La buona, vecchia gente di una volta, diretta da Christoper Nolan: Gente alla buona di Mattia Grigolo

Una decina di giorni fa ho incontrato, durante un pranzo in compagnia, un’amica che non vedevo da parecchio. Negli ultimi due anni ha cambiato completamente vita: si è trasferita in una frazione di montagna, un paese sperduto di poche case dove ha prima gestito un rifugio, mentre ora si appresta ad aprire una sua piccola società agricola. Produce formaggio (Toma per gli intenditori), ha sei mucche e una di queste, ci ha raccontato, l’ha appena comprata da un allevatore che la picchiava, probabilmente convinto non si sa come né perché che per ottenere latte dalle mucche bisogni fare così. Lei ovviamente ha altri metodi, ed orgogliosamente ci diceva che da quando l’ha comprata quella mucca è rifiorita (e lo so che è un animale e non una pianta, ma è il termine che ha usato lei e mi sembra dolce e poetico, quindi stateci).

Ho raccontato questo aneddoto (non nella sua interezza ma quasi, scusate persone che erano in coda dopo di me) a Mattia Grigolo mentre mi facevo autografare la copia di Gente alla buona, il suo romanzo uscito per Fandango, perché quando la mia amica ce lo ha raccontato io ho pensato subito al paese senza nome, disperso nella Brianza, in cui si svolgono le vicende del libro. A tre quarti della storia, come dettaglio non fondamentale ma emblematico della cura nel creare i personaggi, Grigolo descrive i genitori di uno dei protagonisti in questa maniera:

Mighè vive con i suoi in un angolo del caseggiato. Di lavorare i campi non sono mai stati capaci, non sanno come comportarsi in mezzo al grano, preferiscono star dietro alle bestie. Quando la bestia non ne vuole sapere, non la convinci con le caramelle, come i bambini. Alla bestia gli devi menare e bestemmiare e pure con tutte le botte e le bestemmie, a volte continua a non darti quello che serve. L’Armando in quello è bravo, non si fa intenerire. Quando c’è da tirare calci e pugni, non si tira certo indietro. Forse è una reazione, uno sfogo a quella vitaccia.

Metodo infallibile, quello delle botte e delle bestemmie, così infallibile che si sa già che a volte non funziona. E non sappiamo quante volte non funziona, perché non si dice, non si ammette: il metodo funziona perché si è sempre fatto così. Già solo in un periodo come quello precedente (che va avanti in maniera altrettanto tagliente) è raccolto buona parte del marcio che si può trovare, grattando un poco, sotto la superficie bucolica della mentalità del piccolo paese, quello in cui tutti sanno tutto di tutti (“il paese è una stanza” recita la quarta di copertina) e ognuno ha un ruolo prefissato, un certo numero di spazi in cui recitarlo e un tetto sotto cui rifugiarsi, dove sperare di imparare prima o poi a gettare la maschera ed ambire a essere qualcos’altro. Grigolo è bravissimo a descrivere in pochi tratti il gruppo di personaggi attorno a cui ruota il suo romanzo, facendoli interagire in uno spazio ristretto che si schioda dalla chiesa e da quei due bar in croce (compreso il ritrovo d’elezione, il Bar Anna, la cui proprietaria parla il minimo indispensabile a far sentire ben accetto chiunque) solo per gettarsi nei campi e nella nebbia, negando allo sguardo una prospettiva di fuga.

È bravo, sì, ma io dopo un certo numero di pagine ho temuto che fosse tutto lì: un paese e i suoi problemi, qualcosa di brutto che accade, nessuna lezione da impartire (perché si capisce già da quelle prime pagine che in Gente alla buona niente andrà per il verso giusto) e uno stile secco ed essenziale (ancora più affinato rispetto ai libri precedenti, di cui è un’efficace sintesi) per narrare le vicende. Non poco, è chiaro, ma temevo di non trovare altre sorprese proseguendo nella lettura. E invece.

«Sai cosa mi ha chiesto il Natale scorso il Filippo? Mi ha detto: papà perché non parli mai del tuo amico che è morto? Gliel’ha detto la madre. Sicuro. Pure che io non lo so, perché lei ha sempre evitato di dire certe cose davanti a me. Non sa niente lei, non sa quello che dovrebbe sapere. Ma sai cos’è? Non se lo merita. L’ho sposata e ho giurato davanti al prete e alle fedi che avevamo in mano, ho giurato che gli dicevo la verità fino a che non morivo, ma non ce l’ho fatta.»

«Cosa gli hai risposto, a Filippo?»

«Tutti lo sanno ormai che io il Natale, quel giorno lì, quella notte lì, è come se voglio scomparire. Mettermi dentro un armadio e uscire solo quando qualcuno mi viene a chiamare e mi dice Oh pirlon, il Natale è finito. Mi salva solo questa cosa qui, che facciamo noi tre, la cosa del cimitero. Solo quello mi tiene fuori dall’armadio. E Filippo lo sa, lo vede, che a Natale io sono un’altra persona. Ho una responsabilità io, nei suoi confronti. I padri hanno le responsabilità, i mariti pure. O no?»

«Io non ne so un cazzo di padri e mariti.»

«Perché ogni volta che qualcuno non segue le regole che il paese ha deciso per lui, allora questo qualcuno si deve sentire una merda?»

«Hai ragione.»

«Hai già i tuoi problemi a vivere in una città dove ci sono i tedeschi.»

Ridono.

Ci sono state due morti in paese. Due morti di cui si parla poco, sottovoce, gonfi di dubbi: tutti sanno tutto di tutti, ma anche questa si rivela essere una regola non così infallibile. È morto Michelino, un bambino, il migliore amico di Brando, Sara e Larcher, un tragico incidente; è morto il Giànin, il matto del paese, uno che era giovane quando lo erano anche Toni, Sander e il Marione, i padri dei tre bambini ancora vivi: ma questo non è stato un’incidente. In paese o si evita di nominare quel che è successo, lasciando il lutto fra le mura domestiche e bofonchiando un semplice “sono venuto a chiedere come state e se avete bisogno”, oppure si chiede per mezze frasi, facendo dei lunghi giri per arrivare a un “e di cosa può morire un matto come lui a quell’età?”. Grigolo usa sapientemente i dialoghi per farci conoscere meglio i personaggi e per infittire il mistero attorno a quelle morti, lasciando affiorare in maniera lenta e inesorabile le rivelazioni mentre una gabbia di colpe e rimorsi si stringe intorno a tutti i protagonisti, nessuno escluso, nemmeno il prete Don Maurizio.

Sembra un giallo, descritto così, e avrebbe potuto anche esserlo se a Grigolo non interessassero molto di più i personaggi delle indagini. Lo è al massimo alla stessa maniera de La raggia, la prima novella da lui pubblicata con Pidgin, che condivide con Gente alla buona un’ambientazione provinciale e periferica e l’escamotage narrativo dei salti temporali: solo che qui l’autore si improvvisa Christopher Nolan, e la cosa gli riesce.

All’autore il paragone è piaciuto

Dunkirk non è il mio film preferito di Nolan, anzi. Ricordo di essermi annoiato vedendolo, ma gli concedo il beneficio del dubbio fino ad una seconda visione perché mi sembra tuttora impossibile essermi annoiato di fronte a un congegno così raffinato: tre storie concatenate che si svolgono su piani temporali diversi, uno di giorni, uno di ore, uno di minuti. Il meccanismo temporale che sbalza i personaggi di Gente alla buona avanti e indietro fra la fine del 1995, l’inizio del 1996 e il 2019 (con un breve prologo iniziale ambientato in maniera non cronologica fra il 1965 e il 1987) non è così maniacale, ma è essenziale per dare al lettore l’impressione di essere risucchiato in un buco nero, costretto a vagare lungo i quattro angoli della gabbia per vedere mano a mano illuminati i lati più oscuri della vicenda, sperando che le cose non stiano messe male come temi mentre invece è molto peggio di così… O forse sono io che sono troppo ottimista. Il modo in cui Grigolo arriva in cerchi concentrici alla Verità è il suo essere Nolaniano nella maniera più efficace, gestendo il ritmo della narrazione e non mollando mai la presa, angosciandoti e deliziandoti mentre ti accorgi che, come tutta quella buona vecchia gente di una volta, anche tu non vedi l’ora di sapere tutto, morbosamente, dolorosamente.

Sara ripensa al padre mentre dava da mangiare alle bestie o mentre se ne stava sul trattore: trasandato, che se poteva ci andava in mutande a far fatica. Ma non poteva, che va bene tutto, ma poi, alla fine, pure quelli del paese c’hanno una dignità, piccola come una monetina, ma ce l’hanno, anche se vivono per la terra, anche se tengono più alle loro bestie che alle loro mogli. È per questo che lei è stata sempre vista come strana: perché era come un ragazzo e stava sempre insieme ai maschi e non le interessava di essere comandata da loro.

Però non se n’è andata, è sempre rimasta lì, schermandosi dal dolore e dalla colpa con le cose belle che le sono rimaste: Brando sul letto, chiusi in camera a fingere di studiare, Mighè aggrappato alle sue spalle mentre se lo porta sul portapacchi della bicicletta, il mare di quel giorno a Lavagna.

Forse tutto sta nel fatto che dal paese non si è mai spostata, sempre dentro il confine, che fuori scotta. È rimasta al paese anche quando il loro mondo, quello di loro quattro amici, è cambiato all’improvviso.

Ci sono cose che non si possono dimenticare, ci sono persiane chiuse che non si ha più la forza di riaprire. Il paese è una gabbia.

Se Gente alla buona è Nolan nella struttura, nello stile è invece secco e brutale. Il paese è un posto dove “fa un freddo che”, senza altre parole, senza bisogno di troppo dettagli. Se i rapporti si basano sui non detti all’interno di chiacchiere intorno al nulla e a un bicchiere di vino, gli spazi sono delineati intorno al vuoto che incombe, alla nebbia che cancella l’orizzonte, ai campi così sterminati che sembrano dover non finire mai. Grigolo ha modellato il paese su quello dove si è trasferito da adolescente, duemila anime in croce, prendendo in prestito nomi delle vie e caratteristiche dei personaggi e frullando il tutto fino a cavarne fuori un modello diverso e comunque credibile, un modello in cui le donne sono perlopiù spettatrici inermi di ciò che gli uomini fanno e nascondono. Mi ci ritrovo anche io in quelle dinamiche, io che vengo da un paesino che di anime ne conta addirittura settemila ed è abbastanza vicino a Novara da non sentirsi relegati nel buco del culo del mondo, ma è comunque lontano dalla statale e pertanto attorno sembra avere solo risaie (una volta, ora coltivano anche altro, anche se io con la mia incompetenza vegetale fatico ad accorgermene): vedo Sander e Toni di fronte a un tavolo del Bar Anna e somigliano a quelli che frequentano il bar che una volta era di mio zio, li guardo andare in chiesa senza convinzione e penso a quando facevo finta di andarci da adolescente, chiudendomi in garage a leggere in macchina, leggo la descrizione del Giànin e penso a tutti i matti del paese che abbiamo avuto e che ancora ci sono, che si chiamano così perché il politicamente corretto lì non è ancora arrivato e si ride di stereotipi col teatro in dialetto, ah che belle le tradizioni, e io che da tutto quello mi sentivo escluso anche perché non avevo animo di prendermela con qualcuno di più debole di me (e quanto avrei voluto esserne capace, e quanto male farà quella voglia nell’arco del romanzo) temevo che un giorno lo scemo del paese sarei stato io.

Grigolo fa una disamina perfetta di tutto ciò che vuol dire vivere in un paese sperduto in mezzo al nulla, ci si cala dentro (in Brando si riconosce qualcosa di lui, un effetto voluto dato che entrambi si sono trasferiti a Berlino e, pertanto, sono parzialmente riusciti ad uscire dalla gabbia) e non ne esce solo con una descrizione, ma con una storia che non si riesce a smettere di leggere. Gente alla buona è così avvolgente anche perché, nonostante tutto il male che cova sotto la superficie, l’autore mostra dell’affetto per quelle anime in pena che si trascinano in tra i campi, in mezzo al bestiame, con nient’altro da fare che bersi un bicchiere o, quando il progresso lo permette, giocarsi lo stipendio alle slot, perché ci si deve per forza anche voler bene quando si sopravvive a cosìstretto contatto: “Solo è una disgrazia”, come dice Celine, “che resti così carogna con tanto amore di riserva, la gente”.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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