Ho un brutto rapporto col cinema. No, volevo dire che ho un brutto rapporto COI cinema, il luogo fisico. Quando abitavo nella provincia novarese mi capitava di vedere il trailer di qualche film, innamorarmene e poi rimanere deluso perché non lo proiettavano da nessuna parte nel raggio di almeno quaranta chilometri. Che voglio dire, Emiliano Mazzoni si deve fare un’ora e mezza di strada se anche solo vuole andarci a vedere un film qualsiasi, ma lui abita sull’Appennino modenese e puoi metterla in conto quella difficoltà. Io ci rimanevo male.
Poi mi sono trasferito a Milano, evviva! Ho pure un multisala a dieci minuti a piedi di distanza, doppio evviva! E invece ci risiamo, non ci proiettano né Decision to leave di Park Chan-wook né Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh.

Mi sarà anche venuto il culo molle, che prima prendevo la macchina per andare a vedere Sette psicopatici allo spettacolo di mezzanotte e mezza e ora mi lamento se mi devo fare quaranta minuti coi mezzi per andare a quello delle ventuno e trenta, ma cazzo anni fa sono riuscito a vedere Hardcore in un cinema relativamente vicino, quella tamarrata di Hardcore (ero da solo in sala, ma vabbè)! Com’è possibile che devo ancora fare fatica per andare a vedere un film che è candidato a nove premi Oscar?
Ok, lo sfogo è finito, ora vi spiego perché dovete combattere la sindrome del culo molle per andare a vedere questi due film (e magari riesco anche a spiegare perché ne parlo insieme).
Lost in translation
Quello fra Hae-joon (Park Har-il) e Seo-rae (Tang Wei) è un rapporto complicato. Che sia un rapporto d’amore non vi è dubbio, già al primo sguardo Hae-joon è rapito dalla bellezza di Seo-rae, ma a frapporsi fra loro c’è innanzitutto un problema linguistico (lei è cinese, lui coreano), che a parte piccole incomprensioni viene però bypassato piuttosto velocemente, o così pare; un altro problema è il fatto che lui sia sposato, una relazione che si consuma solo nei fine settimana con una moglie dai ragionamenti molto analitici (del tipo “dobbiamo fare sesso una volta a settimana così la dopamina in circolo ci farà rimanere innamorati”, non letterale ma quasi) a cui sembra sinceramente affezionato ma con un distacco che non si capisce quanto sia frutto dell’usura e quanto di dinamiche che nella loro storia sono sempre andate così; il terzo problema è che lei è sospettata di aver ucciso il marito spingendolo giù da una montagna, e lui è l’ispettore incaricato del caso.

Park Chan-wook è uno che ha le idee chiare. Sa quello che vuole raccontare, come raccontarlo e come fare in modo che torni tutto. I suoi film sono orologi svizzeri ma non sono freddi, anzi fanno leva sui sentimenti giungendo a toni melodrammatici e vanno spesso in direzioni che non ti aspetti. Così chi si approcciasse a Decision to leave aspettandosi un thriller poliziesco potrebbe rimanere deluso, ma solo in parte: qui il gioco non è capire se Seo-rae è colpevole o meno, ma vedere quanto la corda che unisce amore e senso del dovere possa tendersi prima che Hae-joon si spezzi. Perché sospetti ne ha, l’indagine la manda avanti, ma è chiaro anche al suo partner Soo-wan (Go Kyung-pyo) che l’obiettività non è più fra le sue qualità e non riesce nemmeno a nasconderlo, così come ce lo sbatte in faccia platealmente il regista: con la moglie rifiuta il sushi perché non gli piace, nel primo lungo interrogatorio con Seo-rae non ci pensa due volte a offrirgliene da un ottimo ristorante (e a carico del distretto). Fra allucinazioni dovute all’insonnia, un altro caso di omicidio da risolvere e avvicinamenti riluttanti la storia finirà per prendere una piega inaspettata, portando una storia iniziata in montagna a finire in riva al mare.

Decision to leave non è sorretto solo da un’ottima storia, che strizza neanche tanto velatamente l’occhio a La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, ma anche da una messa in scena che è una delizia per gli occhi. Chan-wook si prodiga in esercizi di stile a profusione, giocando con gli specchi, le telecamere, le distanze e qualunque diavoleria gli venga in mente, il tutto coerentemente con la storia che sta raccontando: si fa prendere un po’ la mano solo all’inizio di quello che potremmo definire il “secondo atto” del film, quando veniamo sballottati improvvisamente in una scena di violenza senza capire come ci siamo finiti, ma il regista ci mette poco a riprendere le fila del discorso e portare a conclusione in maniera magistrale (e agghiacciante) una vicenda che si fa forza anche di dettagli minimi, come le scarpe indossate o dei messaggi vocali che hanno significati differenti a seconda di chi li ascolta. In un’intervista Chan-wook ha dichiarato che voleva scrivere una storia d’amore in cui non venissero mai dette le parole ‘ti amo’: ci è riuscito alla grande, miscelando melodramma, thriller e anche insospettabili dosi d’umorismo.

Una risata ti seppellirà
Se il cinema di Park Chan-wook è un meccanismo preciso, quello di Martin McDonagh è una lenta discesa verso l’abisso. Le sue storie già non iniziano dai migliori presupposti, fra killer in fuga (In Bruges), sceneggiatori in crisi (Sette psicopatici) e madri che cercano vendetta (Tre manifesti a Ebbing, Missouri), ma quel che può andare male non fa che andare peggio. Così quando all’inizio di Gli spiriti dell’isola Colm Doerty (Brendan Gleeson) annuncia a Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell), fino a quel momento da tutti considerato il suo migliore amico, che non vuole avere più niente a che fare con lui, si capisce facilmente che le dimensioni del conflitto sono destinate ad aumentare.

Il rapporto fra Colm e Pádraic è fatto di incomprensioni, concetti espressi a metà, fissazioni immotivate. Perché Colm, che afferma di voler evitare l’ex amico per concentrarsi sulla musica e sul suo violino, è disposto addirittura a tagliarsi le dita pur di non averci più a che fare? Non ha senso (“non gioverebbe alla tua musica” gli dicono), così come non ha senso che lo trovi improvvisamente noioso: “è sempre stato così”, gli fa notare la sorella di Pádraic Siobhán (Kerry Condon), così come gli fa notare che su quell’isola maledetta sono tutti noiosi. Ma in fondo non serve un motivo per farsi la guerra, una guerra silenziosa a differenza di quella civile che si svolge sulla terraferma, un conflitto di cui da Inisherin fanno fatica a capire le motivazioni (il poliziotto dell’isola, pagato per presenziare a un’esecuzione, non si interessa neanche di quale fazione sia il condannato) e riescono solo a rimpiangere i bei tempi in cui si sparava solo agli inglesi. D’altronde il movimento nazionalista irlandese è sullo sfondo di molte opere teatrali di McDonagh, come Il tenente di Inishmore di cui questo Gli spiriti dell’isola (The banshees of Inisherin in originale, lo stesso titolo dell’opera che Colm cerca di ultimare) è l’ideale successore, dato che rappresenta la conclusione della sua Trilogia delle Isole Aran.

Il dramma in via di formazione non impedisce ai film di McDonagh di essere divertenti, intrisi di uno humor nero irresistibile e di un ritmo nei dialoghi che tradisce la genesi teatrale dell’opera (ma si potrebbe dire lo stesso di qualunque altro suo film). Gli spiriti dell’isola è perlopiù una pellicola fatta di parole, che si appoggia forzatamente sulle interpretazioni, e se la chimica fra la coppia Farrell-Gleeson è ben oliata (i due erano protagonisti anche di In Bruges, valso a Farrell un Golden Globe che ha appena bissato) anche i comprimari non sono da meno, dall’intensa Condon all’ingenuo scemo del villaggio interpretato da Barry Keoghan, passando per personaggi che riescono a farsi ricordare pur con un minutaggio minore sullo schermo come il barista dell’unico pub dell’isola, il perverso poliziotto interpretato da Gary Lydon, l’inquietante signora McCormick o il prete che cerca inutilmente di fare da paciere, confessando con esiti rivedibili Colm. Se delle nove candidature agli Oscar quattro arrivano dalle interpretazioni c’è un motivo, ma la bellezza del film arriva anche da altro.

Laddove Park Chan-wook si prodiga in numeri da circo Martin McDonagh predica semplicità. Luce perlopiù naturale, spazio alla recitazione e spazio soprattutto ai panorami naturali, quasi un contraltare immobile e indifferente alle vicende troppo umane dei protagonisti, impegnati in una battaglia sempre più atroce che non prevede una fine. L’amore per gli spazi unisce i due registi (entrambi i film funzionano meglio di mille guide per invogliare a visitare Irlanda e Corea del Sud), così come la voglia di concentrarsi sulle difficoltà di comunicare, capirsi e, in fondo, amarsi. Entrambe le vicende si concludono di fronte al mare, entrambe in fondo non si concludono: l’amore e la guerra continuano a esistere, alimentando le gioie e i drammi nella vita come nel cinema.
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