Il mio avvicinamento alla musica ha attraversato varie tappe, alcune di cui vado fiero e altre meno. Il me bambino aveva eletto ad esempio Liberi liberi di Vasco Rossi a sua canzone preferita, da preadolescente passai alla musica da discoteca della Deejay Parade mischiata coi Queen del Greatest Hits II (ma sfuggii con orgoglio alle canzoni da spiaggia del campo estivo, che significava A) spiaggia del Ticino, mica il mare B) La canzone del sole e Albachiara ripetute ogni tardo pomeriggio: Vasco per fortuna smise di piacermi proprio lì, Battisti purtroppo o per fortuna l’ho sempre tenuto lontano per lo stesso motivo), tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori feci il salto di qualità (almeno all’interno del palinsesto di Radio Deejay), scoprii la Rock Hit e, con essa, il grunge. Fu un momento fondamentale, mi sembrava di essermi affacciato a un mondo “adulto” quasi da comunità segreta (la famosa comunità segreta della musica che vendeva un sacco e passava su Mtv, quanta ingenuità. Del metal ai tempi pensavo ancora che fosse musica per gente estrema che, se non faceva sacrifici umani, poco ci mancava: guardavo con timore e venerazione i manifesti di Iron Maiden e Metallica in camera di mio cugino, con cui ora lavoro in fabbrica), e a quell’impressione contribuirono particolarmente due video: quello di Black Hole Sun dei Soundgarden, con tutte quelle facce strane e il vortice che alla fine si porta via tutti, e quello di Heart-Shaped Box dei Nirvana, malatissimo collage di immagini che per il me di allora avrebbero potuto valergli la scomunica. Col tempo sarei passato oltre, dai boschi del Nord-Ovest ai deserti Stoner del Sud-Ovest, per poi cominciare a scavare nei meandri della musicachenormalmentenonsiinculanessuno, ma in tutto questo girovagare mi soffermai poco su una scena fondamentale per la musica indipendente d’oltre oceano (e non solo): quella che gravitava, e tutt’ora gravita, intorno a Chicago e alla Touch & Go, storica etichetta che ha fatto da culla a movimenti post-hardcore, noise, math-rock e industrial seminali per tutte le generazioni a venire. Come ideale e tardivo omaggio alla mia formazione musicale, e anche come sorta di messaggio di scuse alla scena di Chicago tutta, il racconto di questa settimana si ispira a una canzone scritta da colui che registrò In Utero dei Nirvana e che di quella scena è un guru sia a livello produttivo che musicale: quell’uomo è Steve Albini.
Riassumere l’importanza di Steve Albini nel panorama musicale odierno è impossibile in poche righe, si può andare solo a toccare parte di ciò che è stato e che ha fatto. Musicista dallo stile inconfondibile, con una chitarra tagliente e metallica e una voce urlata e abrasiva, in carriera ha prima fondato i Big Black nel 1982, rimasti in attività il tempo di registrare due album e influenzare un sacco di musicisti col loro miscuglio di noise, hardcore e industrial, quindi i Rapeman e infine, nel 1992, gli Shellac, band con cui ancora è in attività. Il primo album con la nuova band, formata insieme a Bob Weston al basso e Todd Stanford Trainer alla batteria, arrivò nel 1994 dopo due Ep: At Action Park porta nella musica di Albini un ulteriore elemento distintivo, il germe geometrico da cui esploderà il math-rock (che, in maniera diversa, cresceva già anche a Los Angeles coi Tool), stile che contraddistinguerà una larga fetta della scena di Chicago, dai Don Caballero ai June of ’44. Gli Shellac hanno al momento all’attivo sette album, un numero esiguo in confronto agli anni di permanenza sulle scene ma figlio di una precisa scelta: in netto contrasto con la voracità dell’industria discografica, Albini e soci registrano quando possono/vogliono (anche in base agli impegni lavorativi), gestiscono ogni aspetto della band in totale indipendenza (dai tour al merchandising, sulla scia dei Fugazi), privilegiano il vinile al cd e appaiono sulle scene quando hanno veramente qualcosa da dire. Steve Albini è una di quelle figure talmente famose che è incredibile come riesca a essere anche fieramente coerente con le sue scelte anti-establishment: non guadagna royalties dai dischi che ha inciso (di gente del calibro dei già citati Nirvana, Foo Fighters, Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Neurosis, Sonic Youth e pure gli italiani 24 Grana, Zu e Uzeda), ha scritto un libro nel 1993 contro l’industria discografica (The problem with music, di cui potete avere un assaggio qui), si è favorevolmente espresso verso il download gratuito e, particolare più bizzarro ma condivisibile, ha dichiarato di non voler mai incidere canzoni pop perché la ritiene “musica per bambini e idioti”.
Riding Bikes, la canzone che ho scelto come base del racconto della settimana, arriva dall’album del 2014 Dude Incredible e mi ha colpito per la vividezza con cui, in pochi minuti e con poche righe di testo, riesce a evocare un’atmosfera di difficoltà, scelte difficili e disagio. Cantore dei lati più disumanizzanti della società (coi Rapeman incise un Ep, Budd, la cui title track è una cronaca del suicidio in diretta del senatore repubblicano Budd Dwier), spesso veicolati attraverso esperienze autobiografiche, Albini coi suoi sodali mi ha portato con la mente in una periferia degradata, vista attraverso gli occhi di un gruppo di adolescenti a un passo dal perdere la propria strada, una storia che ho deciso di narrare con meno enfasi possibile per rendere giustizia a un brano che si concede emozioni forti solo nelle urla e distorsioni finali: lo trovate qui sotto, subito dopo il brano, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Tre pietre
C’eravamo solo io e Ted quel giorno, a ciondolare in bici per il quartiere, con tre pietre pronte per il Ratto, quello onesto, che ci aveva inguaiato per l’ultima volta.
Tic non era potuto venire. Aveva un braccio ingessato, non ce l’avrebbe fatta a lanciare e comunque aveva troppo male dappertutto per riuscire a pedalare. Ce l’aveva detto, Tic, che del Ratto non dovevamo fidarci, ma il mio vicino diceva che di quelli come Tic, che facevano versi strani e schioccavano le dita quando erano agitati, c’era da fidarsi anche meno.
Il mio vicino era cinque anni più grande di noi, aveva la moto e fumava erba davanti agli adulti. Mica potevamo non credergli, ma quella volta Tic non sparava cazzate.
Il Ratto doveva fare il palo. Eravamo entrati al minimarket con la grassona alla cassa, andavamo sempre quando c’era lei perché era mezza rimbambita e non si accorgeva di niente, ma con gli altri clienti era un’altra storia. Lui ha fatto il bravo, non ci hanno mica beccato lì, ma quella merda dopo si è preso male e ha confessato tutto alla mamma.
A Ted andò di lusso, lo misero solo in punizione per due settimane. A me papà ne diede tante con la cinta. A Tic il padre lo lanciò giù per le scale. Era uno che ci teneva alla reputazione, diceva che la sua era una famiglia perbene, ma se lanci tuo figlio giù per le scale io penso che magari delinquente non lo sei ma una merda sì, ed è inutile che cerchi di convincere gli altri del contrario.
La colpa vera comunque era del Ratto, lo sapevamo tutti. Lo sapeva anche lui, infatti era scappato subito dopo le lezioni. Noi ce ne siamo fregati della punizione, a scuola non potevamo fargli niente ma fuori era un’altra storia. Non poteva passarla liscia.
L’abbiamo cercato alla sala giochi, nella baracca fra i campi dove i ragazzi più grandi nascondevano i giornalini porno. Sapevamo che non era andato a casa, più a lungo scappava e più ne avrebbe prese. Era già quasi sera quando lo trovammo, sull’altalena nel parco. Non vedevo l’ora, perché a pedalare il maglione mi sfregava contro le croste sulla schiena. Papà la cinta la usava dalla parte della fibbia quando doveva farmela pagare cara.
Il Ratto non cercò neanche di scappare. Iniziai io a lanciare, perché avevo due pietre, una per me e una per Tic, a casa col braccio ingessato. Lo presi sulla gamba, così anche volendo non poteva più scappare. Ted fece un tiro da mammoletta, sfiorandogli un braccio. Era troppo gentile, Ted. Chissà se lo è ancora.
Non glielo avevo detto, ma all’ultima pietra avevo attaccato delle lamette da barba con la colla. Mentre mettevo la mano nella tasca del giubbotto potevo sentire i pezzi di lana che si erano staccati. Doveva averceli anche lui dei segni.
Tirai l’ultima pietra. Potevo ben capire che ci sarebbero state conseguenze, ma non mi importava. Lo presi in piena faccia. Rimanemmo non so quanto ad aspettare che si alzasse, mentre attorno faceva buio e i nostri genitori preparavano punizioni che avremmo rimpianto, da quel momento in poi.
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