La magia del non lasciarsi comprendere: Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo

Nella vita il tempismo è una qualità utile. A volte essere il primo a dare una notizia può essere la discriminante per farsi notare (sempre che tu non faccia come quelli che, per informare tempestivamente della morte di Nelson Mandela, scrissero “Morto Mandela, leader dell’apartheid”), spesso lo è se parli in anteprima di qualcosa. A Tremila Battute siamo lenti e disinteressati a queste questioni, per cui parliamo di cose che ci interessano quando ormai ne hanno parlato anche i pesci, o di cose che non interessano a nessuno quando… Va be’, se non interessano a nessuno il tempismo è l’ultima cosa di cui preoccuparsi. Una volta però ci è andata di culo: siamo stati i primi a pubblicare un racconto di Mattia Grigolo.

Io quasi non me ne ero reso conto, poi me lo ha ricordato lui ad una presentazione di La raggia, il suo esordio letterario uscito circa un anno fa per la benemerita Pidgin. Se parlo di culo è perché in realtà Grigolo era già in parola per pubblicare racconti con altre Riviste con la R maiuscola, e se questa aspirante rivista (con la r minuscola) è arrivata per prima è solo perché ci ho messo poco a capire che quella storia fatta di pochi dettagli messi al posto giusto (che potete leggere qua) meritava la pubblicazione. Di racconti poi non ha certo smesso di scriverne, suscitando l’attenzione di più di una casa editrice: così, a un anno di distanza dall’esordio, è Terrarossa Edizioni a pubblicare il suo secondo libro, Temevo dicessi l’amore.

Se La raggia era una novella (basata a sua volta su questo racconto uscito su Split, che Stefano Pirone ha avuto l’intuizione di far espandere) Temevo dicessi l’amore si inscrive nel florido panorama dei cosiddetti “romanzi di racconti”. Tutto ruota intorno a Ofelia, ragazza misteriosa che nell’arco delle pagine ritroveremo donna, anziana e bambina, in un flusso di storie cronologicamente sparso di cui, ad aumentare lo spaesamento, non è ben specificato nemmeno il periodo. Siamo in un generico presente, come dimostrano alcuni punti di riferimento quali due audiocassette di Dalla e De Gregori che emergono dai ricordi d’infanzia di uno dei protagonisti, ma Grigolo non sente la necessità di evidenziare nulla (anzi, una semplice citazione di Adventure Time confonde ancora di più le acque): lui è della scuola che preferisce lasciar parlare i fatti, e l’essenzialità della prosa traspare da ogni riga.

Una sera eravamo in un bar, c’era anche l’amica di Ofelia che avrebbe dovuto ospitarci mesi prima. Un ragazzo ci aveva raggiunto al tavolo. Reggeva una pinta di birra nella sinistra e con l’indice della destra indicava il mio parka avvolto allo schienale della sedia. Avevo sfilato l’imbottitura esterna per renderlo meno pesante.

Aveva detto qualcosa e io non avevo capito. Aveva ripetuto e Ofelia, sottovoce, mi aveva spiegato che l’accento era di Liverpool. Nessuno dei tre aveva compreso una sola parola.

Il tipo aveva atteso una nostra reazione, poi aveva appoggiato la sua birra di fianco alla mia e si era inginocchiato. Aveva un falco tatuato sul bicipite e gli occhi lucidi, forse per via dell’alcool. Le ali nascoste dalla manica arrotolata della camicia a quadri.

Aveva afferrato un lembo della mia giacca e così era rimasto, a guardarla e basta.

Ofelia aveva detto: «Forse dovresti darglielo». E io le avevo risposto che non volevo dare via il mio parka.

Il ragazzo, con il polpastrello, seguiva il perimetro della macchia di sangue rappreso.

Ofelia si era alzata e gli aveva appoggiato una mano sulla spalla. Lui non si era mosso, ancora accovacciato di fianco alla mia sedia. Eravamo quasi abbracciati.

Si era messo a piangere. Le lacrime scendevano tanto lente che avrei voluto spingergliele fuori.

E allora ci eravamo abbracciati davvero e qualcosa era sparito intorno a noi: la nostra amica, il resto della gente. Persino il bar. Restavamo solo io, lui e Ofelia. Il ragazzo aveva appoggiato la testa al mio braccio e bagnato il parka singhiozzando, per un po’ la macchia di sangue si era confusa con il suo dolore. Eravamo rimasti così, avvinghiati e maldestri.

Ofelia aveva preso la chitarra e, delicatamente, aveva cominciato a cantare la sua canzone.

Regent’s Canal

Se c’è un libro con cui mi viene più facile spendere un paragone, questo è Sofia si veste sempre di nero di Paolo Cognetti. Al pari della raccolta pubblicata nel 2012 da Minimum Fax anche qui il personaggio principale funge da raccordo, lo strumento attraverso cui riusciamo ad indagare più i sentimenti di chi le ruota attorno che quelli di lei stessa, una figura sfuggente di cui abbiamo raramente la possibilità di indagare i segreti. Ofelia è una calamita, tutte le persone che entrano nella sua orbita faticano a staccarsene, dall’amica Chiara, innamorata non ricambiata, alla sorella Marie, legata da un rapporto simbiotico come i pappagallini inseparabili. Proprio gli animali assumono grande importanza nelle storie, a volte simbolici come i cavalli dei caroselli che un’Ofelia quarantenne costruisce per lavoro, più spesso reali, come i fenicotteri che nel rapporto con l’energica Adamare assumono un’aura misteriosa che non viene sciolta.

Fra tutti i racconti pubblicati su riviste da Grigolo quello che preferisco è probabilmente Dei gabbiani stanno morendo, pubblicato sul numero 36 di ‘Tina. In quella storia ci sono molte delle caratteristiche che rendono Temevo dicessi l’amore così affascinante: dialoghi asciutti, personaggi realistici, qualche elemento soprannaturale e, soprattutto, una tensione sotterranea che rimane costante. Mischiando sapientemente questi elementi i quattordici racconti, o capitoli se li si vuol considerare così, riescono a creare un’atmosfera misteriosa che rende il risultato globale maggiore della somma delle sue parti, perché se è difficile tirare le fila tra presenze fantasmatiche, segreti che rimangono tali e rapporti che risultano enigmatici anche a chi li vive, è innegabile che di ottenere risposte chiare si riesce ben presto a fare a meno.

«Perché i cavalli?» Chiede Maddalena.

«La domanda giusta credo sia: “Perché i cavalli da carosello?»

«Ok.»

«Guardali. Sono sempre al galoppo ma in realtà sono immobili, non vanno da nessuna parte, non possono. Gli si crea l’illusione di correre facendoli girare intorno a una pedana, cavalcati da bambini. Girano all’infinito senza mai muoversi. Non ho mai visto niente di più rassegnato e inconsapevole.»

«Sono come te?»

«No, io posso andare dove voglio. Loro no.»

Maddalena si avvicina di un passo. Si spostano delle ombre e con le ombre gli equilibri.

«Loro sono delle cose, Ofelia. Cose che non decidono.»

«Noi decidiamo? Possiamo davvero farlo? Allora questi cavalli sono meglio di me, perché non riescono a sbagliare.»

Ecco qualcosa di riduttivo

Recentemente è uscito un libro dello scrittore e docente Gianluigi Simonetti che si intitola Caccia allo Strega, in cui l’autore analizza i libri candidati al famoso (o famigerato) premio negli ultimi venti anni per desumerne l’identikit del “libro da Strega”. Una delle caratteristiche, come ho appreso da questa puntata del podcast Comodino, è la scrittura paratattica, frasi brevi e poco complesse che risultano più digeribili per il lettore, una scelta stilistica che spesso è dettata da motivi commerciali e di “posizionamento strategico”. Anche Grigolo è un paratattico (pure Hemingway, come ci tengono giustamente a precisare le autrici del podcast), ma Temevo dicessi l’amore è tutto tranne che un libro furbo o semplice: anzi, è nel suo apparente disinteresse a farsi comprendere appieno che risiede molto del suo fascino, perché quando si ha qualcosa da dire e si sa come dirlo non servono formule, basta la sincerità dell’autore che emerge da ogni parola.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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