Qualche anno fa avevo smesso di scrivere di musica. Da un bel po’ di tempo parlavo di dischi solo in una rubrichetta di recensioni brevissime, quasi solo dei dischi di un paio di promoter che me li mandavano perché nel frattempo nella redazione era scoppiato l’amore per l’indiefolk, io di indiefolk ci capivo poco ed evitavo di averci a che fare: detto in parole semplici mi sembrava di essermi rinchiuso in un circolo che dava ben pochi stimoli e ben pochi stimoli mi sembrava di proiettare verso l’esterno. Penso di essere stato inattivo per qualche mese, forse un semestre, poi mi arrivò la chiamata (sostituite chiamata con messaggio su Facebook) di un ex collaboratore dello stesso sito per cui scrivevo io, che nel frattempo aveva aperto il suo blog e cercava collaboratori. Se ho continuato a scrivere di musica insomma (non è per forza di cose un bene, giudicate voi) lo devo all’entusiasmo di Michele Montagano e a StorDisco, webzine ora in stato vegetativo (ogni tanto pubblica qualche recensione l’altro fondatore Giovanni Amoroso) ma che mi ha permesso di scoprire tant* artist* di cui ho parlato anche qui, di aprirmi verso generi che non avevo ancora ascoltato (non è sempre un’esperienza piacevole, ma aiuta) e di riprendere a farmi meravigliare. Perché scrivo tutto questo? Perché ricordo che Michele era un grande appassionato del progetto Cloud Nothings, e grazie a Francesca Coppola e al racconto che ha generosamente donato alla causa ho la possibilità di approfondirne la conoscenza.
Ma iniziamo da Francesca, napoletana di Portici classe 1982 con una passione per la scrittura che spazia dalla poesia alla prosa. Sono infatti due raccolte poetiche quelle con cui si affaccia al panorama letterario, Non togliermi il vestito (2017, LietoColle) e Ultimatum dall’inverno (2019, Ensemble), ma negli ultimi tempi ha iniziato a “rincorrere” i racconti, cosa che evidentemente le riesce bene visto che ne ha pubblicati tanti in lungo e in largo nella litweb: potete leggerli su Salmace, Grande Kalma, Lo Scisma, multiperso, Enne2 (sul numero 1), Quaerere, Malgrado le mosche, Super Tramps Club, E(i)sordi, Birò, Racconticon e presto su Nabustorie e Nido di Gazza. Di sé aggiunge che ogni giorno si reinventa e ogni volta ne è insoddisfatta, ma noi ci teniamo a dirle che noi siamo soddisfattissimi del suo racconto.
In alto ho parlato di progetto introducendo Cloud Nothings perché tutto è nato dalla testa di Dylan Baldi, giovane musicista dell’Ohio che come nella miglior tradizione lo-fi componeva e registrava in solitaria nel garage di casa dei genitori per poi piazzare il tutto su vari profili MySpace di band fittizie fra le quali, appunto, Cloud Nothings. Inizia nel 2009 e di lì a poco un promoter newyorkese nota il suo mix di sensibilità pop e urgenza punk e lo contatta per suonare in un concerto da lui organizzato, spingendo Baldi verso due decisioni: formare una vera e propria band, per poter presenziare al concerto; mollare il college per fare il musicista, decisione che, a differenza di quanto sarebbe successo a me, trova i genitori d’accordo. Scelte giuste in ogni caso, perché le cose per Cloud Nothings si muovono veloci: l’Ep d’esordio Turning on con la Bridgetown Records, la firma di un contratto con la Carpark Records (cui rimane legato a tutt’oggi), la riedizione dell’Ep con l’aggiunta di alcune tracce a farne un vero e proprio album d’esordio e un tour in America ed Europa, il tutto nel solo 2010. Roba da rimanerci sotto, invece Baldi produce un altro album nel 2011 (l’omonimo Cloud Nothings) per poi entrare a stretto giro di nuovo in sala di registrazione, stavolta con tutta la band che già lo accompagnava dal vivo (il batterista Jason Gerycz, il chitarrista Joe Boyer e il bassista TJ Duke) e soprattutto con il guru Steve Albini (di cui vi abbiamo già parlato): il risultato è Attack on memory, un disco in cui la scanzonatezza punk delle prime composizioni si ammanta di nuova energia, si permea di una tristezza combattiva e porta a piena maturazione la vena compositiva di Baldi, capace di straziare con le poche frasi ripetute come un mantra sempre più aggressivo in No future/No past e di piazzare un’inedita parentesi strumentale nella potentissima Wasted days… E sono solo le prime due tracce del disco!
Attack on memory ha un grandissimo successo (ed è disco dell’anno per Michele Montagano), proietta Cloud Nothings in tour perfino in Giappone e Australia e gli apre le porte di festival prestigiosi come il Coachella. Da lì in avanti la sua produzione non si ferma mai e se la formazione cambia (Boyer lascia già nel 2013, rimpiazzato solo in un secondo momento da Chris Brown, mentre Duke abbandona nel 2022) non muta il mix sonoro che ha decretato la fortuna di Baldi e soci, capace di suscitare nostalgia e allo stesso tempo carica di energia propositiva, uno stile che si fa sempre più personale album dopo album. A quasi un decennio di distanza le strade dei Cloud Nothings e di Albini si incrociano nuovamente, ma quello che diventerà l’ottavo disco, The shadow I remember, deve attendere a causa della pandemia: nemmeno questo ferma però Baldi e Gerycz, che con un interscambio digitale continuo fra Philadelphia e Cleveland danno vita nel 2020 a The black hole understands, riempiendolo di speranza in un periodo di paure. A oggi Cloud Nothings è una band che non ha perso nulla dello spirito originario, una favola indipendente che ha portato Baldi e soci sui palchi di tutto il mondo e che, per chi ha voglia di farsi un viaggetto in Spagna, farà tappa a Barcellona e Madrid nei primi giorni di giugno.
Di No future/No past ho già detto qualcosa più in alto, ma si potrebbe parlare a lungo della disperazione che emerge dalla musica e dal relativo video, incapace però nella sua carica straziante di soffocare l’energia che Baldi infonde con la sua voce sempre più roca e sgraziata. L’associazione con il racconto di Francesca mi è venuta spontanea perché anche nel suo testo c’è un simile equilibrio, la storia di una famiglia che cade lentamente a pezzi narrata attraverso il punto di vista della figlia, costretta a subirne il destino ma abbastanza forte da concedersi un’ultima rivalsa. Potete trovare il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, come al solito: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Scarica il numero Zero della fanzine di Tremila Battute a questo link!
La famiglia in decomposizione, di Francesca Coppola
La marcia prosegue senza intoppi. Qualche grido fa ritornello nell’aria troppo calda, nella parte di fila dove c’è sempre chi parla dei cazzi suoi. Io conto i sampietrini, interrogandomi sulla presenza di una conchiglia incastrata fra le pietre.
Con mio padre non ho mai parlato. Adesso ho quarant’anni e lui ha smesso di compierli. Ricordo quei pochi pomeriggi, quando di sabato ci portava a casa dei nonni.
Appestata, è questo il termine che userei per parlarne. Aveva soffitti alti, stanze chiuse e un odore di vecchio. A volte sentivo il profumo buono delle arance, sapevo dell’esistenza di un giardino in cui non ero mai entrata. Mio nonno non guardava mio padre e mio padre non aveva mai slanci verso sua madre. Quando è morta la nonna, mio padre non ha pianto: è sceso in giardino, si è fatto un bicchiere di vino e poi subito un altro. Quando è morto il nonno, era un alcolizzato.
Meno male che era secco, quante volte lo abbiamo messo a letto mentre mia madre gli sputava contro ogni sorta di rimprovero. Lui fingeva di capire e rideva, col tempo ho imparato bene quel sorriso falso. Ogni volta che qualcuno veniva a farci visita, lui si ergeva a falco e sbraitava perché era ora di cenare, perché aveva appena finito di pranzare, perché faceva caldo o freddo. Poi lo vedevi camminare a passo svelto verso la porta, lisciarsi i baffi e sorridere a denti larghi invitando i malcapitati ad entrare. Mia madre a quei tempi piangeva da sola in sala da pranzo, credeva che nessuno la vedesse. La ricordo in piedi sul water mentre cercava di sturare il sifone, o quando si improvvisava riparatrice di televisioni e incollatrice di carta da parati.
«Non hai talento» diceva mio padre, lui che aveva ottenuto il posto fisso con la domandina scritta da uno zio. «Vai che sei forte» diceva mia madre, sopravvalutandomi. Allora ho capito che le distanze accecano chiunque: me che studiavo l’albero genealogico non riuscendo a capacitarmi del grado di parentela, lui che non vedeva oltre la bottiglia, mia madre che decise di non portare più di due pesi.
«Ti lasceremo in eredità una casa, di cosa ti lamenti?» diceva mio padre. In quei momenti avrei preferito vederlo abbattuto dall’alcol. Dovevo rallegrarmi di ereditare una casa pur avendo conosciuto un unico mare, quello vicino alla fogna nei pressi dell’appartamento. Ci avevo rimediato un fungo della pelle su quella spiaggia inquinata. Avevo indossato jeans corti per la mia altezza, scarpe consumate, giubbini troppo leggeri, ma potevo contare su una casa.
A lui però non bastava. Avrebbe voluto quella dei suoi genitori e il terreno circostante, ma i cavalli, le galline e gli ettari coltivati furono mangiati dai debiti.
Oggi si chiude l’ennesimo capitolo ma il finale deve essere sempre degno. Ecco il mio talento, ora ho imparato a chiudere il cerchio. Quindi, papà, volevi essere cremato? Invece ho scritto per te la decomposizione: ami o no la terra? Sono pronta, ho comprato il tuo vino preferito, mentre vai giù brinderò insieme ai vermi.
Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!