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Quando la radio diventa uno strumento: alla scoperta del primo disco degli Zumtrio

Esiste un mondo musicale dove la parola “sperimentale” indica che l’artista che se ne fregia ha allargato il suo spettro sonoro alle innovazioni musicali del momento. Che ne so, immaginate Jovanotti che inserisce l’autotune nelle sue canzoni. Questo è il mondo musicale che vi fanno sentire le radio generaliste (cioè quasi tutte, comprese Virgin Radio, dove sentirete le classiche canzoni rock dei gruppi che conoscono tutti, e Radio Freccia, dove sentirete gli stessi gruppi con canzoni un po’ meno conosciute), dove l’innovazione è una chimera e le novità sono state masticate e digerite altrove prima di avervi accesso.

Poi c’è il mondo sotterraneo della musica indipendente. Non è che sia per forza un luogo fatato dove succedono solo cose belle, io ad esempio ho visto il concerto di Pollio al Ride di Milano augurandomi che il suo supporter Nove non diventi la nuova sensation trash indie del momento, ma sicuramente qui la parola “sperimentale” assume tutto un altro valore. E la radio, intesa come oggetto fisico, può essere addirittura usata come strumento.

Gli Zumtrio sono una band nata nell’alveo di Tempo Reale, un centro di ricerca, produzione e didattica musicale fondato da Luciano Berio a Firenze che dal 2012 ha inaugurato una collana apposita ( la Tempo Reale Collection) per documentare il lavoro di sperimentazione portato avanti negli anni. Radioscapes, primo album della band formata da Francesco Canavese alla chitarra elettrica, Stefano Rapicavoli a batteria e percussioni e Francesco Gioni, che si occupa dei synth e di una radio analogica processata in presa diretta, fa parte proprio di questa collana: solo tre brani, ma per un minutaggio che raggiunge quasi i cinquanta minuti.

L’improvvisazione è un elemento essenziale nella musica degli Zumtrio, catalogabile come un miscuglio di avanguardia elettronica e jazz sperimentale. Capace di improvvise convulsioni sonore quanto di momenti dilatati a base di feedback, nei tre brani che compongono Radioscapes la band esplora orizzonti musicali estremamente personali, con la radio a fare sia da collante che da elemento di disturbo.

California, il brano centrale del disco, è sicuramente quello che ha un percorso musicale più uniforme. Inizia con radi accordi di chitarra elettrica da blues desertico su cui si innestano frammenti radiofonici, prosegue dilatandosi a suon di feedback accompagnati da una batteria scarnificata e marziale per poi sprofondare in un magma di synth e risorgere nel finale con una chitarra che gioca a scratchare su un ritmica costituita da quella che sembra essere Set fire to the rain di Adele continuamente alzata e abbassata di volume. Nel mezzo, come vero elemento di disturbo dissonante, frammenti di Hotel California degli Eagles. Capite cosa intendevo quando parlavo di sperimentazione?

Il disco si apre con Un tavolino a parte, titolo che diventa chiaro quando a metà brano arriva un inserto radiofonico preso da un’intervista a una signora che racconta una storia letta su un libro di scuola nel dopoguerra. Caratterizzata da alcune false partenze (disturbi radio accompagnati da una chitarra in modalità Django Reinhardt, sostituiti dopo una breve pausa da una nota di synth ripetuta per un minuto buono con la frammenti radiofonici a farle da contraltare), il brano trova la sua anima quando abbraccia una specie di stoner ultradilatato a base di accordi distorti e batteria minimale: da lì si delinea un discorso sonoro in cui non stona nemmeno la pausa centrale con la storiella citata in precedenza, che anzi appare come la calma prima della tempesta. Preparato a dovere dai feedback che si affiancano e seguono l’inserto radiofonico, lo sfogo batteristico che imperversa per un paio di minuti è il perfetto epilogo per la tensione creata in precedenza, e congiuntamente agli accordi di basso (chitarra diatonica?) porta in territori simili a quelli esplorati dai Vonneumann con la loro Bassodromo. Poi torna la calma, e così si chiude sfumando.

Tutt’altra questione è l’ultimo brano, Giornate colorate. L’inizio tarantolato, che ricorda i momenti più estremi dei Mr. Bungle di sua santità Mike Patton, è uno specchietto per le allodole che lascia presto spazio a lunghe ed estenuanti rincorse sonore che sembrano però avere poco a che fare l’una con l’altra. Diversamente dagli altri brani non mi è rimasta l’impressione di un discorso sonoro coeso, e i venti minuti di durata passano con l’orecchio solleticato da qualche buona idea persa in un mare magnum di confusione.

È ovvio da quanto scritto finora che Radioscapes non è un disco per tutti, ma per i più coraggiosi ci sono abbastanza motivi d’interesse per mettersi all’ascolto (o per ascoltarli dal vivo, visto che saranno ospiti del Torino Jazz Festival il 3 ottobre, giorno successivo all’uscita dell’album). La radio che campeggia in copertina non è certo l’elemento che fa la differenza, e anzi i momenti migliori sono quelli in cui chitarra e batteria creano atmosfere desertico-lisergiche, ma in momenti come il finale di California dimostra di essere un elemento ancora grezzo ma con delle potenzialità. Volendo descrivere il disco con una metafora cinematografica, frutto della mia frequentazione di un cineforum sul cinema sudcoreano (in pratica sto navigando a vista), definirei l’esordio degli Zumtrio affine ai film di Kim Ki-duk, dilatati ma con una carica viscerale che ogni tanto esplode improvvisa…purtroppo però non siamo ancora dalle parti delle sue opere migliori.

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Racconto in musica 28: Pose anonime (Adam Carpet – Obsessed with casting)

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di collaborare ad alcuni concerti organizzati nello spazio culturale LaRoom di Vigevano, fra i quali quelli di Maria Antonietta, Bad Love Experience e Giovanni Truppi (artista che ha fatto uscire a inizio anno un Ep, 5, che unisce alla musica delle storie a fumetti: da queste parti non può che essere lodato un progetto simile). LaRoom è questo e molto altro: una sala prove, una scuola di musica, uno studio di registrazione, uno spazio per eventi e, da qualche tempo, ha anche affiancato a tutto questo un negozio di strumenti musicali. Merito della passione delle persone che ne fanno parte, musicisti anche loro, fra cui Alessandro Carnevale degli Anna Ox e Francesco Capasso, membro della band di cui parlo questa settimana: gli Adam Carpet.

Formatisi nel 2011, gli Adam Carpet sono una band in cui sono confluiti musicisti provenienti da svariate esperienze come Diego Galeri e Alessandro Deidda, batteristi rispettivamente di Timoria e Le Vibrazioni. Proprio la presenza di una doppia batteria è una delle particolarità della formazione, che viene completata da Silvia Ottanà e Francesco al basso e Giovanni Calella (già attivo coi Kalweit and the spokes) alla chitarra e al synth. Il genere è prettamente strumentale, in bilico fra l’elettronica e il post-rock, due anime che resteranno ben salde nel suono della band pur subendo un evoluzione continua, dal primo album omonimo (uscito per Rude Records nel 2014) fino all’Ep Hardcore problem solver del 2017. Nel mezzo, un album di remix uscito nel 2015 e un secondo disco, Parabolas, uscito nel 2016 per Irma Records.

Proprio dalla prima traccia di quest’ultimo ho preso ispirazione per il racconto di questa settimana. Obsessed with casting è una canzone dal ritmo avvolgente, agitata in alcuni punti da scosse sonore che mi hanno dato il punto di partenza per alcune svolte all’interno della storia. Il titolo e l’atmosfera mi hanno donato l’ambientazione, il resto spero renda giustizia alla musica: potrete valutare più in basso, subito dopo la canzone. Buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Pose anonime

Ogni città per me è un collage di immagini tutte uguali. Finestrini dei treni macchiati dalla pioggia, stazioni della metropolitana e fermate degli autobus, corridoi affollati in cui mettersi in fila ordinata.

Pose, sempre diverse e sempre uguali. Sorridi, girati, alza i capelli.

Sii sensuale, profonda, dolce.

Non socializzo granché quando vado ai casting. Ormai riconosco le facce, ma non riesco ad associarle ad alcun nome. Lo preferisco, così quando le vedo sui cartelloni pubblicitari sono solo immagini anonime. Depersonalizzarle aiuta, lenisce la sensazione di fallimento.

Sono mesi che cerco di vendere la mia immagine. Trucchi, abbigliamento, creme di bellezza. Sono giovane, il mio agente dice che è solo questione di tempo. Vorrei non credergli, sarebbe più facile mollare tutto e togliere spazio alla speranza.

Le notti in cui sogno la passerella, la musica assordante, i flash dei fotografi, la fama, quelle sono le peggiori. Mi sveglio nel pieno della notte, fissando il soffitto, senza capire nemmeno se sono a casa mia o da qualche altra parte.

Treni, metropolitane, autobus, raramente qualche albergo. Sorrisi, giravolte, capelli raccolti o sciolti. Poi, sempre lo stesso silenzio, a volte qualche risposta evasiva.

Troppo energica. Troppo corrucciata. Poco sensuale. Poco innocente.

Troppo poco.

La volta in cui sono stata scelta temevo di non essere all’altezza. A ogni flash, a ogni posa cercavo la delusione negli occhi del fotografo, ma non ci trovavo niente. Sentivo freddo, l’obiettivo mi faceva rabbrividire.

Non mi disse molto. Parlò solo una volta, mi chiese di essere me stessa. Avrei voluto chiedergli come si faceva.

Dopo lo shooting mi invitarono a una festa in discoteca. Volevo rifiutare, ma ci andai. Passai il tempo seduta, bevendo qualche cocktail, scambiando parole veloci e confuse con persone che non conoscevo, osservando il fotografo per capire cosa avrei dovuto fare, come funzionava il sistema, se dovevo essere carina o compiacente o sfuggente o chissà cosa fossero state le altre per raggiungere le copertine ma lui non mi guardava e io mi sentivo un’intrusa.

Quando mi accompagnò all’albergo fu cortese ma freddo. Mi sentii grata e sconfitta. Passai la notte a fissare il soffitto, a chiedermi se avessi dovuto alzarmi per andare a bussare alla sua porta.

A chiedermi se dovevo vendere il mio corpo, la mia anima o entrambi.

Il giorno dopo tornai a casa. Il mio agente era entusiasta, ma io ero sicura che quelle foto non sarebbero mai uscite. Ricominciai col mio solito tran tran, viaggi, pose, aspettative.

Poi un giorno vidi una faccia conosciuta sulla fermata dell’autobus. Una di quelle che c’era sempre ai casting. Era la mia.

Fissai il cartellone, mi guardai negli occhi alla ricerca dell’ansia, della disillusione, della tristezza e della fatica, ma non vidi niente di tutto questo. La mia immagine era una tela grezza dove ognuno poteva proiettare quello che voleva.

Vorrei essere lei.

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Come Borges incontrò Manganelli: La sinagoga degli iconoclasti di Juan Rodolfo Wilcock

Qualche settimana fa sono incappato in questo articolo ad opera di Mauro Maraschi, autore anche di alcuni splendidi racconti, riguardante la necessità di ripubblicare quello che è stato un esempio per molti scrittori sudamericani, Macedonio Fernández: ho scoperto così la storia di un autore che non solo era considerato un maestro da Borges, ma è stato d’ispirazione anche per Cortázar, Arlt e Bolaño. L’articolo perora la causa della ripubblicazione dei suoi scritti e chiude con una nota positiva, cioè la riscoperta di autori come Osvaldo Lamborghini da parte di Miraggi Edizioni e, soprattutto, il ritorno nel catalogo Adelphi di un altro scrittore argentino di cui di lì a poco avrei incrociato l’opera nella libreria milanese Gogol & Company (pubblicità progresso, aiutate le vostre librerie di quartiere!): ovviamente è Juan Rodolfo Wilcock.

Di lui ho già accennato altrove, visto che per una casualità che sembra destino ho fatto tappa nel paese in cui è morto (Lubriano) a qualche giorno di distanza dall’acquisto de La sinagoga degli iconoclasti. Invogliato a sfogliarlo dall’articolo sopra citato, il libro mi ha convinto subito grazie a un inizio fulminante in cui vedevo mescolati il piacere Borgesiano per le false biografie e la sintesi Manganelliana sfoggiata in Centuria: trentacinque personaggi genialmente strambi tratteggiati nei momenti fondamentali della loro vita, il tutto in poco più di duecento pagine.

“Quanto a lui, Aram Kugiungian, la ruota del suo karma si era messa a girare, a quanto pareva, senza freno, forse per arrivare prima al termine fissato; il fatto è che ogni due mesi all’incirca Aram nasceva di nuovo, pur continuando a vivere negli altri corpi. Ovviamente l’aritmetica non vale per le anime, un’anima divisa per mille dà sempre mille anime intere, così come il Soffio del Creatore diviso per tre miliardi dà tre miliardi di Soffi del Creatore. Aram sapeva di essere il ragazzo armeno di cui si è detto: volle sapere chi altro fosse.

Dal telepata filippino José Valdés y Prom al teorico dell’inversione del tempo Félicien Raegge, con cui si apre e chiude il libro, Wilcock crea un percorso affascinante fra teorie bizzarre ma non sempre inventate, visto che alcuni spunti li ha ricavati da un libro chiave dello scetticismo scientifico, In the name of science del matematico Martin Gardner. Facciamo così la conoscenza di Roger Babson, fondatore di un istituto il cui scopo è trovare una sostanza capace di annullare la forza di gravità, dell’uomo incarnato in innumerevoli corpi Aram Kugiungian, del piano di Aaron Rosenblum per riportare il mondo alle condizioni dell’Inghilterra del 1580 (a detta dell’utopista “il periodo più felice della storia mondiale”) e di quello del dottor Alfred Attendu per far assurgere l’idiozia a condizione ideale per l’uomo.

“Qualsiasi movimento tendente a reinserire i deficienti, congeniti o accidentali, nella società civile, si fonda sul presupposto – certamente falso – che gli evoluti siamo noi, e loro i degenerati. Attendu rovescia questo presupposto, decide cioè che i degenerati siamo noi e i modelli loro, e dà così inizio a un movimento inverso, finora rimasto per ben individuati motivi senza altro seguito che l’antica ma tacita collaborazione delle massime autorità, non solo psichiatriche, tendente a esasperare negli imbecilli quel che li rende appunto imbecilli.”

Divertito e divertente, scritto in una prosa che ha molto in comune con quella dell’amico Borges, La sinagoga degli iconoclasti diventa però ostico laddove il suo autore si fa troppo affascinare dai temi che cerca di scandagliare. Scrivere le immaginarie recensioni delle opere teatrali di Llorenz Riber aggiunge solo pesantezza alla narrazione della carriera (inspiegabilmente di successo) di un regista ossessionato dai conigli, così come aggiungere i dettagli tecnici delle invenzioni di André Lebran o stilare la lunga lista di quelle di Jesús Pica Planas, fecondo autore di progetti inutili. Uno dei capitoli in cui Wilcock si fa più prendere la mano dalla smania esplicativa è legato al metabolismo storico, sorta di teoria secondo cui i conflitti in natura sono dovuti al gruppo sanguigno, movimento curiosamente attribuito ad un intellettuale (e proprietario di una fabbrica di dolci) di Abbiategrasso chiamato Carlo Olgiati: i particolari geografici permettono di rilevare un grande legame con l’Italia (Wilcock visse più di vent’anni nel belpaese, di cui ottenne la cittadinanza post-mortem), acuito dalla rivelazione, nell’ultima pagina, che il nome del folle teorico è quello del bisnonno del’autore.

La sinagoga degli iconoclasti è un fulgido esempio dell’inventiva letteraria argentina, leggero nei temi ma con una prosa rifinita alla perfezione. Non è esente da difetti, ma la brevità delle biografie di cui è composto (una pagina la più corta, dieci la più lunga se si esclude il caso particolare di Llorenz Riber) rende comunque agevole la lettura laddove Wilcock si distrae e perde di vista quella che è la sua abilità migliore, cioè rendere credibili i suoi personaggi attraverso esperienze e aneddoti piuttosto che tramite dissertazioni pseudoscientifiche. Non siamo ai livelli delle Tre versioni di Giuda borgesiane insomma, ma negli episodi migliori la soddisfazione è molto simile.

Racconti migliori: José Valdés y Prom, Aaron Rosenblum, Aram Kugiungian, Alfred Attendu, Henry Bucher, Luis Fuentecilla Herrera.

Racconto in musica 27: La parete nera (iFasti – Lamore)

Ogni settimana cerco di ascoltare qualcosa di nuovo e/o qualche gruppo che già conosco che magari senza che me ne sia accorto ha pubblicato altro materiale. È un tentativo di mantenermi aggiornato sulla musica attuale che non mi farà comunque stare al passo con le mode (il mio approccio alla trap si è fermato a un paio di ascolti di un disco di Sfera Ebbasta, l’autotune mi fa l’effetto della kryptonite per superman, o dei gatti attaccati ai coglioni per usare espressioni meno nerd), ma in questo modo almeno non mi fossilizzo sui gruppi che già ascolto e rimando il momento in cui diventerò vecchio dentro e dirò cose tipo “eh ma dopo i (gruppo x) non è uscito più niente di valido”. Il lockdown sarebbe stato un fantastico periodo per ascoltare pacchi di musica, almeno per me che faccio l’operaio metalmeccanico e non dovevo andare comunque a lavorare, ma mi sono buttato sui libri e sulla scrittura e se ascolto un disco mentre leggo non capisco né una né l’altra cosa (stereotipo mode on: sono un uomo, non sono multitasking): qualche band però l’ho scoperta, ed una è quella di cui vi parlo questa settimana, cioè iFasti.

Se siete fra i quattro che seguono questo blog magari il nome non vi giungerà nuovo, per via di questa recensione del loro ultimo disco Tutorial. Nascono a Torino nel 2008 dalle ceneri dei Seminole, storica band del DIY italiano, e da subito portano nella propria musica temi a loro cari, visto il passato personale fatto di attivismo all’interno dei collettivi sociali. Il primo Ep Lei si è alzata dal sordo mormorio, arriva nel 2009, e l’anno dopo arriva già il primo disco Ovatta, arrangiato registrato e mixato dalla band stessa. Prima di Palestre, secondo disco uscito nel 2015, iFasti collaborano e sperimentano a più non posso: realizzano un Ep, Morula, registrato di getto in una sola notte durante un tour e contenente tre canzoni, quattro racconti e tante immagini, e partecipano alle colonne sonore virtuali dei libri La faglia di Massimo Miro, uscito per Maestrale Edizioni, e Off. In viaggio nelle città fantasma del Nordovest di Marco Magnone, uscito per Espress Edizioni e allegato al quotidiano La Stampa. A questo si aggiungono le partecipazioni nel primo periodo a Epidemia chimica, video del regista indipendente Umberto Ponti a cui regalano alcune canzoni del primo ep, e alla compilation autoprodotta Un disco grezzo, un disco che ci impegna, realizzata assieme ad altre quattordici band torinesi per prendere posizione su temi sociali tra cui l’uso di psicofarmaci sui bambini e la violenta discriminazione subita dagli immigrati.

Il resto è storia recente, viziata dalla pandemia: con tute le difficoltà del periodo iFasti hanno fatto il loro partecipando e promuovendo compilation come Nel vortice: sputi e sudore quando ancora si poteva di Scatti Vorticosi Records e Break the lock vol.1 del Collettivo Fuori dal cratere, e sono tornati finalmente a esibirsi live poco più di una settimana fa, allo Spazio 211 della loro Torino. Già nella recensione accennavo al fatto che la canzone che più mi aveva convinto del loro ultimo disco fosse Lamore, e proprio da questa ho tratto l’idea per un racconto che posso definire in qualche maniera “postmoderno”, visto che è infarcito di citazioni musicali (da canzoni che preferisco evitare come la peste): dal brano, e dallo splendido video che potete vedere più in basso, ho tratto questa suggestione, e ho cercato di infondere nella seconda parte del racconto la stessa tensione emotiva che mi assale ogni volta che la canzone muta pelle e da allegra si fa quasi angosciante. A voi la sentenza se il tentativo sia riuscito o meno, trovate il racconto subito dopo il brano: buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

La parete nera

Eravamo in quattro al bar e stavamo ammazzando il tempo bevendoci qualche birra e parlando delle nostre ex, il che mi metteva un po’ a disagio perché Topo era stato assieme alla tipa con cui uscivo ma diceva che non aveva nessun rimpianto, nessun rimorso, non so come faceva visto che io ci impazzivo per lei, aveva gli occhi dell’amore, verdi, e quando facevamo sesso quante espressioni di godimento sul suo volto, e più parlavamo più mi veniva voglia di andare via subito e andare a baciarla, a sentire se aveva ancora l’odore del sesso addosso, ma Ginko ne ha ordinate altre quattro e ce n’è voluta per convincerli a bercele in macchina, con Skala che la menava perché come al solito toccava a lui guidare anche se la macchina era la mia e noi a dirgli dai che stasera te ne troviamo una bella come una mattina d’acqua cristallina, e lui si è messo a ridere dicendo ma che cazzo vuol dire, basta che la trovo con le tette grosse, e quando siamo arrivati eravamo tutti belli allegri e lei era lì ad aspettarmi all’ingresso, con su un vestito tanto stretto che mi immaginavo tutto, così l’ho baciata mentre gli altri entravano dicendomi ci vediamo al bar ma io non avevo più voglia di bere, le ho detto voglio vederti ballare e siamo andati in mezzo alla pista a scatenarci, ha cominciato pure a strusciarmisi addosso, abbiamo continuato così per almeno un’ora perché ero tutto un bagno di sudore e quando lei mi ha detto che andava in bagno ho raggiunto gli altri, ne ho ordinata una e ho cominciato a dirgli di buttarsi anche loro in pista

volevo così tanto bene a tutti quanti

volevo condividere quel momento

ma mi sono interrotto perché c’era uno vicino ai bagni che stava parlando con lei e avvicinandomi la vedo che gli fa il dito medio e si allontana, ho fatto per chiederle cosa stava succedendo ma mi ha detto lascia stare e lo avrei anche fatto se non fosse che quello ha gridato sì brava vai con quel frocetto, così gli ho detto c’è qualche problema e quando quello mi ha fatto un sorrisetto gli ho tirato una centra proprio in mezzo agli occhi, è andato giù dritto e ho cominciato a dargli calci urlando a chi hai dato del frocio pezzo di merda e sono andato avanti finché Ginko non mi ha tirato via e giuro, quando mi sono girato erano tutti lì a guardarmi come fossi un mostro, anche lei si teneva una mano sulla bocca, e lì ho capito, come una rivelazione, che nessuno mi avrebbe mai voluto veramente bene, che c’era come una parete nera fra tutti noi e io avrei voluto tanto scalarla e spiegare cosa sentivo davvero, perché mi comportavo così, però non riuscivo a trovare le parole e quando mi hanno buttato fuori io ho aspettato che qualcuno venisse a farmi compagnia perché almeno volevo provarci a scusarmi, ma non è arrivato nessuno e allora ho capito anche che a questo mondo te la devi cavare da solo, non puoi fare affidamento su nessuno, men che meno sull’amore, così ho preso la macchina e li ho lasciati tutti lì, quegli stronzi, e da allora non li ho più sentiti.

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Quando l’autorialità diventa un problema: Nolan e Kaufman a confronto

Prima di questo articolo devo fare una doverosa premessa: adoro Christopher Nolan e Charlie Kaufman. Non mi sono perso nessun film di entrambi, dagli esordi a oggi. Following? Ce l’ho. Human nature? Mio. Li ho seguiti per l’intera carriera, che per il primo è stata in continua ascesa e decisamente più altalenante per il secondo, visto che dopo Eternal sunshine of the spotless mind il successo di pubblico è calato sensibilmente (non di critica, visto che Anomalisa la sua candidatura agli Oscar come miglior film d’animazione se l’è portata a casa). Entrambi sono usciti da poco con i loro nuovi film: Tenet, di cui ha probabilmente sentito parlare anche mia madre visto che è stato designato come il salvatore dei cinema di tutto il globo (sta andando così così, in Cina è stato superato da Mulan e in Italia, per un weekend, da After 2), e Sto pensando di finirla qui, terzo film che vede Kaufman nelle doppie vesti di regista\sceneggiatore e distribuito da Netflix.

Che piaccia o meno (soprattutto per Nolan gli hater sono agguerritissimi) entrambi sono considerati Autori con la A maiuscola, un traguardo che penso sia diventato un motivo per spostare l’asticella sempre un po’ più in alto. Ho esplorato il mondo dei sogni dentro ai sogni in Inception? Aspetta che coinvolgo un consulente scientifico e futuro premio Nobel per Interstellar (piccolo retroscena, raccontato da Luca Perri del Planetario di Milano: le onde gravitazionali non appaiono nel film perché c’era troppo girato e bisognava tagliare qualcosa dalla sceneggiatura…). Ho trasformato la sceneggiatura basata su di un libro in una che parla di me che cerco di scrivere quella sceneggiatura (che ci crediate o no è la storia dietro a Il ladro di orchidee)? Aspetto che rendo le cose ancora più confuse nel mio primo film da regista, Synechdoche, New York. Tenet e Sto pensando di finirla qui sono l’apoteosi (per ora) di questo gioco al rilancio, e hanno a che fare con le loro ossessioni più grandi: il tempo per uno, i meandri della mente per l’altro.

Tenet

Il cinema al tempo del Covid-19

Su internet abbondano le spiegazioni per questo film, una cosa che manco gli schemini delle parentele di Dark (a proposito, se qualcuno ha capito perché fanno esperimenti sui bambini in questa serie me lo spieghi, perché gli sceneggiatori NON LO HANNO FATTO). Tenet è stato ammantato dall’aura di film incasinato fin dal primo trailer, che in effetti incuriosiva un sacco senza nemmeno provare a far capire alcunché, e a conti fatti ha mantenuto quanto promesso: uscire dalla sala potendo dire di aver capito tutto, per filo e per segno, penso sia stato possibile solo per chi lo ha scritto. Con questa premessa non intendo dire che arriverete a fine visione senza aver capito niente della trama, ma che il film è talmente intriso di piccoli dettagli impiantati su un tessuto spazio-temporale parecchio complicato che arriverete alla fine cercando di fare mente locale su qualche particolare fondamentalmente irrilevante che vi è sfuggito.

La storia inizia con il Protagonista (John David Washington, figlio del più noto Denzel) coinvolto in un’operazione antiterrorismo all’interno del teatro dell’opera di Kiev. La sua missione è quella di salvare un agente compromesso e recuperare un misterioso oggetto, obiettivo per il quale è disposto a sacrificare la vita quando, catturato dagli attentatori, ingoia una pillola avvelenata durante la tortura. La pillola si rivelerà falsa, la sua missione un test di lealtà e il piano da sventare invece molto più complicato di quanto potesse immaginare: il Protagonista, affiancato dall’alleato Neil (Robert Pattinson) inizierà un giro del mondo “alla Bond” che lo porterà in India, Norvegia, Vietnam e Russia, svelando man mano un piano criminale dalle conseguenze potenzialmente disastrose per l’umanità intera.

Christopher Nolan ha il merito di aver realizzato un film visivamente incredibile, con scene d’azione che fatico a capire come abbia fatto anche solo a pensarle (figuriamoci a realizzarle), ma tutto questo impianto che fa spalancare la mascella viene sminuito da tre serissimi problemi.

1) La freddezza. Nolan è stato accusato varie volte in carriera di essere un regista freddo, ma io mi sono sempre sentito coinvolto empaticamente dalle storie dei suoi personaggi (tranne in Dunkirk, altro film dove l’impianto scenico mi è sembrato preponderante su ciò che veniva narrato). Con Tenet questo non è successo, e ho seguito le vicissitudini dei personaggi senza mai ritrovarmi realmente in ansia per nessuno di loro. Non è colpa della recitazione quanto dell’impressione che, per dirla con una frase attualissima, alla fine sarebbe andato tutto bene: non vi rivelo se l’impressione è esatta o meno, ma uno spy movie che non riesce a tenermi sulle spine per me ha qualche difetto profondo;

2) La sindrome da spiegone. Per tutto il film Nolan ci tiene a spiegarci nel dettaglio i concetti che reggono la particolare temporalità della vicenda, con l’apoteosi verso l’inizio di un personaggio (interpretato da Clémence Poésy) che ha l’unico compito di fare un tutorial al protagonista, ma in fondo tutto questo non fa che confondere le idee senza che ce ne sia davvero bisogno. Secondo George Rohmer de I 400 calci Tenet più che essere complesso è “scritto” in maniera da sembrarlo (provate a contare le volte che vengono usate le frasi “manovra a tenaglia temporale” e “paradosso del nonno”), e sono propenso a dargli ragione: richiedere linearità in un film che fa degli incastri temporali la sua ragion d’essere non avrebbe senso, ma se alla fin fine tutto questo invertire il tempo serve giusto a girare delle grandiose scene d’azione puoi evitare di fondermi il cervello con concetti da esame di fisica di cui non sento la necessità;

Serve una spiegazione?

3) I cliché narrativi. Ho letto commenti riguardanti la profondità del cattivo (spoiler: sì, c’è un cattivo nella vicenda), l’evoluzione di un certo personaggio lungo la storia, ma la verità è che per me Tenet, eliminati i viaggi nel tempo, è banale. So che dirlo dal basso della mia conoscenza cinematografica basata su tante visioni e nessuno studio è presuntuoso, ma non pretendo certo che questo articolo venga inserito nel Mereghetti: allo stesso tempo, con tutto il rispetto, ritengo che un film d’azione che pianta lì un cattivo per cui è impossibile parteggiare, la classica donna da salvare che diventa anche love interest del protagonista e il compagno d’avventure amico fraterno dopo trenta secondi che ti conosce non può avere la profondità dei personaggi come priorità. Il film vince inoltre il premio per la battuta più inutile: quando viene fatto notare che il successo del piano malvagio potrebbe causare la distruzione del mondo uno dei personaggi risponde “e quindi morirà anche mio figlio”. MA DAVVERO?

Quando qualche anno fa vidi Mad Max: Fury Road ricordo di essere uscito dal cinema entusiasta, pur recitando le parole “bellissimo, avesse avuto una trama sarebbe stato il film definitivo”. Le parti d’azione in Tenet provocano uno sbalordimento simile, ma qui c’è una trama che le collega: purtroppo non è quello il punto forte del film.

Sto pensando di finirla qui

Due sulla strada

La trama di Sto pensando di finirla qui, ridotta all’osso, è quanto di più semplice possa sembrare. Lucy, interpretata da Jessie Buckley, va col fidanzato Jake (Jesse Plemons) a conoscere i genitori di lui, piena di dubbi sulla loro relazione cominciata da poche settimane: arrivati alla loro fattoria comincia a notare molte stranezze, in un crescendo di inquietudine.

Sembra la trama di un film horror, vero? Così però non è. Kaufman, dall’arrivo alla fattoria in avanti, ci fa capire chiaramente che le cose non sono come sembrano, ma il suo interesse principale non è la rivelazione del mistero bensì la psiche dei protagonisti (fedele in questo alla fonte originaria, il libro omonimo dello scrittore canadese Iain Reid). Forse proprio per questo Sto pensando di finirla qui è un film di parole più che di fatti, ma i discorsi dei protagonisti sono spesso inutili ai fini della trama e culturalmente onanistici. C’è davvero bisogno di far recitare tutta intera una (lunga) poesia a Lucy solo per utilizzare velocemente quel riferimento più avanti? Minuti di film passati a parlare di David Foster Wallace erano davvero necessari a caratterizzare i personaggi (per me no, ma potete parlare di Foster Wallace anche in un film porno e io non mi lamenterò)?

Il film di Kaufman è gratuitamente verboso, tanto che nella scena della poesia ho pensato che il suo obiettivo fosse proprio quello di infastidire lo spettatore (potrei non essere lontano dalla realtà: nel già citato Il ladro di orchidee compare un famoso sceneggiatore che sconsiglia vivamente alcuni espedienti narrativi di cui la sceneggiatura abbonda). Forse, semplicemente, la sua voglia di farci entrare nella mente dei protagonisti è tale da sacrificare a questo scopo anche il ritmo narrativo.

L’apoteosi del ritmo

Guardandolo ho pensato a una piccola perla che consiglio di recuperare ai più ardimentosi, Waking Life di Richard Linklater, in cui un ragazzo vaga di sogno in sogno nel tentativo di risvegliarsi, ascoltando nel frattempo i monologhi dei personaggi incontrati nel percorso. Quel film (animato con la tecnica del rotoscope, utilizzata dal regista anche per il dickiano A scanner darkly) non aveva una vera e propria trama, tutto quello che interessava al regista era mettere in scena dei ragionamenti in maniera visivamente piacevole: il film di Kaufman invece una trama ce l’ha, ma l’impressione è che se la perda un po’ per strada quando rimane troppo affascinato dalle sue stesse parole.

Sto pensando di finirla qui è un film strano, non perfettamente riuscito, ma a fronte dei dubbi espressi qui sopra è un viaggio che sono stato contento di aver fatto. Sarebbe potuto durare molto meno, ma ha una sua poetica e la capacità rara di far empatizzare con personaggi fuori dall’ordinario: per la qualità media degli originali Netflix (megaproduzioni come Roma o The irishman escluse) è già grasso che cola. Piccola parentesi “dettagli che interessano solo me”: A) tre dei quattro attori principali presenti nel film hanno recitato nella serie Fargo (ognuno in una stagione diversa), tranne B) Toni Collette, che fra questo film, Hereditary e Knives out si sta specializzando in personaggi eccessivi come neanche Nicolas Cage.

Toni Collette in Hereditary, o “la sobrietà”

Questi sono le mie impressioni da semplice amante del cinema, ma se volete un parere più autorevole qui e qui trovate le recensioni dei due film realizzate da Critical Eye, un sito che vi straconsiglio al pari de I 400 calci, anche se per motivi diversi. Buona visione!

Racconto in musica 26: La tua parte (Moostroo – Valzerino di provincia)

C’è una scena che considero estremamente interessante nel panorama musicale odierno, e non sto parlando di quella romana che ha dato luce a Thegiornalisti, Gazzelle e fuffa varia (di quell’ambiente salvo giusto I cani, che qualche bella canzone agli inizi l’han fatta). È quella bergamasca, la cui punta dell’iceberg sono ovviamente i Verdena ma che vede alla base una moltitudine di band che hanno saputo ritagliarsi il loro spazio, tutte valide e dei generi più disparati: de Le capre a sonagli ho già parlato qualche mese fa, ma meritano di essere ascoltati anche Spread, Vanarin, Teich, Verbal e i compianti Bancale. Oltre alle già già citate, e alle mille altre che avrò colpevolmente dimenticato, una aveva già da tempo solleticato la mia voglia di scrivere: i Moostroo.

Attivi dal 2012, nascono dalle ceneri della band patchanka Jabberwocky e si mettono subito al lavoro su alcuni brani scritti negli anni precedenti. Il nome Moostroo arriva dopo il primo ep, pubblicato come Dulco Klo Charm, quando già il set di strumenti ha subito delle leggere ma sostanziali modifiche: Dulco Mazzoleni elettrifica la sua chitarra acustica, Francesco Pontiggia passa al basso a due corde bottleneck e Igor Malvestiti riduce all’essenziale il suo set di batteria. Il primo album omonimo, uscito nel 2014, suona aggressivo eppure scarno, acustico ed elettrico in egual maniera, con la voce e i testi di Dulco a creare atmosfere degne del miglior cantautorato su una base musicale che pesca dal post-punk in maniera estremamente personale. A fine 2016 esce Musica per adulti, un secondo disco in cui i testi prendono una direzione più intima ma senza che il risultato finale pecchi di energia: dopo averli recensiti e visti dal vivo in più occasioni ho avuto l’opportunità di conoscerli meglio proprio all’uscita di questo album, grazie a un’intervista che potete trovare qui. Sui loro profili social negli ultimi giorni sono apparsi indizi criptici su un nuovo disco, ed è inutile dire che lo attendo con ansia.

Valzerino di provincia, la canzone che ho scelto per il racconto di questa settimana, è tratta dal primo disco dei Moostroo. È uno sguardo lucido e disincantato sulla realtà di provincia, sui mostri che covano sotto l’apparenza, ironica e raggelante al tempo stesso: ho reinterpretato queste suggestioni cercando di mantenere la musicalità della canzone ma inserendo i miei riferimenti provinciali, piccole esperienze stranianti che sono la norma per chi non cerca altro che la sicurezza della consuetudine. Trovate il racconto sotto allo splendido video realizzato dalla band stessa (Dulco è dietro anche ai disegni di alcuni video de Le capre a sonagli, tipo questo), a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

La tua parte

Ogni giorno si ripete una storia già vista, un copione scontato con interpreti ignari.

La macchina piantata in mezzo alla strada, né quattro frecce né niente, alla fermata del bus. Il conducente si sporge, controlla i necrologi, come fosse più importante chi è morto dei viventi. Osserva rapito, cercando chissà chi, non lo distrae nemmeno un clacson inviperito.

La strana signora, all’angolo del bar, ha gli occhi nel vuoto e le braccia conserte. Sta così tutto il giorno, guarda il mondo passare, e che cosa gliene resta è un mistero da sondare. Si anima solamente per chiedere una sigaretta, anche a chi, ogni giorno, le rammenta che non fuma.

La barista furiosa, con la scopa in una mano, sbraita contro cani e padroni che le han lasciato il “regalino”. «Proprio davanti alla porta» si lamenta con tutti, poi getta la sigaretta all’ingresso dell’edicola.

Le biciclette che passano per le vie del centro rigorosamente contromano, pretendendo precedenza. Sono gli ultimi anarchici, resistono stoicamente a un futuro dove il senso di marcia è qualcosa di rilevante.

E suonano le campane dal campanile della chiesa, ma il sagrato è vuoto, oggi non è domenica. Una vecchina che passa si fa il segno della croce, poi inciampa nei lastroni e quasi le scappa un bestemmione. Inveisce contro il sindaco e chi ha rifatto la piazza, un sermone appassionato quasi come Gesù nel tempio.

Tu lo ascolti e ti distrae dalle occhiate degli avventori del circolino sotto casa dove passi ogni giorno. Pensionati, disoccupati o semplici nullafacenti, che ti guardano diffidenti come fosse la prima volta. Chiudi la porta alle spalle ma rimani sulla soglia, attendi bisbigli e commenti sul tuo esser fuori dalla norma.

Sogni posti lontani, una vita meno vana di quella che vedi vivere a chi il paese chiama casa. Una comunità che si aiuta, almeno di facciata, ma ci crede davvero anche quando emargina.

Fuggi presto, se devi, perché il tempo ti cambia, toglie coraggio all’azione e lascia solo inadeguatezza. C’è già un posto per te, nella partitura che ognuno segue, per accoglierti nel rifiuto, nella continua recriminazione: il ribelle, il fallito, la voce fuori dal coro, che fa risaltare ancor di più il dogmatico Alleluja.

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Italia insolita, ovvero ciò che ho visto in vacanza e i legami con arte, musica, letteratura e cinema che vi ho scoperto (parte seconda)

Questo articolo uscirà a settembre inoltrato, quando chi più o chi meno saremo tornati a lavoro e gli unici che penseranno alle ferie al presente saranno quelli che si sono goduti le città semivuote ad agosto, per poi partire quando anche le località turistiche si sono svuotate. Perché sì, anche in questa estate 2020 post-Covid (meglio, intra-Covid) un bel po’ di gente si è mossa, o forse erano tutti ad Assisi quando ci sono stato io e poi sono tornati a casa, chissà. I Dondolaluva dicevano “sian benedetti quelli per cui vivere è arrivare a venerdì”, i Vintage Violence rincaravano la dose affermando che “la crisi ci ha convinti che è normale andare a lavorare per pagarsi la benzina per andare a lavorare, Agosto come fine esistenziale”: in attesa di trovare un’alternativa al capitalismo eccovi quindi qualche meta interessante per godervi il prossimo weekend o le prossime ferie.

Fonti del Clitunno, Campello sul Clitunno (PG)

La pace

Visitare questo luogo non vi occuperà molto tempo, ma vi rasserenerà la mente. Un piccolo parco dove da sorgenti sotterranee sgorga il fiume Clitunno, una volta navigabile fino a Roma (viene citato in una lettera di Plinio il Giovane) e oggi decisamente meno prorompente, le cui acque per i romani erano sacre: qui venivano a consultare l’oracolo del dio Giove Clitunno (poco più a valle sorge un Tempietto a lui dedicato, riconvertito in era cristiana a chiesa di San Salvatore), e la purezza delle sue acque nell’antichità è stata decantata fra gli altri da Virgilio, Properzio e Giovenale.

Nonostante il drastico ridimensionamento delle sue acque le fonti dell Clitunno rimangono una visione idilliaca, con un laghetto in cui sguazzano beati anatre e cigni, acque limpidissime, salici e pioppi cipressini a coronarne le sponde. Non è un caso che anche in epoche più recenti ne siano state cantate le lodi, tanto che fra il 1700 e il 1800 due massimi poeti vi fecero riferimento: Lord Byron nel quarto libro dell’Aroldo, e Giosuè Carducci, cui è dedicata una stele marmorea scolpita a bassorilievo, che ne cantò la bellezza in una delle Odi Barbare, intitolata proprio Alle fonti del Clitumno.

Tutto molto bello, ma per il resto della giornata che fare? La zona vi offre un sacco di alternative valide, dalla vicina Spoleto ai più lontani panorami dei Monti Sibillini (potrebbe venirvi voglia di andare a scovare il minuscolo Chirocefalo sulle sponde del Lago di Pilato, omaggiato in tempi moderni dagli Offlaga Disco Pax in Fermo!), ma se volete continuare il vostro giro nel segno dell’acqua la tappa d’obbligo è una sola: la Cascata delle Marmore.

Qui di acqua ce n’è in surplus

Parco dei Mostri di Bomarzo (VT)

La Balena non è fra le sculture più famose del parco, ma l’Orco lo avrete già visto tutti quindi la metto e bon

Salvador Dalì, visitandolo, ne parlò come di un’invenzione storica unica. Questo in effetti è il Parco dei Mostri, commissionato dal principe Pier Francesco Orsini nel 1567 a Pirro Ligorio: un enorme bosco (l’altro nome con cui è conosciuto è infatti quello di Sacro Bosco) in cui sono dislocate gigantesche statue rappresentanti creature fantastiche e mitologiche, accompagnate in alcuni casi da scritte enigmatiche che, più che spiegare il significato del progetto, ne amplificano la misteriosa genesi.

A differenza della Calamita Cosmica (vedi prima parte) qui le proporzioni non erano certo la priorità

Camminare fra un’enorme Ercole che lotta contro Caco, draghi, sfingi, elefanti ed edifici distorti (entrare nella Casa Pendente è un’esperienza da fare: l’equilibrio vi sembrerà una riscoperta sensazionale) è un’esperienza unica e davvero magica, e forse tutte le teorie che sono state fatte negli anni sui motivi della sua costruzione non servono poi a granché: l’importante è girare per i sentieri con la mente aperta e pronta alla meraviglia, di sicuro il principe ne sarebbe già soddisfatto.

Un giro nella Casa Pendente e non avrete più bisogno della droga per sballarvi

Se possiamo visitare questa opera unica al mondo è grazie alla dedizione dei coniugi Severi Bettini, Tina e Giancarlo, sepolti nel mausoleo all’interno del parco (dove forse è sepolta anche la moglie del principe Orsini, Giulia Farnese, a cui il bosco era dedicato). Il parco fu infatti abbandonato già dal 1585, dopo la morte dell’ultimo discendente della casata, e solo nella seconda metà del ‘900 fu oggetto di lavori di restauro che l’hanno riportato all’odierno splendore. Se andate a visitarlo fate un giro nella bocca dell’orco e provate a parlare a voce alta: io non l’ho fatto, ma wikipedia mi dice che la voce viene amplificata e distorta e sono curioso di sapere se è così.

Civita di Bagnoregio (VT), la città che muore

Il colpo d’occhio

Sono sempre stati affascinato dai paesi abbandonati, dalla sensazione che provoca passeggiare in luoghi dove la storia non la fa più l’essere umano. Forse è dovuto al fascino per il postapocalittico che Ken il guerriero ha instillato nel me preadolescente (altro che fasce protette negli anni ’80), forse alle ore perse a giocare a Fallout in anni più recenti, sta di fatto che se trovo una ghost town da qualche parte il desiderio di visitarla si fa subito altissimo. Civita di Bagnoregio da questo punto di vista è un’eccezione alla regola: non un paese abbandonato (tutt’altro, lo troverete imballato di turisti), ma un paese in abbandono o, come lo ha giustamente ribattezzato lo scrittore Bonaventura Tecchi (che vi ha trascorso la giovinezza), “la città che muore”.

Pensavo che l’abbandono del paese fosse dovuto alla fuga verso condizioni di vita migliore, ma il motivo per cui questa piccola frazione conta solamente sedici abitanti (dato aggiornato al 2011) è di carattere geologico: costruita su una rupe di tufo, la “base” su cui poggia il paese è in continua erosione, con rischio di crolli per gli edifici che si trovano sui bordi della rupe stessa. Un destino a cui poteva andare incontro anche Orvieto se non fossero partiti per tempo lavori di messa in sicurezza: non so dire se la situazione di Civita di Bagnoregio sia ormai irreversibile, ma il continuo spopolamento di certo non è un buon segnale.

Se il destino della città mette una certa tristezza il panorama per chi arriva a vederla è di tutt’altro tenore. Abbarbicata sul suo sperone, collegata al paese di Bagnoregio solamente da un ponte pedonale di cemento armato (costruito nel 1965), la frazione di Civita si erge dominante su uno spazio che offre già la visione bucolica dei calanchi, altro spettacolo naturale causato dall’erosione del terreno circostante. Bella anche all’interno, Civita di Bagnoregio soffre come tutti i luoghi del turismo di massa: godrete di più del panorama all’esterno che del traffico pedonale da scansare al suo interno, ma difficilmente riuscirete a trattenervi dal visitarla dopo averla vista ergersi di fronte a voi.

Qualche bel vicolo anche qui

A seconda del percorso che farete per arrivarci potreste trovare sulla vostra strada un piccolo paese, Lubriano, che si vanta di essere “la terrazza più bella sulla valle dei calanchi”. Certamente il panorama che si osserva dalle sue vie è mozzafiato, ma se volete trovare anche un motivo letterario per visitarla eccovelo servito: qui morì, il 16 marzo 1978, lo scrittore, poeta e critico letterario argentino Juan Rodolfo Wilcock. Amico di Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges, Wilcock si trasferì in Italia negli anni ’50 e scrisse molto nella nostra lingua, tanto da ricevere la cittadinanza onoraria post mortem. Non troverete qui la sua tomba (è sepolto nel cimitero acattolico di Roma), ma potrebbe interessarvi dedicargli un pensiero camminando per le strade che ha solcato: il caso vuole che abbia scoperto tutto questo solo dopo esserci passato, ma prima di mettermi a leggere il suo La sinagoga degli iconoclasti, di cui vi parlerò nelle prossime settimane.

Il panorama dalla “terrazza”

Pitigliano (GR) e le Vie cave

Ah, l’ignoranza! Quando uno ha delle lacune è giusto ammetterle, quindi faccio ammenda del fatto che ero convinto che Pitigliano fosse conosciuta col soprannome “la piccola Gerusalemme” per la sua estetica e non, come ho scoperto in seguito, per la presenza storica di un’ampia comunità ebraica. Questo non significa che Pitigliano non sia magnifica, e potete farvene un’idea guardando le foto che ho sparpagliato qua e là.

Accomunata a Civita di Bagnoregio e Orvieto dalla sua posizione in cima a una rupe di tufo, la cittadina è piacevole da visitare, ricolma di vicoli e piena di negozi di artigianato locale che le danno un’aria attiva, vitale. Da queste parti venne a vivere in latitanza su finire degli anni ’70 Marcello Baraghini, storico editore di Stampa Alternativa, dopo una condanna a 18 mesi di reclusione per incitamento all’aborto a causa della pubblicazione di Contro la famiglia. Manuale di autodifesa per minorenni, e ci rimase anche dopo l’amnistia ricevuta un anno dopo la condanna. Ideatore della collana Millelire nel 1989, oggi Baraghini dirige proprio a Pitigliano l‘Associazione Strade Bianche di Stampa Alternativa, in cui si è reinventato “editore al contrario” abolendo il copyright e facendo decidere il prezzo reale al lettore. Potete trovare maggiori informazioni sulla sua storia e i suoi progetti, passati e futuri, in questo interessante articolo, mentre a questo link trovate molti di quegli storici Millelire pronti da scaricare, resi gratuiti da Baraghini in questo 2020 tanto martoriato per l’editoria.

Una foto che rende poca giustizia alla libreria di Marcello Baraghini

Una bella città e una bella idea editoriale quindi, ma Pitigliano nasconde anche altro: fra il suo territorio e quello delle vicine Sovana e Sorano corrono infatti le Vie Cave, ciclopici corridoi simili a canyon scavati nel tufo. Vale assolutamente la pena di farci un’escursione, vi troverete pace e bellezza oltre a qualche resto etrusco. Anche Matteo Garrone ne è rimasto affascinato, tanto da girarvi alcune scene de Il racconto dei racconti: a voi scoprire quali.

Giardino dei tarocchi, Pescia Fiorentina (GR)

Benvenuti nella psichedelia!

Questa è la storia di un’artista e di un colpo di fulmine. L’artista è Niki de Saint Phalle, pittrice, scultrice, regista e realizzatrice di plastici franco-statunitense; il colpo di fulmine è quello scoccato con l’arte di Gaudì in occasione di una visita al celebre Parc Guell, a Barcellona; il posto in cui questo amore platonico ha visto sbocciare i suoi frutti è il Giardino dei tarocchi.

Pianificato negli anni ’70 e realizzato nell’arco di più di venti anni su un terreno messole a disposizione dai fratelli di Marella Caracciolo Agnelli, conosciuta durante un periodo di convalescenza a St. Moritz, il Giardino dei tarocchi è una sfrenata opera di fantasia multicolore (influenzata pare anche dalla visita al Parco dei Mostri di Bomarzo citato più in alto, una visita da cui è forse scaturita la decisione di non organizzare visite guidate per permettere ai visitatori di darsi da sé le risposte alle proprie domande). All’interno della sua area si possono osservare enormi statue in acciaio e cemento rappresentanti gli arcani maggiori dei tarocchi, rivisitati secondo una propria idea estetica, ricoperte da vetri, specchi e ceramiche colorate che rendono la visita un’immersione in un caleidoscopio di colori e riflessi.

Quell’ingranaggio in cima alla Torre si muove!

La visita tocca il cuore oltre che gli occhi, perché l’amore che De Saint Phalle ha profuso nella sua monumentale opera lo si riscontra anche da piccoli dettagli, pensieri vergati sui marciapiedi decorati o sulle opere stesse. Su una di queste c’è una sorta di lettera d’amore fantasiosa e commovente dedicata al suo secondo marito, Jean Tinguely, scomparso nel 1991 dopo tre decenni vissuti a stretto contatto (i due collaboravano anche artisticamente, e alcuni degli ingranaggi semoventi di Tinguely sono riconoscibili negli elementi del parco, ad esempio in cima alla Torre): il modo in cui affronta l’amore e il lutto con pochi fumetti dice molto sulla sua sensibilità, la stessa con cui si è premurata di costituire una fondazione allo scopo di preservare e mantenere la sua opera e che dalla sua morte, avvenuta nel 2002, gestisce e cura il parco in sua vece.

Lettera d’amore su idra multicolore

Perdetevi fra le sculture, godetevi gli effetti di luce e i riflessi, lasciatevi trasportare dalla fantasia e non perdetevi l’interno dell’enorme Papessa: un appartamento vero e proprio tutto composto da frammenti di specchi, in cui De Saint Phalle stessa ha abitato durante la realizzazione dei lavori.

Buon riposo!

La Scarzuola, Montegabbione (TR)

Il colpo d’occhio 2

Come il Giardino dei tarocchi anche la Scarzuola è la realizzazione della visione di una persona sola, in questo caso l’architetto milanese Tomaso Buzzi. Influenzato dalla lettura dell’Hypnerotomachia Poliphili, romanzo allegorico del 1499 che parla del sogno erotico di Polifilo vissuto quale vero e proprio viaggio iniziatico dal protagonista, Buzzi acquistò nel 1957 la proprietà di un ex convento francescano per costruire quella che alcuni definiscono la sua “città ideale”, concepita però attraverso la coniugazione di elementi architettonici e simbolici che creano fra loro relazioni volte a scatenare una trasformazione interiore.

Un dettaglio + me riflesso con la maglia degli Zeus!

Preparatevi a osservare riproduzioni di Partenone, Colosseo, Piramide e altro ancora unite in un’unica Acropoli, figure archetipiche che rimandano alle scoperte in campo psicoanalitico di Jung, un enorme anfiteatro ricoperto di simboli. Preparatevi anche al padrone di casa, Marco Solari, nipote di Buzzi e suo erede: fu lui a terminare l’opera alla morte dello zio, avvenuta nel 1981, e sarà la vostra guida durante la visita anche se ci tiene a precisare che “tanto non capirete un cazzo”.

Archetipi?

Nella sua descrizione della storia del posto la Scarzuola era una sorta di parco giochi dell’architetto, in cui si era spogliato delle proprie competenze per farsi bambino e creare una grande scenografia teatrale in continuo divenire, ma questo non sminuisce la sua valenza iniziatica. Per tutta la durata della visita guidata Solari sarà provocatorio e offensivo (il leit motiv “tanto voi non capite un cazzo” diventerà un mantra), ma i concetti di cui parla sono affascinanti e vale la pena seguirlo lungo il tracciato di questa opera visionaria, stando alle sue regole e prendendo ciò che di buono ha da dire…ed è molto.

Se il vostro ego è troppo grande evitate la Scarzuola, perché lei e il suo proprietario sono inscindibili l’uno dall’altra e per voi la visita sarebbe un’esperienza da dimenticare; se invece siete aperti alle esperienze e passate sopra a certi teatrini con niente più di un’alzata di spalle allora per voi si apriranno le porte di un’esperienza unica, in un luogo “terribile e notturno” ma foriero di riflessioni.

Abbazia di San Galgano, Chiusdino (SI)

Fate gli auguri agli sposi là in fondo, a cui abbiamo rovinato le foto del matrimonio

Nel racconto dei luoghi che io e la mia fidanzata abbiamo visitato ho cercato di inserire quasi sempre un dettaglio letterario, anche solo un semplice aneddoto, ma nel caso dell’Abbazia di San Galgano il legame è addirittura col mito, anche se il mito non è autoctono. Ma andiamo con ordine.

“Rubiamo il piombo che rinforza il tetto, cosa mai potrà andare storto?”

Costruita nei primi anni del 1200, l’Abbazia fu consacrata nel 1268 e da lì visse un secolo di splendore prima che gli stessi prelati che dovevano averne cura cominciassero a venderne i tesori, arrivando addirittura nel 1550 a vendere il rivestimento in piombo del soffitto. Quando nel 1786 un fulmine ne colpì il campanile, facendolo crollare sul tetto, la mancanza del piombo fu disastrosa per le sorti del complesso, che venne abbandonato e sconsacrato tre anni più tardi. Oggi la sua rovina è diventata il motivo per cui frotte di visitatori affollano le sue spoglie sale: un’intera Abbazia a cielo aperto è infatti uno spettacolo meraviglioso e insolito, certo più adatto a noi uomini moderni e senza dio che non ne abbiamo mai abbastanza di luoghi da poter postare su Instagram (l’ho fatto anche io).

San Galgano o Re Artù?

Ma chi era San Galgano? Rampollo di una famiglia nobiliare, dopo una vita disordinata e il servizio come cavaliere decise di farsi eremita, un voto che sigillò conficcando la sua spada in un masso per farne una croce. Ancora adesso la spada è custodita nel vicino Eremo di Montesiepi, costruito subito dopo la morte del santo nel 1181, e se una spada nella roccia vi ricorda qualcosa sappiate che la famosa estrazione compiuta da Re Artù entra a far parte della leggenda solo grazie al racconto in versi francese Merlino di Robert de Boron, poeta vissuto nella stessa epoca del santo. C’è un legame diretto fra i cavalieri della tavola rotonda e il santo toscano? Forse Avalon e Chiusdino non sono così lontane, e un santo che compie un gesto pacifico di rinuncia alla battaglia può aver ispirato la narrazione delle gesta guerresche di un re bretone da sempre sospeso fra storia e mito.

Andate in pace, Amen!

Ora avete un po’ di idee per le vostre prossime vacanze, fatene buon uso e nel frattempo leggete, ascoltate musica, aiutate l’arte e…vabbé, lavorate anche per mantenervi.

Racconto in musica 25: Bagliori dallo spazio profondo (Calibro 35 – Thunderstorms and data)

Vorrei poter dire che ho passato il mese di pausa agostana a riunire autori di cui pubblicare racconti e ad ascoltare nuove band da farvi scoprire, ma la realtà è che A) sui primi ci sto lavorando, e non sapete quanti splendidi racconti si possono trovare sulle riviste letterarie: prima o poi farò un articolo al riguardo B) ho passato le due settimane in cui ho fatto su e giù per l’Italia ascoltando Radio Deejay, e non sapete quante canzoni del cazzo con testi senza senso che parlano di tequila e mare sono uscite questa estate. O probabilmente lo sapete e siete da queste parti proprio per disintossicarvi, quindi la smetto di blaterare di musica brutta e mi metto a parlarvi del gruppo che mi ha ispirato questa settimana, ovvero i Calibro 35.

Sulla lunga carriera della band milanese, attiva dal 2007, ci sarebbero mille cose da dire, così come suoi singoli componenti. Quando Enrico Gabrielli (tastiere e fiati), Massimo Martellotta (chitarra), Luca Rondanini (batteria), Luca Cavina (basso) e Tommaso Colliva (produttore e vero e proprio elemento della band) si riuniscono per un progetto dedicato alle colonne sonore italiane degli anni sessanta e settanta tutti hanno già una certa carriera nel mondo della musica (ascoltate Gabrielli coi Mariposa e Cavina con gli Zeus! per favore, vederli entrambi sul palco a Sanremo nel 2019 conoscendo i loro trascorsi musicali mi ha fatto commuovere), e il progetto può sembrare il classico divertissement da una botta e via: dopo sette album, alcuni ep, partecipazioni a compilation e addirittura un brano utilizzato nei titoli di coda di un film con Bruce Willis (Convergere in Giambellino, utilizzato nella colonna sonora di Red, non certo l’unica incursione dei Calibro 35 nel mondo del cinema) possiamo ovviamente affermare che non è così. Attraverso funky, jazz e quanto altro gli venisse in mente i Calibro 35 hanno pian piano ampliato il loro raggio d’azione dalle colonne sonore accennate più in alto (ripresero il tema di L’uomo dagli occhi di ghiaccio per la compilation Il paese è reale di cui ho parlato qui, fra le altre) a dischi di soli brani originali, perlopiù strumentali ma con piacevoli incursioni vocali (già nel primo disco era presente una versione della canzone L’appuntamento, originariamente interpretata da Ornella Vanoni, con Roberto Dell’Era alla voce).

Di Momentum, l’ultimo disco uscito a gennaio, io mi sono accorto come al solito in ritardo ma è stato amore a primo ascolto. All’interno del loro sound comunque riconoscibile ci sono derive un po’ da tutte le parti, tanto che io ci ho trovato spazio per immaginarmi connubi con la fantascienza e il mondo del retrogaming: Thunderstorms and data, sesta traccia dell’album, mi ha ispirato un brano debitore di tante letture (fra tutte Nostri amici da Frolix 8 di Philip K. Dick) e dell’immaginario videoludico degli shoot’em up a scorrimento verticale, genere anzianissimo ma che continua a sopravvivere nonostante tutto. Siete ancora in tempo per vedere i Calibro 35 dal vivo al Castello Sforzesco mercoledì 9 settembre (qui maggiori informazioni), il racconto invece lo trovate sotto al brano: non mi rimane che augurarvi buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Bagliori dallo spazio profondo

Ce l’ho fatta. La mia missione è compiuta, finalmente sono a casa.

Ho visto le stelle delle più remote galassie, visitato pianeti dai panorami inenarrabili, attraversato nubi di asteroidi, tutto al solo scopo di salvare la mia specie. Quando l’incarico ci è stata affidato il nostro sembrava un tentativo disperato: disperderci per lo spazio, cercando qualcosa che ci aiutasse a sopravvivere.

Mi si inumidiscono gli occhi avvicinandomi al globo, alle luci sulla sua superfice. Sembra cambiato, eppure è sempre lo stesso: il mio pianeta natale, quello che mi ha dato la vita e uno scopo.

Quello per cui ho perso per sempre la mia innocenza.

Ripenso alle battaglie e ai cunicoli pieni di circuiti in roccaforti aliene dove mi infiltravo come un virus in un vasto sistema immunitario. Mille e più volte ho rischiato di morire fra le fiamme, un bagliore nell’universo silenzioso che nessuno da casa avrebbe visto. Ho fatto mie tecnologie apparentemente incomprensibili, integrate nella mia navicella che ora è l’emblema stesso della speranza.

Vedo figure avvicinarsi dall’atmosfera. Ho già inviato il codice di riconoscimento, mi immagino le reazioni alla torre di controllo e non riesco a trattenere una risata. Cerco di immaginare anche le facce, ma la risata si fa amara. Chissà quanti saranno morti durante la mia assenza.

Ho perso i migliori anni della mia vita a vagare solitario, ma il sacrificio non è stato vano.

Mi chiedo se lei mi abbia aspettato, anche se le ho detto di non farlo. Se la mia abitazione è ancora in piedi, nonostante le tempeste che imperversavano sulla superfice. Penso anche a quelli che dicevano che la mia era la scelta facile, che cercavo la salvezza altrove lasciandoli lì a morire. Non potrò raccontare loro dei pericoli che ho corso, dei dubbi che mi attraversavano la mente ogni volta che ero costretto a combattere. Avevano una famiglia i miei avversari? Ero io il cattivo per le flotte che cercavano di respingermi? Sopravviveranno i pianeti che mi sono lasciato alle spalle, senza le tecnologie che ho sottratto loro?

Non voglio più pensare, solo guardare le navicelle che si schierano attorno a me, il mio comitato di accoglienza. Basta sofferenza.

Sono l’eroe. Una bella sensazione. Troppo breve.

Le navicelle cominciano ad attaccarmi. Cerco di comunicare, ma le mie urla si perdono nel vuoto. Mi limito a schivare finché posso, fino a quando reagire non diventa l’unica possibilità di sopravvivenza, ma mi hanno ormai accerchiato. Dovrei riuscire ad abbatterle facilmente ma sono più veloci di quanto le ricordi. Come ha fatto la tecnologia del mio pianeta ad avanzare così? Chi è che mi sta realmente attaccando?

Un paio di colpi vanno a segno, trasformando la mia navicella in una palla di fuoco. Resto senza risposte, ma almeno da casa potranno vedere l’esplosione che pone fine alla mia vita.

Game over.

Italia insolita, ovvero ciò che ho visto in vacanza e i legami con arte, musica, letteratura e cinema che vi ho scoperto (parte prima)

Ebbene sì, come molti in questa estate sono andato alla riscoperta dell’Italia. Sarà che non l’ho mai approfondita più di tanto, sarà perché fino a qualche mese fa manco sapevo se ci sarebbe stato un periodo da sfruttare per le vacanze, sarà che la pandemia globale ha convinto me e la mia fidanzata a convertirci al motto “stay local”, il risultato alla fine è stato un viaggio in macchina fra Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Lazio. Niente mare che in spiaggia ci annoiamo, ma un sacco di mete trovate perlopiù col metodo collaudato di cercare su Google “cose insolite da vedere in” e via di nome della regione prescelta. In rigoroso ordine di percorso ecco quindi una carrellata di alcuni posti che abbiamo scoperto in vacanza, corredati da curiosità che li collegano alle arti di cui di solito sproloquio in questo blog.

Labirinto della Masone, Fontanellato (PR)

Cosa può unire uno dei più grandi scrittori sudamericani e una band seminale di Seattle che fa drone doom metal? La risposta la conosce Franco Maria Ricci, eclettico editore che nel 2015 aprì al pubblico il suo progetto (forse) più ambizioso: un enorme labirinto, creato con svariate specie di bambù.

Lo scrittore sudamericano a cui ho accennato è Jorge Luis Borges, che Ricci conosceva personalmente (collaborò con lui a diversi progetti, fra i quali la collana La biblioteca di Babele) e che è stato più volte suo ospite. Proprio conversando e camminando con un Borges ormai cieco gli venne l’idea di costruire un labirinto enorme, tema caro allo scrittore argentino che, messo a parte dell’intento, commentò dicendo che “il labirinto più grande del mondo esiste già, e si chiama deserto”. Ci vollero trent’anni e vari progetti per concretizzare il sogno, e oggi è possibile visitarlo e perdercisi imparando nel frattempo qualcosa sui labirinti nella storia, grazie a pannelli esplicativi piazzati qua e là: sapevate ad esempio che nei labirinti romani non esisteva la possibilità di sbagliare percorso?

E all’interno trovate pure delle opere d’arte, realizzate anch’esse in bambù

Tappa obbligatoria della visita è il museo, sito al primo piano dell’edificio d’ingresso. Otre a una collezione d’arte eclettica e solo apparentemente caotica, che va da una stanza delle meraviglie incentrata sulla morte a dipinti di Ligabue, nelle sale è concentrata anche la produzione letteraria di Franco Maria Ricci, vera manna per ogni bibliofilo. Dopo il debutto nell’editoria, avvenuto nel 1963 con la ristampa del Manuale tipografico di Giambattista Bodoni, direttore della Stamperia Ducale di Parma a fine ‘700 e noto per i caratteri ricercati ed eleganti delle sue stampe, Ricci continuò la sua opera di editore votandosi al bello, unendo a contenuti di livello un’estetica riconoscibile e di sicuro impatto. Negli anni ’80 fondò anche una rivista, FMR, nella quale condensò la sua sensibilità estetica, ottenendo plausi da tutto il mondo.

Per dare un’idea di ciò che potrete trovare fra le memorabilia della sua casa editrice cito solo l’Encyclopédie curata da Diderot e D’Alembert, introdotta nella ristampa curata da Ricci da testi fra gli altri di Borges e Roland Barthes, e una sala intera dedicata al Codex Seraphinianus di Luigi Serafini, monumentale opera illustrata in due volumi che rappresenta una visionaria enciclopedia di un mondo inventato, scritta nei minuziosi caratteri di una lingua inesistente e adorata fra gli altri da Calvino, Manganelli e Fellini: anche solo questa sala varrebbe il prezzo del biglietto.

Animali psichedelici e dove trovarli, altro che J. K. Rowling

E il drone doom metal? C’entra eccome. Con incredibile occhio (e orecchio) per la connessione di forme d’arte diverse Ricci ha promosso svariati eventi nel suo labirinto, fra cui nel 2016 uno spettacolo visuale basato sul volume Finimondi di Borges, sonorizzato nientemeno che dai Sunn O))). Tutt’ora l’editore dimostra una competenza e un’apertura mentale che le radio nostrane purtroppo non hanno, avendo ospitato fra luglio e agosto il musicista e compositore sardo Paolo Angeli, uno spettacolo basato sui testi della musica indie di Max Collini e il concerto della musicista romana Lili Refrain. Il 28 agosto l’ultimo appuntamento è stata la replica dello spettacolo, itinerante lungo il labirinto, Lo specchio di Borges (sì, ancora lui). Qui trovate maggiori informazioni su tutti gli eventi e quanto di interessante si svolge all’interno del labirinto.

Benvenuti alla fine del mondo, 2016 edition

Rocchetta Mattei, Grizzana Morandi (BO)

Costruita sulle rovine della Rocca di Savignano, una struttura preesistente del XIII secolo, la Rocchetta Mattei prende il nome dal suo creatore, il conte Cesare Mattei (1809-1896). Nato da famiglia agiata e cresciuto a contatto con personaggi illustri della sua epoca (un nome su tutti: Gioacchino Rossini), Mattei si rinchiuse all’interno della sua bizzarra fortezza dopo due eventi segnanti: la morte della madre, avvenuta nel 1944, e alcune deludenti esperienze politiche nell’Italia del dopoguerra. Modificata più volte da lui e dai suoi eredi, la Rocchetta si presenta come un connubio incredibile di stili diversi, dal neomedievale al rinascimentale, dal moresco al liberty.

Ho detto Moresco?

Non meno bizzarro è il motivo per cui Mattei si allontanò dalla vita mondana. Deluso dalla medicina contemporanea, probabilmente a causa della morte della madre, il conte elaborò un metodo curativo che prendeva spunto dagli studi di Samuel Hahnemann, fondatore dell’Omeopatia: creò così l’Elettromeopatia, basata su preparati da lui stesso prodotti che sul finire dell’800 ebbero un successo internazionale, con 107 punti di distribuzione in tutto il mondo. Venivano persino nobili russi a farsi curare da Mattei, nonostante il “metodo” non funzionasse (come la scienza moderna ha appurato) e tutt’al più i sofferenti potevano contare, quando non sull’effetto placebo, sul semplice effetto benefico del clima mediterraneo. Va detto che il conte non truffava nessuno e credeva davvero nel suo metodo (i suoi rimedi rimasero in produzione ancora a lungo, con l’impresa portata avanti dal collaboratore Mario Venturoli, adottato da Mattei e designato erede dopo che il nipote Luigi, a cui era affidata la gestione finanziaria, rischiò di dilapidarne gli averi), quindi la storia lo ricorderà come visionario ma non certo come ciarlatano. La sua magione, oltre che per la bellezza architettonica, rimarrà immortale anche grazie a un certo Fedor Dostojevskij: nel suo romanzo I fratelli Karamàzov appare infatti citata la Rocchetta Mattei. Vi avevo promesso aneddoti letterari inconsueti, no?

Col fallimento del mercato basato sull’elettromeopatia gli eredi di Mattei furono costretti a vendere la Rocchetta a Primo Stefanelli, commerciante locale detto “il mercantone”. Quest’ultimo la sfruttò come attrazione fino agli anni ’80, senza curarsi granché della sua preservazione, ed è solo grazie alla Cassa di Risparmio di Bologna che l’ha acquistata nel 2005 se oggi le sue sale sono nuovamente percorribili, grazie a lavori di consolidamento e ristrutturazione tuttora in corso. La potete visitare con una guida nel weekend fra le 10 e le 15, ma è consigliata la prenotazione: andate qui per maggiori informazioni.

San Leo (RN)

Fra le mete predilette delle nostre vacanze ci sono stati un nugolo di piccoli borghi, fra cui un paio nella Romagna Sud-Occidentale: Verucchio, culla dei Malatesta, e soprattutto San Leo.

Situato in cima a uno sperone roccioso, da cui lo sguardo spazia tutto attorno, San Leo è un borgo di poco più di 2000 anime in cui è piacevole perdersi fra i vicoli, rilassarsi godendosi il panorama dal belvedere e, per chi ha voglia di farsi una bella camminata, visitare la Rocca che la sovrasta (cosa che non siamo riusciti a fare, complice il rilassante panorama sul belvedere e un ancora più rilassante spritz).

Vicolini, e montagne sullo sfondo

Merita la visita, ma se lo includo in questo non esaustivo compendio delle nostre mete vacanziere è anche per un motivo prettamente sonoro: da questo borgo (incluso fra i Borghi più belli d’Italia, vale la pena ricordarlo) prende nome infatti il duo sperimentale chitarra-batteria San Leo, caratterizzati da paesaggi sonori ampi e dilatati che non possono non essere stati evocati dall’atmosfera che si percepisce in quel luogo. Mantenete l’apertura mentale di Franco Maria Ricci e dategli un ascolto qui sotto:

Questo è il primo disco. L’ultimo, Y, è uscito ad aprile 2019

Chiesa dei morti, Urbania (PU)

I grandi esperti di Edgar Allan Poe conosceranno probabilmente il racconto La sepoltura prematura, uno dei racconti che meglio illustra il tema della Tafofobia, la paura di essere sepolti vivi da cui lo stesso scrittore era affetto. Visitando la Chiesa dei morti a Urbania non potrà non tornarvi in mente quel tipo di atmosfera, perché fra i cadaveri mummificati esposti in una sala interna è possibile vedere una vittima proprio di questo tremendo destino, evento purtroppo abbastanza comune nei secoli scorsi.

Tutt’altro che uno spettacolino macabro messo in piedi per turisti dal brivido facile, la Chiesa dei morti è invece una tappa interessante da visitare per scoprire una storia singolare. Nel 1567, quando la città era ancora conosciuta col nome di Casteldurante, venne qui fondata la Confraternita della Buona Morte, dedita fra le altre opere benevole alla sepoltura di quelle persone (perlopiù condannati a morte) che non avrebbero potuto permettersela, ma i confratelli non potevano immaginare che il terreno dietro la chiesa fosse pregno di una particolare muffa che, con gli anni, portò all’essiccazione dei cadaveri. Quando, a seguito di un editto napoleonico del 1804, i cadaveri vennero riesumati per essere interrati in cimiteri extraurbani, i becchini si trovarono di fronte ad uno spettacolo decisamente insolito: 18 corpi mummificati, conservati talmente bene che alcuni hanno ancora i capelli in testa e, nel caso del povero sepolto vivo, si può addirittura scorgere la pelle d’oca sulle sue braccia.

Coerentemente con l’atmosfera della sala il lampadario è composto da ossa

I cadaveri vennero esposti per la prima volta nel 1833, su volere del priore della Confraternita Vincenzo Piccini che, coerente con questa decisione, volle far trattare il suo cadavere in maniera da poter essere egli pure esposto (insieme a moglie e figlio). Conoscerete la sua storia, e quella degli altri uomini e donne esposti dietro le teche, grazie a un’efficace visita guidata, nella quale il custode vi svelerà quanto la scienza di oggi e i documenti dell’epoca hanno potuto scoprire su persone morte da secoli.

Tempio del Valadier, Genga (AN)

Le Grotte di Frasassi sono molto conosciute, uno spettacolo naturale che vale la visita almeno una volta nella vita, ma non tutti sanno che a poca distanza dalle sue formazioni rocciose si trova un altro punto di interesse, frutto dell’ingegno dell’uomo quanto di uno scenario naturale che ne rappresenta l’ideale cornice: è il Tempio del Valadier, costruito su volere di Papa Leone XII (originario proprio di Genga) nella prima metà del 1800 in un luogo dove già dall’anno 1000 le monache benedettine praticavano la clausura.

La costruzione fu affidata all’architetto Giuseppe Valadier, che utilizzò il marmo travertino per realizzare questa sensazionale opera perfettamente incastonata nella grotta. Non ci sono aneddoti letterari al riguardo, ma il timore che possiate ignorare questa destinazione passandoci vicino mi impone di parlarne in nome del bello. La camminata per arrivarci è abbastanza ripida, ma se vi sentite stanchi pensate a quelli che ogni Natale qui organizzano il presepe vivente e continuate a salire: ho già detto che ne vale la pena?

Non dimenticatevi delle grotte eh!

Calamita Cosmica, Foligno (PG)

Surprise, you’re dead!

La piccola chiesa di Urbania riusciva a contenere svariate mummie, la ex Chiesa della Santissima Trinità in Annunziata di Foligno riesce invece a contenere a malapena uno scheletro. Capita se lo scheletro è lungo 24 metri, opera dell’artista Gino De Dominicis: ecco a voi la Calamita Cosmica.

Realizzata segretamente nel 1988, ed esposta per la prima volta nel 1990 al Centro di arte contemporanea Magazin di Grenoble in Francia, l’opera rappresenta un enorme scheletro umano, dalle proporzioni perfette a eccezione di un grosso becco d’uccello al posto del naso (caratteristica presente anche in altri lavori di De Dominicis). Sull’ultima falange del dito medio è posta in equilibrio un’enorme asta di ferro dorata, che per l’artista rappresenta la calamita che mette in contatto lo scheletro con il mondo cosmico.

Per farvi capire le dimensioni, casomai siate come me che se mi dicono 24 metri non riesco a farmi un’idea

Esposta negli anni in numerosi luoghi (fra i più caratteristici la Reggia di Versailles a Parigi e in Piazza Duomo a Milano, su iniziativa di Vittorio Sgarbi), dal 2011 la Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno l’ha acquistata per darle casa all’interno della chiesa appena restaurata. All’interno, oltre al monumentale scheletro, potrete scoprire qualcosa di più su De Dominicis stesso, grazie a un documentario che sviscera la vita di un artista poliedrico, capace di passare dall’arte contemporanea (fece scalpore esponendo un giovane affetto dalla sindrome di down alla Biennale di Venezia del 1972, parte di un’opera intitolata Seconda soluzione d’Immortalità (l’Universo è Immobile) che prendeva le basi nientemeno che dalle teorie sull’essere eterno del filosofo Emanuele Severino) alla pittura nella seconda fase della sua carriera. Eclettico, impossibile da etichettare (rifuggì ogni inclusione in correnti artistiche, soprattutto in quella di arte concettuale che irrise), provocatorio, la vita di De Dominicis è tanto affascinante quanto la Calamita Cosmica stessa.

Racconto in musica 24: La giustizia nel sangue (Juggernaut – Limina)

Entrare in contatto con la musica dei Juggernaut è stata una di quelle cose che in qualche modo dovevano accadere. Non mi piace chiamare semplicemente “caso” il fatto che, mentre nel 2014 uscivano col secondo disco Trama e gli affiancavano una dettagliata storia (che potete leggere qui), io facevo posticciamente la stessa operazione recensendo i concittadini Vonneumann. Una storia trova sempre il modo di farsi raccontare (ok, è una frase che in bocca a Borges avrebbe molta più enfasi), e se siamo in questa rubrica è proprio perché questo è successo.

La storia dei Juggernaut comincia in realtà parecchi anni prima del disco citato sopra, visto che il primo album …Where mountains walk è del 2009. Da allora la formazione subisce una rivoluzione, mantenendo solo Roberto Cippitelli e Luigi Farina dei membri originari, e anche lo spettro sonoro muta sensibilmente: abbandonata la voce per un approccio esclusivamente strumentale, la band aggiunge di tutto all’impianto metal iniziale, dal jazz alla bossanova, dal post-rock alla psichedelia.

La vena esplorativa non si è inaridita negli anni, e a distanza di altri cinque anni arriva un nuovo e interessantissimo capitolo della storia musicale dei Juggernaut. Uscito a ottobre 2019, Neuroteque continua a giocare coi generi (e con gli strumenti, un campionario che va da quelli classici del rock e arriva fino a glockenspiel e sitar), alternando sfuriate sonore come Astor a momenti più ariosi come Aracnival, che ricorda con suoni più cattivi la libertà compositiva dei migliori The Mars Volta.

Mi è bastato ascoltare la prima traccia di questo album, Limina, per figurarmi nella mente una storia da raccontare. Una sorta di vendetta a più riprese, debitrice della musica per le sue ascese e discese: la trovate sotto al link, io come al solito vi auguro buon ascolto, buona lettura e vi do appuntamento a settembre per i prossimi racconti in musica.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

La giustizia nel sangue

Non aveva fatto in tempo nemmeno a godersela. Quella sensazione di vittoria e giustizia, volata via come se niente fosse.

Solo pochi attimi prima stringeva trionfante la gola del suo nemico, assaporando ogni suo ansito come fosse l’ultimo, specchiandosi nei suoi occhi terrorizzati. La vittima si era fatta carnefice, avrebbe voluto dirgli, ma quali parole avrebbero potuto suggellare un simile momento? Meglio ascoltarne la vita scivolare via, imprimendosi nella mente le immagini e i suoni dell’agonia.

A cadavere freddo, prefigurandosi un futuro senza caccia, si sentì spossato. Lasciò il corpo in strada, non temendo testimoni o collegamenti (lui e la vittima – che ironia considerarla tale! – condividevano solo l’oscuro segreto che aveva portato a quel violento epilogo), iniziando a vagare per la città come istupidito. Ripercorse strade dove aveva giocato in gioventù, il parco dove aveva dato il suo primo bacio a una bionda che non amava, arrivò fino all’università dove si era laureato nell’ultimo, vero momento di bellezza che la vita gli aveva donato. La vendetta, ora lo capiva, non gli avrebbe restituito il passato; il futuro non gli offriva niente a cui tendere; il presente, senza quei due poli a dargli stimoli, era terra sterile.

Andò al funerale del nemico, in una chiesa stracolma prese posto su una panca e ascoltò il prete blaterare banalità sulla rettitudine, il futuro assicurato in cielo, la gioia che dovevano provare i familiari del caro estinto nel pensarlo alla destra del padre: non gli riuscì nemmeno di arrabbiarsi per quelle parole false, dette da chi non ne conosceva davvero i peccati. Guardò da lontano le teste dei familiari reclinate, ascoltò i loro pianti senza emozione alcuna, si alzò quando la cerimonia giunse al termine, come un automa che risponde a stimoli esterni senza volontà propria.

Sul sagrato della chiesa, mentre si sprecavano le condoglianze, vide i familiari abbracciarsi in cerchio, come i giocatori di una squadra di rugby. L’uomo più anziano, il padre del suo nemico, disse una sola frase, a voce alta perché lo sentissero tutti, con energia insospettabile.

Era uno di noi, disse, e lo rimarrà per sempre.

Fu allora che la vita tornò a fluire nelle vene dell’assassino, quando riconobbe la vittima negli occhi del padre, nella linea del naso di una zia, nella postura del fratello, persino nel modo di stringersi la cravatta di un lontano cugino. In quelle poche parole trovò la chiave per il futuro: la mela marcia non cade lontano dall’albero, e per non infettare il terreno dovrà essere tagliato ogni ramo, divelta ogni radice, una alla volta.

Nella mente assaporava già il contatto dei polpastrelli con la corda, il luccichio della lama, la consistenza del bastone. La sua sete di giustizia non era ancora appagata, la sua opera sarebbe stata per sempre in divenire: il sangue chiama altro sangue, e anche quello cattivo non mente.

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