Psichedelia, danza e spiritualità nei dischi de I Gini Paoli e Bosco Sacro

Gli iniziati, radunati in associazioni private (come i thiasoi dionisiaci) o al seguito di “carismatici itineranti” – come li chiama Burkert – si lanciavano in danze sfrenate su ritmiche ossessive, facevano uso di bevande psicotrope misteriose le cui ricette si tramandavano da secoli, oltre che seguire pratiche (come la sessualità di gruppo dionisiaca) che obbedivano a tradizioni che abbiamo completamente perduto.

Così Chiara Baldini, nel suo saggio Tramonto al tempio all’interno de La scommessa psichedelica, descrive l’esperienza all’interno di culti misterici dell’antica Grecia come quello di Dioniso. Un’unione di sacro e profano (almeno per quella che è la distinzione che facciamo oggi di pratiche inscindibili per gli iniziati), profondità e leggerezza, il tutto aiutato da “espedienti naturali” per acuire il contatto con l’alterità. Ascoltando Esotica naturalizada de I Gini Paoli (band genovese al suo secondo disco) e Gem dei Bosco Sacro (gruppo formato da membri di Julinko, The Star Pillow e Tristan da Cunha) quest’immagine mi è tornata in mente più volte, perché i due album sembrano parlarsi, avvicinarsi a temi simili pur partendo da basi musicali molto distanti.

Il movimento

I Gini Paoli sembrano usciti da una strana comunione fra la cumbia dei Cacao Mental e l’attitudine soundtrackara (perdonatemi il neologismo) dei Calibro 35. Soprattutto i primi due brani strumentali di Esotica naturalizada (pubblicato dall’etichetta Marsiglia Records), Colazione con Biancosarti trafugato e Achtung! Banditi (omaggio, quest’ultimo, a una pellicola omonima del 1951 sulla Resistenza partigiana genovese, di cui riprende alcuni estratti), potrebbero essere usciti comodamente dalla colonna sonora di qualche film italiano degli anni ’70, giocando in maniera divertita con influenze tropicali, basso funkeggiante e synth che creano un tappeto sonoro avvolgente. La band genovese coinvolge fin dal primo ascolto e man mano che le canzoni si susseguono arriva anche la voce, che in un miscuglio di italiano e spagnolo ci accompagna in un mondo di danza, sostanze psicotrope e panorami naturali evocati, ricercati, rimpianti. A fianco di un andamento musicale che alterna momenti più votati alla psichedelia (Gaigo, che si fa forza della presenza massiccia del sitar) a esotismi spensierati (Conga su conga) I Gini Paoli creano una struttura tematica che, attraverso testi essenziali, parla di concetti mai così attuali: riscaldamento globale, speculazione edilizia e ritorno ad una comunione con la natura più intensa.

Fra microplastiche e Fibrocemento, “orche spaventate in porto a Pra” (Conga su conga) e cure alternative a base di psilocibina (Cumbia del Monte Fasce) il quintetto (Mariasole Calbi a batteria e voce, Angelo Carta a chitarra e voce, Giovanni Ciapessoni a synth, sitar, chitarra e diamonica, Gabriele Guerrini alle percussioni e Carlo Silvestri a basso e voce) unisce sapientemente il divertimento alla profondità, piantando silenziosamente sottopelle il germe di un mondo migliore da raggiungere danzando. Ecco quindi che viene naturale (termine quanto mai azzeccato) seguire, agitandosi al ritmo delle percussioni e dondolando la testa al seguito dei riff chitarristici, la vecchina che in Cumbia del Monte Fasce va a raccogliere funghi psichedelici, ballare con gli occhi chiusi seguendo i rimpalli fra chitarra e sitar di Conga su conga, finendo idealmente in riva al mare a scatenarsi attorno a un falò che brucia come il sangue nelle vene durante Miyazaki, carrozzone con, che nel nome di un regista noto per la sua sensibilità ambientale (ne avevamo parlato qui) conclude un viaggio che attraverso il movimento sfrenato auspica una rivelazione, la presa di coscienza del nostro essere un tutt’uno con ciò che ci circonda.

I Gini Paoli ci tengono a dare il buon esempio non solo attraverso la loro musica, ma anche mostrando materialmente quanto le tematiche affrontate in Esotica naturalizada siano per loro importanti: il disco è stampato in un’edizione a ridotto impatto ecologico, e attraverso la collaborazione con l’azienda zeroCO2 metteranno a dimora un albero ogni tre copie vendute.

La meditazione

Approccio musicale completamente diverso quello dei Bosco Sacro, che già nel nome rivelano però l’emergere di tematiche affini: comunione con la natura e spiritualità sono infatti elementi che risuonano tanto nelle liriche di Giulia Parin Zecchin (al cui progetto Julinko avevamo dedicato un racconto) quanto nelle sonorità ipnotiche create dalle chitarre di Francesco Vara e Paolo Monti e dalla batteria di Luca Scotti. Gem (pubblicato da Avantgarde Music) nasce da un’unica sessione di registrazione all’AMM Monteggiori Studio di Lorenzo Stecconi, e di questa sua genesi istintiva rimane traccia lungo i sei brani che lo compongono, tutti uniti da un’atmosfera oscura che rimanda a rituali dimenticati, segreti sussurrati nelle orecchie degli iniziati.

Viene spontaneo il paragone con la selva oscura di Dantesca memoria ascoltando Gem, perché alle sonorità ancora pervase di una certa dose di luce dell’iniziale Ice was pure si sostituiscono subito vibrazioni più profonde, col ritmo che si mantiene lento e cadenzato, quasi a evocare le ritmiche ossessive della citazione iniziale. Non c’è nulla da temere però all’interno della natura tenebrosa in cui si inabissano testi e musica dei Bosco Sacro, perché chi esperisce l’eterno ciclo della natura non ha nulla da temere dalla morte (Be dust), né dagli sfoghi improvvisi di chitarra e batteria che rompono il tappeto ambient di Emerald blood (che si apre con un fraseggio che ricorda gli Alice In Chains più cupi). Il magma creato dalla band è di rara coesione, forse troppa per non risultare in certi momenti quasi ridondante, ma ad aiutarci a ritrovare la via fra chitarre che sembrano synth e una batteria tribaleggiante arrivano la varietà della voce di Zecchin, che passa dal sussurro cospiratorio al vocalizzo malinconicamente acuto, la progressione continua di Les arbres rampants, la rarefazione conclusiva di Bosco Sacro.

Sfuggenti come le rivelazioni dei culti misterici, i brani di Gem possono apparire inizialmente ostici: chi avrà il coraggio di farsi avvolgere dal suo connubio estremamente personale di doom e ambient proverà però una sensazione familiare, come il ritorno a una dimensione perduta per la quale abbiamo provato una struggente malinconia senza nemmeno accorgercene.

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Racconto in musica 128: La mia strada (Pavement – Here)

Durante il lockdown, con tanto tempo a disposizione visto che fare bottoni non è considerato un’attività necessaria (pensateci quando vi cadranno i pantaloni), oltre ad aprire questo blog ho pensato: ma se mi proponessi a qualche rivista/blog musicale con l’intenzione di farmi pagare per parlare di musica? Ci ho pensato tipo per dieci minuti, in parte perché mi sembra molto capitalistico far diventare un lavoro quella che è stata sempre una passione (ma attenzione al lavoro fatto per amore, quando riuscirò a parlare dell’interessantissimo Il lavoro non ti ama di Sarah Jaffe approfondirò la questione), in parte perché ho la classica sindrome dell’impostore. Scrivo di musica da vent’anni abbondanti, ma conoscere tutti gli album degli Zeus! fa curriculum se poi non hai ascoltato mai – MAI – un qualsiasi disco dei Beatles? Dei Rolling Stones? Ma anche, andando su cose più recenti e affini al mondo musicale di cui tratto, dei Pavement, una di quelle band seminali che hanno influenzato molto di ciò che ho ascoltato nel corso della mia vita. Fortuna che Alessio Barettini, uno degli aficionados di Tremila Battute, ha deciso di togliermi le castagne dal fuoco proponendomi non solo di occuparsi del racconto di questa settimana, ma anche di parlare della band di Stephen Malkmus e soci al posto mio.

Alessio è alla sua quarta presenza qui, associando la sua penna a nomoni come Guignol, Moltheni e Casino Royale. Ogni volta che passa lo ritroviamo in altre vesti, impegnato in nuove collaborazioni, e siamo felici che l’ultima di queste lo veda partecipe di quel gran bel progetto che è Read and Play, che qui pubblicizziamo e supportiamo con piacere: godetevelo mentre parla del libro di Massimo Zamboni, membro fondatore di CCCP e CSI, di Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia o di Pensa il risveglio di Alessandro Cinquegrani, e ascoltate le playlist da lui associate a queste opere.

“Pavement. Nel nome di questa band c’è una storia fra le più banali del mondo dell’indie rock. Un gruppo di amici inizia a suonare, senza sapere che nel giro di soli due album diventerà un punto di riferimento per un’intera generazione cresciuta a suon di Nirvana e Metallica stanca di un’attitudine troppo decadente del rock. 

I Pavement la decadenza ce l’hanno ma insieme al romanticismo e al modernismo, sono figli del ’68 e di Lou Reed ma anche di Eliot, di Beckett, di Mark E.Smith e di una Killing moon che si trucca da scherzo per non spaventarsi troppo della sua bravura.

Questa band di bravi ragazzi guidati da Stephen Malkmus mette radici nel mondo della musica e dopo 5 album di studio si scioglie, lasciando un mito che a suon di reunion dimostra che il segno lasciato non è stato una posa. La musica? Lo-fi, semplice nell’impalcatura, dai ritmi mai ridondanti, dalle raffinate imperfezioni. I testi verbosi, postmoderni, indecifrabili, flussuosi (?), intellettuali.

Here è un brano che compare nel primo album, Slanted and enchanted. Un piccolo gioiello, ripreso fra gli altri da altri mostri sacri della scena come Mercury Rev, Tindersticks, Built to Spill. Il mondo in tre accordi. Una luce che si accende incantevole, poi il nulla. Everything is ending here.” Alessio del brano scelto riesce a catturare in pieno con le proprie parole l’aura crepuscolare eppure ironica, di chi va avanti nonostante gli ostacoli che la vita gli pone davanti. Non vi resta che immergervi nel flusso di questa autoanalisi di una crisi, andando un po’ più in basso e ascoltando in sottofondo la canzone che l’ha ispirata: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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La mia strada, di Alessio Barettini

Ridevo. Che altro potevo fare, dopotutto? Anni di lavoro spazzati via. Anni di amore, spazzati via. Un progetto di vita, quasi. Un progetto di tanto tempo fa, un sogno che si stava frantumando nella realtà, prima di scoprire che no, quel sogno non era pronto per svegliarsi, quel disegno non era fatto per comporsi. Era la mia strada, mi ero detto. Il mio lascito preventivo. Tutta la mia enfasi giovanile che si era salvata dal grande naufragio della maturità. E ora che ero rimasto solo, dapprima rabbia, poi sconforto, poi incomprensione e altra incomprensione, sovrapposta a trame del tempo che non si erano mai specializzate in soluzione dei problemi. Avevo persino, lo confesso, pensato alla religione, come se pregando potessi far apparire il miraggio del deserto.

Poi, il tempo era passato. Ancora lui, a farmi fare i conti con questo stupido scherzo del destino, questo spreco di tempo che mi aveva visto sul piedistallo del mondo con un biglietto vincente in mano, che tuttavia si disintegrò senza prima farmi ritrarre quella mano, rimasta a guardare i miei occhi che cercavano di guardare la mano, ma non mettevano a fuoco, guardavano oltre, la polvere della terra che iniziava a muoversi, la polvere dei pensieri che cercava una parola, un appiglio, un meglio da mostrami senza ingannare la corposa schiera dei miei sentimenti offesi.

Non tornò mai, quel mantra che mi aveva messo in moto. Fu l’inizio di qualcos’altro, il cui senso vidi solo molto, molto più tardi, dopo mari di nebbia e albe orizzontali che non sembravano innalzarsi mai. Ho visto quella stessa fine per anni, davanti ai miei occhi, credendo fosse realtà. Così diceva di chiamarsi. Smisi di crederci, un giorno.

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Amori, amicizie e incomprensioni, o del perché dovreste andare a vedere Decision to leave e Gli spiriti dell’isola

Ho un brutto rapporto col cinema. No, volevo dire che ho un brutto rapporto COI cinema, il luogo fisico. Quando abitavo nella provincia novarese mi capitava di vedere il trailer di qualche film, innamorarmene e poi rimanere deluso perché non lo proiettavano da nessuna parte nel raggio di almeno quaranta chilometri. Che voglio dire, Emiliano Mazzoni si deve fare un’ora e mezza di strada se anche solo vuole andarci a vedere un film qualsiasi, ma lui abita sull’Appennino modenese e puoi metterla in conto quella difficoltà. Io ci rimanevo male.

Poi mi sono trasferito a Milano, evviva! Ho pure un multisala a dieci minuti a piedi di distanza, doppio evviva! E invece ci risiamo, non ci proiettano né Decision to leave di Park Chan-wookGli spiriti dell’isola di Martin McDonagh.

Ma posso andare a vedere i Me Contro Te!

Mi sarà anche venuto il culo molle, che prima prendevo la macchina per andare a vedere Sette psicopatici allo spettacolo di mezzanotte e mezza e ora mi lamento se mi devo fare quaranta minuti coi mezzi per andare a quello delle ventuno e trenta, ma cazzo anni fa sono riuscito a vedere Hardcore in un cinema relativamente vicino, quella tamarrata di Hardcore (ero da solo in sala, ma vabbè)! Com’è possibile che devo ancora fare fatica per andare a vedere un film che è candidato a nove premi Oscar?

Ok, lo sfogo è finito, ora vi spiego perché dovete combattere la sindrome del culo molle per andare a vedere questi due film (e magari riesco anche a spiegare perché ne parlo insieme).

Lost in translation

Quello fra Hae-joon (Park Har-il) e Seo-rae (Tang Wei) è un rapporto complicato. Che sia un rapporto d’amore non vi è dubbio, già al primo sguardo Hae-joon è rapito dalla bellezza di Seo-rae, ma a frapporsi fra loro c’è innanzitutto un problema linguistico (lei è cinese, lui coreano), che a parte piccole incomprensioni viene però bypassato piuttosto velocemente, o così pare; un altro problema è il fatto che lui sia sposato, una relazione che si consuma solo nei fine settimana con una moglie dai ragionamenti molto analitici (del tipo “dobbiamo fare sesso una volta a settimana così la dopamina in circolo ci farà rimanere innamorati”, non letterale ma quasi) a cui sembra sinceramente affezionato ma con un distacco che non si capisce quanto sia frutto dell’usura e quanto di dinamiche che nella loro storia sono sempre andate così; il terzo problema è che lei è sospettata di aver ucciso il marito spingendolo giù da una montagna, e lui è l’ispettore incaricato del caso.

“Alfine…”

Park Chan-wook è uno che ha le idee chiare. Sa quello che vuole raccontare, come raccontarlo e come fare in modo che torni tutto. I suoi film sono orologi svizzeri ma non sono freddi, anzi fanno leva sui sentimenti giungendo a toni melodrammatici e vanno spesso in direzioni che non ti aspetti. Così chi si approcciasse a Decision to leave aspettandosi un thriller poliziesco potrebbe rimanere deluso, ma solo in parte: qui il gioco non è capire se Seo-rae è colpevole o meno, ma vedere quanto la corda che unisce amore e senso del dovere possa tendersi prima che Hae-joon si spezzi. Perché sospetti ne ha, l’indagine la manda avanti, ma è chiaro anche al suo partner Soo-wan (Go Kyung-pyo) che l’obiettività non è più fra le sue qualità e non riesce nemmeno a nasconderlo, così come ce lo sbatte in faccia platealmente il regista: con la moglie rifiuta il sushi perché non gli piace, nel primo lungo interrogatorio con Seo-rae non ci pensa due volte a offrirgliene da un ottimo ristorante (e a carico del distretto). Fra allucinazioni dovute all’insonnia, un altro caso di omicidio da risolvere e avvicinamenti riluttanti la storia finirà per prendere una piega inaspettata, portando una storia iniziata in montagna a finire in riva al mare.

Decision to leave non è sorretto solo da un’ottima storia, che strizza neanche tanto velatamente l’occhio a La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, ma anche da una messa in scena che è una delizia per gli occhi. Chan-wook si prodiga in esercizi di stile a profusione, giocando con gli specchi, le telecamere, le distanze e qualunque diavoleria gli venga in mente, il tutto coerentemente con la storia che sta raccontando: si fa prendere un po’ la mano solo all’inizio di quello che potremmo definire il “secondo atto” del film, quando veniamo sballottati improvvisamente in una scena di violenza senza capire come ci siamo finiti, ma il regista ci mette poco a riprendere le fila del discorso e portare a conclusione in maniera magistrale (e agghiacciante) una vicenda che si fa forza anche di dettagli minimi, come le scarpe indossate o dei messaggi vocali che hanno significati differenti a seconda di chi li ascolta. In un’intervista Chan-wook ha dichiarato che voleva scrivere una storia d’amore in cui non venissero mai dette le parole ‘ti amo’: ci è riuscito alla grande, miscelando melodramma, thriller e anche insospettabili dosi d’umorismo.

P.S. A distanza di anni da Memories of murder resiste la ‘buona’ abitudine della polizia coreana di sbronzarsi in compagnia e fare interrogatori molto poco ortodossi

Una risata ti seppellirà

Se il cinema di Park Chan-wook è un meccanismo preciso, quello di Martin McDonagh è una lenta discesa verso l’abisso. Le sue storie già non iniziano dai migliori presupposti, fra killer in fuga (In Bruges), sceneggiatori in crisi (Sette psicopatici) e madri che cercano vendetta (Tre manifesti a Ebbing, Missouri), ma quel che può andare male non fa che andare peggio. Così quando all’inizio di Gli spiriti dell’isola Colm Doerty (Brendan Gleeson) annuncia a Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell), fino a quel momento da tutti considerato il suo migliore amico, che non vuole avere più niente a che fare con lui, si capisce facilmente che le dimensioni del conflitto sono destinate ad aumentare.

Distanze

Il rapporto fra Colm e Pádraic è fatto di incomprensioni, concetti espressi a metà, fissazioni immotivate. Perché Colm, che afferma di voler evitare l’ex amico per concentrarsi sulla musica e sul suo violino, è disposto addirittura a tagliarsi le dita pur di non averci più a che fare? Non ha senso (“non gioverebbe alla tua musica” gli dicono), così come non ha senso che lo trovi improvvisamente noioso: “è sempre stato così”, gli fa notare la sorella di Pádraic Siobhán (Kerry Condon), così come gli fa notare che su quell’isola maledetta sono tutti noiosi. Ma in fondo non serve un motivo per farsi la guerra, una guerra silenziosa a differenza di quella civile che si svolge sulla terraferma, un conflitto di cui da Inisherin fanno fatica a capire le motivazioni (il poliziotto dell’isola, pagato per presenziare a un’esecuzione, non si interessa neanche di quale fazione sia il condannato) e riescono solo a rimpiangere i bei tempi in cui si sparava solo agli inglesi. D’altronde il movimento nazionalista irlandese è sullo sfondo di molte opere teatrali di McDonagh, come Il tenente di Inishmore di cui questo Gli spiriti dell’isola (The banshees of Inisherin in originale, lo stesso titolo dell’opera che Colm cerca di ultimare) è l’ideale successore, dato che rappresenta la conclusione della sua Trilogia delle Isole Aran.

Natura morta

Il dramma in via di formazione non impedisce ai film di McDonagh di essere divertenti, intrisi di uno humor nero irresistibile e di un ritmo nei dialoghi che tradisce la genesi teatrale dell’opera (ma si potrebbe dire lo stesso di qualunque altro suo film). Gli spiriti dell’isola è perlopiù una pellicola fatta di parole, che si appoggia forzatamente sulle interpretazioni, e se la chimica fra la coppia Farrell-Gleeson è ben oliata (i due erano protagonisti anche di In Bruges, valso a Farrell un Golden Globe che ha appena bissato) anche i comprimari non sono da meno, dall’intensa Condon all’ingenuo scemo del villaggio interpretato da Barry Keoghan, passando per personaggi che riescono a farsi ricordare pur con un minutaggio minore sullo schermo come il barista dell’unico pub dell’isola, il perverso poliziotto interpretato da Gary Lydon, l’inquietante signora McCormick o il prete che cerca inutilmente di fare da paciere, confessando con esiti rivedibili Colm. Se delle nove candidature agli Oscar quattro arrivano dalle interpretazioni c’è un motivo, ma la bellezza del film arriva anche da altro.

Natura maestosa

Laddove Park Chan-wook si prodiga in numeri da circo Martin McDonagh predica semplicità. Luce perlopiù naturale, spazio alla recitazione e spazio soprattutto ai panorami naturali, quasi un contraltare immobile e indifferente alle vicende troppo umane dei protagonisti, impegnati in una battaglia sempre più atroce che non prevede una fine. L’amore per gli spazi unisce i due registi (entrambi i film funzionano meglio di mille guide per invogliare a visitare Irlanda e Corea del Sud), così come la voglia di concentrarsi sulle difficoltà di comunicare, capirsi e, in fondo, amarsi. Entrambe le vicende si concludono di fronte al mare, entrambe in fondo non si concludono: l’amore e la guerra continuano a esistere, alimentando le gioie e i drammi nella vita come nel cinema.

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Racconto in musica 127: Mete (Emma Nolde – Berlino)

Voi cosa fate la mattina appena svegli? Io, non dico sempre ma quasi, penso a cosa ascoltare mentre vado a lavoro, un’ora di tempo da ammazzare facendo il pendolare al contrario in macchina fra Milano e Cerano. Perché ogni giorno esce musica nuova, un po’ me ne arriva da qualche promoter e mi sento in colpa se non ascolto tutti i dischi (ammetto di non riuscirci), poi ci sono i podcast che seguo normalmente (se anche a voi ogni tanto viene voglia di ascoltare dei racconti non perdetevi quelli de In fuga dalla bocciofila e inutile) e i podcast dei programmi radio che non riesco ad ascoltare al pomeriggio se non mi mandano in giro col furgone a fare le consegne e insomma, se non mi organizzo mi perdo per strada un sacco di cose. Tipo tutta la musica che è già uscita, che voglio recuperare per un motivo valido (ho sentito un brano di X e mi è piaciuto, chissà cos’altro fa) o per semplice curiosità, che finisce in un calderone di suggestioni che rischiano di rimanere tali perché aumenta ogni giorno, sborda da tutti i lati, come cazzo si chiamava quella band di cui ho sentito parlare e niente, andata (mi sono dimenticato anche come si chiamava la band grind che ha fatto un album di dieci tracce che dura dieci minuti e utilizza come “testi” pezzi dei discorsi di Papa Wojtyla, se siete fra i quattro che possono riconoscere questa descrizione aiutatemi). Il nome di Emma Nolde non so perché mi era rimasto impresso, non so dove l’ho sentito la prima volta e non so perché ho deciso di approfondire, ma se il racconto di questa settimana è ispirato a una sua canzone è perché per fortuna una mattina mi sono svegliato e ho deciso che avrei ascoltato le sue canzoni per rendermi più sopportabili le successive otto ore di lavoro.

Nolde e la musica sono un tutt’uno fin da quando era piccola, periodo in cui si è approcciata allo studio della chitarra classica. Io mi sarei incartato lì probabilmente, lei invece ha continuato e ha dato un esame al conservatorio, ha frequentato una scuola di musica, ha iniziato a scrivere brani in inglese a quindici anni e poi, una volta passata all’italiano, si è presentata al Rock Contest di Controradio (da cui non smettono di uscire alcuni dei nomi più fighi della musica indipendente italiana) nel 2019 con il brano Nero ardesia e si è classificata seconda, portandosi a casa anche il premio Ernesto De Pascale per il miglior testo in italiano. Non male per una diciannovenne che proprio grazie alla musica trova il modo di esprimere quello che sente e di come lo sente (come afferma in questa interessante intervista), e di cose da dire gliene rimangono abbastanza da riempirci il primo album, Toccaterra, uscito a settembre 2020 per la storica etichetta Woodworm. Le canzoni di Nolde oscillano fra la delicatezza del piano di Ughi e gli scarti improvvisi dei ritornelli elettronici di Resta, la voce che allo stesso modo si divide fra melodie e cadenze hip hop: i testi sono personali, intensi, raccontano di relazioni che non sempre vanno come si vuole e finisce che “per gli schiaffi abbiamo i visi rossi/non dormiamo da giorni” (Sfiorare), ma sanno illuminare i momenti e i gesti per cui vale la pena continuare a provarci, anche solo insegnare a qualcuno come ballare (male).

Suonare dal vivo a fine 2020 non è facile, ma Nolde riesce comunque a girare l’Italia per decine di date. Poi neanche il tempo di riposarsi e arrivano altri impegni, collaborazioni, soddisfazioni, una canzone con Generic Animal (un mazzo di chiavi, un ombrello lì in mezzo) a fine 2021 e la candidatura al Premio Tenco per la migliore opera prima (arriva appena dietro a Francesco Bianconi e Cristiano Godano, mica cazzi, ma tutt* si inchinano a Madame). La prima parte del 2022 porta un brano con gli Zen Circus, che la vogliono all’interno del loro disco di collaborazioni Cari fottutissimi amici (la canzone è Il diavolo è un bambino), ma di lì a poco torna protagonista in solitaria: esce il singolo Respiro, i fiati accompagnano la sua voce nel ritmo travolgente del ritornello e il sax la accompagna anche dal vivo, per un breve tour estivo che anticipa il nuovo disco. A fine settembre sempre per Woodworm esce Dormi, co-prodotto da Motta, un album che spicca per varietà e allo stesso tempo lima le asperità dell’esordio, forse un po’ più morbido ma in cui non mancano momenti dove scatenarsi (la mia preferita è Voci stonate). Nell’ultimo numero della sua newsletter la mia compagna sogna un Sanremo diverso, io ne sogno uno in cui nomi come quello di Emma Nolde diventino la norma e non rappresentino la quota indie che già devi ringraziare se te la concedono.

Berlino è la sesta traccia di Toccaterra, un brano dall’andamento sincopato che fra continui rallentamenti e accelerazioni contagia con la sua carica. Nel racconto che mi ha ispirato ho infilato ricordi della capitale tedesca, una relazione travagliata, una testa che si muove in mille direzioni e propositi per il nuovo anno che si spera di rispettare: lo trovate subito dopo il brano che lo ha ispirato (e il fantastico video che lo accompagna), a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Mete

La sua testa. Si reclina all’indietro per godersi gli ultimi sprazzi di sole in riva allo Sprea, tanto da far quasi scivolare a terra gli occhiali da sole, appare e scompare fra i parallelepipedi grigi del Memoriale dell’Olocausto. La sua testa la ossessiona. Si scuote dinnanzi alla ricostruzione di un tempio greco al Pergamonmuseum perché, cazzo dai, che pacchianata. E poi chissà quanto avranno speso per trasportarlo pezzo per pezzo dalla Grecia, meglio se lo lasciavano lì.

La sua testa si shakera avanti e indietro in un locale dove mettono nu metal come se fosse ancora la musica di un futuro di cui si sono stancati tutti in fretta, oscilla mentre ascolta un musicista di strada che suona, chissà perché, Anarchy in the Uk in francese, come in un vecchio documentario sul punk perché il punk a Berlino non può non esserci. Non sei stata a Berlino se non c’era del punk o della techno.

Immagini, fantasie. Perché a Berlino non ci sono mai state insieme, a malapena ci è stata lei da sola. Ci ha passato un giorno e mezzo con una compagnia di amici e gli è rimasto in mente un confuso collage di luoghi da cartolina, tappe imprescindibili, strani incontri da sbronza e il mal di testa al risveglio. La porta di Brandeburgo potrebbe essere in Alexanderplatz per quel che ricorda, o forse vicino a quel centro culturale ficcato in un casermone abbandonato dove l’hanno portata a un concerto. Quando sono entrati sul palco un italiano e un egiziano facevano finta di giocare a calcio, era tutto metallico e si ricorda di un tizio che gli raccontava di aver cantato lì sopra con la sua band, in un inglese stentato sporcato con chissà quale lingua. It’s a shit, le ha detto, cantare lì sopra è una merda perché prendi un sacco di scosse.

Eppure è lì, a Berlino, che immagina loro due insieme. Ne hanno parlato distrattamente una volta, sarebbe un bel viaggio, io non ci sono mai stata, io non ricordo quasi niente. Per quel che ne sa potrebbe essere lì adesso, nella notte di capodanno, mentre lei è a una festa in casa con la solita compagnia di amici, la stessa di quella giornata e mezza improvvisata, e la sua testa è altrove a muoversi con quella naturalezza che l’ha affascinata fin da quando si sono conosciute. Fra una canna e l’altra immagina, fantastica, recrimina: qui si sta sfracellando le ovaie.

Al countdown di mezzanotte arriva moderatamente sbronza, come tutti d’altronde. Alza il proprio calice che sgorga schiuma per brindare all’ennesimo augurio di felicità, all’ansia dei primi propositi per il nuovo anno che verranno immancabilmente traditi. Mette fra le speranze quel viaggio, quella testa, si augura che quel proposito resisterà alle delusioni del tempo che scorre.

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Racconto in musica 126: La famiglia in decomposizione (Cloud Nothings – No future/No past)

Qualche anno fa avevo smesso di scrivere di musica. Da un bel po’ di tempo parlavo di dischi solo in una rubrichetta di recensioni brevissime, quasi solo dei dischi di un paio di promoter che me li mandavano perché nel frattempo nella redazione era scoppiato l’amore per l’indiefolk, io di indiefolk ci capivo poco ed evitavo di averci a che fare: detto in parole semplici mi sembrava di essermi rinchiuso in un circolo che dava ben pochi stimoli e ben pochi stimoli mi sembrava di proiettare verso l’esterno. Penso di essere stato inattivo per qualche mese, forse un semestre, poi mi arrivò la chiamata (sostituite chiamata con messaggio su Facebook) di un ex collaboratore dello stesso sito per cui scrivevo io, che nel frattempo aveva aperto il suo blog e cercava collaboratori. Se ho continuato a scrivere di musica insomma (non è per forza di cose un bene, giudicate voi) lo devo all’entusiasmo di Michele Montagano e a StorDisco, webzine ora in stato vegetativo (ogni tanto pubblica qualche recensione l’altro fondatore Giovanni Amoroso) ma che mi ha permesso di scoprire tant* artist* di cui ho parlato anche qui, di aprirmi verso generi che non avevo ancora ascoltato (non è sempre un’esperienza piacevole, ma aiuta) e di riprendere a farmi meravigliare. Perché scrivo tutto questo? Perché ricordo che Michele era un grande appassionato del progetto Cloud Nothings, e grazie a Francesca Coppola e al racconto che ha generosamente donato alla causa ho la possibilità di approfondirne la conoscenza.

Ma iniziamo da Francesca, napoletana di Portici classe 1982 con una passione per la scrittura che spazia dalla poesia alla prosa. Sono infatti due raccolte poetiche quelle con cui si affaccia al panorama letterario, Non togliermi il vestito (2017, LietoColle) e Ultimatum dall’inverno (2019, Ensemble), ma negli ultimi tempi ha iniziato a “rincorrere” i racconti, cosa che evidentemente le riesce bene visto che ne ha pubblicati tanti in lungo e in largo nella litweb: potete leggerli su Salmace, Grande Kalma, Lo Scisma, multiperso, Enne2 (sul numero 1), Quaerere, Malgrado le mosche, Super Tramps Club, E(i)sordi, Birò, Racconticon e presto su Nabustorie e Nido di Gazza. Di sé aggiunge che ogni giorno si reinventa e ogni volta ne è insoddisfatta, ma noi ci teniamo a dirle che noi siamo soddisfattissimi del suo racconto.

In alto ho parlato di progetto introducendo Cloud Nothings perché tutto è nato dalla testa di Dylan Baldi, giovane musicista dell’Ohio che come nella miglior tradizione lo-fi componeva e registrava in solitaria nel garage di casa dei genitori per poi piazzare il tutto su vari profili MySpace di band fittizie fra le quali, appunto, Cloud Nothings. Inizia nel 2009 e di lì a poco un promoter newyorkese nota il suo mix di sensibilità pop e urgenza punk e lo contatta per suonare in un concerto da lui organizzato, spingendo Baldi verso due decisioni: formare una vera e propria band, per poter presenziare al concerto; mollare il college per fare il musicista, decisione che, a differenza di quanto sarebbe successo a me, trova i genitori d’accordo. Scelte giuste in ogni caso, perché le cose per Cloud Nothings si muovono veloci: l’Ep d’esordio Turning on con la Bridgetown Records, la firma di un contratto con la Carpark Records (cui rimane legato a tutt’oggi), la riedizione dell’Ep con l’aggiunta di alcune tracce a farne un vero e proprio album d’esordio e un tour in America ed Europa, il tutto nel solo 2010. Roba da rimanerci sotto, invece Baldi produce un altro album nel 2011 (l’omonimo Cloud Nothings) per poi entrare a stretto giro di nuovo in sala di registrazione, stavolta con tutta la band che già lo accompagnava dal vivo (il batterista Jason Gerycz, il chitarrista Joe Boyer e il bassista TJ Duke) e soprattutto con il guru Steve Albini (di cui vi abbiamo già parlato): il risultato è Attack on memory, un disco in cui la scanzonatezza punk delle prime composizioni si ammanta di nuova energia, si permea di una tristezza combattiva e porta a piena maturazione la vena compositiva di Baldi, capace di straziare con le poche frasi ripetute come un mantra sempre più aggressivo in No future/No past e di piazzare un’inedita parentesi strumentale nella potentissima Wasted days… E sono solo le prime due tracce del disco!

Attack on memory ha un grandissimo successo (ed è disco dell’anno per Michele Montagano), proietta Cloud Nothings in tour perfino in Giappone e Australia e gli apre le porte di festival prestigiosi come il Coachella. Da lì in avanti la sua produzione non si ferma mai e se la formazione cambia (Boyer lascia già nel 2013, rimpiazzato solo in un secondo momento da Chris Brown, mentre Duke abbandona nel 2022) non muta il mix sonoro che ha decretato la fortuna di Baldi e soci, capace di suscitare nostalgia e allo stesso tempo carica di energia propositiva, uno stile che si fa sempre più personale album dopo album. A quasi un decennio di distanza le strade dei Cloud Nothings e di Albini si incrociano nuovamente, ma quello che diventerà l’ottavo disco, The shadow I remember, deve attendere a causa della pandemia: nemmeno questo ferma però Baldi e Gerycz, che con un interscambio digitale continuo fra Philadelphia e Cleveland danno vita nel 2020 a The black hole understands, riempiendolo di speranza in un periodo di paure. A oggi Cloud Nothings è una band che non ha perso nulla dello spirito originario, una favola indipendente che ha portato Baldi e soci sui palchi di tutto il mondo e che, per chi ha voglia di farsi un viaggetto in Spagna, farà tappa a Barcellona e Madrid nei primi giorni di giugno.

Di No future/No past ho già detto qualcosa più in alto, ma si potrebbe parlare a lungo della disperazione che emerge dalla musica e dal relativo video, incapace però nella sua carica straziante di soffocare l’energia che Baldi infonde con la sua voce sempre più roca e sgraziata. L’associazione con il racconto di Francesca mi è venuta spontanea perché anche nel suo testo c’è un simile equilibrio, la storia di una famiglia che cade lentamente a pezzi narrata attraverso il punto di vista della figlia, costretta a subirne il destino ma abbastanza forte da concedersi un’ultima rivalsa. Potete trovare il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, come al solito: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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La famiglia in decomposizione, di Francesca Coppola

La marcia prosegue senza intoppi. Qualche grido fa ritornello nell’aria troppo calda, nella parte di fila dove c’è sempre chi parla dei cazzi suoi. Io conto i sampietrini, interrogandomi sulla presenza di una conchiglia incastrata fra le pietre.

Con mio padre non ho mai parlato. Adesso ho quarant’anni e lui ha smesso di compierli. Ricordo quei pochi pomeriggi, quando di sabato ci portava a casa dei nonni.

Appestata, è questo il termine che userei per parlarne. Aveva soffitti alti, stanze chiuse e un odore di vecchio. A volte sentivo il profumo buono delle arance, sapevo dell’esistenza di un giardino in cui non ero mai entrata. Mio nonno non guardava mio padre e mio padre non aveva mai slanci verso sua madre. Quando è morta la nonna, mio padre non ha pianto: è sceso in giardino, si è fatto un bicchiere di vino e poi subito un altro. Quando è morto il nonno, era un alcolizzato.

Meno male che era secco, quante volte lo abbiamo messo a letto mentre mia madre gli sputava contro ogni sorta di rimprovero. Lui fingeva di capire e rideva, col tempo ho imparato bene quel sorriso falso. Ogni volta che qualcuno veniva a farci visita, lui si ergeva a falco e sbraitava perché era ora di cenare, perché aveva appena finito di pranzare, perché faceva caldo o freddo. Poi lo vedevi camminare a passo svelto verso la porta, lisciarsi i baffi e sorridere a denti larghi invitando i malcapitati ad entrare. Mia madre a quei tempi piangeva da sola in sala da pranzo, credeva che nessuno la vedesse. La ricordo in piedi sul water mentre cercava di sturare il sifone, o quando si improvvisava riparatrice di televisioni e incollatrice di carta da parati.

«Non hai talento» diceva mio padre, lui che aveva ottenuto il posto fisso con la domandina scritta da uno zio. «Vai che sei forte» diceva mia madre, sopravvalutandomi. Allora ho capito che le distanze accecano chiunque: me che studiavo l’albero genealogico non riuscendo a capacitarmi del grado di parentela, lui che non vedeva oltre la bottiglia, mia madre che decise di non portare più di due pesi.

«Ti lasceremo in eredità una casa, di cosa ti lamenti?» diceva mio padre. In quei momenti avrei preferito vederlo abbattuto dall’alcol. Dovevo rallegrarmi di ereditare una casa pur avendo conosciuto un unico mare, quello vicino alla fogna nei pressi dell’appartamento. Ci avevo rimediato un fungo della pelle su quella spiaggia inquinata. Avevo indossato jeans corti per la mia altezza, scarpe consumate, giubbini troppo leggeri, ma potevo contare su una casa.

A lui però non bastava. Avrebbe voluto quella dei suoi genitori e il terreno circostante, ma i cavalli, le galline e gli ettari coltivati furono mangiati dai debiti.

Oggi si chiude l’ennesimo capitolo ma il finale deve essere sempre degno. Ecco il mio talento, ora ho imparato a chiudere il cerchio. Quindi, papà, volevi essere cremato? Invece ho scritto per te la decomposizione: ami o no la terra? Sono pronta, ho comprato il tuo vino preferito, mentre vai giù brinderò insieme ai vermi.

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Ma che ne sanno i 2000? Suggestioni dal millennio passato nei dischi di Mosè Santamaria e Panda Pakse

Non sono passati nemmeno due mesi da quando ho parlato di futuri perduti in musica ed eccomi qui a parlare di retromania. Che Mark Fisher e Simon Reynolds abbiano toccato dei tasti scoperti non lo scopro certo io oggi, fa specie però che nel giro di poco tempo mi siano arrivati alle orecchie due dischi che riprendono non solo gli stilemi della musica di fine millennio scorso, ma anche un certo immaginario di quei periodi. Nel caso specifico sono stati Mosè Santamaria, col suo terzo album Come cani per strada (uscito per l’etichetta vicentina LaCantina Records), e i Panda Pakse, con il loro ep d’esordio autoprodotto Questo viaggio, a riportarmi indietro di un bel po’ di anni, seppur con approcci differenti, un diverso decennio di riferimento ma curiosamente la stessa data di uscita, il 9 dicembre.

Spiritualità e Festivalbar

Animale musicale decisamente strano Mosè Santamaria. All’interno delle sue canzoni convivono (o sgomitano, a seconda dei casi) la spiritualità orientale e l’immaginario collettivo più comune, approccio cantautorale e pop sbarazzino, tematiche sociali e disimpegno estremo. I precedenti dischi #Risorse umane (2015) e Salveremo questo mondo (2019) mantenevano un certo equilibrio fra tutte queste anime, ma con Come cani per strada Santamaria fa una virata sonora piuttosto decisa verso il pop, pur non abbandonando i temi che caratterizzano i suoi testi. Nella breve traccia introduttiva lo mette subito in chiaro, affidando ad uno spoken word la propria lezione di vita, mentre nella seconda traccia Come un Buddha sotto un fico il cantautore manifesta la ricerca di un’interiorità autentica, alternando strofe dal ritmo quasi rap a ritornelli più morbidi che si appoggiano su una base ritmata e al tempo stesso sognante. L’equilibrio regge anche nella traccia numero tre, Occhi nudi, un pop synthetico con batteria ultraottanta che intriga con la sua sottile vena oscura, almeno fino a che Santamaria non se ne esce con un “però se ci pensi siamo dei marziani/ a preferire gli uragani agli uramaki” che apre la strada a una serie di riferimenti culturali inseriti un tanto al chilo e senza un’apparente logica.

Non è nuovo a questo tipo d’operazione il cantautore genovese, che ha sempre unito il sacro ed il profano, ma nei testi di Come cani per strada il gioco gli sfugge spesso di mano. I riferimenti pop vengono buttati nei testi per fare rima e nulla più, con una leggerezza che sa di superficialità, fra buchi nell’ozono di cui non ha colpa Yōko Ono e storie d’amore che finiscono con la sparizione anche dei pan di stelle (Skinny). Anche lo sguardo critico sulla società sembra poco approfondito, limitato a poche frasi sulla vuotezza degli status symbol odierni che potevano andare bene anche quarant’anni fa, negli anni ’80 di cui la nostalgia è palpabile in brani come Festivalbar (in cui la metrica in alcuni punti lascia a desiderare) o la conclusiva Epitaffio, e che proprio per questo sembrano datate. Meglio allora il disimpegno completo, perché fra il cosmo che brucia dei Cavalieri dello Zodiaco e un Bowie inserito fra il chiaro e lo scuro (più l’affermazione che non serve a un cazzo andare al seggio elettorale) Festivalbar è divertimento puro, Yōko Ono costringe a battere il piede volenti o nolenti e anche i momenti più scanzonati di Epitaffio fanno venir voglia di ballare, mentre funziona meno il soul sghembo e anacronistico (chi sogna oggi l’America con jeans strappati e Seven Up?) di Skinny, una storia d’amore finita male a cui l’ironia toglie qualsiasi enfasi.

Mosè Santamaria rimane un enigma, un koan impossibile da decifrare. Come cani per strada appare però come il suo album meno riuscito, quello in cui inseguendo un suono e un immaginario retrò che va paradossalmente di moda perde di vista l’obiettivo di cementare una personalità che emergeva più nitida nel precedente Salveremo questo mondo. Più divertimento che verità insomma, soprattutto se avete gli anni ’80 nel cuore.

Un viaggio nello spazio e nel tempo

Da un animale strano a quattro musicisti che suonano vestiti da animali il passo non è così breve, perché ci passa un decennio di musica. Se gli anni ’80 fanno da sfondo al disco di Mosè Santamaria sono i ’90 a influenzare i Panda Pakse, band senese formatasi nel 2019 e che, dopo aver attraversato il periodo storico peggiore per tenere insieme una band, arriva alla pubblicazione del primo Ep di sei brani. Questo viaggio ha il tipico sapore di certo rock alternativo italico di fine millennio: l’alternanza fra la chitarra acustica e quella elettrica, strofe leggere e ritornelli incazzosi, una certa amarezza di fondo che permea anche i brani più ariosi. Il rischio più grosso di un’operazione del genere? Apparire niente più che un “more of the same”.

Fra i pregi di Questo viaggio c’è sicuramente da annoverare la voce, capace di toccare vari registri ed efficace tanto nei momenti più melodici (Lorelei) quanto nei punti in cui accelera e macina parole a mitraglia (le strofe di Fiori del male). Anche gli arrangiamenti denotano un’ottima cura, dilungandosi un po’ troppo con svolte che sembrano voler aggiungere carne sul fuoco laddove non sempre se ne sente la necessità (la parte centrale della title track) ma piazzando qua e là qualche chicca (il cambio di tonalità fra strofe e ritornelli in Pezzo 9), ma questo non toglie che i sei brani dell’Ep hanno una forte carenza di personalità. Gli anni ’90 come fonte d’ispirazione vengono citati esplicitamente nel comunicato stampa e utilizzati come riferimento culturale nella chiassosa e ironica Dragon banale (tutta giocata sulla serie animata tratta dal manga di Akira Toriyama, assurta a fenomeno mediatico negli anni 2000 con l’aumentare della tamarraggine dei personaggi), omaggiati involontariamente con una cover che ricorda tematicamente quella di Doolittle dei Pixies (che per dovere di cronaca è uscito però nel 1989), ma è nelle sonorità che emerge il debito creativo con quel periodo.

C’è poca ricerca nei suoni dei Panda Pakse, distorsioni standard e melodie che sanno di già sentito, e non aiuta il fatto che l’energia non riesca ad esplodere nei punti in cui dovrebbe farlo. L’equilibrio fra gli strumenti aiuta la voce ad emergere ma rende anonimo il risultato, e riesco a immaginarmi i quattro senesi in fase di mixaggio, indecisi sul da farsi, perché ci sono passato e so cosa vuol dire non avere il coraggio di sacrificare nessuno finendo col non esaltare niente. Hanno potenzialità inespresse, capacità melodiche che possono essere sfruttate meglio che nella comunque interessante Lorelei, ma alla fine il brano che rimane più in testa è il meltin’ pot scatenato di Dragon banale, a cui il Caparezza di Abiura di me potrebbe guardare con un certo rispetto: poco per rimanere nelle orecchie a lungo, ma qualcosa su cui lavorare per proiettarsi verso il futuro senza guardarsi troppo alle spalle.

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Racconto in musica 125: Nino (C + C = Maxigross – Gioia)

Guarda te i casi della vita. Avevo pensato già a un’introduzione per questo articolo, un ragionamento che partiva dal quanto siamo disposti a spendere per la musica che amiamo (che sì, valeva pure quando i cd si vendevano ma noi ce li masterizzavamo/scaricavamo e da lì indietro, ma oggi che la musica te la ascolti gratis grazie a Internet è ancora più difficile dare un valore al lavoro dell* artist*) e finiva a Sale, l’ultimo disco dei C + C = Maxigross uscito nel novembre 2020 che per scelta non è stato messo su Spotify ma solo sul loro Bandcamp, ascoltabile solamente pagando e comunicato in una maniera che illumina la realtà sotterranea della musica indipendente italiana, fatta di musicist* che ci credono un sacco ma che poi, al netto delle spese pagate per portare avanti la loro passione, fanno fatica a mandare avanti la baracca. E questo discorso rimane valido eh, ma si dà il caso che in questi giorni sia uscito Cosmic res, il nuovo disco della band veneta, per cui mi viene da ragionare sulle coincidenze della vita e su quanto tu possa organizzare una cosa a un modo e poi scopri all’improvviso che c’è altro di cui parlare. Ma non è che sia un ragionamento così nuovo o così interessante, perciò facciamo che saltarlo e andare al cuore dell’articolo, che poi è parlare della band e dello scrittore che mi ha spinto a parlarne, cioè Sebastiano Scordato.

Sebastiano, messinese classe 1982 trapiantato a Mantova, è uno di quelli che a leggere quante cose ha fatto non sai da dove partire. Laureatosi nella sua città natale in Scienze del servizio sociale con la tesi “Il teatro e il sociale”, inizia da subito a unire la sfera sociale e quella artistica nel suo lavoro di operatore, mediatore culturale e assistente sociale. La drammaturgia in particolare è un amore che lo spinge a studiare sceneggiatura alla Scuola Holden di Torino con Alessandro Di Pauli e drammaturgia in un corso tenuto da Tino Caspanello, esperienze che lo portano a spaziare in lungo e in largo per il panorama artistico. Sebastiano è infatti paroliere, scrittore, poeta, sceneggiatore e drammaturgo, professioni che l’hanno portato a pubblicare molto materiale personale come la saga (in corso) de I cento racconti, di cui a breve uscirà il quinto capitolo (e che potete recuperare anche in audiolibro), la raccolta poetica Le isole di fronte al mare e l’antologia Racconti per dormire, ma anche molto materiale per altri artisti come i testi del singolo Il ministro e dell’album La mia Odissea per il cantautore Ciccio Cucinotta e i cori per il poema sinfonico che il Maestro Marco Triolo sta traendo dall’Eragon di Cristopher Paolini. Basta così? Nemmeno per sogno! Membro fondatore delle associazioni storiche I cavalieri della stella e Tercio viejo de Sicilia, del giornale Paese Italia Press e dell’etichetta musicale New Horizon, Sebastiano trova il tempo anche di pubblicare racconti e contributi vari nella rivista Sulla quarta corda di Monica Pezzella, per la quale attualmente funge anche da collaboratore e copywriter: se dovessi aver disgraziatamente dimenticato qualcosa in questo tornado di attività di sicuro ne trovate traccia nel suo sito, dove trovate anche i servizi editoriali che offre.

Riassumere una storia articolata lunga quindici anni è in sé un tentativo già fallimentare, soprattutto quando sul loro sito quella storia la trovate invece descritta con dovizia di particolari, ma siamo qui per tentarci e vale la pena di darvi almeno un’infarinatura di ciò che sono stati e sono i C + C = Maxigross, gruppo che ho incrociato dal vivo una sola volta in quel di Lu Monferrato nel 2014 ma che, seppur da lontano e in maniera discontinua, ho visto crescere e mutare in qualcosa di sempre diverso. Un collettivo, così si definiscono fin dagli inizi anche se a fondarlo sono in tre, Francesco Ambrosini, Filippo Brugnoli e Tobia Poltronieri, perché a conti fatti dal primo Ep Singar (2011, 42 Records) a Cosmic Res (2023, Trovarobato e Dischi Sotterranei) passano dodici anni e un numero ben più ampio di collaborazioni, formazioni che variano anche all’interno dello stesso tour per accogliere membri in un flusso continuo, artisti di ogni parte del mondo che si uniscono come il norvegese Martin Hagfors (con cui registrano l’Ep An instantaneous journey with Martin Hagfors & C + C = Maxigross) o il senegalese Alioune Slysajah, la fondazione di un’etichetta (Vaggimal Records, creata nel loro studio in una casa di montagna) e anche di un’altra etichetta/collettivo/studio di registrazione (Tega, sotto cui sono usciti i loro ultimi dischi e i progetti solisti di Tobia e Niccolò “Cru” Cruciani, membro stabile dal 2014), l’organizzazione di un festival nella loro Lessinia (il Lessinia Psych Fest!, che va avanti per quattro edizioni di cui la prima senza permessi e pubblicizzata quasi solo col passaparola, cosa che porta la band a pagare una multa ma non incide sul successo della due giorni di musica), concorsi vinti (Arezzo Wave), concerti fatti in Italia e per il mondo (123 quelli del tour di Ruvain, fra il 2013 e il 2014, e poi tour negli Stati Uniti, l’inserimento nel cartellone principale del Primavera Sound Festival nel 2016…) oddio come faccio a star dietro a questo mare di informazioni? I C + C = Maxigross poi non edulcorano niente della loro storia, fatta di successi ma anche di cadute, ti parlano senza problemi del concerto di fine agosto 2018 al Carroponte di Milano andato (quasi) vuoto e delle sole 80 copie vendute su vinile del disco Deserto (2019) a fronte di diecimila euro di spesa per registrarlo, per due anni sfanculano Spotify (è cosa buona e giusta) lasciando Sale solamente su Bandcamp e facendolo ascoltare solo pagando (tutto il ragionamento che facevo all’inizio loro lo fanno meglio e in maniera più approfondita qui) e insomma, continuano a lottare e resistere insieme a noi.

Ma la musica, vi chiederete? Un flusso in costante cambiamento, dal folk a qualunque cosa il folk può diventare quando lo si sporca con la psichedelia, con ritmi di ogni parte del mondo, con la spiritualità, cantando in inglese (fino a Fluttarn, 2015) e italiano (dall’Ep Buona speranza, 2017), stupendo e stupendosi di quanto la musica può toccare tasti diversi e farti rilassare o farti ballare (ascoltatevi Piedi asciutti da Sale) e può mutare con le esperienze e con gli amici che suonano insieme a te o con cui condividi il palco. Amici come Matteo Givone degli Indianizer, Andrea Guagnelli dei Brothers In Law e Mirko Bertuccioli dei Camillas, cui è dedicato Sale, e soprattutto Miles Cooper Seaton, musicista statunitense fondatore degli Akron / Family trapiantatosi a Verona fin dal 2015 e collaboratore, compagno di avventure sul palco e dietro al mixer, spentosi nel 2021 a soli 41 anni e a cui è dedicato Cosmic Res. Si può anche qui riassumere in poche parole un viaggio musicale così lungo e così pieno di emozioni, sensazioni, gioia e dolore? No, per qui andate qui e cominciate ad ascoltare… E ciò che vi piace compratelo!

Ho appena parlato di gioia e dolore e proprio Gioia si intitola la canzone che io e Sebastiano abbiamo deciso di associare al suo racconto, un curioso esperimento che unisce l’osservazione di una scena comune vista sotto la lente dell’unicità alla sua abilità come paroliere. Nella canzone dei C +C = Maxigross, ultima traccia di Deserto, abbiamo trovato le stesse sensazioni, quella capacità di esistere a un ritmo diverso e di gioire anche solo per il fatto di esserci. Perdetevi fra le note e le parole, le trovate qui in basso: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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Nino, di Sebastiano Scordato

Il profumo di acqua che irriga i campi, il sole leggero che riscalda le piante. Silenzio, poi il vento che soffia pacato in una strada di campagna, il rumore dell’acqua che scorre in lontananza, l’odore di polvere e zagara.

Mi hai portato in questa strada,

il tuo amore mi hai negato.

Mi hai portato nella tua strada,

senza fiato mi hai lasciato.

Un anziano in lontananza risale la strada, sorridente, in groppa al suo scooter elettrico a quattro ruote. L’uomo ha baffi bianchi poco curati; i suoi occhi puntano in avanti, verso la lieve salita che lo aspetta; con lui, due chihuahua – uno bianco e uno nero, anche loro avanti con l’età – sorridenti si avvicinano ai bordi della strada, odorano in un punto e poi fanno pipì.

Mi hai promesso amore eterno,

e mi hai dato solo tormento;

dicevi di amarmi con il cuore in mano,

ora mi lasci senza sostegno.

Ritorna da me amore caro,

amore vero,

ritorna da me.

Non lasciarmi sola senza alcun calore

nel buio del tuo torpore.

Una musica accompagna l’anziano, che sorride e risale la lieve salita; i due cani lo precedono mentre l’uomo, placido, si sposta a destra della strada. Si ferma, tocca una busta nella cesta anteriore dello scooter; al tocco la musica cambia, i due cani sentendo il nuovo ritmo lo guardano, assorti.

Il colore della vita dà sul rosso,

ma non si ferma mai neanche su un dosso,

una salita,

una discesa.

Il colore della gioia dà sempre sul giallo

e si vede proprio quando ballo.

Inizia a camminare con questa canzone,

fermati solo con una ragione.

Mentre l’uomo cerca qualcos’altro, la musica cambia di nuovo. I due cani si allontanano da lui; il nero attraversa la strada, mettendosi ad annusare un’aiuola, quello chiaro, impossibilitato dagli anni a muoversi bene, avanza verso la salita di qualche metro: nel muoversi sembra quasi danzare al ritmo di quella musica. C’è il suono leggero dell’acqua che scorre e del vento, che porta il profumo di zagara.

Solo i raggi del sole si muovono verso la via.

Altro posto ti aspetta,

sui tuoi passi

trova la forza,

sulle tue gambe trova la felicità.

Una macchina passa e si ferma nei pressi dell’uomo, che continua a sorridere e farsi gli affari propri mentre cerca, ancora, qualcosa nella busta di plastica. I due cani ritornano; quando lo raggiungono, la macchina li supera e loro riprendono il cammino. L’anziano ha proprio sopra la testa una zagara che sbuca tra le foglie.

La felicità troverai alla fine della salita,

la felicità che tanto cercavi.

I due cani lo guardano; l’uomo sorride e riprende la marcia, lento, in mano la zagara e il suo profumo.

Una nuova vita dopo una salita,

una vita dietro un destino

primavera e cammino

l’amore e poi…

L’anziano scompare dietro la salita, avvolto dalla luce del sole che va a imbrunire; si sente ancora la musica, ma piano piano anche lei scompare, lasciando posto al rumore di acqua che scorre, mentre il vento tra le foglie porta con sé l’odore di zagara.

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Guillermo sì, Guillermo no: la scalata di Del Toro alla conquista di Netflix

Come si fa a non voler bene a Guillermo Del Toro? Il regista messicano ha una faccia bonaria che ti fa venir voglia di abbracciarlo, ma tutta la tenerezza che ispira sarebbe nulla se ti piantasse lì che so, un Funny games a caso. Invece lui coi suoi film ti dà l’idea di un eterno bambino affascinato dalla magia del cinema, uno che riesce a vincere un Oscar con quella favola che riesce a risultare originale pur senza inventare niente che risponde al nome di La forma dell’acqua, che rende un blockbuster un film di robot enormi e kaiju che si menano (Paficic rim) ma che allo stesso tempo spende un sacco di soldi per la sua idea di gotico e fa flop (Crimson Peak). Non è uno a cui riescono tutte le ciambelle col buco, per cui non si porta dietro quell’aria da vincente che avvolge i conterranei Cuarón e (soprattutto) Iñárritu (suoi grandi amici tra l’altro): loro si guarderebbero bene dallo sbandierare ai quattro venti progetti che non prendono mai piede come il lovecraftiano Le montagne della follia, e probabilmente se prendessero un impegno con Peter Jackson lo manterrebbero invece di scaricargli il peso de Lo hobbit sulle spalle… Ma come faceva Jackson a prendersela con uno che come lui si è fatto la gavetta con pellicole da cui i “veri” registi si sarebbero tenuti lontani, dall’horror di Mimic ai cinecomic (quando ancora i cinecomic non erano garanzia di incassi) come Blade II e i due capitoli di Hellboy? Insomma, a Guillermo Del Toro non si può voler male, e a criticarlo si fa peccato. O no?

Caso vuole che in pochissimo tempo il regista sia sbarcato su Netflix non con una, bensì con due opere che recano impresso il suo marchio. Ha aperto le danze Cabinet of curiosities, serie antologica che si rifà ai classici del genere (sullo stile di Ai confini della realtà e Alfred Hitchcock presenta, tanto che Del Toro introduce ogni episodio in prima persona) aggiungendoci un bel po’ di orrore, gli ha fatto seguito Pinocchio, il progetto dei sogni di un sacco di registi e che a un sacco di registi ha segato le gambe (lui stesso se lo è visto segare in partenza più volte dal 2008 a oggi). E com’è andata?

Per fare Lovecraft non basta l’amore

Orrore cosmico in 3, 2, 1…

Cabinet of curiosities è una serie che vede Del Toro nei panni di nume tutelare. La sua mano dietro la macchina da presa non c’è, è solo parzialmente coinvolto nella sceneggiatura (due episodi, Lotto 36 e Il brusio, sono tratti da suoi racconti), ma è facile intuire che si sia divertito un mondo a coinvolgere nell’avventura registi che apprezza e a cui il successo ha arriso a fasi alterne: se si escludono i semi esordienti Guillermo Navarro (che come direttore della fotografia ha in compenso una carriera lunghissima, spesso a fianco di Del Toro) e David Prior (autore nel 2020 dell’interessante The empty man) il resto del parterre è una sequela di nomi noti del cinema underground, da Vincenzo Natali (The cube, Splice, il bellissimo e misconosciuto Nothing) al giovane Keith Thomas (fresco fresco del nuovo adattamento de L’incendiaria di Stephen King) passando per Ana Lily Amirpour (A girl walks home alone at night, The bad batch), Panos Cosmatos (Mandy), Catherine Hardwicke (dall’esordio ottimo con Thirteen a Twilight in soli cinque anni) e Jennifer Kent (Babadook, The nightingale). L’orrore è un genere con cui tutti in qualche maniera hanno avuto a che fare e così Del Toro, anfitrione di una camera delle meraviglie (sale in cui, particolarmente fra il XVI e il XVIII secolo, i collezionisti conservavano raccolte di oggetti straordinari e insoliti) la cui magnificenza è seconda solo alla sua pericolosità, invita ognun* di loro ad appropriarsi di un oggetto e narrarne la storia, spesso fonte di disavventure per l* malcapitat* che vi entrano in contatto.

“Andiamo alla ricerca di modi per morire male”

Oltre che di registi esperti la serie si avvale anche di un cast di tutto rispetto, formato sia da caratteristi di lungo corso (Tim Blake Nelson, Peter Weller, Crispin Glover) che da attori capaci di conquistare piccolo (Andrew “Rick Grimes” Lincoln) e grande (F. Murray Abraham, premio Oscar nel 1984 per Amadeus) schermo, ma il talento può poco senza una buona storia da narrare ed è qui che le cose iniziano a scricchiolare. Del Toro ambisce a ricreare parzialmente il fascino di serie televisive di decenni fa, ma lo fa troppo spesso con tropi narrativi che arrivano da quel periodo quando non da epoche più vecchie, epoche in cui accanto al brivido c’era sempre la morale: è questa che emerge spesso come vera protagonista, aleggia intorno al brutto carattere del protagonista di Lotto 36 e si frappone fra il tombarolo Masson (David Hewlett, fedelissimo di Vincenzo Natali) e i suoi truffaldini guadagni in I ratti del cimitero, ma la novella educativa mal si sposa con l’orrore esplicito dei primi due episodi, lasciandoli a mezza strada fra il puro intrattenimento, la necessità di stemperare la tensione con un po’ di humor e l’ansia di voler dire qualcosa che conosciamo già. L’episodio diretto da Natali ha anche l’onere di tirare in ballo uno dei nomi grossi dell’horror, Howard Phillips Lovecraft (anche se, nel caso specifico, la citazione dei Grandi Antichi arriva da un racconto di Henry Kuttner, compagno di merende dello stesso scrittore), ma dopo che Richard Stanley ha dato a tutti una lezione di stile con l’adattamento de Il colore venuto dallo spazio (2019) non bastano i tentativi di un volenteroso ma basilare Thomas (Il modello di Pickman) o di un’estetizzante Hardwicke (I sogni nella casa stregata) a rendere giustizia alle invenzioni del maestro di Providence.

Giuro che ho una collega che fa ste facce a lavoro, altro che L’apparenza

Dove non può la narrazione, altalenante anche ne L’autopsia di Prior (bravo a tenere alta la tensione fino a metà episodio, meno nel tirare le fila di una vicenda che anche qui si perde in troppe questioni morali), può forse l’estro visionario. È questo che lega gli episodi di Amirpour e Cosmatos, ma se la cura estetica miracolosa alla base de L’apparenza si fa forza degli sguardi allucinati di Kate Micucci e Martin Starr per portare avanti una storia di mutazioni, senso d’inadeguatezza e orrore sociale sfruttando gli stereotipi senza cavalcarli troppo, in La visita il regista greco-canadese spreca un sontuoso impianto scenico a cavallo fra gli anni 70 e gli anni 80 (pure musicalmente, con temi che omaggiano esplicitamente le opere di John Carpenter) incentrando l’episodio su un gruppo di persone in una stanza e alimentando una tensione che, quando si risolve, manda un po’ a quel paese tutta la premessa abilmente costruita nonostante dei dialoghi spesso poco credibili. Alla fin fine brillano particolarmente le donne, perché oltre all’episodio di Amirpour va fatto un plauso a Kent, la cui favola gotica a base di fantasmi e uccelli si rivela efficace, piena di sensibilità e capace di spaventare più di tutti gli altri episodi messi insieme senza la necessità di puntare sul gore: Il brusio chiude in bellezza un’antologia che innova poco e riadatta senza troppa maestria vecchi canoni, ma se la qualità di un’eventuale seconda stagione fosse quella dell’ultimo episodio entrerei volentieri ancora nella camera delle meraviglie di Del Toro.

Fascisti e Collodi

“Io questa storia me la ricordavo diversa”

Ha un po’ del melodrammatico la storia di coppia che chiude Cabinet of curiosities, un registro narrativo che a Del Toro non dispiace affatto: non per niente i primi dieci minuti del suo Pinocchio sono un profluvio di buoni sentimenti che sai già che porteranno verso la rovina, e quella rovina si concretizza nella morte di Carlo, figlio dell’umile falegname Geppetto che passa dal costruire un crocifisso ad attaccarsi al collo della bottiglia in tempo zero (e lo si può pure capire, poveraccio). Un inizio inaspettato e zoppicante, condito da dialoghi a rischio diabete e qualche frase che sembra scritta da chi l’Italia l’ha immaginata solo da turista come manco i protagonisti della seconda stagione di The White Lotus, ma se un compaesano definisce Geppetto “un cittadino italiano modello” forse è perché a inizio Novecento il patriottismo era un sentimento ancora molto in voga e di lì a poco sarebbe stato cavalcato da quello che è a tutti gli effetti uno dei protagonisti della rilettura operata dal regista messicano: il fascismo.

Un fascista piccolo piccolo

È curioso come Del Toro sia affascinato dai movimenti dittatoriali europei. Dopo le opere ambientate agli albori del regime di Francisco Franco in Spagna (non ho mai visto La spina del diavolo, ma per Il labirinto del fauno non ho problemi a usare la parola capolavoro) ecco che Pinocchio prende vita in pieno periodo fascista, finendo per restare coinvolto di striscio negli eventi storici che hanno sconvolto L’Italia e il mondo intero. Non è l’unico cambio operato rispetto alla novella originale, perché al regista la storia di Collodi sembra interessare più come matrice per innestare le sue idee: ecco allora che le figure del Gatto, della Volpe e di Mangiafuoco vengono riassunte dal losco Conte Volpe e dalla sua fidata scimmia Spazzatura, Pinocchio acquisisce la capacità di tornare dal regno dei morti (cosa che lo rende appetibile per il podestà del paese, interessato a sfruttarlo come soldato definitivo) e proprio qui, in un mondo popolato da conigli-becchini che giocano infinite partite a carte, il burattino incontra il contraltare dello Spirito del bosco (in vece della Fata Turchina) che lo ha reso senziente: la Morte, una sorta di chimera che gli insegnerà il valore della vita. Ogni modifica è azzeccata e dona ulteriore spessore a una storia che più che accentrarsi sulla maturazione in un bambino vero (il grillo Sebastian come guida morale riesce a fare ben poco) punta il focus su cosa voglia dire essere umani, affiancando tematiche persino cupe a momenti di puro divertimento e, soprattutto, di gioia per gli occhi.

A fianco di una storia narrata con la giusta enfasi Pinocchio mette anche un comparto tecnico di prim’ordine, affidandosi completamente allo stop-motion (a opera dell’esperto Mark Gustafson, co-regista della pellicola) e realizzando senza ausilio di computer grafica scene che lasciano a bocca aperta (io sono rimasto incantato dai colori sullo sfondo durante uno scontro fra Pinocchio e il Conte Volpe). Non dovremmo più stupirci di fronte alla magnificenza delle opere realizzate con questa tecnica (ho ancora nel cuore Coraline e la porta magica), eppure Del Toro riesce a superare ogni aspettativa e mentre seguiamo l’irriverente epopea del burattino di legno fra bizze, complotti e ribellioni al regime, risate e commozione si mischiano senza più far ricorso ai toni melassosi dell’incipit, che risulta così funzionale alla storia ed efficace nell’aumentare la nostra sorpresa di fronte al rutilante spettacolo lì da venire.

Conigli neri idoli del film

Quella che è stata una trappola per la carriera di molti registi (fra le vittime illustri ricordiamo Francesco Nuti e Roberto Benigni) per Del Toro diventa l’ennesimo trionfo. Il suo Pinocchio diverte e fa pensare, allarga le tematiche dell’opera originale e, nel farlo, si fa beffe del fascismo e della sua ideologia (nonché del Duce, “ridotto” a macchietta comica): come si fa a non voler bene a quest’uomo?

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Racconto in musica 124: Dopo il disastro (Spread – M. C. ‘n. H. n. F.)

Come ho raccontato più di una volta questo blog è nato nel periodo migliore e peggiore allo stesso tempo: il peggiore perché inaugurarlo alle porte della pandemia ha eliminato i live per lungo tempo, e io ingenuamente mi dicevo “parlerò di un sacco di artist* che scoprirò dal vivo” (poi comunque è successo); il migliore, si fa per dire, perché in quel periodo ho avuto un sacco di tempo per abituarmi a gestire il blog con una routine che altrimenti non sarei riuscito a mantenere (e ogni tanto infatti non ci riesco, l’articolo di metà settimana è saltato).

Mi ritengo una persona fortunata, anche se a volte questo pensiero assume forme un po’ contorte. Mi ritengo fortunato perché mio padre è morto il 2 marzo 2020 per motivi non inerenti il covid e in tempo per fare un funerale a cui hanno potuto partecipare alcuni amici; mi ritengo fortunato per quel tempo in più, anche se era dovuto alla chiusura delle ditte non necessarie e alla successiva (lunga) cassa integrazione; mi ritengo fortunato perché, nonostante il lockdown, io e la mia compagna siamo riusciti a rimanere innamorati quanto e più di prima (e lei, a differenza mia, doveva pure lavorare in smart working). Penso di essere un realista che tende all’ottimismo, so che poteva andare meglio ma anche che c’è una fiumana di persone che se la sono passata molto, molto peggio nelle fasi più atroci della pandemia, e che i problemi strutturali che hanno causato certe situazioni sono ben lungi dall’essere risolti. Se l’è passata sicuramente peggio di me ad esempio un medico di base della Val Cavallina, in provincia di Bergamo, che dalle sette di mattina a notte fonda si occupava dei suoi pazienti con visite domiciliari e consigli su whatsapp, barcamenandosi fra le difficoltà strutturali di cui sopra che gli hanno impedito di avere anche le mascherine necessarie nelle prime settimane di contagi, come racconta lui stesso qui: quel medico io lo conosco, più come voce che come faccia dato che ho avuto la fortuna di vederlo sul palco solo una volta (2018, Ambria Music Festival a Zogno), ma provai istintivamente ancora più affetto per Roberto Longaretti e per i suoi Spread.

Non è così facile trovare informazioni sugli Spread, uno dei segreti meglio custoditi della florida scena bergamasca, tanto che prima di oggi ignoravo l’esistenza del loro primo disco, Anche i cinghiali hanno la testa, uscito nel 2009 dopo i primi anni passati a suonare nella zona e autoprodurre una demo. Di quel disco rimangono poche tracce nell’internet (o sono io che non sono bravo a cercare), giusto un paio di brani su YouTube che testimoniano già della potenza vocale di Longaretti e della tangenzialità (che cazzo di parola ho tirato fuori?) della loro musica, che sotto la patina di un grunge/stoner “istituzionale” promette derive succulente ma non per tutti i palati. Ignoro anche quali fossero i componenti della band ai tempi, ma quando nel 2011 esce per l’etichetta Il verso del cinghiale il secondo disco, C’è tutto il tempo per dormire sotto terra, della formazione fanno parte Paolo Fusini alla chitarra, Paolo Colleoni alla batteria, Stefano Meli al basso e Francesca Arancio al violino, mentre un tot di amici collaborano in altri brani fra cui Fabio Intraina che lo registra (quanti dischi fighi sono usciti dal Tray Studio di Inzago) e Alberto Ferrari che lo masterizza nell’Henhouse Studio dei suoi Verdena. Il disco è qualcosa di storto, deviato, inquietante e assolutamente impossibile da ignorare, uno di quei dischi che si amano o si odiano e io, come avrete capito se ne parlo qui, faccio parte della schiera dei secondi: partire con una cover depressa e rallentata di Fin che la barca va di Orietta Berti è già particolare di per sé, ma il delirio è ben lungi dal cominciare visti i versi animaleschi che introducono Charlie, i continui cambi di ritmo di In guardia, le urla concitate nel finale di M. C. ‘n. H. n. F., la calma improvvisa e medievaleggiante di Il castello di Poppi (fun fact: anni dopo ho conosciuto una ragazza che abitava vicino a quel castello) e mille altre sfumature di una personalità unica. Il disco me lo spolpo parecchio, loro dividono il palco con Afterhours, Le luci della centrale elettrica e molti altri (fra cui non potevano mancare i Verdena) ma poi per anni li perdo di vista, dato che ne passano ben sette prima che Longaretti e compagni tornino a produrre qualcosa: lo fanno nel 2018 con Vivi per miracolo, uscito per Go Down Records e registrato da Alberto Ferrari nel pollaio/studio dei Verdena con una formazione che vede uscire Meli e Arancio ed entrare Valentino Novelli al basso, mostrando la stessa fantasia negli arrangiamenti e nelle linee vocali ma con una graniticità maggiore (non per niente la Go Down è l’etichetta dello stoner per eccellenza nel panorama italiano). Io finalmente me li vedo live, poi arriva la pandemia e che succede? Succede che la vita va avanti e arrivano anche belle notizie, come il matrimonio di Longaretti con Roberta Sammarelli e la canzone Bimba che gli Spread fanno uscire proprio nello stesso periodo, l’estate 2020 in cui ancora si faticava a tornare alla vita normale ma ci si provava: oggi che i concerti sono tornati a essere una realtà consueta la band è ancora qui e lotta insieme a noi, tanto che l’ultima data risale a inizi novembre al mitico Joe Koala di Osio Sopra, e pare che qualcosa bolla in pentola per il futuro.

M. C. ‘n. H. n. F. è l’acronimo di “Merry Christmas and Happy New Fear”, e dato che per tradizione in questo periodo cerchiamo di rispettare il tema natalizio non potevo trovare canzone migliore per farmi ispirare. L’immaginario da pranzo di Natale in famiglia è ben presente nella folle rincorsa delle liriche sparate a raffica da Longaretti, e mi ha tirato fuori un racconto che pesca dai ricordi personali, da qualche stereotipo e da una di quelle frasi che ci siamo ripetuti fino allo sfinimento mentre eravamo chiusi in casa, “ne usciremo migliori”, che oggi di solito usiamo cinicamente guardando gli altri per dirci che non è stato così: ma noi che giudichiamo siamo migliorati o peggiorati? La risposta nel testo che segue la canzone che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto, buona lettura e darvi appuntamento a gennaio.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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https://www.rockit.it/spread/canzone/merry-christmas-e-happy-new-fear/29871

Dopo il disastro

Eccolo, il momento. Quello in cui rimpiangi il lockdown, il coprifuoco, l’isolamento sociale e la distanza posta fra te e coloro a cui vuoi bene per il loro bene, solo per il loro bene.

È ancora Natale. Sapevi che sarebbe arrivato questo giorno, non puoi fuggire. Non puoi deludere tutti. Ti hanno già invitato in quattro, fra cui una cugina che ti sta anche simpatica. Una volta, da piccolo, ti aveva detto “non diventiamo come loro”.

LORO.

Prepari una torta salata. Nella tua famiglia il pranzo di Natale funziona così: ognuno porta qualcosa. Tu non ti sbizzarrisci, vai su qualcosa di semplice e sano, vegetariano (non vegano), sia mai che qualcuno abbia sviluppato un ribrezzo per la carne. Una volta uno zio acquisito ha fatto un dolce troppo cioccolatoso e allora

(io sta merda non la mangio ho il diabete mi vuoi ammazzare sarà buono quel tuo cazzo di affettato comprato al discount questa carne odora di merda oh c’hai messo l’acqua nel vino eheheheheh cazzo ridi che c’hai i denti scompagnati OOOOOOOOOHHHHH PORCO DI QUEL)

Sorridono tutti. Sorridi anche tu. Il primo è passato, c’è una bella atmosfera. La pasta al forno aveva quella crosticina bruciacchiata che ti piace tanto ma a tua madre no, proprio no. Ma non ha detto nulla. Ti hanno fatto domande sulla tua vita personale, le solite cose che non sopporti

(ma vivi ancora da solo quand’è che ti trovi una fidanzata almeno la camicia potevi stirarla)

ma che oggi è più facile tollerare. È il livello minimo di disagio che riesce a metterti a tuo agio, a farti dimenticare quanto poco ci vuole a trasformare tutto in una battaglia, quanto peso si porta dietro una parola qualsiasi come quella che ora potrebbe uscire dalla bocca di tuo cugino

(ancora con questo cazzo di debito io non ti devo un cazzo hai capito allora parliamo di quella volta in macchina dietro al supermercato schifoso pervertito di merda vogliamo mettere sul piatto tutto davvero vogliamo farlo ho pulito la merda dal culo di tuo padre per sette anni tu smettila di piangere troietta è stato un errore nell’app del ciclo di sua madre)

C’è il dolce. Semplice, classico: un panettone senza canditi. Tuo nonno dice che per chi vuole c’è il pandoro. La cugina che ti sta simpatica ha portato la crema al mascarpone, la porta in tavola e ti guarda con un’espressione che sembra voler dire “da non crederci, vero”? Infatti non ci credi. Sembrano altre persone, persone piacevoli. Forse è vero che ne siete usciti migliori, ma il fatto che questo ti dia fastidio ti fa sentire come se l’unico a non essere cambiato sia proprio tu.

Ti senti una merda.

Dopo il caffè e gli amari i primi parenti cominciano a salutare. Chi resta non parla male di chi se ne va. Ti stai quasi adattando a questo clima di affetto reciproco, poi tua sorella fa un accenno alla questione del loculo nella cappella di famiglia, solo un piccolo accenno, possiamo parlarne un’altra volta.

Sorridi. Sei più simile a loro di quanto vorresti. Avrete tutto il tempo di litigarvi il posto dove dormire sotto terra.

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Racconto in musica 123: L’albero della conoscenza (Diego Deadman Potron – Carnhate)

Ci sono concerti che possono farti innamorare di qualche artista immediatamente. A volte è la carica della band, come quando vidi per la prima volta Le Capre A Sonagli e fui travolto da questi pazzi che saltavano, usavano catene per suonare la batteria e si gettavano in mezzo al pubblico, il tutto mentre il cantante e chitarrista Stefano Gipponi se ne stava comodamente seduto su un amplificatore con la sua acustica; a volte può essere al contrario la postura dimessa, tipo quella con cui un vibrante ma ancora sconosciuto Vasco Brondi aka Le Luci Della Centrale Elettrica catturò la mia intenzione in apertura a Il Teatro Degli Orrori in un locale ormai chiuso dell’hinterland novarese (ciao ciao Piccole Iene/ Rock’n’roll Arena); a volte possono essere le parole giuste per descrivere le proprie canzoni, una semplice frase in apertura a un brano, qualcosa tipo “questa canzone parla di un tizio che si taglia il cazzo e decide di metterlo a essiccare sopra il caminetto”: è con parole simili a queste che Diego Deadman Potron attirò la mia attenzione a un concerto anni fa, tenendola calamitata per tutto il tempo.

Mi dà modo di parlarne un vecchio amico di Tremila Battute, Danilo Di Prinzio. Ospite del blog in altre due occasioni, Danilo entra nel novero dei collaboratori più assidui insieme a Stefano Tarquini, Alessio Barettini e Alex Roggero, il che mi riempie il cuore di gioia e di affetto verso ognuno di loro. Pubblicato su svariate riviste coi suoi racconti, vincitore di alcuni concorsi con i suoi testi sia letterari che poetici, da poco ha pubblicato con la casa editrice I Quaderni Del Bardo la raccolta di racconti Elezione al rango di contemplatore della Luna, che potete trovare qui.

Chi è Diego Deadman Potron? Il bluesman oscuro che racconta storie di violenza e disagio, di uomini che apostrofano le proprie donne dicendo “se non capisci questo concetto, dovrò usare il ferro”? Il chitarrista scatenato che assieme al batterista Christian Amendolara spande stoner a piene note coi Dead Man’s Blues Fuckers, che ebbi la fortuna di incrociare nel 2016 al Balla Coi Cinghiali? Il cantastorie bizzarro che canta allegramente del ben poco rassicurante Mr. Choppy? Tutto questo e non solo, perché nell’arco della sua più che decennale carriera Potron ha esplorato tutte le anime del blues, dalla cupezza alla levità, dagli arpeggi acustici alle distorsioni. La sua carriera comincia nel 2006 come one man band, chitarra elettrica a tracolla, cigar box, batteria al piede e una voce profonda con cui affascinare il pubblico con le sue storie, spesso come opening act (sia in Italia che in tutta Europa) di gente come Bob Log III, Turbonegro e San Nick Oliveri (la mia labile memoria non mi rende sicuro di questa affermazione, ma è probabile che proprio a un suo concerto lo abbia incrociato la prima volta). Al primo disco ufficiale ci arriva tardi, nel 2013, quando la Ammonia Records (quanti ricordi punk che ho legati all’Ammonia!) produce Electro Vodoo, un disco grezzo, sporco e trascinante (ascoltate Demon in my ass e provate a restare fermi), la matrice da cui solo tre anni dopo si svilupperanno i Dead Man’s Blues Fuckers. Il 2016 è anche l’anno in cui sempre Ammonia produce il fantastico split in cui il one man band Potron incontra la one woman band Elli De Mon: il risultato è Vs, un concentrato di emozioni in cui emerge il lato più intimistico del “Deadman” e che lo porterà a intraprendere una nuova direzione nei suoi album solisti.

La differenza la si può già ascoltare nel 2018, anno in cui esce Winter session (dopo una parentesi ancor più fragorosa, ovvero l’esordio nel 2017 dei Dead Man’s Blues Fuckers Phase II, pubblicato da Femore e Crono Sound Factory): composto da brani in cui i suoni acustici hanno più peso, dal respiro più ampio e con affinità evidenti con il panorama musicale folk, le nove canzoni di Potron sono piccoli gioielli introspettivi che non perdono comunque per strada le atmosfere “maledette” che hanno contraddistinto la produzione del bluesman fino a quel momento. Il 2020 è l’anno di Ready to go, altre dieci tracce fra intensità e ironia (che titolo fantastico è While I sleep my dog goes to the beach and play Bo Diddley?) in cui si fa notare la cover di Stayin’ alive, ennesima rilettura del brano dei Bee Gees (senza discostarci troppo di genere ricordiamo quella degli Hormonauts) che riesce comunque a essere piena di personalità. L’ultimo capitolo della storia musicale di Potron, almeno dal punto di vista discografico, si chiama Safari station ed è una nuova collaborazione, questa volta con il polistrumentista e cantante Andrea Van Cleef: l’album del duo, uscito nel 2021 per Rivertale Productions, espande ulteriormente il cosmo musicale, ma fra l’ascesa continua di You and I were born for better things e la lenta progressione della title track resistono salde le radici di un suono che Potron maneggia con energia e sentimeno unici. E la primavera sembra promettere novità, che potrete assaggiare al Bloom di Mezzago andando a vederlo di supporto agli Ardecore il 23 dicembre…

L’albero della conoscenza, il racconto propostomi da Danilo, non è nato sulle note di Carnhate ma entrambi siamo stati concordi sul fatto che il brano potesse esserne un’ottima “casa musicale”: la levità della musica e la semplicità del testo di Potron, unito alle immagini di libertà interiore che ne scaturiscono, ben si associavano al linguaggio usato da Danilo, una melodia di frasi lunghe e articolate che svelano una realtà scabrosa, a tratti respingente, ma che mantiene un germe di purezza proprio grazie al modo in cui è raccontata. Potete leggerla come al solito dopo il brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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L’albero della conoscenza, di Danilo Di Prinzio

È con la guancia contro la porta, gli occhi chiusi, le narici attente a percepire ogni molecola di fragranza. Lo sente con tutta la pelle, il suo odore, lì dentro nel cervello, in una elaborazione da confondere la ragione. Poi il fruscio delle vesti, un soffio leggero sulle piastrelle, un passo come di danza, lui al di qua della porta, le tende tirate le une di fianco alle altre, per spegnere il mondo affinché si sveli l’eccesso che abita la sua interiorità senza luce, alterato dall’effluvio del passo di lei, un braccio levato in avanti e un altro indietro, mentre cammina lungo il corridoio. Poi ecco che la sente fermarsi, e sprofonda nel viaggio che seduce, che non ha requie, che costringe la mano a sfiorarsi tra le gambe, sulla costrizione dei pantaloni.

Quanto tempo impiegherò per avanzare nel deserto di questa casa? Io lo so che lui è lì, che aspetta impaziente che io traversi la porta, che raggiunga il bagno per disfarmi di questi abiti sempre troppo ingombranti. So che sta lì sperando che gli conceda il privilegio dello strofinio del liquido ebbro sulle sue labbra avide di me. Allora incedo lentamente, un passo dietro l’altro. Chi ha colpa? Loro, i nostri genitori, i custodi della nostra vita. Allora compiere il misfatto, allora allontanarli dalla possibilità della conoscenza, allora escluderli dall’amore innaturale. Ma cos’è innaturale? Cosa non lo è? Quello che sento, se mi vibra, nella milza, nel fegato, nelle viscere, nell’orrido del cuore, non è dunque parte della natura? Non è esso stesso natura?

Lei riprende ad avanzare, mentre lui stringe con il pugno il turgido pulsante elemento creativo, gli occhi viaggiano frugando nella fantasia, alla ricerca della composizione della nudità della ragazza, nudità che ha scovato a tratti, che ha rubato nelle notti inconsapevoli, quando lei era chiusa in bagno, quando la spiava attraverso il buco della serratura, quando anche allora stringeva il membro agitandolo fino a schizzare l’immaturità della carne contro la porta, non come adesso in cui il culmine del piacere lo raggiunge nel momento preciso in cui la porta del bagno si chiude.

Supero la sua camera, mi prende un turbinio nelle fessure, avanzo accelerando di pochissimo il passo. Dall’esterno nessuno avrebbe potuto accorgersene, ma io lo sento nello scorrere feroce del sangue, nelle pareti delle arterie che forzano violente verso l’esterno, che quasi scoppiano, procedo rasente il muro, sfiorandolo con la punta delle dita. Poco dopo m’infilo in bagno, accosto la porta, tocco la chiave, ma la lascio in quella posizione. Lo specchio rimanda l’immagine del desiderio, trasformato in un rossore tiepido sulle guance, sulle labbra, tra le gambe, aspetto, perché so che arriverà, ma non so quando, fremo, aspetto e fremo.

Lui esce, in un balzo è in bagno, lei è di fronte allo specchio con i palmi stretti intorno al bordo del lavabo, Dio chiama da lontano, li cerca nell’ansia del risveglio e tutta la storia a venire.

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