Durante il lockdown, con tanto tempo a disposizione visto che fare bottoni non è considerato un’attività necessaria (pensateci quando vi cadranno i pantaloni), oltre ad aprire questo blog ho pensato: ma se mi proponessi a qualche rivista/blog musicale con l’intenzione di farmi pagare per parlare di musica? Ci ho pensato tipo per dieci minuti, in parte perché mi sembra molto capitalistico far diventare un lavoro quella che è stata sempre una passione (ma attenzione al lavoro fatto per amore, quando riuscirò a parlare dell’interessantissimo Il lavoro non ti ama di Sarah Jaffe approfondirò la questione), in parte perché ho la classica sindrome dell’impostore. Scrivo di musica da vent’anni abbondanti, ma conoscere tutti gli album degli Zeus! fa curriculum se poi non hai ascoltato mai – MAI – un qualsiasi disco dei Beatles? Dei Rolling Stones? Ma anche, andando su cose più recenti e affini al mondo musicale di cui tratto, dei Pavement, una di quelle band seminali che hanno influenzato molto di ciò che ho ascoltato nel corso della mia vita. Fortuna che Alessio Barettini, uno degli aficionados di Tremila Battute, ha deciso di togliermi le castagne dal fuoco proponendomi non solo di occuparsi del racconto di questa settimana, ma anche di parlare della band di Stephen Malkmus e soci al posto mio.
Alessio è alla sua quarta presenza qui, associando la sua penna a nomoni come Guignol, Moltheni e Casino Royale. Ogni volta che passa lo ritroviamo in altre vesti, impegnato in nuove collaborazioni, e siamo felici che l’ultima di queste lo veda partecipe di quel gran bel progetto che è Read and Play, che qui pubblicizziamo e supportiamo con piacere: godetevelo mentre parla del libro di Massimo Zamboni, membro fondatore di CCCP e CSI, di Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia o di Pensa il risveglio di Alessandro Cinquegrani, e ascoltate le playlist da lui associate a queste opere.
“Pavement. Nel nome di questa band c’è una storia fra le più banali del mondo dell’indie rock. Un gruppo di amici inizia a suonare, senza sapere che nel giro di soli due album diventerà un punto di riferimento per un’intera generazione cresciuta a suon di Nirvana e Metallica stanca di un’attitudine troppo decadente del rock.
I Pavement la decadenza ce l’hanno ma insieme al romanticismo e al modernismo, sono figli del ’68 e di Lou Reed ma anche di Eliot, di Beckett, di Mark E.Smith e di una Killing moon che si trucca da scherzo per non spaventarsi troppo della sua bravura.
Questa band di bravi ragazzi guidati da Stephen Malkmus mette radici nel mondo della musica e dopo 5 album di studio si scioglie, lasciando un mito che a suon di reunion dimostra che il segno lasciato non è stato una posa. La musica? Lo-fi, semplice nell’impalcatura, dai ritmi mai ridondanti, dalle raffinate imperfezioni. I testi verbosi, postmoderni, indecifrabili, flussuosi (?), intellettuali.
Here è un brano che compare nel primo album, Slanted and enchanted. Un piccolo gioiello, ripreso fra gli altri da altri mostri sacri della scena come Mercury Rev, Tindersticks, Built to Spill. Il mondo in tre accordi. Una luce che si accende incantevole, poi il nulla. Everything is ending here.” Alessio del brano scelto riesce a catturare in pieno con le proprie parole l’aura crepuscolare eppure ironica, di chi va avanti nonostante gli ostacoli che la vita gli pone davanti. Non vi resta che immergervi nel flusso di questa autoanalisi di una crisi, andando un po’ più in basso e ascoltando in sottofondo la canzone che l’ha ispirata: buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Scarica il numero Zero della fanzine di Tremila Battute a questo link!
La mia strada, di Alessio Barettini
Ridevo. Che altro potevo fare, dopotutto? Anni di lavoro spazzati via. Anni di amore, spazzati via. Un progetto di vita, quasi. Un progetto di tanto tempo fa, un sogno che si stava frantumando nella realtà, prima di scoprire che no, quel sogno non era pronto per svegliarsi, quel disegno non era fatto per comporsi. Era la mia strada, mi ero detto. Il mio lascito preventivo. Tutta la mia enfasi giovanile che si era salvata dal grande naufragio della maturità. E ora che ero rimasto solo, dapprima rabbia, poi sconforto, poi incomprensione e altra incomprensione, sovrapposta a trame del tempo che non si erano mai specializzate in soluzione dei problemi. Avevo persino, lo confesso, pensato alla religione, come se pregando potessi far apparire il miraggio del deserto.
Poi, il tempo era passato. Ancora lui, a farmi fare i conti con questo stupido scherzo del destino, questo spreco di tempo che mi aveva visto sul piedistallo del mondo con un biglietto vincente in mano, che tuttavia si disintegrò senza prima farmi ritrarre quella mano, rimasta a guardare i miei occhi che cercavano di guardare la mano, ma non mettevano a fuoco, guardavano oltre, la polvere della terra che iniziava a muoversi, la polvere dei pensieri che cercava una parola, un appiglio, un meglio da mostrami senza ingannare la corposa schiera dei miei sentimenti offesi.
Non tornò mai, quel mantra che mi aveva messo in moto. Fu l’inizio di qualcos’altro, il cui senso vidi solo molto, molto più tardi, dopo mari di nebbia e albe orizzontali che non sembravano innalzarsi mai. Ho visto quella stessa fine per anni, davanti ai miei occhi, credendo fosse realtà. Così diceva di chiamarsi. Smisi di crederci, un giorno.
Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!