Nella mia dichiarazione d’intenti all’apertura di questo sito (ne trovate un sunto qui) parlavo della difficoltà di fissare una linea netta fra ciò che può essere considerato musica indipendente o meno. Per fare un esempio nostrano i Baustelle, già protagonisti di un racconto dedicato, sono partiti dal basso per accasarsi solo dopo con una major e diventare protagonisti dell’airplay radiofonico. Ancora più difficile è fare questo distinguo in ambito internazionale, visto che band che da noi sono di nicchia (e che le radio si sognano di trasmettere) possono avere un seguito molto forte nei loro paesi di origine. Gruppi come gli Alt-J e i Sigur Rós sono conosciuti anche entro i nostri confini, ma la loro originalità e il loro essere al di fuori da schemi musicali prestampati mi porta comunque a considerarli parte di quel calderone di musica “originale” che apprezzo e che mi piace a portare alle orecchie di chi ha ascolti meno variegati. I Russian Circles, che il loro buon seguito ce l’hanno ma fanno un genere che in Italia probabilmente sarà snobbato a vita anche da radio cosiddette “rock” come Virgin Radio, stanno anche loro in quel labile confine in cui la mia interpretazione della parola indipendente sguazza confuso.
Trio strumentale di Chicago, alfieri di quel genere altrettanto confusamente definibile come post-rock, i Russian Circles mi hanno rapito fin dai primi ascolti per la loro capacità di unire delicatezza e potenza sonora. Attivi dal 2004, hanno realizzato sette album di cui l’ultimo, Blood Year, è uscito nel 2019 per la loro etichetta storica Sargent House. I più nerd li conosceranno anche per altri motivi: un loro brano, Fathom, risuonava durante i titoli di coda del videogioco Dead Space 2.
Kohokia è il quarto brano dell’ultimo disco, un album che sinceramente ho apprezzato solo a tratti ma che ha questa canzone fra i punti di forza. I saliscendi emozionali che mi ha fatto avere durante l’ascolto mi hanno ispirato una storia fissata in un tempo breve ma potenzialmente infinito (il titolo non è scelto a caso), debitrice del mito di Sisifo e dell’interpretazione che Camus ne diede in un suo saggio. Al solito vi auguro buon ascolto, e buona lettura.
All’infinito
Emergere dalle viscere della terra con nulla più che la mia fatica come ricompensa ancora m’inquieta. La pena che mi è stata comminata la sento in tutto ciò che mi attornia, nell’aria pesante, nei muscoli che si irrigidiscono. Ogni sforzo è vano, eppure avanzo.
Mi concentro sulla materia, le sensazioni tattili. La consistenza di ciò che sospingo è l’unica fuga che posso permettermi, stringo le mani lungo la sbarra di ferro del carrello che devo far avanzare, sento l’attrito delle piante dei piedi sulla ghiaia, avverto la scia di ogni goccia di sudore attraversare il mio corpo, lungo il collo, la schiena, le gambe e infine ne percepisco l’abbandono, l’ennesima perdita, una parte di me che si mischia alla terra che sono costretto a calpestare.
I pensieri mi assalgono, soffro l’ingiustizia della mia condanna, la rabbia e la frustrazione mi danno energia solo per agire come uno schiavo e salire più in alto, ancora di più, a dimostrare in vetta ai miei aguzzini che nemmeno oggi mi sono piegato e illudermi che la lotta giustifichi la vita, boia e carceriere di me stesso per paura di un peggio che non viene e non verrà perché è già qui anche se rifiuto di osservarlo e osservarmi.
Oltre il buio che mi avvolge, al limite della rottura per la fatica e i passi infiniti e la follia che mi guata, ecco sorgere di lontano una luce che mi rischiara. Il sole si rivela, m’accalora, rende il sudore una conquista e l’ansia di refrigerio un obiettivo, mi spinge a proseguire con la consapevolezza che consolazione e speranza ancora non mi sono state tolte, non mi possono essere strappate, ancora un passo e dalla cima potrò urlare che ho vissuto e ancora sopravvivo.
Ma ecco, il respiro mi si mozza. Tremo osservando ciò che mi attornia, provo orrore all’improvviso per quella luce che dall’alto illumina vallate, laghi, monti e le vite di chi ignora me e i miei tormenti e le mie lotte per loro, gli ignari, a cui restano i frutti mentre l’albero che glieli ha donati imputridisce. Crollo a terra, l’aria aperta è solo un’altra gabbia, la speranza l’ennesima illusione con cui cerco di giustificare la mia essenza.
Eppure mi alzo per l’ennesima volta, di nuovo in piedi, volgo le spalle a ciò che ho contribuito a creare, causa della mia condanna e ragione delle mie azioni. Vivo per immaginarmi in quei frutti, in coloro che li assaporeranno, per quell’istante in cui sono un tutt’uno con l’esistenza e i miei atti sono vani e necessari allo stesso tempo. Scorderò questa sensazione, all’infinito, soffrirò ancora e ancora fino a che non sarò io, saremo noi, quell’infinito.
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3 pensieri riguardo “Racconto in musica 14: All’infinito (Russian Circles – Kohokia)”