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Ma che ne sanno i 2000? Suggestioni dal millennio passato nei dischi di Mosè Santamaria e Panda Pakse

Non sono passati nemmeno due mesi da quando ho parlato di futuri perduti in musica ed eccomi qui a parlare di retromania. Che Mark Fisher e Simon Reynolds abbiano toccato dei tasti scoperti non lo scopro certo io oggi, fa specie però che nel giro di poco tempo mi siano arrivati alle orecchie due dischi che riprendono non solo gli stilemi della musica di fine millennio scorso, ma anche un certo immaginario di quei periodi. Nel caso specifico sono stati Mosè Santamaria, col suo terzo album Come cani per strada (uscito per l’etichetta vicentina LaCantina Records), e i Panda Pakse, con il loro ep d’esordio autoprodotto Questo viaggio, a riportarmi indietro di un bel po’ di anni, seppur con approcci differenti, un diverso decennio di riferimento ma curiosamente la stessa data di uscita, il 9 dicembre.

Spiritualità e Festivalbar

Animale musicale decisamente strano Mosè Santamaria. All’interno delle sue canzoni convivono (o sgomitano, a seconda dei casi) la spiritualità orientale e l’immaginario collettivo più comune, approccio cantautorale e pop sbarazzino, tematiche sociali e disimpegno estremo. I precedenti dischi #Risorse umane (2015) e Salveremo questo mondo (2019) mantenevano un certo equilibrio fra tutte queste anime, ma con Come cani per strada Santamaria fa una virata sonora piuttosto decisa verso il pop, pur non abbandonando i temi che caratterizzano i suoi testi. Nella breve traccia introduttiva lo mette subito in chiaro, affidando ad uno spoken word la propria lezione di vita, mentre nella seconda traccia Come un Buddha sotto un fico il cantautore manifesta la ricerca di un’interiorità autentica, alternando strofe dal ritmo quasi rap a ritornelli più morbidi che si appoggiano su una base ritmata e al tempo stesso sognante. L’equilibrio regge anche nella traccia numero tre, Occhi nudi, un pop synthetico con batteria ultraottanta che intriga con la sua sottile vena oscura, almeno fino a che Santamaria non se ne esce con un “però se ci pensi siamo dei marziani/ a preferire gli uragani agli uramaki” che apre la strada a una serie di riferimenti culturali inseriti un tanto al chilo e senza un’apparente logica.

Non è nuovo a questo tipo d’operazione il cantautore genovese, che ha sempre unito il sacro ed il profano, ma nei testi di Come cani per strada il gioco gli sfugge spesso di mano. I riferimenti pop vengono buttati nei testi per fare rima e nulla più, con una leggerezza che sa di superficialità, fra buchi nell’ozono di cui non ha colpa Yōko Ono e storie d’amore che finiscono con la sparizione anche dei pan di stelle (Skinny). Anche lo sguardo critico sulla società sembra poco approfondito, limitato a poche frasi sulla vuotezza degli status symbol odierni che potevano andare bene anche quarant’anni fa, negli anni ’80 di cui la nostalgia è palpabile in brani come Festivalbar (in cui la metrica in alcuni punti lascia a desiderare) o la conclusiva Epitaffio, e che proprio per questo sembrano datate. Meglio allora il disimpegno completo, perché fra il cosmo che brucia dei Cavalieri dello Zodiaco e un Bowie inserito fra il chiaro e lo scuro (più l’affermazione che non serve a un cazzo andare al seggio elettorale) Festivalbar è divertimento puro, Yōko Ono costringe a battere il piede volenti o nolenti e anche i momenti più scanzonati di Epitaffio fanno venir voglia di ballare, mentre funziona meno il soul sghembo e anacronistico (chi sogna oggi l’America con jeans strappati e Seven Up?) di Skinny, una storia d’amore finita male a cui l’ironia toglie qualsiasi enfasi.

Mosè Santamaria rimane un enigma, un koan impossibile da decifrare. Come cani per strada appare però come il suo album meno riuscito, quello in cui inseguendo un suono e un immaginario retrò che va paradossalmente di moda perde di vista l’obiettivo di cementare una personalità che emergeva più nitida nel precedente Salveremo questo mondo. Più divertimento che verità insomma, soprattutto se avete gli anni ’80 nel cuore.

Un viaggio nello spazio e nel tempo

Da un animale strano a quattro musicisti che suonano vestiti da animali il passo non è così breve, perché ci passa un decennio di musica. Se gli anni ’80 fanno da sfondo al disco di Mosè Santamaria sono i ’90 a influenzare i Panda Pakse, band senese formatasi nel 2019 e che, dopo aver attraversato il periodo storico peggiore per tenere insieme una band, arriva alla pubblicazione del primo Ep di sei brani. Questo viaggio ha il tipico sapore di certo rock alternativo italico di fine millennio: l’alternanza fra la chitarra acustica e quella elettrica, strofe leggere e ritornelli incazzosi, una certa amarezza di fondo che permea anche i brani più ariosi. Il rischio più grosso di un’operazione del genere? Apparire niente più che un “more of the same”.

Fra i pregi di Questo viaggio c’è sicuramente da annoverare la voce, capace di toccare vari registri ed efficace tanto nei momenti più melodici (Lorelei) quanto nei punti in cui accelera e macina parole a mitraglia (le strofe di Fiori del male). Anche gli arrangiamenti denotano un’ottima cura, dilungandosi un po’ troppo con svolte che sembrano voler aggiungere carne sul fuoco laddove non sempre se ne sente la necessità (la parte centrale della title track) ma piazzando qua e là qualche chicca (il cambio di tonalità fra strofe e ritornelli in Pezzo 9), ma questo non toglie che i sei brani dell’Ep hanno una forte carenza di personalità. Gli anni ’90 come fonte d’ispirazione vengono citati esplicitamente nel comunicato stampa e utilizzati come riferimento culturale nella chiassosa e ironica Dragon banale (tutta giocata sulla serie animata tratta dal manga di Akira Toriyama, assurta a fenomeno mediatico negli anni 2000 con l’aumentare della tamarraggine dei personaggi), omaggiati involontariamente con una cover che ricorda tematicamente quella di Doolittle dei Pixies (che per dovere di cronaca è uscito però nel 1989), ma è nelle sonorità che emerge il debito creativo con quel periodo.

C’è poca ricerca nei suoni dei Panda Pakse, distorsioni standard e melodie che sanno di già sentito, e non aiuta il fatto che l’energia non riesca ad esplodere nei punti in cui dovrebbe farlo. L’equilibrio fra gli strumenti aiuta la voce ad emergere ma rende anonimo il risultato, e riesco a immaginarmi i quattro senesi in fase di mixaggio, indecisi sul da farsi, perché ci sono passato e so cosa vuol dire non avere il coraggio di sacrificare nessuno finendo col non esaltare niente. Hanno potenzialità inespresse, capacità melodiche che possono essere sfruttate meglio che nella comunque interessante Lorelei, ma alla fine il brano che rimane più in testa è il meltin’ pot scatenato di Dragon banale, a cui il Caparezza di Abiura di me potrebbe guardare con un certo rispetto: poco per rimanere nelle orecchie a lungo, ma qualcosa su cui lavorare per proiettarsi verso il futuro senza guardarsi troppo alle spalle.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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