(Chiedo scusa a Chimamanda Ngozi Adichie per la citazione impropria del suo discorso, che vi invito ad ascoltare)
Ho in mente quest’immagine. Alcun* amic* sono in un appartamento, fuori fa freddo e cosa c’è di meglio di una cioccolata calda se fuori fa freddo? Del rum direi, ma gli amic* in questione preferiscono non alcolizzarsi. Uno di loro ce li presenta: c’è quello con la testa fra le nuvole (lo si capisce dal fatto che guarda pensieroso fuori dalla finestra), quello imbranato (lo si capisce perché… mmm… porta un sacco di tazze in equilibrio senza romperle? Qui già qualcosa non quadra), quella ritardataria (lo si capisce perché arriva in ritardo) e quella patita del rock. Da cosa si capisce che è una patita del rock? Grazie per averlo chiesto: perché ha una maglietta con scritto sopra ROCK.
PERCHÉ HA UNA MAGLIETTA CON SCRITTO SOPRA ROCK?!?!?! Ma cosa aveva in mente chi ha creato la pubblicità del Ciobar del 2010, Salvini che indossa le felpe con i nomi delle località turistiche del nord Italia?

D’altronde quando il rock in Italia viene portato avanti da Virgin Radio forse non dovremmo stupirci se qualcun* che lavora nella pubblicità si ritrova a pensare che basti una maglietta per farti diventare rockettara. Quella di Virgin è una narrazione che fa dello “style rock” un pastone unico che A) mischia confusamente ribellione e status quo, perché è figo idolatrare le grandi rockstar ma tu non ti azzardare a fare altrettanto, e B) propaganda solo ciò che è già stato premasticato e digerito dall’industria musicale, il che non vuol dire che sia tutto merda (anche se il passaggio seguente è quello) ma di sicuro stai adeguando il tuo pubblico a non rischiare le proprie orecchie neanche per un secondo. Eppure il rock (che è morto, è in coma, è vivo o forse non lo è mai stato, non essendo una forma di vita basata sul carbonio come sostenevano i Verbena) è così bello da esplorare in tutti i suoi anfratti, negli angoli nascosti dove i riff durano quindici minuti o un album intero solo sei minuti (astenersi dall’ascolto i bigotti), nei punti dove si ibrida con qualunque altro genere e crea affascinanti mostri. È soprattutto una questione di suoni, intenzione, attitudine e passione che è limitante ridurre a un conglomerato unico, a un unico calderone rock in cui vale tutto e non vale niente. Le formazioni romane degli Elephants In The Room e i Fvzz Popvli ad esempio, senza andare agli antipodi del genere, posso dire che giocano allo stesso gioco ma non le metterei mai nello stesso campionato.
Il bel gioco dura poco
Gli Elephants In The Room (Daniele Todini, Emanuele Stellato e Eric Borrelli, insieme dal 2019) fanno un gioco pulito, ordinato, strofe piuttosto tranquille che lanciano l’assist ai ritornelli e batteria che si limita spesso al cassa/rullante per invogliare il pubblico a battere le mani. Nel loro disco d’esordio One step forward, two steps back (pubblicato il 24 febbraio dall’etichetta MZK Lab) mischiano una punta di funky (I love it) ad uno schema musicale che distorce le chitarre e il basso quanto basta per non sconvolgere l’ascoltatore, lasciando il compito alla voce di trainare veramente il tutto. Formula originale? Certamente no. Persino banale? Ni, perché non è facile creare una canzone che al primo ascolto ti si ficca in testa, volente o nolente, e la loro Baby io continuo a canticchiarmela a lavoro anche se non è nemmeno il brano che preferisco del lotto.

Meglio infatti I’ll be waiting, che all’inizio solare con chitarrina leggera e sognante oppone ritornelli che riescono a sorprendere (meno l’assolo a tutto wah, ma funzionale al casino finale), o la carica ammiccante di Should be running, che inspessisce il giusto una formula altrimenti fin troppo leggera. Gli Elephants In The Room praticano a memoria un gioco perfetto per l’airplay radiofonico, ma peccano di personalità: l’impressione è quella di avere di fronte una formazione che preferisce lo spettacolo al risultato, ma che quello spettacolo finisce per farlo in maniera troppo leziosa, passaggi sonori continui con pochissimi tiri nel cuore dell’ascoltatore. Non aiuta l’aver lasciato per il finale due brani fin troppo molli come Something about you e Waste of time, col ritmo che rallenta per portare a casa un risultato che alla fine non soddisfa. Sono giovani e hanno tempo per migliorare, magari portando imprevedibilità all’interno di uno schema che sembra troppo improntato sul dare al pubblico quello che pensano possa volere.
A favore dello sporco impossibile
I Fvzz Popvli sono più concreti, diretti, senza fronzoli. Il loro schema non è per forza originale, mischiando a tutto il fuzz che è possibile trovare sul campo lo stoner veloce di scuola Fu Manchu e lo space rock anni ’70, ma in III (uscito per Retro Vox Records il 3 marzo, in un profluvio di tre visto che è anche il loro terzo disco) le sbavature portano imprevedibilità, la cattiveria agonistica esalta. Cominciano senza troppi scossoni con Monnoratzo, quadrati come le squadre in cui non abbondano piedi buoni, poi tirano fuori dal cilindro i bizzarri riff filo-orientali di Kvng Fvzz e lasciano intravedere un po’ di fantasia fra le pieghe delle distorsioni sporche che ammantano il tutto. L’accelerazione però avviene a metà album, un uno-due letale portato avanti con il miscuglio neo-noir che esplode nel post-punk più fuzzato (o fvzzato) di sempre di Post shit e concluso dalla meticolosa confusione di Last piece of shame, un groviglio di distorsioni con pochissime pause che disorienta, sporca il gioco così tanto che appare impossibile ripulirlo.

Pure i Fvzz Popvli hanno un momento di stanca, traccheggiano a metà campo su 20 cent blues rischiando qualcosa e quando ripartano con Tied sembrano aver perso brillantezza, ma un assolo cosmico con finale ruvido e conciso permettono di arrivare all’Outro col risultato in saccoccia. Il power trio creato nel 2016 (o anno domini MMXVI, come preferiscono loro) dal bassista Datio e dal chitarrista Pootchie mette in campo un’esperienza maturata in pochissimo tempo (con tanto di tour europei), dimostrando che con la giusta carica il gioco sporco può risultare divertente quanto il miglior tiki-taka.
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