare le orecchie (solo in maniera figurata) con un susseguirsi continuo di band strumentali, punk hardcore, post metal: lei si è sorbita tutto con abnegazione invidiabile, a volte odiandomi, ma sopportando la mia passione anche quando la portava in territori, come quelli degli Ufomammut, in cui avrei dovuto capire che forse era meglio non farla entrare. La amo anche per questo, e perché anche lei mi fa scoprire mille cose con cui, nella mia pur malleabile comfort zone, probabilmente non sarei mai entrato in contatto, fra serie televisive, libri, eventi e, più in generale, una visione del mondo. Anche musica, per quanto distanti rimangano i nostri gusti, perché ad esempio poche settimane fa ho sentito provenire dal suo cellulare le note di una canzone che mi ha subito fatto drizzare le antenne: era Seventeen years dei Ratatat, e oggi il racconto della settimana è ispirato a un loro brano.

Mi capita spesso di appassionarmi a una band nel periodo sbagliato. Un paio di decenni fa mi sembrò una maledizione, visto che le band si scioglievano non appena iniziavo a seguirle con devozione (mi capitò con Soundgarden e At The Drive-In, pochi esempi ma grossi): per i Ratatat questo esempio vale fino a un certo punto, perché un po’ come il gatto di Schroedinger (o come i Fuck Buttons), non sono né vivi né morti, hanno pubblicato l’ultimo disco nel 2015 ma non hanno mai annunciato scioglimenti né pause di riflessione. Tutto questo l’ho scoperto dopo aver cominciato a recuperare velocemente (e, come ho scoperto poi, disordinatamente) i loro cinque dischi, dall’omonimo Ratatat datato 2004 a Magnifique, immergendomi sempre di più nel loro sound fatto di incroci fra chitarra, basso e percussioni, innesti elettronici e un gusto eclettico che mischia funky, math rock e dance.

Ma chi sono i Ratatat? Sono un duo composto da Mike Stroud (chitarra, melodica, synth e percussioni) e Evan Mast (basso, synth e percussioni), formatosi nel 2001 ai tempi in cui i due frequentavano lo Skidmore College di Saratoga Springs, vicino a New York. La musica era già una passione per entrambi, tanto che Stroud aveva già fatto un tour con i Dashboard Confessional (mai ascoltati, ma il nome è noto pure a me), da lì a piazzarsi in casa di Mast a registrare qualcosa il passo è breve: nel 2003 fanno uscire il primo singolo, la già citata Seventeen years, per l’etichetta Audio Dregs (fondata da Mast col fratello Eric), poi firmano per la Xl Recordings e l’anno seguente fanno uscire l’album omonimo, dopo “solo” due anni di lavoro su un laptop in un appartamento di Brooklyn. In quel disco sono già presenti tutti i caratteri distintivi della band, del loro suono allegro e travolgente, una sorta di versione dei Battles a cui piacciono più i tempi pari che quelli dispari e che preferiscono farla semplice. D’altronde a Stroud e Mast la gente piace (anche) farla ballare, non per niente ai cinque dischi prodotti nel corso degli anni (fra il primo e l’ultimo ci sono Classics del 2005, Lp3 del 2008 e Lp4 del 2010) si sono aggiunti due album di remix (Ratatat remixes vol. 1 e Ratatat remixes vol.2, che includono rivisitazioni di brani di Jay-Z, Kanye West, Notorious B.I.G. e altri nomi della scena rap e non solo: esclusa da questi album io vi consiglio di recuperare la loro versione della splendida e inquietante We share our mother’s health dei The Knife). Concerti nei maggiori festival, qualche puntata in Europa e un’esibizione pure al Guggheneim di New York (in cui pare, secondo Wikipedia, siano stati la prima band a esibirsi in un concerto per il pubblico nel 2006) si sono alternate negli anni per il duo, che è arrivato pure in Europa ma, ahime, non in Italia (o forse non ahime, visto che ora mi mangerei le mani per essermeli persi): dal post tour di Magnifique, comunque, i riflettori si sono spenti e se Mast sembra più concentrato sulla carriera da produttore (con il nome E.Vax), Stroud si è concentrato su un altro progetto, i Kunzite, che esplorano parzialmente lo stesso sound che mi ha fatto innamorare velocemente dei Ratatat.

Nightclub amnesia, ottava traccia di Magnifique, è uno dei brani più da club del duo. Vuoi per la sua natura, vuoi per l’associazione spontanea creata dal mio cervello con il film Amnesia di Gabriele Salvatores, il racconto che ho tratto dalle loro note è un confuso assemblaggio di ricordi dopo una serata folle passata (o forse no) nel club che dà il titolo alla canzone: per cercare un ordine in quella confusione non vi resta che proseguire oltre il brano che lo ha ispirato (sentendolo in sottofondo mi raccomando!), mentre a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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La notte mi dimentica

Ricordo di essere stato in un posto, un posto che doveva essere l’Amnèsia. O forse no. Ricordo però un’amnesia, minuti o forse ore; so solo che era notte prima ed era notte anche dopo, in mezzo uno spazio vuoto nella mente. Quindi il ricordo dell’Amnèsia può essere frutto dell’amnesia, e non il posto dove sono stato.

Al risveglio, però, al posto dell’orologio mi sono trovato sul polso il simbolo di un locale che sembra quello dell’Amnèsia. Ma quando sono stato l’ultima volta in quel posto? Ne ho un vago ricordo: poteva o non poteva essere un nightclub in cui pippavamo forte, e roba strana che ti fa dimenticare le cose. Quindi è probabile che io sia stato all’Amnèsia, per via dell’amnesia. Ma se l’amnesia fosse frutto della frequentazione dell’Amnèsia non potrei ricordarmene, mentre io lo ricordo. O meglio, ho il ricordo di un posto che si chiama Amnèsia i cui dettagli non ricordo.

Potrei chiamare qualcuno di quelli che erano con me. Ma chi c’era con me? Non ricordo. Potevano o non potevano essere quelli con cui pippavo forte all’Amnèsia, ma fatico a ricordarne i volti. Loro si ricorderebbero di me vedendomi? Forse all’Amnèsia, o in un altro posto che poteva o non poteva essere l’Amnésia, abbiamo tutti avuto un’amnesia e ora vaghiamo per le strade con simboli strani sui polsi mentre i nostri orologi chissà che fine hanno fatto. Ci hanno drogato per rubarci gli orologi? E se sì, all’Amnèsia o dove?

Sento qualcosa di caldo e bagnato che mi cola dal naso. Ci passo la mano sopra, la ritiro ed è sporca di sangue. Vuol dire che ho pippato, anche se non lo ricordo. Ma che ricordo ho di quella roba strana che pippavamo e che faceva dimenticare le cose? Nessuno, nemmeno se era all’Amnèsia o meno. Quanti minuti od ore è durata quest’amnesia? Ero in nightclub quando? E dove? So solo che era notte prima e anche dopo, ma quale notte? Quante notti?

Mi alzo dal marciapiede. Non so dove sono né come ci sono finito. So solo che ho avuto un’amnesia, questo lo ricordo, è quella che mi ha portato qui. Ma qui dove? Fossi all’Amnésia almeno saprei di essere in un posto conosciuto, anche se non lo ricordo, ma il ricordo che ho di quel ricordo confuso di un posto che poteva o non poteva essere l’Amnèsia è quanto di più vicino a ciò che posso chiamare casa. Ho freddo, mi mancano i miei amici, mi manca il ricordo dei miei amici e delle pippate che ci facevamo con quella roba che fa dimenticare le cose. Anche io gli mancherò, o staranno pensando ai loro orologi? O forse staranno pippando per dimenticare, dimenticare me o il fatto di aver perso i nostri orologi?

Vedo delle luci in fondo alla strada. Ho la vista offuscata, il sangue mi ha macchiato la camicia. Il simbolo sulle insegne potrebbe o non potrebbe essere quello che ho sul polso, potrebbe o non potrebbe essere quello dell’Amnèsia. Forse avvicinandomi ancora un po’ ricorderò, forse ricordando la droga le cose ricorderanno gli orologi dei miei amici nel posto dove ora la notte pippando ricordo sì sì. Sì! O forse no.

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Crearsi i precursori in casa: lo stoner fra passato e futuro di Adriatic desert de Le Scimmie

Ascoltando Adriatic desert de Le Scimmie mi è tornato in mente uno dei brevi saggi inseriti in Altre inquisizioni di Jorge Luis Borges, quello in cui l’autore argentino analizza alcuni testi precedenti a Franz Kafka per designarli come suoi precursori. Ho ripreso in mano il libro per trovare il passaggio specifico (accorgendomi che la vecchia edizione Feltrinelli in mio possesso ha un tot di pagine stampate al contrario), che riporto qui sotto:

Se non erro, gli eterogenei testi che ho enunciato somigliano a Kafka; se non erro, non tutti si somigliano tra loro. Quest’ultimo fatto è il più significativo. In ciascuno di quei testi è l’idiosincrasia di Kafka, in grado maggiore o minore, ma se Kafka non avesse scritto, non la avvertiremmo; vale a dire, essa non esisterebbe. Il poema Fears and scruples di Robert Browning profetizza l’opera di Kafka, ma la nostra lettura di Kafka affina e altera sensibilmente la nostra lettura del poema. Browning non lo leggeva come ora lo leggiamo noi. Nel vocabolario critico, la parola precursore è indispensabile, ma bisognerebbe purificarla da ogni significato di polemica o di rivalità. Il fatto è che ogni scrittore crea i suoi precursori.

Kafka e i suoi precursori

Ma che ci azzeccano uno scrittore argentino e la sua analisi su uno scrittore boemo con l’ultimo album di una band stoner/doom strumentale di Vasto? Seguitemi, se ne avete il coraggio, perché non sarò breve.

Il mio rapporto con Le Scimmie (Angelo “Xunah” Mirolli, chitarrista e deus ex machina del progetto, coadiuvato da Marco D’Aulerio alla batteria) è lungo e fatto di alti e bassi. Nel 2007, anno di fondazione della band, ricevetti il loro Ep d’esordio e non mi piacque per niente, il che avrebbe potuto far finire lì la storia; caso volle però che Michele Montagano, colui che mi chiamò per scrivere su StorDisco e a cui devo la mia attuale militanza nella “critica musicale” (decidete voi se è un bene o un male), ci fosse rimasto sotto, e in senso positivo, con l’album che la band pubblicò tre anni dopo, Dromomania. Non lo ascoltai molto ai tempi, ma percepii una maturazione evidente in quel poco che mi passò per le orecchie: la band (a quei tempi con Mario Serrecchia dietro le pelli) si era votata a un suono più cupo e grosso, stoner con venature oscure che se non andavano verso il doom poco ci mancava. Quello sarebbe venuto sei anni e un tour europeo (in cui se non sbaglio Montagano, vastese come loro, li accompagnò) dopo, con l’uscita di Colostrum. L’album del 2016 era un vademecum perfetto su come si fa un disco di doom psichedelico, allargava la formazione per la prima volta (oltre a Mirolli c’erano Simone all’effettistica e Gianni alla batteria, i cui cognomi non citavo nella recensione che scrissi e che pertanto si sono persi nei meandri dell’Internet) e con i quattro brani da cui era composto faceva impallidire alfieri nostrani del genere come gli Ufomammut. Sono passati ben sette anni da allora, che sarà cambiato? Non tutto, ma molto.

Gli allucinogeni scorrono potenti in questa cover

Mi aspettavo la psichedelia da Adriatic desert, e un po’ di fattanza c’è fra le pieghe degli otto brani in cui chitarra e batteria mulinano riff e pattern: il sound de Le Scimmie ora però è molto più diretto, dritto al punto, potente come non mai ma di una potenza che ha più a che fare con Red Fang e Fu Manchu che non con il doom del penultimo disco. Se Colostrum lasciava l’ascoltatore con lo sguardo perso nel vuoto come dopo un (bad) trip a base di LSD, Adriatic desert lo rianima con dosi abbondanti di distorsioni veloci e vigorose che sanno di serate passate a trincare birra, passarsi qualche canna e fare headbaging come se il collo domani non ti servisse più. L’iniziale Wild boar è un parziale passaggio di consegne: parte veloce e fuzzosa, corre concisa e concentrata fino a metà dei suoi cinque minuti di durata per poi rallentare, dilatando all’estremo una variazione sul tema dei riff precedenti e ficcandoci sopra anche una seconda chitarra viaggiosa per rendere più lisergico il tutto, ma ciò che interessa al Mirolli del 2023 è la velocità e ci mette il resto del disco a specificarlo.

Non manca di varietà Adriatic desert, fra momenti in cui arpeggi elettricamente melodiosi avvicinano Le Scimmie agli Yawning Man (A giant summer) e acidissime cavalcate su cui la chitarra sgomma e derapa facendo stridere piacevolmente il cervello (Acid lime), ma ci si mette più tempo ad entrarci in sintonia di quanto se ne impieghi a fare su e giù con la testa. Le sfumature si percepiscono con l’aumentare degli ascolti, quando arriva tutto il lavoro fatto sulle seconde chitarre (sarei curioso, causa ventennale militanza ignorante alle sei corde, di vedere se Mirolli dal vivo riesce a rendere tutto questo con una loop station, nel qual caso mi inchinerei) che riempie di sfumature le granitiche geometrie create dal duo, come nella title track o in 2007, un brano che con la sua vena hardrockeggiante riecheggia i primi vagiti del progetto. È innegabile però che quanto si guadagna in botta e immediatezza viene perso in atmosfera, lasciando un po’ l’amaro in bocca a chi si aspettava un viaggio dagli orizzonti più ampi di quelli che concede la conclusiva Fluoroscent dinosaur, che prova lodevolmente a creare qualche sprazzo lisergico nel finale ma non tanto da farci immaginare per davvero un dinosauro fluorescente.

Ma che c’azzeccano Borges e Kafka con tutto questo? È presto detto: se si analizza la carriera de Le Scimmie a ritroso ecco che in Dromomania si vede la sintesi perfetta di quanto creato successivamente. Non che quello del 2010 sia l’album migliore di Mirolli e soci, tutt’altro, ma in quel disco convivevano in maniera grezza tanto le suggestioni che hanno portato alle visioni cupe di Colostrum quanto l’approccio dritto e granitico che in Adriatic desert trova la sua piena maturazione. Il nuovo disco del duo, pubblicato il 27 aprile da Frekete! Records, assume così un valore di continuità che potrebbe sfuggire a chi ha scoperto il progetto post-2016, una via di esplorazione alternativa che si giustifica evidenziando il proprio precursore casalingo: io, pur da profano degli allucinogeni, continuo a preferire l’LSD, ma basta la potenza di questi otto brani a farvi scambiare la sabbia delle spiagge adriatiche per quella del deserto.

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Racconto in musica 138: Segreti (OTU – F.ther)

Questa è una storia che inizia un bel po’ di anni fa, e ha parecchie svolte. Inizia con un concerto dei disciolti The R’s, band che andai a intervistare all’Amigdala Theatre di Trezzo Sull’Adda nel 2010, scoprendo che averli paragonati ai Beatles in una recensione del loro primo Ep (senza aver mai ascoltato un album dei Beatles per intero) era diventata una specie di croce che ancora si portavano dietro: esempi di professionalità. Un altro esempio di professionalità era dato dal mezzo utilizzato per l’intervista, una macchina fotografica di basso prezzo che faceva anche filmati, ovviamente di bassa qualità sia video che audio: non vi dico il casino per trascrivere le risposte. In quel concerto mi innamoro della band di supporto, quattro folli che fanno musica strumentale agitata e tremendamente coinvolgente. Si chiamano Bangarang!, compro il loro omonimo Ep e rimango anni ad aspettare A) che producano un disco e B) di vederli di nuovo da qualche parte: succede intorno al 2016, quando esce Religione catodica e riesco a invitarli a suonare in quel della Cooperativa Portalupi di Vigevano insieme ai Sabbia (di cui vi ho parlato qui e qui). Il basso nei Bangarang! era suonato da Gregorio Conti, e io ho ignorato fino all’altroieri (non proprio l’altroieri, è un modo di dire) di averlo incontrato anche in un’altra band.

Torniamo al 2011, anno in cui mi arriva a casa per vie che ora non ricordo minimamente (forse c’entrava l’ufficio stampa di Luca Barachetti, voce dei mitologici Bancale) l’album omonimo dei Verbal, band post-rock nel senso ampio del termine che mi convince parecchio (soprattutto questa canzone), tanto da recensire anche il loro seguente Ep Called war e da imbarcarmi verso Crema per vederli esibirsi nella sonorizzazione di un filmato d’epoca sulla conquista del K2 (o almeno così ricordo. Adorate tutte queste parentesi in una storia che sto già cronologicamente raccontando a cazzo, vero?). Nei Verbal suona il già citato Conti, mentre alla chitarra c’è Isaia Invernizzi: la band purtroppo si scioglie e/o si prende una pausa di riflessione che dura ancora oggi e di Invernizzi, tramite amicizia su Facebook, scopro anche molto marginalmente il lavoro di giornalista.

Arriviamo al 2023, dove queste storie per caso si incontrano. Decido a febbraio di andare a una serata al Circolo Gagarin di Busto Arsizio, senza sapere quasi nulla delle band che suoneranno ma fidandomi di chi la organizza, un amico che conosco da anni e che lavora nell’emittente varesotta Never Was Radio. Un pochetto mi informo in realtà, perché mi incuriosiscono sti OTU che mischiano strumenti e beatmaking: soprattutto vedo due nomi, nella descrizione della band, che catalizzano la mia attenzione, e guarda un po’ se non sono proprio Invernizzi e Conti. Sorpresa!

Il progetto OTU (acronimo di One Tribe United) nasce come duo nel 2018, composto inizialmente da Invernizzi (chitarra, omnichord e sampler) e da Francesco Crovetto (batteria, sampler), vero e proprio motore iniziale. Crovetto inizia già l’anno prima a sperimentare con groove e sample (anche se OTU appare pure nella locandina del NeverFest 2016), l’incontro con Invernizzi gli permette di ampliare lo spettro sonoro e arrivare in brevissimo tempo alla pubblicazione di Clan, disco di dieci tracce che esce nel febbraio 2018 per Dischi Bervisti e Hashtag (etichetta quest’ultima che, in varie incarnazioni, ha fatto uscire i dischi di Verbal, Bangarang! e di altre band di cui su Tremila Battute abbiamo già parlato, come Moostroo e Le capre a sonagli, oltre a organizzare da quasi vent’anni concerti e festival musicali). In Clan Invernizzi e Crovetto si sbizzarriscono con sample vocali e groove hip hop, dilatazioni ambient e chitarre ora morbide, ora taglienti, e il risultato è qualcosa di difficile definizione: loro suggeriscono cinematic hip hop, instrumental hip hop, experimental hip hop, ma in fondo l’importante non è incasellarli bensì lasciarsi trasportare dalla voce di Muhammad Alì che sembra rappare sulla musica intessuta dal duo in Alì, mentre quella di Hal 9000 gela l’ascoltatore nell’onirica Hal in chiusura del disco.

OTU è una creatura in pieno fermento e solo la pandemia la stoppa (e in quel periodo il prezioso lavoro di Invernizzi come giornalista per L’eco di Bergamo aiuta a far luce sulla situazione nella zona e gli apre le porte de Il Post), almeno per il tempo necessario a prendere la rincorsa e tornare in formazione allargata. Nel luglio 2021 per l’etichetta Beat’s Tailors esce infatti l’Ep Q.ter_Vol. 1, che oltre a concentrarsi maggiormente sulla matrice hip hop e a mischiarla con sample soul e funky porta in dote anche l’ingresso nel progetto di Marco Brena, batterista e produttore dei Vanarin. OTU si sviluppa sempre più come un vero e proprio collettivo, e con il successivo album GOODKIDS (2022) i campionamenti di Brena lasciano spazio al basso di Gregorio Conti (eccolo!): l’album rappresenta un’altra faccia della stessa medaglia (una medaglia evidentemente a svariate dimensioni, altro che l’hypercubo), con l’hip hop sempre stabile come base di partenza ma un mondo sonoro più cupo, fra brani che sfiorano l’industrial (Ralph) e altri che si addentrano invece molto di più nella sperimentazione elettronica (No Nap), il tutto accompagnato dalle voci fantasmatiche e inquietanti di… bambini!

Il 2022 si rivela l’anno più prolifico per OTU, che dopo l’uscita dell’album a marzo riprende il lavoro iniziato con Q.ter Vol.1: a ottobre esce sempre per Beat’s Tailors Q.ter_Vol.2, una nuova infornata di basi hip hop mischiate a sample soul e funky, con la leggerezza e la professionalità di chi sa disporre di quegli elementi con maestria. Dal vivo Crovetto, Invernizzi, Brena e Conti riescono a fondere tutti gli elementi sviluppati nei dischi in un mix a tratti psichedelico, facendo muovere la testa a tempo e lasciando viaggiare il cervello verso orizzonti inesplorati della propria psiche: se capitano dalle vostre parti non fate l’errore di farveli scappare.

L’idea per il racconto che ho tratto da F.ther, terza traccia di Q.ter_Vol.1, non nasce dalle suggestioni sonore del brano ma si alimenta di esse: attraverso il suo groove trascinante ho immaginato il percorso dei due protagonisti della vicenda, un uomo e una ragazza il cui legame resta indefinito, portando a compimento un’idea che mi germinava in testa da qualche tempo. Trovate il racconto come al solito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Segreti

L’uomo parcheggia l’auto a pochi passi dal cancello della villetta, tenendosi distante dal cumulo di sacchi della spazzatura sul marciapiede. Attraverso il computer di bordo fa partire una chiamata, riattacca dopo uno squillo. Rimane in attesa osservando la casa, qualche minuto più tardi la ragazza esce e lui sorride. Lei entra nell’auto senza restituire il sorriso.

Sei in anticipo, dice.

Volevo essere sicuro che arrivassimo in orario all’appuntamento, risponde lui.

Sì, vabbé, dice lei. Continua a fissare di fronte a sé. Partiamo?

E la mamma non scende a salutare?, chiede lui ammiccando.

Lei lo guarda, rotea gli occhi. Allunga una mano e indica di fronte a sé. Parti dai, dice.

Era solo una battuta, dice lui. Ingrana la prima, il motore elettrico della berlina si accende silenziosamente. Osserva un’ultima volta la casa, notando una tenda scostata al piano di sopra.

L’imprenditore di fronte a loro ingoia tartine alla stessa velocità con cui fa fuoriuscire parole dalla bocca. Sta spiegando il segreto del successo, una sola semplice regola. Anche se le cose vanno male, dice a lui, devi continuare a investire. Se diventi abbastanza grosso, aggiunge, puoi mangiarti tutti e nessuno potrà più farci niente.

L’uomo stringe la ragazza a sé. Capito?, le chiede. Se vuoi avere successo nella vita, dice, devi fare tesoro di questi consigli.

Lei sorride, poi scosta la mano dell’uomo. Scusate, dice, vado a prendere un bicchiere d’acqua. Si allontana verso il buffet al centro del giardino, schivando i camerieri in livrea.

Mi scusi, dice l’uomo all’imprenditore, allontanandosi. Raggiunge la ragazza. Tutto bene?, le chiede.

Non mi devi stringere così cazzo, dice lei. Sembra una cosa malata, aggiunge.

Lui resta in silenzio, sorseggiando champagne da un calice.

Hai i capelli troppo scuri, dice lei. Dovresti sembrare più anziano, così sembri il mio amante. Fa una pausa. La prossima volta, aggiunge, decolorali, o qualcosa del genere.

Ti vergogni di un padre che vuole apparire giovane?, chiede lui.

Lei butta giù l’acqua in un sorso, poi sorride a una signora con un largo cappello. Poi ne riparliamo, sussurra.

L’uomo parcheggia l’auto di fronte al cancello. È stata una bella giornata, dice.

La ragazza non risponde, armeggia con la borsetta. Estrae dal portafoglio alcune banconote. Le tende verso di lui, senza guardarlo.

Aspetta, dice lui. Non è che devi per forza.

Cosa? Lei lo fissa, inarca le sopracciglia.

Ecco, inizia lui. Indica le banconote, poi si zittisce.

Cosa c’è, sibila lei, allungando ancora i soldi.

Niente, dice lui, prendendoli.

Ricordati dei capelli, dice lei. Scende dall’auto senza voltarsi, pochi secondi ed è già in casa.

Lui accende la macchina, innesta la prima. Sospira, osserva di nuovo la villetta. Al piano di sopra la tenda è ancora scostata, vede al di là del vetro un uomo e una donna. Lo fissano accigliati. Nota che gli occhi dell’uomo sono cerchiati di rosso.

Lui stringe il volante con forza, riparte. Pochi metri ed è già fuori dalle loro vite.

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Il giusto, bizzarro equilibrio: Sono un vecchio de Il Re Tarantola

È arrivata quella settimana dell’anno in cui chi si crede un esperto di musica vede tutte le proprie certezze svanire: la settimana dell’Eurovision Song Contest. Al netto di una ragguardevole quota di palle al cazzo incredibili, i paesi partecipanti (quest’anno trentasette, fra cui la nota nazione europea rispondente al nome di AUSTRALIA) riescono sempre a donare grandi soddisfazioni, fra estoni che vengono appesi per un piede in tutina da lotta greco-romana, islandesi tecno-sadomaso e lupi truzzi norvegesi. Certo, anche la tamarraggine esagerata a un certo punto diventa eccessiva, ma questo sta al metro di giudizio personale: dopotutto come si fa a distinguere chi è arrivato lì con un’onesta carriera da performer bizzarr*, come i clamorosi Let 3 croati, da chi magari si è messo una maschera per l’occasione solo perché la bizzarria all’Eurovision funziona sempre (raramente per vincere, a meno che tu non sia i Lordi)?

Davvero vogliamo non far vincere loro quest’anno?

Il gioco, in pratica, riguarda l’annosa domanda “ci sei o ci fai?”, che in musica assume una valenza diversa rispetto alla stessa questione posta in un bar di paese. Ha più a che fare con l’onestà della proposta, con i motivi per cui puoi salvare, sforando nel cinematografico (Tremila Battute per l’arte a tutto tondo! Viva!), uno Sharknado che nasce orgoglioso della sua trashaggine (per quanto il vero trash sia quello inconsapevole) ma setta comunque uno standard, mentre risulta impossibile fare lo stesso con il tentativo di lucrare sopra la stessa formula, portata all’eccesso (squali! Nazisti! Non morti!), operata con quella boiata di Sky sharks (ne avevo parlato qui). Pensate a Bugo: una fantastica prima parte di carriera parlando di Pasta al burro, Piede sulla merda e altri grandi temi d’attualità, coronata dal successo grazie al suo non prendersi sul serio; poi, in maniera esattamente contraria al suo album Dal lofai al cisei, ha cominciato a dare l’impressione di volersi dare un tono, il che non ha a che fare con le partecipazioni a Sanremo ma più con una perdita di spontaneità. Poi sta cosa ha contagiato un bel po’ di indie, con le frasi nonsense buttate in mezzo a testi che vogliono anche essere profondi, e in men che non si dica ti ritrovi i The Giornalisti al Circo Massimo e passi il tempo a chiederti cosa è andato storto.

Ma dove voglio arrivare con tutta sta premessa? Al qui presente Manuel Bonzi, in arte Il Re Tarantola, perché lui ha quel qualcosa che ti fa giustificare tutto il nonsense di questo mondo, un tocco magico che sa di spontaneità e di cazzeggio fatto per divertimento disinteressato: Il Re Tarantola è onesto, e quest’onestà in Sono un vecchio (pubblicato da Il Piccio Records e La Stalla Domestica) è ciò che fa la differenza fra un album riuscito e uno sbagliato.

Non ricordo né come né perché, ma il primo album del Re Tarantola mi capitò fra le mani nel 2011 a scopo recensione, quando ancora si accompagnava con Emma Filtrino e, per citare la title track del disco, faceva “musica sgangherata”. Da allora sono passati più di dieci anni e Bonzi si è messo in tasca un bel po’ di esperienza, accumulata attraverso altri due dischi, un Ep e svariate date con gente del calibro di Tre Allegri Ragazzi Morti (toh, ne abbiamo appena parlato), Marta Sui Tubi, Aucan e chi più ne ha più ne metta: così, quando si è ritrovato chiuso in casa per il lockdown, ha messo a frutto tutto quello che ha imparato e si è registrato un intero disco in totale indipendenza nel suo monolocale. Etica DIY da vero punk, e anche la musica rispecchia la stagione in cui dovunque ti giravi trovavi un concerto dove pogare in allegria (d’altronde in Aiutiamoli a casa loro comprando le loro lauree c’è ospite Spasio, batterista dei Derozer, e nel testo si citano le Pornoriviste), ancorandosi agli anni ’90 e distaccandosene solo per qualche tastiera che sposta il metro di riferimento un poco più indietro, senza che l’operazione sembri ricercare un effetto revival: è solo che Bonzi è un vecchio (che ha cinque o sei anni meno di me), e questa volta è più vecchio delle altre volte.

Sono un vecchio è un album che diverte grazie a un ottimo equilibrio fra musiche ben registrate e testi assurdi e autoironici, in cui fra un discorso sulla precarietà (Aiutiamoli a casa loro comprando le loro lauree, Colesterolo) e un impeto di nostalgia (Ru-Spa) appaiono frasi nonsense e la voce sborda anarchicamente fuori metrica. Il Re Tarantola dall’alto del suo scranno pontifica ironicamente contro i rapper del “guardate dove sono arrivato”, ma si abbassa subito a dire che ha deciso di scrivere anche lui una canzone rap ma “senza rima, così è più brutta” (I bulletti della scuola che mi volevano picchiare li odio ancora tutti), parla di Dio e Gesù Cristo ma se il padre sembra uscito da Dogma e cerca di dimenticarsi della propria onnipotenza (Io sono Dio), nei panni del figlio ci si mette Bonzi stesso, costretto a portarsi una croce sulla schiena per una scommessa da ubriaco (La body art di Gesù Cristo). Il Re Tarantola fa un gioco tutto suo, le regole saltano e una frase come “Invidio la vita sociale che avete nei cellulari/ io potrei morire come Bridget Jones divorato dagli alsaziani” (Ru-Spa) sa di genialità più che di demenzialità, anche perché ci tiene a rimarcare che “tutte le volte che dico una cazzata e qualcuno mi consiglia di farne una canzone, una canzone muore” (I mostri non stanno sotto il letto, ma stanno nella cassetta della posta, un titolo che sembra fare il verso a Giorgio Canali).

Non è certo tutto oro Sono un vecchio, perché qualche brano fuori fuoco qua e là lo si trova, ad esempio una Vacanze rumene che sembra un po’ appiccicata con lo scotch al resto dell’album (e più o meno lo è, visto che risale agli inizi della carriera). Bonzi suona tutto in autonomia, passando dai toni cantautorali di La body art di Gesù Cristo e Il pubblico dei concerti rock è diminuito come i capelli dei musicisti alla carica distorta di pezzi come I bulletti della scuola che mi volevano picchiare li odio ancora tutti o della title track, con varie vie di mezzo che flirtano col pop ad esempio in Colesterolo: l’unico supporto arriva da featuring vocali, rigorosamente registrati ognuno a casa sua, del già citato Spasio e di Dutch Nazari, Mike Orange e Frank dei Lady Ubuntu. Il Re Tarantola arriva al quarto disco in forma smagliante, anche se Sono un vecchio non può e non deve piacere a tutti e in fondo sta anche in questo il suo bello, nel suo essere specchio di una personalità sfuggente il cui senso dell’umorismo è decisamente atipico: dategli una chance, potrebbe essere proprio il vostro livello giusto di bizzarria.

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Racconto in musica 137: Ombre della luna (Tre Allegri Ragazzi Morti – La faccia della luna)

Non sono un grande amante dei live. Intendiamoci, non live inteso come concerti, inteso come album dal vivo: i brani preferisco scoprirli nella loro forma sul palco vedendo coi miei occhi la band, oppure fra la versione di una canzone registrata in studio e quella registrata durante un concerto preferirò quasi sempre la prima. Ci sono eccezioni, come ovvio, ad esempio un doppio disco dei Dropkick Murphys che ricevetti non so come né perché fra la massa di cd che una volta arrivavano a Indie-Zone, e che spolpai a ciclo continuo appassionandomi alla band di Boston; soprattutto c’è stato il disco di una piccola (allora) band di Pordenone, verso la fine degli anni novanta, che era l’unica cosa loro che passava in radio e che me ne fece innamorare follemente: quel disco era Piccolo intervento a vivo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, ed era solo questione di tempo prima che una delle band più influenti del panorama musicale indipendente italiano, se non LA band più influente del panorama musicale indipendente italiano, capitasse sulle pagine di Tremila Battute.

A permettermi di parlarne è Sebastiano Scordato, al suo ritorno su queste pagine dopo il racconto ispirato da una canzone dei C + C = Maxigross. Seguire le sue molteplici attività non è facile: scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, autore di testi per canzoni, per ognuna di queste diverse attività Sebastiano ha un progetto in corso d’opera o qualcosa che probabilmente germina nella sua mente sempre attiva. Al momento sta per uscire Io scarafaggio, quinto racconto della sua saga de I cento racconti (che potete anche ascoltare), mentre sulla pagina Facebook della rivista Sulla quarta corda potete trovare l’ultimo dei suoi Pensieri del giorno.

Avrebbe senso fare un’analisi cronologica della carriera dei TARM? Forse sì, ma per quello c’è Wikipedia, che in questo caso può essere probabilmente più esaustiva. Preferisco concentrarmi su ciò che è stata ed è per me la band formata da Davide Toffolo (chitarra, voce e “disegni”), Enrico Molteni (basso e cori) e Luca Masseroni (batteria e cori), sempre insieme o quasi dal 1994 (Molteni, già fan della band, sostituì nel 1996 Stefano Muzzin) un concentrato di musica, parole, estetica e indipendenza che è cambiato svariate volte negli anni pur rimanendo fedele ad una certa linea.

La musica innanzitutto, partita con il punk all’interno della scena del The Great Complotto (attiva fin dagli anni settanta, da cui emersero anche i Prozac +) e mischiatasi col pop, col folk, poi una virata improvvisa verso il reggae nel 2010 con il disco Primitivi del futuro (con tanto di fratellino dub, Primitivi del dub) e la collaborazione, solo l’anno scorso, con i Cor Veleno nel disco Meme K Ultra. Non li ho seguiti lungo l’arco di tutta la carriera, me li sono un po’ persi per strada dopo La seconda rivoluzione sessuale (2007, ricordo che lo recensii malissimo in un articolo che probabilmente loro non avranno nemmeno letto: chissà se lo riscriverei uguale), ma il modo in cui hanno saputo reinventarsi, svoltare e divertirsi continuamente con la musica me li continua a far apprezzare come spirito.

Le parole, per me, sono quelle del Toffolo eterno ragazzo, uno che si era fatto cantore dei problemi della gioventù e sembrava non voler uscire più da quel ruolo, anche se ha iniziato a suonare a fine anni settanta e ormai di anni ne ha cinquantotto. Una gioventù narrata attraverso i Quindiciannigià della ragazzina ribelle che, cresciuta, si ritrova dietro “un bancone che non sa che eri preparata all’università”, aspettando Il principe in bicicletta, schiere di ragazzi persi in cui sfumano le differenze fra Mostri e normali (1999, l’unico disco con una major, la Bmg/Ricordi), perché l’importante è non essere Mai come voi, un po’ come hanno cantato i Måneskin con vent’anni di ritardo. I testi dei TARM sono sempre stati un concentrato di leggerezza e profondità, anche ingenui in parte, ma la penna di Toffolo è la stessa con cui ha scritto nella sua carriera da fumettista (chiusa a sorpresa all’incirca un anno fa dopo più di trent’anni) opere ispirate a e da Pasolini, Carnera e Remo Remotti, oltre al ciclo dei Cinque allegri ragazzi morti da cui si è originata l’estetica della band.

Già, l’estetica. Le maschere da ragazzi morti, innanzitutto, non un vezzo ma una precisa scelta di non donare la propria immagine ai media (sì, questa frase l’ho presa da Wikipedia), divenute poi un gadget (un mio amico l’ha usata per officiare lo sbattezzo di sua figlia, storia vera) senza sminuirne l’importanza per il gruppo, non un qualcosa dietro cui nascondersi ma qualcosa dietro cui rinascere in maniera diversa, senza ego. Poi i disegni di Toffolo, che hanno contraddistinto soprattutto i primi video e i primi dischi, portando in musica il mondo che il frontman dei TARM andava delineando nella sua carriera parallela (ricordo ancora il piacere nel trovare, all’interno di Mostri e normali, un fumetto con la genesi dei ragazzi morti). Infine i live, con le dichiarazioni d’apertura e chiusura di rito e il momento del vaffanculo al Señor Tonto, personaggio creato da Enrico Sist e portato avanti dallo stesso Toffolo per farsi costringere, a suon di improperi, a concedere il bis (che il 99% delle band concede invece anche se nessuno l’ha chiesto, uscendo e rientrando giusto perché ormai così si fa. Quanto odio per i bis!), concerti per pochi eletti come quando li vidi con i P.A.Y. al Live Club di Trezzo Sull’Adda (quando ancora il locale era un buco al secondo piano di un capannone, invece che un intero capannone) o per grandi folle come quando li ho riaccolti, più di recente, al Woodoo Fest 2019 in quel di Cassano Magnago, sempre con la stessa energia e la stessa passione.

Manca l’indipendenza, quella portata avanti fieramente con la loro etichetta La Tempesta, un nome che arriva dritto da una delle loro canzoni più iconiche (compresa nell’Ep Il principe in bicicletta del 2000, il primo parto della neonata label) e che negli anni è diventato simbolo di un modo diverso di fare le cose. Casa base in diversi periodi per artisti diversissimi fra loro come Ardecore e Generic Animal, Popolus e Grimoon, Mellow Mood e persino M¥SS KETA, nei primi anni per La Tempesta sono usciti dischi come Canzoni da spiaggia deturpata di Le Luci Della Centrale Elettrica e Dall’impero delle tenebre de Il Teatro Degli Orrori. Se non sbaglio fu Giorgio Canali, a definirla un consorzio di autoproduzioni (lui ci pubblica i suoi dischi dall’inizio, compreso il mitico disco con la freccia rossa verso il basso su sfondo bianco), in un’intervista che gli feci qualche anno fa, ma qualunque sia la natura dell’etichetta questa rimane una delle realtà più importanti del panorama musicale indipendente italiano, capace di far gravitare attorno a sé anche minifestival organizzati fra il 2005 e il 2017 (l’ultimo La Tempesta sul lago, all’interno dell’Albori Music Festival a Paratico in provincia di Brescia). Ora ditemi, si poteva essere esaustivi con tutto questo?

Sebastiano mi ha mandato un testo introspettivo, nato attraverso la musica e da essa trainato, che unisce suggestioni misteriche a teorie scientifiche. Proprio lui mi ha proposto l’associazione con il brano La faccia della luna, settima traccia di Primitivi del futuro, e con la canzone condivide l’idea di un modo diverso di guardare al mondo e di approcciarsi ad esso, entrambe visioni profetiche dagli esiti diversi. Potete trovare il racconto subito dopo il brano a cui è associato, come al solito, e come al solito a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Ombre della luna, di Sebastiano Scordato

Una ragazza troppo magra per la sua statura siede in una stanza illuminata da un bagliore lunare. Ha una pelle chiarissima piena di lentiggini. Le dita magre sono adorne di anelli, sulle unghie smalto nero come la notte. Accende un amplificatore, attacca un jack e prende, come un figlio bastardo, la chitarra elettrica.

  • Una volta si diceva che la musica fosse alla base della creazione; lo sapevano i greci come i monaci orientali, che con campane e cori simulano la pace interiore per scolpire “la via”

Si fa accompagnare da accordi: re fa re re, re la re mi, mi do la fa, mi si sol mi, fa, do, do fa, la re do sol, mi do la fa, mi si sol mi, mi mi do do, sol si sol mi.

La luna illumina una lunga chioma raccolta da un elastico su un viso minuto, zigomi pronunciati, naso all’insù, occhi grandi perduti nella notte.

  • Questa gente illuminata credeva e crede che tutto, corpo, anima, destino, possa essere creato o purificato attraverso la musica

Continua con altri accordi: do la mi la, do do do do, mi si do fa, fa do, si mi, mi fa, fa mi, mi, fa, si, si.

Una distorsione fa vibrare i vetri. Il plettro cala come una lama sulle corde metalliche, il volto d’alabastro maculato rimane impassibile, una maschera di concentrazione e piacere. Il suo cuore diventa silente mentre lo stomaco formicola come se fosse ancora una volta innamorata, come se quelle note evocassero l’amore o qualcosa di simile. In quel suono così duro, la realtà vibra in una distorsione che rallenta il tempo.

  • Il suono della rabbia da dentro vola fuori, come il fuoco dolce di Selene che freddo divora la realtà e ti porta verso il nirvana, verso la luna dove il nostro senno e il nostro giudizio dimorano, sfuggiti dalle sbarre di questo pazzo mondo

Ancora altri accordi: mi do la si, fa mi re do, si la sol fa, mi do la si, do mi fa sol, la sol fa mi.

Le note distorte creano un ritmo di ritorno, inaspettato ma voluto. Tutto cambia nella luce della luna che nelle ombre danza e muta, come se la realtà perdesse il passo per trovarsi in una primordiale e complicata danza viscerale, antica ma moderna, sciamanica e scientifica. Il futuro e il presente si mescolano, la donna brilla del riflesso lunare e nel ritmo si muove e si perde, diventando luce e ombra allo stesso tempo.

Bellissima e inquietante come le streghe che furono, come le donne che sono, che nella propria conoscenza e nella propria anima ritrovano sé stesse. Nella luna brillante e lontana, madre di tutte le madri, figlia tra le figlie della notte, la sua identità e il suo posto nell’ordine cosmico si rivelano. La musica è per lei il linguaggio segreto dell’anima, capace di accendere fuochi e aprire porte altrimenti chiuse. Nella stanza illuminata dalla luna, la ragazza continua a suonare la chitarra elettrica, creando un mondo fatto di suoni, distorsioni e vibrazioni che solo lei può comprendere. Ritrova sé stessa, in note, tra le ombre della luna.

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Viaggi allucinanti: Beau ha paura Vs Mad God

Ok, sta cosa di prendere due film/libri/dischi e unirli in un unico articolo ormai mi ha preso la mano. L’ho fatto così tante volte che ho perso il conto, e a volte gli abbinamenti erano davvero azzardati. In questo caso però ci sono punti in comune difficili da ignorare: c’è un protagonista impegnato in un viaggio, c’è della bizzarria di fondo decisamente marcata e, probabilmente, una comune storia di dipendenza da droghe e/o problemi di salute mentale in chi ha creato le opere in questione. Ecco perché, dopo essere andato a vedere al cinema Beau ha paura, il nuovo film dell’enfant prodige dell’horror contemporaneo Ari Aster, mi è venuto naturale associare le impressioni ricavate a quelle rimaste dalla recente visione di Mad God, la pellicola uscita nel 2021 (con poche luci della ribalta) partorita del mago degli effetti speciali Phil Tippett.

Famiglie di merda 3.0

Ci sono registi che infondono le loro pellicole di tematiche ricorrenti (addirittura la moglie di Terry Gilliam sostiene che faccia sempre lo stesso film), scelte di argomenti e modi di narrare che concorrono, nell’arco della carriera, a costruire quella che che ne rappresenta la poetica. Di solito questi elementi sono già presenti sin dai primi film, ma diventano evidenti nell’arco degli anni: Ari Aster, invece, ci ha messo solo tre pellicole a chiarire che quello che gli interessa narrare è come la famiglia sia il luogo più orribile che esista.

Preghiamo

Sia in Hereditary, dove il quadretto famigliare è già ben malato di suo prima ancora che l’orrore lo destabilizzi completamente, che in Midsommar, dove l’appartenenza a un nucleo famigliare a dir poco problematico è la spinta che farà andare tutto di male in peggio, il regista statunitense aveva dimostrato la sua sfiducia verso il concetto Famiglia = Luogo sicuro, e anche in Beau ha paura decide di ribadire il concetto. Lo fa in maniera sempre meno sottile man mano che il povero Joaquin Phoenix avanza nel suo lungo calvario verso casa, mostrandocelo fin dall’inizio come un relitto roso dall’ansia e facendoci capire già solo dal colloquio col suo psicologo e da una telefonata con la madre che quest’ultima ha sicuramente influito sul suo pessimo stato di salute. Certo, non aiuta nemmeno abitare in una strada abitata da feccia così allucinata che manco le comparse nel finale di L’invasione dei pomodori assassini (citati nei titoli di coda di quel capolavoro del trash più o meno come “every scumbag in the area of Los Angeles”) riescono a competere, ma l’insicurezza di Beau ha sicuramente a che fare col suo passato, un passato che non mancherà di essere esplorato lungo le tre ore della pellicola: fra una tessera del puzzle e l’altra, però, Aster decide di lasciare che la follia si impossessi della sua pellicola, trasformandola in un’allucinata commedia semi-demenziale invece che nell’horror che potevamo aspettarci.

Pietà!

Non è esattamente quello che ci si aspetta dal trailer, che già di suo dipinge un quadro bizzarro. Ti aspetti molta più poesia, più enfasi sul cammino e la crescita personale di Beau durante il viaggio, invece finisce che nella prima mezz’ora hai già avuto a che fare con vicini folli che odiano il rumore, una home invasion delirante e pure con un serial killer nudista armato di coltello. E cavolo se ci si diverte. La cosa migliore di Beau ha paura è il suo lato comico, estremizzato in maniera da non lasciare alcun dubbio sul fatto che chiunque si parerà sul cammino del protagonista difficilmente si comporterà in maniera normale. La galleria comprende una famiglia traumatizzata (dicevamo sui temi ricorrenti?) che prima lo investe e poi lo “adotta”, una comunità dei boschi che improvvisa uno spettacolo teatrale fra gli alberi, l’amore perduto di Beau che si fa fotografare con un cadavere trovato in piscina, un reduce di guerra psicopatico e chi più ne ha più ne metta. Beau fa del suo meglio per sopravvivere a tutto quello che gli capita fra il momento in cui decide di prendere un aereo per andare a trovare la madre e il momento in cui finalmente arriva da lei, o forse sarebbe meglio dire che riesce a farlo nonostante la sua cronica incapacità di prendere una qualsiasi decisione: castrato da troppo amore (tossico) ricevuto nell’infanzia, orfano di una figura paterna che non ha mai conosciuto, Beau si lascia trascinare dagli eventi fino a giungere a una sorta di resa dei conti.

L’altra cosa che funziona benissimo è Joaquin Phoenix, spaesato e sbarellato quanto basta a rendere credibile il suo più che fallibile Beau. L’attore è talmente efficace che riesce a coprire degli evidenti buchi nella scrittura del suo personaggio, un ansioso che barrica la porta di casa fantasticando sulla possibilità che gli entri in casa un serial killer ma che quell’ansia la perde piacevolmente per strada, senza dare l’impressione di essere riuscito a superare i suoi enormi blocchi emotivi. Anche il cast che gli gira attorno è in palla, dall’inquietante reduce interpretato da Denis Ménochet all’acida madre Mona (Patti LuPone), una donna che concede il suo amore come una moneta di scambio, ma se le interpretazioni e le gag riescono a far filare liscio un film parecchio lungo questo non significa che Beau ha paura sia esente da macroscopici difetti, uno in particolare: sembra che Ari Aster non sappia esattamente dove vuole andare a parare.

Non so dove andare, ma ci vado con stile

Il terzo film del regista accumula storie, snodi narrativi, invenzioni (visivamente fantastica la scena della rappresentazione teatrale) e personaggi con la stessa frenesia di chi si entusiasma per qualcosa e poi lo molla lì perché nel frattempo si è entusiasmato per qualcos’altro. Io non riesco a non apprezzare un film in cui trovi senza un motivo valido un serial killer nudista e (micro spoiler) UN CAZZO GIGANTE (fine micro spoiler), ma lo accetto se non hai pretese di volermi raccontare qualcosa di importante, e invece Aster quella pretesa ce l’ha. Tutta la parte conclusiva del film è un’analisi del morbosi legami all’interno della famiglia Wesserman che vorrebbe portare a qualche risposta o perlomeno suscitare delle domande, ma le risposte latitano (anche a causa di un finale confusionario, che sembra citare The Truman show) e nessun dubbio esistenziale si affaccia alla mente dello spettatore. Qui a Tremila Battute vogliamo un sacco bene ad Ari Aster, lo abbiamo esplicitato anche in questo articolo, ma se lasciarsi andare a briglia sciolta porta a risultati come questi forse è meglio che qualcuno lo trattenga, perché Beau ha paura è inconcludente e caotico: il miracolo è che riesca a non annoiare nonostante questo, ma se è il miglior complimento che si può fare alla pellicola qualcosa evidentemente è andato storto.

Bosch 2.0

Gioia

Se Beau ha paura ha una trama raffazzonata, Mad God nemmeno ci prova ad averla. Almeno, uno scheletro di narrazione c’è, ma a Phil Tippett non interessa granché esplicitarla, tant’è che il suo film è muto. I due film sono distantissimi come durata (tre ore Vs un’ora e venti), necessità comunicativa (se Aster dà l’impressione di volerti far capire assolutamente qualcosa, Tippett risponde consigliando di approcciare la visione mangiando un’orsetto gommoso al THC, fumandosi una canna e bevendo una bottiglia di vino: orsetto gommoso a parte è più o meno ciò che ho fatto) e messa in scena (mago della stop-motion convertitosi con enormi mal di pancia al digitale, Tippett ha fatto pesantemente uso della prima tecnica per creare il suo mondo estremamente artigianale), le due opere trovano punti in comune nella lunga genesi (Beau ha paura nasce da un corto, Beau, diretto da Aster nel 2011, mentre ci sono voluti TRENT’ANNI e un ricovero psichiatrico a Tippett per concludere Mad God), nella libertà di fare un po’ quel cazzo che vogliono (con ovvie distinzioni a seconda del budget), nella dinamica del viaggio e, soprattutto, nell’incubo. Solo che in Mad God l’incubo arriva alle sue estreme conseguenze.

Il film inizia con un tizio in maschera antigas, ventiquattr’ore stretta in mano e una mappa marcescente in tasca, che si immerge all’interno di una cavità con una batisfera cigolante, il tutto mentre viene bombardato da qualunque arma si possa trovare. Il mondo in cui cercano di farlo fuori è terribile, un luogo buio in cui sembra infuriare una guerra eterna, ma è niente rispetto a ciò che l’assassino (così accreditato nei titoli di coda) troverà sotto la sua superficie: giganti costretti alla sedia elettrica all’infinito, gli escrementi prodotti dagli stessi che colano più in basso, umanoidi schiavizzati che vengono triturati e spappolati dallo stesso illogico sistema produttivo che sono costretti ad alimentare, bocche sgangherate che berciano da maxischermi con voce da neonato e poi creature terribili, affascinanti nella loro repellenza, un esercito di mostri usciti direttamente dagli incubi di Tippett nell’arco dei trent’anni che gli ci sono voluti per realizzare un’opera che definire “visionaria” è persino riduttivo.

Proverete disagio e meraviglia guardando Mad God, perché il marcissimo mondo che l’assassino attraversa è quanto avrebbe partorito Bosch se fosse nato oggi e si fosse appassionato al body horror. Per la visione pare che Tippett abbia consigliato anche una vomit bag, ed all’anteprima al Festival di Locarno 2021 ha orgogliosamente contato quante persone sono uscite dalla sala prima della fine (otto, come riporta questo articolo): io non mi ritengo per forza la persona con più pelo sullo stomaco al mondo (detto che poi quest’espressione è di un machismo insopportabile), ma una scena di rimozione di interiora girata in maniera estremamente materica e parossistica ha avuto il potere di rivoltarmelo, e sfido chiunque a guardare quella o altre sequenze senza rimanere almeno un minimo sconvolt*. A un certo punto della pellicola abbiamo accesso ai ricordi dell’assassino, al mondo oltre quel mondo di depravazione in cui si è avventurato, e detto che pure lì non è che se la passino benissimo (ci sono esercito enorme che fa molto nazismo e un leader inquietante a guidarlo) abbiamo anche qualche esempio di visione edenica oltre l’inferno in cui siamo sprofondati, ma persino il più lugubre e rugginoso antro del mondo di Mad God lascia una sensazione di stupore oltre a quella più immediata di repulsione: in fondo già detto che persino le creature deformi di Mad God sono anche affascinanti, e nessuna lo è più di una specie di spettro in maschera da chirurgo veneziano che se ne va levitando con un orribile feto fra le braccia.

Il paragone fra Mad God e Beau ha paura è strambo anche perché da una parte abbiamo un mago degli effetti speciali (che in carriera si è vinto, fra i vari premi, due Oscar per gli effetti visivi de Il ritorno dello Jedi e per gli effetti speciali di Jurassic Park) che non perde occasione per elogiare i bei film di una volta (e con bei film di una volta intendi quelli muti, da Buster Keaton a Charlie Chaplin), dall’altra un regista nemmeno quarantenne cui è stata affidata, dopo le prime due pellicole, la sorte del cinema horror del futuro: eppure entrambi sono riusciti a mettere su schermo le loro visioni in maniera personale, senza sconti, con difficoltà produttive estremamente diverse (detto che il film di Aster è prodotto dalla A24 e non da una major, la situazione è sicuramente più rosea di quella di un Tippett costretto a fare pure crowdfunding per arrivare alla fine della produzione) e con risultati altrettanto distanti, per forma e impatto. La cosa più strana, se vogliamo, è che il film di tre ore scorre più velocemente di quello di un’ora e venti (che potreste essere persino tentati di mollare a metà visione, ma tenete duro), però quello che rimane più vividamente impresso nelle pupille alla fine è quello più breve: entrambi si concludono con un’esplosione, ed è forse un segno della vittoria del “vecchio” sul “nuovo” che da una parte si sviluppi una rinascita (che porterà probabilmente, nei pessimistici piani di Tippett, a una rimorte) e dall’altra non si sviluppi niente.

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Mescolare con personalità: il cocktail sonoro d’esordio dei Fiesta Alba

Sto seguendo un corso online tenuto dallo scrittore Vanni Santoni, il che spiega per quale motivo gli articoli su questo sito stiano latitando un po’ (e sappiate che domenica festeggio il primo maggio in anticipo, quindi niente racconti per una volta). Durante una delle lezioni, parlando di originalità, Santoni ha raccontato un gustoso aneddoto riguardante Juan Rulfo, scrittore messicano che col suo Pedro Páramo ha fatto da spartiacque nella lettura ispanoamericana: interrogato sul come fosse riuscito a dare al suo romanzo una struttura così fuori dai canoni, pare che Rulfo abbia risposto candidamente “ho copiato da Faulkner“. Non so se sia esattamente andata così, dato che Wikipedia complica la questione attribuendo l’influenza principale di Rulfo all’autore islandese Halldór Laxness (in particolare al racconto Gente indipendente), ma il succo della questione è che ciò che ci sembra originale raramente lo è, ed è in realtà frutto di molto mestiere.

Ma perché vi racconto tutto questo? Perché, facendo ammenda, io il termine “originale” per descrivere la musica di artist* var* l’ho utilizzato parecchie volte (e sono sicuro che ancora lo farò), anche se magari quelle canzoni seguivano stilemi che io semplicemente non conoscevo. È anche la prima parola che mi è venuta in mente per definire le sonorità dei Fiesta Alba, bizzarro quartetto di musicisti-luchadores romani che nei cinque brani dell’omonimo Ep d’esordio (pubblicato dall’etichetta neontoaster multimedia dept.) spazia dal math rock all’afro beat, dall’elettronica al rap, dimostrando un’ampiezza di vedute e una capacità di tenere insieme il tutto che magari originale non sarà, ma di certo è estremamente personale.

Octagon (composizioni e chitarre), Dos Caras (suoni sintetici e digitali), Fishman (basso) e Pyerroth (batterie acustiche) si definiscono in lotta da una vita “contro la banalità del conformismo musicale, dello strapotere dei signori della discografia, del declino del rock, della dittatura dell’heavy rotation, della mistica dell’auto-tune”, e di certo è difficile trovare qualcosa nel panorama musicale odierno che gli somigli: certi suoni di chitarra rimandano alle suggestioni africane degli I Hate My Village, il rap (senza auto-tune, sia chiaro) fa capolino in Juicy lips, loro stessi esternano le loro influenze (fra le tante i Battles e Steve Reich, di cui vi abbiamo già parlato) ma il cocktail sonoro è fresco e sa di abilità individuali e capacità di metterle assieme. Non cantano, i quattro luchadores, lasciandoci il dubbio sull’idioma che avrebbero utilizzato (Messicano? Dialetto romano? Un bel mix?), ma si avvalgono di tre voci provenienti da varie parti del globo, più un feat decisamente particolare che avvalora ancora di più la loro politica antisistema.

L’apertura con Laundry mette già in gioco molte delle caratteristiche distintive del suono dei Fiesta Alba: chitarre che si incrociano dal sapore fra il post-punk e il math, distorsioni che duettano con suggestioni africane, sezione ritmica quadrata ma capace di prendersi delle libertà, il tutto unito nel caso specifico alla voce alternativamente suadente e nervosa di Nicholas “Welle” Angeletti. Quindi è questa la formula dei Fiesta Alba, giusto? L’abbiamo sintetizzata? No, perché è pur vero che Dem say frulla alcune di queste caratteristiche per ficcarvi nelle orecchie un miscuglio in cui i ritornelli hanno un retrogusto crossover anni ’90 (forse li cito troppo spesso, ma qualcuno ha detto Mr. Bungle?), ma la libertà con cui la voce del rapper nigeriano Kylo Osprey e gli strumenti tutti si concatenano seguendo ognuno il proprio ritmo porta già in un altro mondo sonoro, e stiamo parlando comunque dei due brani che si assomigliano di più.

Ciò che la band romana fa con la seconda traccia, Juicy lips, è invece sterzare nel reame dell’elettronica, stendendo suoni improvvisamente freddi su ritmiche nervose e bizzarre, affidandosi al rap sghembo di Tha Brooklyn Guy per condurci lungo quattro minuti abbondanti di glitch e riff ossessivi. Consiglierei ai Fiesta Alba di fare un disco intero così? No, probabilmente non lo reggerei, ma nell’economia di un Ep che sorprende da ogni lato una pausa d’inquietudine ci sta benissimo, così come ci sta Octagon, una sorta di breve outro in cui su concatenazioni ritmiche che rimandano ancora al continente africano si stende una chitarra in reverse fantasiosa ed efficace.

Il meglio di sé però la band lo dà in Burkina Phase, incrocio afro-math in cui chitarre, basso e batteria si intersecano a suoni che sembrano uscire da un handpan, ai fiati e alla voce di Thomas Sankara, Presidente del Burkina Faso dal 1983 al 1987 (fu durante il suo governo che lo stato prese questo nome, in luogo del precedente e coloniale Alto Volta), uomo definito “il Che Guevara dell’Africa” e sulla cui figura vi straconsiglio un’approfondimento. Mentre i Fiesta Alba sciorinano il loro meltin’ pot di influenze il Presidente, assassinato da un complotto dai risvolti ancora oscuri, tuona due mesi prima della sua morte contro i propri omologhi al Summit Panafricano, esortandoli ad assumere una posizione unitaria sull’impossibilità di ripagare il debito pubblico contratto per promuovere uno sviluppo che non si è mai concretizzato: anche questo è indice del loro posizionamento antisistema, riuscire a far conoscere una Storia importante mentre si intrattiene l’ascoltatore con musica di qualità sopraffina. Chapeau ai Fiesta Alba insomma, una band sregolata nella forma e nell’immagine che riesce a far passare anche i pochi difetti come aspetti inscindibili della propria personalità.

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