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Racconto in musica 117: Io non volevo nascere (Edda – Milano)

Quando ho aperto questo blog mi ero dato due regole fondamentali per quel che riguarda i racconti: la lunghezza di massimo tremila battute e la musica indipendente a fare da musa ispiratrice. Poi mi ero dato anche altre regole non scritte, alcune interne alla gestione (pubblicare un racconto a settimana, pubblicare un articolo a settimana, perché se non faccio le cose con una frequenza stabilita finisce che faccio tutto a cazzo: ultimamente per questioni di sopravvivenza mentale mi sono preso qualche licenza, le mie assenze prendetele come una ribellione alla società della performance introiettata o, semplicemente, prova del fatto che non tutte le settimane ho qualcosa di interessante da dire) e altre relative alla musica, tipo “mai fare doppioni” o “parlare di artist* ancora in attività”. Chiariamoci, la lunghezza massima è sempre stata rispettata, ma già sulla musica indipendente sono stato permissivo su quelli che considero “casi limite” (ad esempio Riccardo Sinigallia e i Verdena): potrei mai imporre delle regole che non sono esplicitate qui? Potevo dire di no ad Antonio Vangone quando mi ha proposto un racconto ispirato dai disciolti L’Orso? Potevo dire di no a Morgana Chittari, che oggi riporta Edda su queste pagine dopo che avevo parlato di lui al giro di boa dei 100 racconti? Certo che no, e quindi eccol* qua!

Passiamo a presentare Morgana innanzitutto, anche se c’è chi sostiene che non sia mai esistita e lei stessa, la cui memoria difetta, dubita spesso della propria carne. Classe 1986, il suo primo amore è il giornalismo, con collaborazioni con L’eco della Stampa e Stampo antimafioso, di cui è stata tra l* fondator*. La scrittura è però una passione a tutto tondo che la porta a scrivere sempre e ovunque, sui rotoli di carta igienica come sui palmi della mano degli sconosciuti, il che non le impedisce di utilizzare anche i normali fogli di carta e/o la tastiera del computer: se n’e ben accorta la casa editrice Lekton Edizioni, che nel 2021 ha pubblicato la sua racconta di racconti e poesie sperimentali Frantumi, nonché le numerose riviste online (Sulla quarta corda, Squadernauti, Grande Kalma e presto su Narrandom e Biró) e non (la rivista Turchese del Super Tramps Club), che hanno pubblicato suoi racconti e non solo (potete leggere ai link seguenti i suoi articoli per Suite Italiana e sul numero tredici di Risme). Ghostwriter e responsabile comunicazione per professione, le piace dare i numeri, mangiare frutta acerba, collezionare sassolini e altre cose inutili, tirare pugni al sacco, immaginare di aver fatto, i non detti, gli spazi bianchi tra le cose, le persone e le parole, mentre non le piace l’idea di sparire o morire, anche se è ciò che le riesce meglio. Sedotta dal dialogo fra discipline si è formata ed ha avuto esperienze nell’ambito della recitazione teatrale, studia le neuroscienze, pratica la boxe e la pittura e, se volete seguirla, potete farlo andando a curiosare sul suo blog Chimere.

Una delle ragioni che mi ha spinto a darle spazio, oltre alla sua capacità di fondere prosa e poesia all’interno del suo testo, è stata anche l’amore per la musica di Stefano Rampoldi, in arte Edda, che emerge dalla presentazione dell’artista milanese che lei stessa ha scritto, quindi non rubo altro spazio e lo lascio libero per le sue parole.

“Ex frontman dei Ritmo Tribale – il punk rock della scena underground milanese anni ’80-’90, centro sociale Leoncavallo & co, per intenderci – Stefano Rampoldi, in arte Edda (Milano, 1963) è un talento nello schianto e nella sparizione. Dalla fine degli anni ’90 si dedica all’eroina a tempo pieno. Per oltre dieci anni lui e la musica non si dicono nulla. La fede Hare Krishna non lo salva dalla droga. Sparisce. Sipario. Un fantasma. Non si trova. Qualcuno pensa sia morto.

Senza la sua voce i Ritmo Tribale durano appena un paio di album.

Torna tra i vivi, si disintossica e si mette a fare il muratore. La musica lo salva e puff, come per magia lo ritroviamo di nuovo sulla scena musicale alla tenera età di 46 anni. Chi lo ha visto dimenarsi sul palco con i Ritmo Tribale ricorderà i capelli lunghi nero corvino, la bocca spalancata in un grido, i movimenti convulsi e scomposti. Lo ritrova brizzolato, seduto alla scrivania della sua stanza-studio di registrazione, chitarra acustica tra le braccia: postura diversa ma stessa voce possente, delicata, acuta, storta, nasale. Inimitabile. Edda non si può rifare o scimmiottare. E non si deve. Si rischia di finire male. Lui ci è finito, per dire.

Una sera di ottobre, nel 2009, compare al cospetto di Daria Bignardi invitato alla trasmissione “L’Era glaciale”: ingrassato, ciuffi sparuti sulla testa, tuta e scarpe da tennis. Uno sfigato qualunque. La sua vera natura?

L’assenza gli fa ritrovare l’essenza poetica.

Dopo oltre dieci anni di sparizione dalla scena musicale cominciano a girare su YouTube estratti dal primo album solista “Semper Biot”. Eccolo, il ritorno in grande stile. Del passato resta la poesia cruda e crudele degli esordi, se possibile ancor più cinica.

In “Odio i vivi”, singolo del 2012, canta “Odio i vivi / ho i miei motivi ma li tengo per me” e “I miei amici hanno figli figli figli… io sempre fame.” Quello che il signor Rampoldi fa non è cantare ma dire certe cose, gridare disillusione, sussurrare disperazione per la vita, troppa vita, e per gli esseri umani. Sente tutto troppo forte, Edda. Deve fare un male cane sentire così. Come fa male ascoltarlo, e poi fa anche bene (o forse è solo un rifugio, una pia illusione).

A me ha fatto venire voglia di scrivere.

Ho trascorso un intero pomeriggio a scorrere tutti i titoli dei suoi album e dei suoi singoli. Così, per puro piacere. Vorrei elencarli tutti ma so che mi odiereste. A questo punto anche io vi odio perché non mi lasciate divertire. Però, sul serio, vi consiglio di dare un’occhiata.

Del 2014 è “Stavolta come mi ammazzerai?” (citazione dal film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), il terzo album solista dove canta/dice/grida “Tutte le volte che vedo mio padre esco di casa con la voglia di ammazzare”. All’intervistatore che gli chiede (che domande, diosanto) che rapporto ha con la famiglia, risponde: “Beh, sono stato una merda di figlio, per i miei sono stato motivo d’imbarazzo, mentre loro con me sono sempre stati bravi.” Ma non diamo la colpa all’intervistatore per certe domande, in fondo è quasi impossibile scindere la figura del cantautore da quella dell’essere umano difettoso.

Parlando del suo nuovo modo di fare musica (e forse cadendo nella trappola dei nostalgici paragoni col passato), qualcuno lo ha definito una ‘Raffaella Carrà’ e lui, replicando, dice: “la storia della Carrà è venuta fuori perché quando mandavo i brani a Luca, per fargli capire che tipo di arrangiamento volessi dare a un pezzo, gli dicevo: fammi una musica giocattolo, oppure un qualcosa alla Raffaella Carrà, però un po’ Strokes”.

Oggi Edda ascolta e segue la musica trap, crede ancora nella reincarnazione e sa che un giorno si reincarnerà giovane, forse pelato, ma sempre al passo coi tempi. I trapper? Li definisce “bravi ma un po’ paraculi”. Però, diamine, “Una forza che neanche i Sex Pistols”.

Di recente, sulla rivista “Sotto il vulcano” (Feltrinelli) ho letto un articolo dello scrittore Walter Siti che analizza riga per riga “Dubbi” di Marracash, al secolo Fabio Bartolo Rizzo: classe 1979, nato in Sicilia e vissuto nel quartiere Barona di Milano, da tutti chiamato “marocchino” per i lineamenti, uno dei più celebri rapper italiani, oltre che produttore. A proposito della canzone, Siti parla di ritmo come “istinto metrico”, trova e non trova una solida ragione per tutto ciò che Marracash ci infila dentro: rime interne, onomatopee semplici tanto da passare per ingenue, assonanze, anafore, paronomasie, sinonimie e giochi di parola, il tutto shakerato con precisione in un metro molto tradizionale, con qualche endecasillabo e ottonario del tutto casuale, inconsapevole. Il punto è che Marracash – prodotto simbolo dell’industria musicale contemporanea – non sbrodola, non sbraca, non sputa. Mi azzardo a definire “Dubbi” una canzone “pulita”, priva di smagliature e sporcature. Al polo opposto – di Marracash ma in fondo potrei dire di chiunque (prendo lui come esempio per via del genere musicale, e perché ho letto l’articolo di recente) troviamo un Edda impreciso, imprevedibile, impertinente, brutale, umano, dolce, spiacevole e fastidioso in quanto umano, seducente e kriminale (con la “k, come l’omonimo disco punk-grunge-rock del 1990). Edda si smonta e si riassembla, si sabota e si riassesta, e fa tutto da solo, decide lui quando e come. I testi delle sue canzoni li definisce “cagate psichedeliche”.

I temi? Sesso, droga, musica trap, spiritualità.

Del 2017 è “Graziosa utopia”, un disco provocatorio e disperatissimo che vede la partecipazione di Federico Dragogna dei Ministri e Giovanni Truppi, suoi ammiratori. Fru Fru” (Woodworm, 2019) è un pop ballabile che mi ha ricordato le atmosfere di “Ti voglio” di Ornella Vanoni (Io fuori, 1977) con quel “Tuuu, mi fai vooolaaaare” leggero, che si danzava a occhi chiusi, indossando pantaloni a zampa sotto le luci stroboscopiche, muovendo i piedi sulle mattonelle colorate e fingendosi timidi mentre ci si seduce.

Sulla copertina di “Fru Fru” domina uno sfondo arancione su cui si staglia un wafer piccolissimo con scritto sopra “Edda”: per dire quanto poco costui si prenda sul serio. Ma è solo una copertina, tutto ciò che resta in superficie, come quando Edda risponde autoironico alle domande degli intervistatori. La sua verità sta nelle canzoni, cioè nella finzione. Come persona si definisce “un biscotto abbastanza indigeribile” che però aspira alla leggerezza, al volo. Ma più che il volo – citando l’incipit del film di Kassovitz “La Haine” – Edda può vantare di aver sperimentato lo schianto. Il suono ce l’ha persino nel nome.

Ho googlato ciò che sto per dirvi solo per essere sicura di ricordare bene.

Esistono diverse teorie riguardanti l’origine della parola “Edda”, nome d’arte rubato alla madre dal Rampoldi (cognome che suona tanto come “rampollo di famiglia piccolo borghese”, che poi è esattamente il suo background familiare). “Edda” è la parola usata per definire due opere della mitologia norrena: The Poetic Edda e The Prose Edda. Pare che entrambe siano state scritte in Islanda intorno al XIII secolo. Si è parlato anche del “libro di Oddi”, centro educativo in Islanda frequentato da Snorri Sturluson: “Edda” è anche il titolo del trattato dello scrittore sulla poesia.

Due delle teorie più accreditate sono quindi che il termine derivi dal norreno óðr (poesia) o che sia una combinazione del latino “edo” (poesia) e dell’islandese “kredda” (superstizione).

Parlando con i classicisti (so che ci siete, siete ovunque, maledetti – mi ci metto pure io) vorrei ricordare che il verbo “ēdo” in latino (e come non pensare anche al greco ἀοιδός, derivato di ἀείδω «cantare») significa alcune cose che per amor di liste vertiginose elencherò tutte:
– emettere, far uscire, mandare fuori
– partorire, generare, dare alla luce
– fare, produrre, compiere, cagionare, causare
– divulgare, diffondere
– svelare, riferire, dichiarare, manifestare, rendere noto
– pubblicare degli scritti
– pronunciare un oracolo
– portare in alto, elevare, sollevare
– preparare, allestire giochi o spettacoli
– (passivo, di fiumi) sfociare, sboccare

Edda, che si prende per il culo ma scemo non è, sa tutte queste cose e le indossa con stile.

Maledetto, guarda cosa mi hai fatto vomitare.

Io, che pure sono divoratrice appassionata di musica random, scopro Edda solo nel 2022 ma non è colpa mia. È colpa sua che ogni tanto sparisce, e lui lo sa. Invece il merito è del mio compagno e di suo fratello, entrambi musicisti (chitarra/basso uno, polistrumentista l’altro). Oggi siamo ancora qui, suo malgrado, a scoprire questo essere umano, troppo umano per essere sopportabile, digeribile, conoscibile dai più. E che fa di tutto per non farsi notare.

A settembre di quest’anno è uscito “Illusion”, sesto album in studio: 11 inediti prodotti da Gianni Maroccolo (Litfiba, CCCP, CSI, PGR, Marlene Kuntz, Deproducers), grande estimatore del talento di Edda. Il titolo è un tributo a “Maya”, termine sanscrito per “illusione”: la superficie che ricopre e nasconde l’essenza delle cose. Maroccolo stesso, che di musica ne sa qualcosina, definisce il disco “pura magia. Umana, spirituale, musicale, artistica. È vero in ogni singola nota e parola. Trasuda purezza, quella un po’ ingenua che riconosci solo nei grandi Artisti e negli esseri umani Illuminati”.

Il talento visionario, l’ironia, la capacità di andare sempre a fondo, la bravura nel comporre e una voce davvero fuori dal comune rendono Edda una creatura bizzarra nel panorama musicale italiano attuale. Perciò ho creduto che valesse la pena spenderci più di due righe.

Il testo che leggerete è nato dopo aver ascoltato una sua intervista (consiglio l’esperienza di lettura: è spassosissimo quando risponde alle domande). Una frase, solo una – quattro parole – continuava a girarmi in testa come un’ossessione. L’ho fissata su carta solo per liberarmene e tornare alla mia vita gaia, e ovviamente ho fallito. Sono rimasta chiusa in bagno per tre ore ed è venuta fuori questa cosa strana. (La frase-ossessione è inchiodata alla prima riga). Non è un racconto, quindi forse non la leggerete perché non andrà bene per la linea editoriale. Non è nemmeno una canzone, quelle non ho idea di come si scrivano. Forse è solo un grido, uno sfocio, un uscio, uno sbocco o uno sbrocco, un buco, e se così fosse, me ne torno lì, nel mio angolino.

Anche se non credo in Krishna né mi sono mai fatta di eroina, come a Edda anche a me tutto sommato piace sparire.”

Morgana è talmente brava e appassionata che ha anche già presentato da sé il suo testo, che abbiamo di comune accordo associato a Milano, una delle prime canzoni dell’Edda solista e che ben riflette quell’equilibrio raro fra dolore e ironia che permea tutta la sua musica: potete leggerlo subito dopo il brano, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero della fanzine di Tremila Battute a questo link!

Io non volevo nascere, di Morgana Chittari

io non volevo nascere

per la società un peso materiale

per la famiglia un problema morale

per me stessa un dubbio un buio il nodo da sciogliere

se domani provassi a reinserirmi

come soldatino o impiegato statale

mi sentirei morire.

e continuano a dirmi

fai l’insegnante

arruolati nella legione

cercati un posto fisso

pensa alla pensione

e penso che a chi lo dice di me fotte niente

vuole – per se stesso, vuole – che io mi rilassi

che io mi adatti,

che mi sistemi,

io

che non sia un problema

per nessuno – tranne che per me tranne che per me.

e penso ma se proprio devo morire

io muoio pure ma non della vostra gabbia

non delle vostre regole

scelgo io in questo corpo come si muore

ed è solo colpa mia se nella vostra gabbia

non so stare

è colpa mia se scarto sempre

non scatto sputo per terra e mi piscio addosso dal ridere come i bambini

barcollo

non cammino dritta

non mi adeguo non mi addolcisco con le promesse dei potenti

è colpa mia se casco sempre se casco sempre se casco sempre

sono io che dovrei cambiare

o sparire – preferisco sparire

schivare il colpo.

avete ragione, voi

voi, avete ragione.

il politicamente corretto

il bacio o lo schianto senza redenzione

il pianto rotto, una marlboro di troppo

una figlia di troppo

il cancro ai polmoni

una madre che non puoi salvare

(ho quasi finito, giuro)

di solito non grido, non disturbo,

volo basso e scrivo

ma oggi sono esausta

mi fanno male le ali

mi va di gridare e basta

come fosse l’ultima cosa che faccio

prima di morire

io non volevo nascere eppure.

e ora ve l’accollate questa persona,

mi dispiace – mi scuso

o mi lasciate in un angolo a morire

o mi fate parlare

E allora.

l’inps l’iva il rdc

non saper chiedere o compilare una scartoffia per ottenere o respingere qualcosa

l’inail l’imu la tari la tasi

il cappio al collo la carota e il bastone

il cig la naspi

in psicoterapia

sono le vostre sigle del cazzo che mi mandano in riabilitazione

siete voi

la mia depressione

letti rifatti bene che pare non ci abbia dormito nessuno

mi fate venire voglia di morire.

azzurro il cielo è troppo azzurro per noi

i denti da latte in frantumi ballano senza cadere,

bambini ubriachi, restiamo sospesi nel vuoto

la serenata di un senzatetto al balcone

la trap dei drogati alla barona

i bimbi spezzati a librino

non mi va di mentire siamo noi

la croce rotta

la bibbia rinnegata

– bisogno di fede e nessuna religione –

sentirsi ladri per il solo fatto

di amare tanto da essere disarmati

ho finito, giuro

ho quasi finito

Si diventa rapidamente vecchi e in modo irrimediabile per giunta. Te ne accorgi dal modo che hai preso di amare le tue disgrazie tuo malgrado.”

Louis-Ferdinand Céline , Viaggio al termine della notte.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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