Racconto in musica 170: Leggende (Vonneumann – el Carinebo)

Questa non sarà un’introduzione come le altre. Questa sarà un’introduzione che, anziché prendersi un sacco di spazio per introdurre un contesto che, la stragrande maggioranza delle volte, finisce per essere totalmente alieno alla questione di cui si finisce a parlare (nonché foriero di perdite di tempo da parte vostra, che potreste occupare il tempo in maniera molto più utile, giocando, che so, a palla corda, e questa parentesi ha fondamentalmente l’unico scopo di farvene perdere ancora di più. Giocate a palla corda!), si prenderà TUTTO il tempo. Sarà un’introduzione che non introdurrà la band della settimana, perché non ci sarà l’approfondimento, solo l’introduzione, e l’introduzione introdurrà (e parzialmente anche presenterà) il mio rapporto con la band in questione, ovvero i romani Vonneumann.

Anni fa, per la precisione nel 2014, ricevetti in via del tutto digitale e senza che ricordi minimamente né come né perché un disco che non sapevo come recensire. Non era il primo disco ostico e indefinibile che ricevevo, me ne erano già capitati a bizzeffe, ma era il primo disco ostico e indefinibile che mi piaceva così tanto da voler trovare a tutti i costi il modo di far capire alla gente che avrebbe dovuto ascoltarlo: era Il de’ blues dei suddetti Vonneumann, un’entità astratta e sperimentale formata da sette brani che, lo avrei scoperto solo in seguito, era probabilmente l’album più accessibile della loro intera discografia, ma che al momento a me parve alieno e terribilmente coinvolgente. Provai a recensirlo e ne cavai fuori, in un afflato di metamusicalletteratura che manco Charlie Kaufman nei suoi giorni migliori (il risultato potrebbe non essere lo stesso), la descrizione del disco come se fosse la colonna sonora di un film noir stereotipato, ovvero questa cosa qui: ne vado molto orgoglioso, a torto o a ragione, e a loro piacque, tanto che iniziai una corrispondenza con l’allora bassista della band, oggi batterista (e anche mille altre cose, ammesso che si possano rigidamente delineare i ruoli all’interno di un’entità come Vonneumann), Fabio Ricci.

Nel frattempo quella strana storia stereotipata che avevo creato per la recensione iniziò a mutare nella mia testa. Mi chiesi (probabilmente): cosa può esserci di più contorto di una vicenda creata solo per descrivere un disco? Risposta: un romanzo scritto a partire da quella vicenda in cui il protagonista si rende conto di essere il protagonista di un romanzo. La scrissi, mantenendo la struttura di quella recensione per quel che riguarda la trama generale e ficcandoci dentro tutti gli stereotipi noir che mi venivano in mente (l’investigatore privato alcolizzato, la femme fatale a cui è stato ucciso il marito, il commissario in pensione che fa da mentore al protagonista, il locale orientale che dietro ha una bisca clandestina, il bar dove si sbronzano i protagonisti col barista scostante ma loquace…), oltre a momenti in cui l’investigatore si ritrova a percepire chiaramente che non ha il controllo degli eventi e che probabilmente è solamente un burattino nelle mani del narratore. Una volta finito, non ricordo né come né perché (quanti buchi in questa storia! Ma son passati gli anni, portate pazienza), inviai il risultato a Fabio: lui non solo lo lesse, ma fece anche appunti puntuali ed approfonditi su cosa gli piacque, cosa detestò (le sua analisi sono tanto lucide quanto dirette e senza fronzoli) e cosa avrebbe cambiato. Da allora quello pesudoromanzo (che per lunghezza potremmo al massimo definire una novella, mi sa) dorme in un angolo del mio computer, in attesa paziente di un momento di gloria che potrebbe non arrivare mai. Ma.

Ma nel frattempo quell’idea di storia stereotipata noir, quel germe strano (e probabilmente non così originale) che mi si è insinuato in testa porta altri frutti. Il risultato è un brano strumentale della mia band non strumentale di allora, portato live solo una volta e mai registrato, tanto che me ne sono dimenticato persino il titolo: tre movimenti, sullo sfondo lo stesso svolgersi degli eventi e un finale fuzzoso e confuso che lascia spazio a qualche arpeggio malinconico (o così mi pare di ricordare). La canzone ha una breve e mesta vita, con la band andiamo avanti a fare cose e vedere gente (come si suol dire), passa del tempo ed – ehi! – i Vonneumann stanno facendo un nuovo disco! La band romana nel frattempo ha fatto uscire un disco live (Sitcom koan, 2016), creato una propria community attraverso la mailing list MOD N (qui trovate maggiori dettagli, qui potete iscrivervi) e fatto partire il progetto di un disco collaborativo, aperto a contributi di ogni forma e foggia. Io piglio quella canzone e mi dico “vabbé, con la mia band non ci facciamo niente, magari loro trovano il modo di usarla”: Fabio la ascolta e rigetta in toto la struttura (lo dicevo sopra che è molto tranchant, e gli voglio bene anche per questo), ma apprezza il suono fuzzoso e lo inserisce sul finale di questa traccia qui, rimasticato e rigirato fino a renderlo indistinguibile dalla fonte originale. Ma io non mi accontento.

Schemi di composizione di un disco collaborativo

Anche Fabio scrive, e bene. Da lì (non so come, ma so il perché) parte l’idea di scrivere un racconto a quattro mani da allegare al disco, una cosa gestita a step in cui il protagonista imparanoicato viaggia su un treno (l’idea prende spunto da una conversazione avuta sul racconto Il tunnel di Friedrich Dürrenmatt) in cui io mi occupo dei suoi pensieri in prima persona singolare, mentre lui fa la voce della coscienza che, in seconda persona singolare, lo cazzia e riporta alla sua realtà di inettitudine. Ognuno di noi scrive una parte e la manda all’altro, aggiungendo dettagli e minime svolte, ci facciamo vicendevolmente degli appunti (pochi) e dopo qualche mese abbiamo in mano un raccontino da allegare a tl;dl (2017, il cui titolo fa riferimento alla formula “too long; didn’t read” mutandola in “too long; didn’t listen”), disco magniloquente di quattro tracce pensato per la community, creato con la community e dato poi in pasto anche a chi nella community non è a seguito di un sondaggio (indovinate un po’) interno alla community. Ed è così che da una recensione potenzialmente problematica è nata un’amicizia (sono stato a casa di Fabio a cena, mi ha fatto conoscere la sua famiglia e gli voglio un mondo di bene, anche se ci siamo visti tre volte in croce che potrebbero essere addirittura due in realtà), poi una collaborazione e, da subito, un’amore sconfinato per quel progetto assurdo e iperconcettuale che è Vonneumann, che dopo l’uscita nel 2014 del batterista Gabriele Paone è composto da Fabio Ricci (basso, tromba, elettronica, batteria, attivo anche nei dTHEd di cui vi avevamo parlato qui, partendo fra l’altro dalla stessa storia che oggi ho sbrodolato per intero), Filippo Mazzei (chitarra, clarinetto basso e contralto, elettronica) e Toni Virgilito (chitarra, elettronica, violoncello), una band in continua mutazione che riesce a basare un suo disco sui paradossi di Zenone (Switch Parmenide, 2006, Avantgarde Records), descrivere l’album NorN (2017) con termini come “NorN takes inspiration from the infinite possibilities of languages, from the extreme artificial rigor of Ithkuil, to the sinuous beauty of the Codex Seraphinianus, to the lightness of infants’ scribbles, to the mystery of primitive computer AI spontaneously developing new languages to dialogue, but then when you need to print your last document, something goes wrong and you get strings of undecipherable characters like (caratteri indecifrabili)” (Vonneumann è anche poliglotta) e dedicare l’ultimo disco, il decimo di una carriera più che ventennale (che, visto che io non l’ho fatto, potete approfondire grazie a quest’intervista), al JOHNNIAC (2023), il megacomputer che John Von Neumann creò negli anni cinquanta e a cui dobbiamo cose tipo l’articolo che sto scrivendo, gli spippolamenti elettronici sui dischi dei Vonneumann e le IA che, dopo aver sconfitto il campione di Go sudcoreano Lee Sedol, causeranno la nostra estinzione o non ci faranno lavorare più per il resto della nostra vita (il sondaggio è aperto!)

Guarda un po’ i casi della vita: proprio da pochi giorni ho finito MANIAC di Benjamín Labatut, libro consigliatissimo sulla vita del già citato Von Neumann e non solo, cosa che mi ha spinto a riascoltare dopo qualche mese JOHNNIAC decidendo di trarre un racconto da una delle sei tracce. La scelta è caduta su el Carinebo, il brano d’apertura, perché la voce ospite di Ivan A. Rossi (storico collaboratore in sede di produzione e registrazione dei Vonneumann) che snocciola frasi mi ha ricordato la struttura a testimonianze interconnesse con cui Labatut ha raccontato la vita di Von Neumann: da lì mi è partita la flippa di fare la stessa cosa con questo fantomatico el Carinebo, programmatore e pirata, ubriacone e genio, raccontato in brevi frammenti da chi l’ha, per fortuna o per sfortuna, incrociato. Trovate il racconto più in basso, subito dopo il brano che lo ha ispirato: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero e il numero Uno della fanzine di Tremila Battute!

Leggende

«Lo chiamavano el Carinebo. Non so perché. Che io sappia non è mai stato nel sud del mondo, ma quando si metteva a farfugliare ubriaco poteva raccontare tutto e il suo contrario, ticchettando con la mano metallica».

«In ufficio ogni mattina, di solito un’ora prima dell’effettivo inizio della giornata lavorativa, ci riuniva attorno a un tavolo e diceva sempre la stessa frase: Non pretenderò da voi niente di più di quello che pensiate io possa pretendere da voi. Facevamo notte alla scrivania, tutti tranne uno che faceva il giusto e se ne andava come se niente fosse. Concedeva appena l’ora di straordinario al mattino, ma la segnava sempre. Lo tolleravamo perché pensavamo che anche lui lo ritenesse un lavativo, poi un giorno lo abbiamo sentito tesserne le lodi per il suo contributo al lavoro che portavamo avanti e ad un mio collega venne automatico lamentarsi. Lui lo guardò un po’ stupito: Se la macchina funziona, rispose, ogni suo componente è essenziale.

Quando ci hanno arrestato, quello che avevamo sempre visto come un profittatore è stato il primo a rifiutarsi di collaborare con la giustizia».

«Io non l’ho mai visto che dentro quel bar, eppure fuori lo conoscevano tutti. E non intendo nel paese, intendo ovunque».

«Lui non viveva, imitava la vita. Ma la imitava così bene che diventava la versione migliore di chiunque, gli riusciva tutto meglio che all’originale. Avrebbe potuto fare il pirata, il genio informatico o lo scrittore alcolizzato ed è stato tutte queste cose, anche di più. A volte più di una insieme».

«Se ci siamo amati? Penso di sì, alla nostra maniera. Un po’ come si pensa ci possa amare un gatto: ci sono slanci di tenerezza, ma non puoi sapere quanto calcolo c’è dietro. Posso dire che non sono mai stata meglio di quando stavo bene con lui, il che è tanto considerato che ora lo odio».

«El Carinebo, che pezzo di merda. Il mondo non sarà più la stessa cosa senza di lui, per fortuna. Datecene un altro così e siamo fottuti».

«Giravano un bel po’ di leggende attorno a lui, ci affascinavano perché erano cose aliene al nostro ambiente. Una riguardava il suo cane, un bastardino minuscolo con tre zampe. Dicevano che lo avesse trovato al nord, durante il Buio, e che fossero sopravvissuti insieme a una tempesta di ghiaccio in mezzo al nulla. Dicevano anche che la gamba gliel’avesse mangiata lui, e che in cambio gli avesse dato la mano.

Dopo una premiazione a cui eravamo entrambi invitati ci siamo trovati di fianco a cena, una delle rare cene a cui partecipava e una delle rarissime, almeno per il nostro ambiente, in cui anche il più sobrio era quantomeno brillo. Si è creata quella che pensavo fosse una certa intimità, e siccome anche io avevo buttato giù un certo numero di bicchieri gli ho chiesto conto di quella storia. Se era vera, insomma. Lui mi ha sorriso appena, come se pensasse fosse la cosa giusta da fare in quel momento. Ci ho guadagnato io, ha detto. La carne di cane è più buona di quella umana, sia cruda che cotta».

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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