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Racconto in musica 52: Senza testa in giro mica ci si può andare (P.A.Y. – La sindrome dell’arto fantasma)

Per ogni vero appassionato di musica esiste un aneddoto sul primo concerto, possibilmente di qualche grande artista visto grazie a un parente prossimo che, in questo modo, ne ha influenzato i gusti. Un mio amico, ad esempio, a undici anni si è visto Pink Floyd ed Elio e le Storie Tese nello stesso concerto grazie al fratello. Io invece ho aspettato i diciotto anni per vedermi i Punkreas al Castello di Vigevano, e già mi sentivo un miracolato: fra i miei amici di allora non è che la musica fosse tenuta in gran conto, a parte quella da discoteca più becera che si poteva ascoltare, tanto che uno col rock arrivava al massimo ad accettare Bryan Adams e considerava i Litfiba già metal estremo. Poco tempo dopo il mio “battesimo del fuoco” della musica provai comunque a portare parte della mia compagnia a un concerto, sempre nel pavese, in un piccolo pub che non dirà un cazzo a nessuno per cui è inutile nominarlo (anche perché non me lo ricordo, ma era nella frazione di Bozzole): suonava una band che avevo ascoltato mille volte sulla mitica Radio Lupo Solitario del varesotto (fra notevoli difficoltà visto che la ricezione non era il massimo, giuro che una volta ho avuto difficoltà a prendere la frequenza anche nel parcheggio a pochi metri dalla sede), io ero gasatissimo ma i miei amici dimostrarono meno entusiasmo. Molto meno. Ce ne andammo prima della fine (non eravamo neanche con la mia macchina), e in quel momento passando di fianco al palco (che probabilmente era una porzione libera di pavimento) decisi che la prossima volta piuttosto ci sarei andato da solo, ma non avrei mai più abbandonato un concerto prima della fine. Così feci, e oggi posso fregiarmi di aver recuperato notevolmente quel primo concerto dei P.A.Y. abortito sul nascere, dato che li ho visti qualcosa come sessantotto volte (o giù di lì): questo è un pezzo sulla mia band preferita di tutti i tempi, per cui non aspettatevi dell’imparzialità.

Usciti da quel calderone punk del varesotto che ha fatto la storia fra la fine degli anni ’90 e i primo anni 2000 (e non avete idea di quanto fosse ampio il calderone se non eravate di quelle parti, che a me ai tempi sembravano lontane anche se ero nel novarese), i P.A.Y. (acronimo che negli anni ha significato le cose più disparate, da Post Atomic Youth a Provate aMMore Ynutile a Poveri Artisti Yncompresi) lottano e resistono con noi da più di venticinque anni nel nome dell’aMMore, del rock’n’roll e dell’autoproduzione. Parlare della loro discografia in termini di numeri è riduttivo per una band che al terzo album aveva già inciso un The best (anzi, The very best of the rarities of the origins of the band), che ha pubblicato un “music horror metraggio” ispirato al racconto L’epidemia di Alberto Moravia (Virus) e una rock opera con tanto di Roberto “Freak” Antoni nei panni del dittatore (Federico Tre e il Destino Infausto). Per dire cosa sono i P.A.Y., e cosa sono per me, servirebbe parlare per ore di mille invenzioni tirate fuori dalla testa di Ariele “Mr. Grankio”, leader della band dalla sua formazione e inventore del Barattolo dell’aMMore, mezzo di sostentamento per l’autoproduzione e veicolo di propaganda per “cercare l’ynutile che è in te, prima che sia troppo tardi”, al cui fianco dal primo disco ufficiale Potevate Anche Ynvitarci c’è il basso di Mr. Pinguino (idolo della folla a cui riserviamo sempre dei cori). Negli anni si sono avvicendati altri componenti, soprattutto alla batteria (vale la pena ricordare Post Atomic Teo, ovvero l’unico e insostituibile Mr. Tortuga, e Fleiv Bergamasco, detto semplicemente Il batterista, che ha avuto l’onore di un Barattolo dell’aMMore dedicato), tra cui il frontman e indiscusso uomo immagine dell’aMMore Mr. Vulvino, idolo delle masse nelle sue tutine di latex o in mutande di pelo rosa con la sua faccia stampata davanti (dopo uno striptease partito con addosso una maglietta degli East 17) e gli Operai del rock’n’roll che raccolsero la sua eredità, insegnando tramite cartelli al pubblico come ci si comporta ad un concerto rock e animando, nei panni del ribelle e del federiciano, i tour di Federico Tre e il Destino Infausto…I tour, perché i P.A.Y. lo riportarono in scena al decennale, non una di quelle mere operazioni nostalgia che vanno tanto di moda ma uno spettacolo in costume con cui commemorare anche l’amico Freak Antoni, per sempre nei nostri cuori.

Un operaio del rock’n’roll, vestito da federiciano, dona confetti al pubblico mentre io dietro sembro strafatto

Da quel caos che ho scritto sopra non so quanto avrete capito della band, se non che dal vivo sono quanto di più coinvolgente e folle io abbia mai visto in vita mia: palloncini lanciati fra il pubblico, stage diving (hanno anche organizzato due concerti a tema, da uno dei quali sono uscito con un orecchio scassato perché prima delle riprese sono finito contro i piatti della batteria facendo un circle pit), partecipazione attiva del pubblico, un barattolo dell’aMMore gigante a ballare sul palco, autoscatti e chi più ne ha più ne metta. Elio e le storie tese che incontrano i C.C.C.P. (non a caso fra gli ospiti illustri nei loro dischi ci sono stati Rocco Tanica e l’Artista del popolo Danilo Fatur, indimenticabile voce lasciva su Autoscatto dell’aMMore), ma con una personalità definita e una filosofia che mi ha influenzato nella vita, seguendo i dettami stampati sul mitico Barattolo e trovando verità profonde nei testi, che sotto la patina cazzara da punk band che mira a divertire mostrano una notevole profondità. I P.A.Y. sono mille ricordi, da quella volta in cui ho indossato il costume da Barattolo sul palco a quella volta che ci ho suonato un paio di pezzi (due giorni dopo sarei partito per una vacanza a nuoto da cui non sapevano se sarei tornato, probabilmente era il modo per salutarmi definitivamente), quando ho suggerito i testi ad Ariele e quando, trovandomi a cantare sotto le transenne assieme a un altro, ci siamo divisi una bottiglia di vino in quanto uniti dalla stessa passione (e ricordo di quella sera anche la band di supporto, i 127 sport, che davvero io vorrei riuscire a sapere che fine hanno fatto), quando li ho visti suonare alle due di notte al centro sociale di Novara dopo una serie di band una più folle dell’altra e quando, pentendomene a vita, sono andato a vedere gli Offspring mentre loro suonavano al Circolone di Legnano. Uno degli ultimi concerti pre-pandemia che ho visto era il loro, di supporto al tour del quarantennale degli U.K. Subs al Circolo Svolta di Rozzano, durante il quale hanno presentato l’ultimo parto creativo che, come spesso gli è capitato, era in anticipo sui tempi: Va proprio tutto bene, un monito che da lì in avanti avremmo sentito ripeterci in mille versioni diverse e futuribili, e sempre in anticipo sui tempi realizzarono anche un video che già preconizzava i concerti come siamo stati costretti a vederli finora, senza pubblico. Una mossa del genere potevano azzeccarla solo quelli che sono riusciti ad apparire tanto su un libro commemorativo di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band che sul giornale di Selen, un gruppo senza tempo che sarà lì ad aspettarci, divertirci e farci pensare anche dopo questo periodo in cui il pogo e la condivisione di un live sembrano miraggi lontani.

Josh Homme e Nick Oliveri, quando ancora il barattolo dell’aMMore li teneva insieme nei QOTSA

Avevo solo l’imbarazzo della scelta fra i brani dei P.A.Y., canzoni a cui sono affezionato per i più disparati motivi. Alla fine ho scelto uno dei brani più recenti, La sindrome dell’arto fantasma (dal disco Canzoni per gente che non si fa più), che è già una storia di per sé, quella di un innamorato che cerca di farsi togliere l’amata dalla testa per potersi di nuovo ascoltare in santa pace tutte le canzoni che gliela ricordano: io ci ho aggiunto solo un killer sui generis e il suo punto di vista sulla questione, tutto qua. Potete leggere il racconto subito dopo il link alla canzone, e se volete farmi un favore a pandemia finita venite a un loro concerto, fidatevi di me: fino ad allora, come al solito, buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Senza testa in giro mica ci si può andare

Mi capita di rado di rifiutare un lavoro, ma come diceva chi mi ha insegnato il mestiere “se non puoi farne una questione di morale, almeno appellati alla deontologia professionale”. Così gliel’ho detto, a ‘sto ragazzo che sembrava c’avesse il demonio in corpo, che io mica potevo farlo quello che mi chiedeva.

Non è neanche perché era passato dalla polizia prima di venire da me, sarebbe stato un collegamento scomodo ma di certo lo avevano preso per pazzo pure loro. Il problema vero è che mi chiedeva di sparargli nel cranio, ma non di ucciderlo: Voglio solo che me la togli dalla testa, mi ha detto, e io sarò pure bravo quando si tratta di togliere di mezzo qualcuno ma mica potevo assicurargli cosa si sarebbe ricordato e cosa no dopo avergli piazzato un proiettile nel cervello. Gliel’ho detto chiaro e tondo, posso far fuori lei o posso far fuori te, ma la prima ipotesi l’ha spaventato e la seconda non ha manco ascoltato quando gliel’ho proposta. Se non altro è un buon segno, almeno per lui: si vede che non è proprio così disperato.

Tutto ‘sto casino per cosa, poi? Potersi riascoltare le canzoni che le aveva dedicato senza starci male, ecco quello che voleva, o almeno è quello che mi ha detto. Non mi sono messo a ridere perché sono un professionista, ma gliel’ho fatta capire: Scordatele, gli ho detto, un giorno ti scorderai anche di lei e ti innamorerai di nuovo ma quelle canzoni non ci riuscirai mica a dedicarle a un’altra. Chissà che risate si sarebbe fatto chi mi ha insegnato il mestiere, a sentirmi parlare d’amore.

Alla fine se n’è andato, ci ho perso un guadagno ma almeno la faccia l’ho salvata. Ho una reputazione da difendere, non ci tengo a rovinarmi la piazza rischiando che si sparga la voce che vendo le mie competenze al primo matto che passa. Però mi è dispiaciuto non potergli dare una mano, era tutto mogio e abbacchiato. Mi ha ricordato il mio fratellino, che non vedo da anni, chissà se è ancora lo stesso ingenuo di una volta o se si è fatto un po’ più furbo.

La vita ti indurisce, e non c’è canzone d’amore che ti possa aiutare ad affrontarla meglio. Possiamo sperare che vada tutto bene, ma tanto arriva sempre qualcuno che fa la guerra perché si è rotto i coglioni della pace, ed è solo lì che ci accorgiamo di quanto era bello il mondo prima che qualcuno lo rovinasse per potere o per noia. Bisogna farci il callo a ‘ste cose, imparare a gestire il dolore e i brutti ricordi anche se poi hai lo stesso l’impressione che ti manchi qualcosa, come succede a quelli che dicono di sentirsi la mano o la gamba anche se gliele hanno amputate.

Ma almeno loro tirano a campare, a quel ragazzetto in giro senza testa mica ce lo potevo mandare.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

2 pensieri riguardo “Racconto in musica 52: Senza testa in giro mica ci si può andare (P.A.Y. – La sindrome dell’arto fantasma)

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