C’è stato un periodo, qualche anno fa, in cui avevo smesso di scrivere recensioni. Lo avevo fatto perché mi sembrava di girare un po’ in tondo, occupandomi della mia piccola nicchia (una rubrica di recensioni brevissime chiamata Sonic Sushi Bar, mangiata da internet quando il dominio non è stato rinnovato) senza trovare molti stimoli al di fuori…anche perché il sito per cui scrivevo era diventato ormai specializzato quasi unicamente in indie-folk, e io dell’indie-folk sapevo poco o nulla ed avevo da poco scoperto generi molto più rumorosi e cupi. Venne una proposta dal vegetante-ma-non-ancora-morto StorDisco a togliermi da quell’impasse e donarmi un po’ di varietà sonora, facendomi anche entrare in contatto con un ufficio stampa che negli anni mi fece conoscere un sacco di artisti già apparsi in queste pagine (tipo Emiliano Mazzoni e i Moostroo). Rimasi in contatto per molto tempo con Luca Barachetti, musicista a sua volta (godetevi qualche lancinante frammento sonoro dei purtroppo disciolti Bancale), e fra i vari dischi che ricevetti da lui e i suoi colleghi di Macramè ce ne furono (indovina indovinello) anche un paio della band della settimana: è così che ho scoperto i Guignol.
Per il racconto della settimana devo invece ringraziare Alessio Barettini, che già mi aveva mandato testi interessanti su canzoni di Bob Dylan e dei Procol Harum ma io, cagacazzo che non sono altro, ho approfittato della sua generosità piazzandogli lì qualche suggestione musicale che lui ha prontamente trasformato in parole (e che significa pure che lo ritroverete presto su queste pagine). Torinese di 45 anni, insegna da diverso tempo Storia e Letteratura e in casa si divide fra l’amore per la sua compagna, per i due figli e quello per i libri, dai quali trae eterna ispirazione per scrivere, insegnare, discutere e fotografare. I suoi scrittori preferiti sono quelli che vanno in direzione verticale, capaci di farci riflettere, subire e darci la forza per rialzarci, smarrendoci fra le pagine per poi ricominciare. A portarlo verso Tremila Battute è stata anche la sua passione per la musica, particolarmente quella indipendente e il rock classico dei decenni ’70 e ’90: ha una venerazione per David Bowie, possiede una Fender Mustang e, come tutti noi, non vede l’ora che si possa andare a vedere un concerto come dio comanda.
I Guignol sono invece da diversi anni un’eccellenza milanese, precisamente dal 1999, anno in cui Pierfrancesco Adduce (voce e autore di tutti i testi, nonché negli anni a chitarra acustica, elettrica e armonica) inizia a mescolare suggestioni sonore con il chitarrista Alberto De Marinis e il batterista Andrea Dicò: il risultato della commistione è il primo Ep della band, Sirene, pubblicato nel 2003 da Toast Records, cui seguirà nel 2005 il primo omonimo album (uscito per Lilium/Venus). Negli anni la formazione cambierà spesso, mantenendo il solo Adduce come deus ex machina di un progetto che sfornerà altri sette album e un Ep, portando sempre più a maturazione un suono fatto di blues, cantautorato, folk e un pizzico di furia distorsiva che sa di punk. Nei loro album (licenziati da Una risata… Ci seppellirà del 2010 dall’etichetta Atelier Sonique) si alternano collaborazioni (Cesare Basile, Amaury Cambuzat) e omaggi (cantautori come Luigi Tenco e Piero Ciampi, ma anche il poeta e attivista politico lucano Rocco Scotellaro e svariati scrittori come Luciano Bianciardi, Dino Buzzati e Italo Calvino), delineando un mondo di influenze che si rispecchia soprattutto nei testi, fiore all’occhiello dei Guignol: Adduce sa narrare le storie dei disadattati e degli ultimi con partecipazione, tracciare l’arco di una resistenza all’alienazione della società contemporanea con parole che scavano nell’animo ma capaci di lasciar spazio ad una risata liberatoria, ironiche senza mai perdere d’intensità. Ho avuto la fortuna di scoprirli a partire da Abile labile del 2016 e di seguirli poi lungo il percorso che li ha portati all’uscita di Porteremo gli stessi panni (2018) e Luna piena e guardrail (2020), vedendoli anche dal vivo in una sola occasione: contando che abito nella loro stessa città vedrò di bissare il 4 novembre, quando saranno al Rock’n’Roll, voi mantenete gli occhi aperti per il loro passaggio consultando questa sezione del loro sito.
La promessa è un brano dedicato a (e ispirato da) Luciano Bianciardi, un racconto di amore e soprattutto odio per una Milano che, a partire dal Pirellone, sembra disumanizzarsi al ritmo con cui spuntano grattacieli sulla sua superficie. Alessio ripropone nel suo breve testo la stessa disillusione, colta nell’incedere di una figura che cammina lungo le strade, i muri e i fiumi di una città che si è mangiata tutti i suoi sogni: potete leggerne il percorso subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
La promessa, di Alessio Barettini
Passeggiare, quando non si ha niente da fare, tra le strade, tra i chiaroscuri di grigio, lungo i muri, lungo i fiumi e i parapetti, accanto alle ore che camminano con me. Vagabondare, lento, come dandy parigino, oltrepassare i miei doveri, voltarsi per cambiargli il segno, infine vederli nel loro ambiguo vestito di ricatto e di imbarazzo.
Ieri te ne parlavo come di un pezzo mio, come se io e quel dovere, quello spazio, quel palazzo fossimo insieme, fossimo in qualche modo d’accordo, una cosa sola, a ben guardare impari.
Adesso cerco quel trattino, quel ponticello sorprendentemente resistente, ma non ci vedo che un vuoto, a separare il suo segreto grido di conquista dal mio palese senso di ribrezzo.
Così le cose si mostrano, quando da luminose che erano svelano un volto secondario che fa orrore, che divora ogni cosa.
Così questo mondo ci regala sogni che svaniscono prima del risveglio.
Così i miei sogni di una rivoluzione svaniscono dentro l’alito di un mondo onnivoro e ingordo.
Così cammino ancora, lungo il tempo che cambia forma e mantiene la sostanza di un mondo che non cambia. E la speranza trova spazio solo quando mi fermo in un parco, mi siedo su una panchina a fumare, incurante di tutto quello che non ho avuto mai, a guardare qualche bella passante, a sognare dietro la sua scia come faceva Baudelaire.
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4 pensieri riguardo “Racconto in musica 74: La promessa (Guignol – La promessa)”