Racconto in musica 44: Però ci vuole lentezza per costruire le cose (Riccardo Sinigallia – Io e Franchino)

In più di un’occasione mi è capitato di parlare del podcast L’audionario di Francesco Del Gratta, di cui purtroppo da un po’ di tempo non escono nuove puntate. Con grande passione Del Gratta si è messo a esplorare alcune scene musicali conosciute (la Firenze del post-punk e della dark-wave negli anni ’80, l’Islanda di Bjork e Sigur Rós) narrandone la storia e, soprattutto, andando a scovare le “nuove leve” che arrivano da quelle zone…un po’ quello che cerco di fare io, con molta improvvisazione in più e molta professionalità in meno. Nella sesta puntata, che potete trovare qui, parla della scena romana lasciando filtrare molto di più la nostalgia per il passato rispetto alla speranza per il futuro (soprattutto se quel futuro si chiama Gazelle o Tommaso Paradiso, anche se rispetto a lui sono molto meno critico su I Cani e molto di più su Calcutta), forse perché parte di quella scena dimostra di averla vissuta nel pieno della sua formazione: è quella dei vari Niccolò Fabi, Daniele Silvestri, Max Gazzé e Tiromancino, formatisi tutti attorno a un locale che si chiamava, molto originalmente, Il Locale e passata poi a colonizzare l’airplay radiofonico (cosa che per i primi bizzarrissimi Tiromancino, ascoltati su Videomusic decenni fa, mai avrei potuto pronosticare). A fare da trait d’union in tutta quella scena c’era un cantautore, uno che non ha fatto tantissimi album nonostante sia sulla breccia dagli anni 90 ma che in compenso ha prodotto e continua a produrre altri artisti: quel cantautore è Riccardo Sinigallia.

A darmi modo di parlare di Riccardo Sinigallia è stato un altro esperto di musica, Matta Grigolo. Berlinese d’adozione dal 2013, ma nato alle porte di Milano dove si è vissuto una scena fatta di punk, skaters e writers, Mattia ha uno di quei curriculum che vorrei avere io: otto anni di lavoro nella discografia, tre anni a organizzare live elettronici tra Leoncavallo e altri storici club milanesi, una lunga militanza nel giornalismo musicale per testate come Zero, Rolling Stone, Il Mucchio, Soundwall, NOT, Wired e Area. Non bastasse ciò a Berlino ha fondato il progetto di laboratori creativi per italiani all’estero LE BALENE POSSONO VOLARE (grazie al quale l’Istituto Italiano di Cultura, il Comites Berlino e l’Ambasciata Italiana a Berlino lo hanno premiato come Italiano dell’Anno 2014), insegna scrittura creativa, ha fondato una rivista di approfondimento online (Yanez Magazine) e una rivista letteraria, Rivista Eterna, che uscirà per soli tre numeri prima di andare verso la morte e rimanere eterna solo nel nome, nella forma e nelle parole di chi ha contribuito a darle vita con i suoi racconti.

Riccardo Sinigallia, dunque. Cosa dire di un uomo che, chiacchierando senza pensieri, tira fuori le parole del ritornello di Quelli che benpensano di Frankie Hi-Nrg? O che salva Vento d’estate, inizialmente un pezzo di Max Gazzé (che doveva finire in La favola di Adamo ed Eva) di cui non era soddisfatto, facendolo ascoltare per sbaglio a Niccolò Fabi? Per certi versi è lui il deus ex machina che sta dietro a tutto quel proliferare di cantautori, e non solo, emerso dall’underground romano degli anni ’90, del quale un piccolo seme si poteva già trovare nei Sei suoi ex, band che Sinigallia formò alla fine degli anni ottanta con, fra gli altri, Niccolò Fabi e Francesco Zampaglione (pensate alla vostra cover band, nata per caso e morta senza che nessuno la ricordi, e immaginate che da lì escano poi questo tipo di artisti). Bisognerà aspettare il 2003 perché veda la luce il suo primo disco, omonimo, ma per tutti gli anni ’90 Sinigallia non resta fermo: produce i primi dischi di Niccolò Fabi, lancia Max Gazzé, inizia a dirigere video (il primo è proprio Quelli che benpensano, in cui appare sul sedile posteriore cantando l’iconico ritornello), entra a far parte dei Tiromancino producendo e cofirmando l’album La descrizione di un attimo, passa da Sanremo proprio con la band dei fratelli Zampaglione, prende parte al collettivo La comitiva (di cui produce l’unico disco, Medicina buona) e inizia pure a scrivere colonne sonore, col film Paz! di Renato De Maria. Negli anni arriveranno altri tre album solisti (Incontri a metà strada nel 2006, Per tutti nel 2014 e Ciao cuore nel 2018), la formazione, assieme a Max Casacci, Vittorio Cosma, Gianni Maroccolo e Howie B, dei DeProducers, band con all’attivo tre dischi in cui sonorizzano dal vivo conferenze scientifiche raccontate in maniera rigorosa ma accessibile, il lancio di altri artisti come Coez e Motta, la candidatura ai David di Donatello con una canzone scritta per il film Non essere cattivo di Claudio Caligari (su richiesta dell’amico Valerio Mastandrea, che appare in un sacco di suoi videoclip tra cui quello di La descrizione di un attimo dei Tiromancino) e mille altre cose, alcune delle quali condensate in Backliner, film biografico realizzato da Fabio Lovino.

Io e Franchino, quarta traccia del disco Per tutti, è una storia di amicizia complicata, in cui il Franchino evocato da Sinigallia è quel Francesco Zampaglione con cui ha condiviso una lunga parte del proprio percorso artistico. Mattia è riuscito a rendere al meglio il testo e le atmosfere della canzone, utilizzando una prosa colloquiale che si adatta alla perfezione sia ai lati ruvidi che a quelli teneri di un rapporto tortuoso ma sincero. Trovate il racconto subito dopo la canzone, a me non resta che augurarvi come sempre buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Però ci vuole lentezza per costruire le cose, di Mattia Grigolo

Una luna opalescente si è portata via l’effetto strano che fa la nebbia nelle strade del paese. Franchino arranca sul marciapiede aggrappandosi alle ringhiere bagnate di brina. Oltre i cancelli, i cani abbaiano, ma restano a distanza dal puzzo acido di alcol del ragazzo, il suo barcollare che sembra quasi un danzare.
Mi avvicino e gli dico Hey come va, come va?
Franchino ha gli occhi stanchi dal vino, dall’amore, dalla vita.
Non dice niente, non chiede nemmeno, alza solo un braccio guardandosi i piedi, l’asfalto oppure il niente sfocato dalla luce tenue dei lampioni.
Io m’infilo sotto quel braccio e me lo prendo sulle spalle e ci trasciniamo come l’ombra di una bestia zoppa. Io e Franchino, quella notte diventiamo fratelli.

Franchino mi telefona che è notte fonda, alzo il ricevitore e la cornetta pesa del sonno e del lavoro in fabbrica. Dico Pronto senza chiedere, lui dice Divento papà senza piangere. Così esco di notte, con dei bermuda strappati sul culo, una t-shirt dei Melvins, un elastico che mi tiene in piedi aggrappandosi ai capelli. La piazza è vuota e tutto rintuona; il mio urlare che si fa eco sulla facciata della chiesa, fino all’alimentari lì davanti, il suo sorridere che si perde subito perché è un lampo, perché lui è così, Franchino, vive della paura di non essere all’altezza, con quelle spalle che ha, quelle ginocchia storte da numero dieci. E mi dice Ho paura e gli dico Franchino, hai qualcuno da difendere e mi stringe così, come ci siamo sempre stretti senza averlo fatto mai.

Franchino è seduto ad un tavolo di un bar buio. Davanti a lui c’è una sedia vuota e quando arrivo volta la testa per guardarmi ma non mi guarda davvero, però mi dice Siediti, dai siediti. Franchino mi dice che le persone non sanno perché fanno quello che fanno, lo fanno e basta e lo fanno veloce. Però ci vuole lentezza per costruire le cose, perché lento è il tempo quando passa dandoti il beneficio del dubbio e del poter riparare agli sbagli.
Gli dico che di sbagli noi ne abbiamo fatti tanti e lui dice che no, quelli non sono errori, sono passaggi troppo veloci.
Io gli chiedo Non bevi niente? e lui accende una sigaretta già iniziata.
Dice Me ne vado.
E dove vai?
Non so.
E io che gli dico Perché? e lui che mi risponde Quello lo so.

Dalla città al paese sono dieci stazioni dai nomi bianchi scritti nel blu. Ho un figlio, una figlia, una compagna malata e un cane che ride. Ho tre poesie bellissime che non ho mai fatto leggere a nessuno e ho una fotografia dai colori sbilanciati, dagli angoli piegati.
Siamo io e te Franchino, stretti in un sorriso che non è mai stato il tuo.
La chiudo tra i ricordi. Un giorno l’ho abbracciata, così, come se fosse di ossa, di carne e del tuo sapore amaro, Franchino, così sfuggente come un’amicizia che è un ricordo e un sorriso che mi sono messo in tasca, perché tu lo hai dimenticato su un tavolo di un bar, tanti anni fa.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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