La società non avrà fretta di riconoscerci un’autorità. Essa è destinata a opporci resistenza perché noi abbiamo un atteggiamento critico nei suoi confronti: noi le dimostriamo ch’essa stessa svolge un’importante funzione nella causazione delle nevrosi. Nello stesso modo in cui ci rendiamo nemico il singolo scoprendo ciò che in lui è rimosso, così anche la società non può rispondere con cortese accoglienza alla spregiudicata messa a nudo delle sue insufficienze e dei danni che essa stessa produce.
Sigmund Freud, Le prospettive future della teoria psicoanalitica
Queste parole di Freud sono meno famose del suo “non sanno che gli portiamo la peste”, pronunciato allo sbarco negli Stati Uniti, ma sono altrettanto profetiche, non tanto per l’opposizione della società alla psicoanalisi quanto per le correlazioni fra nevrosi e terreno sociale.
Pensare di vivere in un periodo peggiore di altri è un atteggiamento che si può riscontrare in qualsiasi altro periodo storico. Già l’anonimo autore del papiro egizio codificato come Berlino 7024 lamentava “A chi parlerò oggi? I fratelli sono malvagi. Gli amici non sanno amare. I cuori sono avidi”, ed è vissuto duemila anni prima di Cristo. Anche nel Giappone feudale, in preda a grandi cambiamenti, si pensava che la tempra degli uomini fosse peggiore di quella degli antenati: Yamamoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, rispondeva a queste critiche in maniera esemplare.
Lo spirito di un’epoca è qualcosa a cui non possiamo tornare. […] È importante trarre il meglio da ogni generazione.
L’errore di chi ha nostalgia del passato sta nel fatto che non afferra questo principio.
Ma coloro che mostrano considerazione solo per la realtà attuale, ostentando disprezzo per il passato, appaiono molto superficiali.
Yamamoto Tsunetomo, Hagakure
Fra il pessimismo dell’anonimo egiziano e il solo apparente ottimismo di Tsunetomo (monaco ed ex samurai che, per inciso, avrebbe preferito il suicidio rituale a una vita non al servizio del proprio daymio) c’è un mare di sfumature. Idealizzare il passato serve a poco, ma una fede cieca nel progresso della società moderna può essere altrettanto deleteria.
Due libri mi hanno fatto molto riflettere su come la società può incidere sulla vita dei singoli, sui meccanismi a cui siamo asserviti e che cambiano la nostra percezione dell’altro: sono Il nostro desiderio è senza nome di Mark Fisher e Hikikomori – I giovani che non escono di casa di Marco Crepaldi.
Capitalismo e disturbo bipolare

Mark Fisher è stato uno scrittore e critico culturale inglese. Attraverso il suo blog K-punk ha parlato di musica, cinema, cultura in generale e, spesso e volentieri, società. Il nostro desiderio è senza nome, edito da Minimum Fax, raccoglie tutti i suoi scritti politici apparsi nel blog, ed in particolare è una lucida e spietata critica del capitalismo e dei movimenti politici che gli hanno permesso di infiltrarsi in ogni ambito delle nostre vite.
L’attuale ontologia dominante esclude ogni possibilità di causa sociale della malattia mentale. La biochimizzazione della malattia mentale è ovviamente legata a doppio filo alla sua de-politicizzazione. Concepire la malattia mentale come un problema biochimico individuale offre enormi vantaggi al capitalismo: innanzitutto rinforza la spinta del capitale verso l’individualizzazione atomistica (se sei malato dipende dalla chimica del tuo cervello), in secondo luogo crea un mercato enormemente redditizio che permette alle “psicomafie” multinazionali di spacciare i loro loschi farmaci.
Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome
Ho trovato particolarmente interessante le sue correlazioni fra disturbi bipolari e società capitalistica. In un mondo in cui il lavoro si è fatto sempre più precario il tempo “cessa di essere lineare, diventando caotico e puntiforme”. L’impossibilità di pianificare un futuro ci attanaglia, e in casi estremi si può arrivare a esempi come quello dell’autore di Non-stop inertia Ivor Southwood, citato nel libro, che nel periodo in cui viveva di contratti a breve termine offerti all’ultimo minuto da agenzie interinali si è visto rimproverare la negligenza di essere andato per dieci minuti al supermercato, perdendo in quel lasso di tempo un’opportunità di lavoro: nelle sue stesse parole “dieci minuti sono un lusso che il lavoratore giornaliero non si può permettere”.
Fisher nei suoi articoli parla di questa condizione utilizzando il termine privatizzazione dello stress, una condizione di isolamento che, paradossalmente, è acuita dalla continua connettività e dalla mole di informazioni che abbiamo a disposizione, che ci appare indispensabile processare in un mondo in cui la competizione è serrata. Soluzioni come il “volontarismo magico”, ovvero l’assicurazione che se non abbiamo successo è solo perché “non abbiamo lavorato abbastanza duramente per rimettere insieme noi stessi”, sono anche peggio della cura, perché amplificano l’individualismo dei soggetti. Da qui si arriva al concetto di Solidarietà negativa, preso a prestito da Axel Williams, un modo di pensare che ci permea e ci porta a guardare gli altri come avversari da abbattere o, al massimo, sfruttare per i propri fini.
Si tratta della tendenza dei soggetti neoliberisti alla “corsa al ribasso”. Se altri vengono percepiti come beneficiari di risorse e sussidi che “non si sono meritati”, bisogna non soltanto negarglieli, ma mortificarli pubblicamente per il fatto di esigerli. Tutti devono “camminare con le proprie gambe”.
Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome
La società capitalistica moderna, secondo Fisher, ci ha portati ad indurirci come individui per far fronte al graduale abbandono istituzionale ed esistenziale. Il futuro è “un ambiente dominato da competizione e insicurezza perpetua”, in cui fidarsi degli altri è una debolezza che non ci possiamo permettere.
La pressione della società e gli hikikomori

Questo concetto di società in cui la competizione è esasperata e la solidarietà ai minimi storici si lega a doppio filo col secondo libro di cui voglio parlare. Hikikomori – I giovani che non escono di casa, scritto dal fondatore dell’associazione Hikikomori Italia Marco Crepaldi e pubblicato da Alpes, è un’accurata indagine di un problema sociale che, sebbene radicato principalmente in Giappone, ormai investe tutte le società capitalistiche.
L’hikikomori può essere allora interpretato come una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società economicamente sviluppate.
Marco Crepaldi, Hikikomori – I giovani che non escono di casa
Il fenomeno degli hikikomori si fece strada in maniera sotterranea dagli anni 70-80, all’interno di una società che non ci teneva a far vedere quali potevano essere gli effetti collaterali del proprio modello di successo. Fu una pubblicazione del giovane psichiatra Takami Saitõ nel 1998 ad aprire gli occhi sul problema dei giovani che, senza apparenti motivi, decidevano di autorecludersi e limitare quasi totalmente le proprie relazioni fisiche con l’esterno.
Nella società giapponese, dove l’identificazione col gruppo di appartenenza è essenziale nella formazione della propria identità, una delle cause principali fu la pratica nelle scuole dell’ijime, consistente nel tormentare ed escludere gli elementi più deboli della classe. Se è difficile immaginare come una pratica simile, non distante dal bullismo nostrano, possa aver portato a danni così grandi (i primi dati resi pubblici dal governo giapponese, nel 2010, parlavano di 696 mila casi), è più facile pensare a come possano incidere su menti fragili le pressioni che noi stessi subiamo costantemente.
Il capitalismo si basa sulla domanda e sull’offerta e, di conseguenza, sulla capacità di accaparrarsi i beni disponibili attraverso una migliore performance. Questo tipo di meccanismo può portare solo in una direzione, ovvero a un progressivo innalzamento dell’asticella e quindi delle competenze richieste per far parte del sistema. Tutto ciò si traduce in una competizione scolastica, lavorativa e sociale sempre più feroce dove a farne le spese sono coloro che non riescono a trovare la forza o la motivazione per tenere il passo, venendo di conseguenza lasciati dietro.
Marco Crepaldi, Hikikomori – I giovani che non escono di casa
Crepaldi trova tre motivazioni per l’impulso all’isolamento fisico che contraddistingue gli hikikomori. Uno è prettamente economico, in quanto chi si isola difficilmente è in grado di badare a se stesso se non con l’aiuto dei genitori, uno sociale, spiegato dal paragrafo soprastante, e un terzo che invece riguarda il fatto che nella società del benessere i bisogni primari sono garantiti: l’attenzione si sposta maggiormente quindi sulla realizzazione personale, una necessità che ribalta la Piramide di Maslow diventando spesso il nostro bisogno primario.
Rispetto al libro di Fisher quello di Crepaldi è, per ovvi motivi, più interessato a proporre un’analisi globale del fenomeno e sondare le possibili soluzioni, ma i punti in comune sono molti. L’aumento del numero di depressi osservato dall’OMS, del consumo di psicofarmaci anche fra i giovani, la mancanza di un tessuto sociale che dia un senso all’esistenza (cui contribuisce il crollo delle religioni) fanno parte del problema comune che i due libri affrontano.
C’è molto altro nei due libri rispetto ai pochi estratti che ne ho estrapolato, ma quanto qui scritto spero porti a una riflessione profonda, a cui voglio aggiungerne una personale. Mai come oggi siamo bombardati di notizie, e tutto questo ci sbatte in faccia quotidianamente quanto e come i comportamenti che teniamo incidono sul nostro futuro. Inquinamento, disparità sociale, discriminazione: per quanto facciamo, nel nostro piccolo, avere le mani pulite è possibile solo in una società completamente riformata. A questa pressione c’è chi sfugge con l’atteggiamento contrario, ostentando il proprio disinteresse quasi fosse un merito, una forma di autodifesa che si amplifica tanto più i nostri errori vengono ritenuti imperdonabili. Non dovremmo usare la nostra fallibilità come scusa per sentirci legittimati a fare quel che vogliamo, ma semplicemente farci pace e fare del nostro meglio: come Sartre fa dire al personaggio di Anny, all’interno de La nausea, “ciò che sarebbe sciocco sarebbe di essere sempre stoici: ci si esaurirebbe per niente”.
La ricodificazione di una società intera è un processo lungo e difficile, di cui si fa fatica anche a gettare le basi, ma il rapporto con l’altro è qualcosa che invece possiamo modificare giorno per giorno, partendo dalla nostra cerchia ristretta. Non sono in grado di dire se stesse meglio l’anonimo egiziano che scrisse il papiro quattromila anni fa o un giovane soggetto alle pressioni sociali del mondo moderno, certo ci troviamo in un contesto sociale in cui l’individuo è sempre più isolato: è necessario almeno fare il possibile per non ampliare questa distanza interpersonale.
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2 pensieri riguardo “Solidarietà negativa e hikikomori: come la società moderna incide sulla sanità mentale.”