La nicchia artistica è stretta e spesso scomoda, ma quando ti ci abitui fai fatica a tornare nel grosso mondo delle cosechevannodimoda. E se non stai attento, più vai avanti e più le cosechevannodimoda diventano quelle di cui tutti parlano nella tua nicchia, e per reazione tu ti infili nella nicchia della nicchia. Per dire, io ho schifato per anni Titanic (tuttora l’unica scena che ho visto l’ho incrociata per sbaglio, c’erano delle onde) e ora finisco per perdermi un sacco di cose che dovrei ascoltare perché vengono ritenute necessarie da una massa che in realtà massa non è, ma solo una nicchia di estimatori che vedo come la massa perché la vera massa, quella che ascolta la musica che passa su Radio Deejay, la schifo a priori (e le poche esperienze radiofoniche estive mi convincono ancora di più che la mia scelta è giusta). Poi ogni tanto capita che una singola cosachevadimoda entri in contatto con le mie orecchie/ la mia vista/ i miei sensi in generale e capisca che ho fatto male a schifarla. I Cani sono una di quelle cose.
Quando ne ho sentito parlare la prima volta mi sembrava che fossero già famosi ancora prima di far uscire davvero qualcosa, un prodotto costruito per suscitare hype più che una band vera e propria. Il primo album, quando è arrivato, aveva un titolo fra l’ironico e l’altezzoso, Il sorprendente album d’esordio de I Cani, e io nella mia nicchia della nicchia nicchiavo e vedevo solo l’altezzosità. Aggiungiamoci poi che quel disco nella mia testa divenne il peccato originale da cui è scaturito tutto l’indie poptronico della scena romana, colpevole di aver contribuito a scagliarci nuovamente negli anni 80 a botte di tastiere e synth di merda e brani in cui Tommaso Paradiso coverizza le canzoni che Umberto Tozzi non ha ancora scritto. Poi qualcosa pian piano è cambiato: mi è capitato di vedere il video di Velleità e la canzone mi è piaciuta (e io, nato nel 79, avevo effettivamente due gruppi con cui facevo musica datata), ho scoperto che avevano fatto uno split con i Gazebo Penguins, la ex band del mio ex batterista e della ex fidanzata del mio ex ex batterista (questo articolo nasce solo per poter scrivere questa frase) aveva coverizzato la loro Lexotan, li ho visti dal vivo a un Balla coi Cinghiali e, infine, un’amica mi ha passato i loro primi due dischi. Lì è scattato l’amore, mi sono pentito della mia spocchia e ho cominciato ad ascoltarli in heavy rotation, scoprendo anche che dietro I Cani alla fin fine ci sta il solo Niccolò Contessa.
La carriera musicale di Niccolò è un percorso lungo tre album dall’estrospezione all’introspezione. Il sorprendente album d’esordio de I Cani (pubblicato dalla 42 Records) potrà anche cavalcare l’onda hipster parodiandola, ma la lucidità dei testi di Niccolò, unita a un malessere esistenziale che serpeggia qua e là (vedi i divani dell’analista in Velleità o il co-protagonista di Post punk), rendono i brani del disco qualcosa di più dell’ironica occhiata al mondo che lo circonda: la realtà in cui è immerso Niccolò è quella, e lui ci fa i conti senza nascondere niente e mostrando una certa dose di tenerezza nel raccontarla. Nel 2012 cani e pinguini fanno comunella ed esce in collaborazione fra 42 Records e To Lose La Track l’Ep I cani non sono i pinguini i pinguini non sono i cani (un titolo così didascalico che avrei potuto scriverlo io): due brani a testa per I Cani e per i Gazebo Penguins, più una cover vicendevole, ma soprattutto un’intesa che sfocia anche nel secondo e atteso album del progetto di un Contessa che nel frattempo mantiene perlopiù l’anonimato, dimostrando una notevole chiarezza di idee sull’esposizione mediatica. Glamour, uscito nel 2013, avrebbe potuto essere un salto verso l’universo mainstream (ironico che alla produzione di un album che si chiama proprio Mainstream, il secondo di Calcutta, Contessa abbia partecipato) con le collaborazioni giuste, invece l’artista romano omaggia e fa salire in carrozza i Fine Before You Came (FBYC (s f o r t u n a)), duetta in Corso Trieste con gli ormai amiconi Gazebo Penguins e scrive un disco che indaga il successo e l’ansia di successo da un punto di vista personale e sincero. Non c’è un brano che non funziona nonostante sia l’esatto contrario di un album scritto a tavolino, è vario, cattivo, tenero e fa volere un sacco di bene all’uomo che lo ha scritto e che scrive frasi come “ho paura di tutto/ soprattutto dei cani/ e di restare solo/ e degli esseri umani”, tanto che viene voglia di abbracciarlo.
Il 2015 vede l’uscita, sempre per 42 Records, di Aurora, un disco influenzato dalle riflessioni sull’esistenza e sul cosmo in cui Contessa sembra scavare ancora di più anche in sé stesso. Ammetto che se avessi ascoltato questo album per primo sarei stato meno propenso a dare una chance a I Cani, perché accanto a brani morbidi ma interessanti come l’iniziale Questo nostro grande amore si palesa una Non finirà che, con tutto il bene che posso volergli, sembra una canzone di Neffa (e per tale l’ho scambiata sentendola in radio). A tutt’oggi questo è l’ultimo disco de I Cani, un silenzio discografico interrotto solo da un singolo nel 2018 (Nascosta in piena vista) e uno a luglio 2021 (Un altro Dio, tanto minimal musicalmente quanto stracolma di significato nel testo): se questo preluda ad un’altra uscita per l’artista romano è ancora presto per dirlo, nell’attesa andate a leggere il suo stupendo racconto (in cui traspare l’amore, mai celato nei testi, per sua maestà David Foster Wallace) Educazione sentimentale, uscito sulla rivista ‘Tina di Matteo B. Bianchi.
San Lorenzo è la nona traccia di Glamour, una canzone in cui il classico rituale dello sguardo puntato al cielo per intercettare stelle cadenti viene smontato scientificamente per mostrarci quanto “andare a chiedere favori alle stelle cadenti non è tanto di cattivo gusto quanto arrogante”. Ho inserito questa visione nel contesto di un atto di ribellione adolescenziale, età in cui certi argomenti possono anche sembrare una posa affascinante e l’amore può assumere forme strane e contorte (e forse lo può fare a ogni età, se non smettiamo di crederci). Trovate il racconto subito dopo il link al brano, come al solito, e come al solito non mi rimane che augurarvi buona lettura e buon ascolto.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Di merda e morte
Appoggiano le cesoie al loro fianco e si sdraiano sull’erba bagnata del rettangolo verde, ricavandone il minimo di refrigerio necessario in un dieci di agosto che sconfessa quanto dice il padre di lui, esperto di tutto, quando afferma che luglio è il mese più caldo da qualche anno a questa parte. Temperatura alta o meno l’estate in un paese di provincia è insopportabile sempre e comunque, soprattutto nei giorni in cui non c’è di meglio da fare che adeguarsi ai rituali sociali in voga fra le masse, tipo guardare le stelle cadenti sperando che qualcosa succeda, di bello o di brutto non importa poi molto.
Lei accende una canna mentre il culo già si fa fradicio, rovinandole il look ben costruito in vista di una serata speciale. Non si aspettava niente di illegale, ma con lui non si può mai sapere e così eccola lì, dentro al campo d’allenamento della scuola, dopo aver scavalcato il cancello e fatto un buco nella rete di recinzione grosso abbastanza da far bestemmiare il custode, si spera l’indomani e non stasera stessa.
Lui osserva il cielo, le mani dietro la testa e gli occhi come smorti. Si aspettava un minimo di entusiasmo da quell’avventura ma il suo volto è una maschera priva di emozioni, quasi non muove un muscolo nemmeno per respirare.
Gli lascia il primo tiro, sdraiandosi per rovinare per bene anche la camicetta. «A che pensi?»
Lui aspira e soffia via il fumo, tenendo la canna alta col braccio e tracciando piccoli cerchi come ad allontanare le onnipresenti zanzare.
«A una cosa che mi ha detto mio fratello. Che quando una stella muore la sua esplosione toglie di mezzo tutto quello che sta nel raggio del botto, persino a migliaia di anni luce di distanza. E noi possiamo accorgercene solo all’ultimo momento, senza che nessuno possa prevederlo».
«E dove l’ha sentita questa cosa?»
«A una conferenza». Fa ancora un tiro, soffia fuori con una smorfia e poi la passa a lei, senza guardare. «Dice anche che quelle che crediamo stelle cadenti molto spesso sono i sacchi di merda degli astronauti, sparati fuori sotto vuoto dalle stazioni orbitanti».
Lei fissa per un po’ il cielo, la brace della canna che sfiora l’erba. «Te non c’hai un cazzo di voglia di vedere le stelle cadenti, vero?»
«Sai, sembra tutto così una stronzata. Questa storia dei desideri. Le stelle diventano anche buchi neri quando muoiono, si mangiano tutto quello che c’è attorno. E noi qui ad esultare e a chiedere cazzate all’universo».
Restano un po’ in silenzio, lei fumando e lui con quegli occhi inespressivi volti al cielo, che si sta pure facendo nuvoloso.
«Però non mi fraintendere». Toglie le mani da dietro la testa, stendendole sui fianchi e sfiorando la sua. «Sono felice di essere qui. Davvero».
Lei fa ancora un tiro, poi si solleva per passargliela. «Be’, è pur sempre la cosa più romantica che mi abbiano mai detto».
Si sdraia di nuovo e rimangono lì, mano nella mano, a guardare cadere punti luminosi di merda e morte che qui risplendono solo per loro.
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