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Una piccola critica a Nope attraverso l’utilizzo di Shyamalan e degli anime dello Studio Trigger

Fra un regista che fa cose che mi piaciucchiano ma di cui mi aspetto già l’andamento e uno che fa cose da cui non so cosa aspettarmi, due volte su tre sceglierò il secondo: ecco perché ogni volta che esce un film di Jordan Peele me lo recupero quasi subito.

“Eri grande in Big Mouth!” (semi-cit.)

Get out fu un esordio col botto, con tanto di nomination agli Oscar e elezione d’ufficio nel pantheon dei futuri innovatori del cinema horror: me lo andai a vedere al cinema e, al di là della genialità del canovaccio e della sua attualità, mi convinse poco col suo esagerato mix di generi (magari faccio caso a parte, non avevo apprezzato manco Kill Bill per lo stesso motivo). Apprezzai molto di più Us, anche se per quello non gli sganciai soldi in sala: seguii le vicende della famiglia Wilson e dei loro doppi su un volo diretto negli Stati Uniti, gustandomi la prestazione fantastica e inquietante di Lupita Nyong’o (i film me li guardo quasi sempre doppiati, ma questo vi consiglio assolutamente di vederlo in lingua originale per apprezzare il suo lavoro sulla voce) e trovando molto interessante l’analisi sociologica che fa da sfondo alla vicenda. Quindi Nope sono andato a vederlo appena tornato dalle vacanze? Yep.

Il contagioso entusiasmo di Daniel Kaluuya

Di che parla in nuovo film di Jordan Peele? Di una famiglia di allevatori di cavalli per il cinema, una lunga tradizione messa in crisi dal green screen, la morte del patriarca e… Da qualcosa che si aggira per i cieli sopra il ranch. E cosa fai quando hai qualcosa di misterioso e potenzialmente pericoloso sopra la tua testa? Cerchi di filmarlo per farci i soldi, ovviamente.

Nope è un animale strano e, da tradizione Peeliana (se si può già parlare di tradizione al terzo film), parla di un sacco di cose e va in direzioni che non ti aspetti. Su tutto ciò di cui parla in sottotraccia, abbozzando temi e possibili analogie, preferisco lasciar parlare Xena Rowlands de I 400 calci, sulle direzioni inaspettate della trama cercherò di approfondire io col rischio di incorrere in qualche SPOILER (scritto così dovrebbe mettervi abbastanza in allarme).

Il film è fondamentalmente una caccia, in cui cacciatore e preda si danno spesso e volentieri il cambio. Non ti aspetti quel che succede finché non succede perché non ci sono particolari avvisaglie del pericolo finché questo non si presenta come tale, il che è buono e giusto contando che OJ (Daniel Kaluuya, efficacissimo nella sua ombrosità) e Emerald (Keke Palmer) si ritrovano ad avere a che fare con una creatura di un altro mondo il cui comportamento, proprio per questo, è imprevedibile. È però anche un film che, man mano che procede, vuol mettere in scena uno spettacolo sempre più grandioso, aggiungendo personaggi alla “battuta di caccia” (l’annoiato commesso Angel, interpretato da Brandon Perea, lo scontroso regista Antiers Holst interpretato da Michael Wincott) e sacrificandone altri per aggiungere carne al fuoco (il proprietario del parco divertimenti a tema western Ricky Park, uno stralunato Steven Yeun che per me sarà sempre il Glen di The walking dead), ma soprattutto modificando le regole del gioco a uso e consumo della propria visione. In questa ansia di esagerazione, e nella volontà di fissare regole che valgono “perché sì”, stanno a mio parere i due principali difetti di Nope, perché se vuoi sbroccare dovresti prendere esempio dai migliori e se vuoi fissare regole arbitrarie non dovresti prendere esempio dai peggiori.

Ecco perché ora vi presento lo Studio Trigger.

Di cieli sfondati e vestiti animati

Sopra e sotto: tamarraggine entusiasta all’ennesima potenza

Trigger è il nome di uno studio di animazione creato da alcuni transfughi del celeberrimo Studio Gainax (quello fondato da Hideaki Anno e creatore di Neon Genesis Evangelion, qualcosa di cui magari avete sentito parlare anche senza essere cultori dell’animazione giapponese). Fra le loro molteplici opere io ne ho viste un paio, ovvero Sfondamento dei cieli Gurren Lagann, realizzato nel 2007 ancora sotto Gainax, e Kill la kill, realizzato in proprio nel 2013: in comune i due anime hanno molto, dal fatto che il tuo nemico possa diventare il tuo alleato subito dopo al concetto di amicizia e fedeltà ancorato in profondità nel cuore dei personaggi, ma questi non sarebbero tratti così distintivi se non ci fosse un livello di esagerazione e tamarraggine portato così in là da far sembrare i Super Sayan di Dragon Ball dei bulletti da discoteca (cosa a cui li ho sempre associati).

L’espressione di Broly di fronte all’esagerazione negli anime dello Studio Trigger

Senza stare a farvi un riassunto delle trame dei due anime, che se no facciamo notte, sappiate che Gurren Lagann parte con il protagonista che trova un robottino nelle viscere della terra e finisce con lo stesso robottino che è diventato grosso come una costellazione (o forse usa le costellazioni come arma, scusate l’ho visto un po’ di anni fa); Kill la kill, invece, parte con una ragazzina che arriva in un Istituto studentesco per vendicare la morte del padre e finisce con una battaglia per la terra combattuta fuori dall’atmosfera. L’esagerazione è una costante di entrambe le serie, una caratteristica con cui devi scendere a patti fin dall’inizio fra personaggi le cui dimensioni dipendono dal grado di aggressività che hanno in quel momento, combattimenti che sfasciano città intere e poteri che funzionano “perché sì” (memorabile la prima “fusione” del Gurren Lagann), senza uno straccio di spiegazione che non sia “la loro volontà è talmente forte che ovviamente sono riusciti a farlo”… Ed è una giustificazione che ti devi dare da solo, perché nessuno ha tempo di fermarsi a spiegartelo. Eppure tutto funziona magnificamente, perché l’entusiasmo con cui i creatori procedono senza sentire il bisogno di parlare di livelli e potere (sì, Dragon Ball, ce l’ho ancora con te) è contagioso e ti porta a meravigliarti per ogni nuova invenzione, per ogni cosa totalmente improbabile che la trama infila (in Kill la kill i buoni sono dei nudisti!) con il solo intento di correre più velocemente e più rumorosamente possibile verso il finale, caratterizzando i personaggi in maniera che quei pochi tratti distintivi bastino a farteli amare e ricordare.

Nope nel finale cerca l’esagerazione, ovviamente senza neanche provare ad avvicinarsi ai livelli dello Studio Trigger, ma non è la sua natura. Sembra che all’improvviso inizi un secondo film, uno che non ti aspettavi ma che forse neanche il regista si aspettava di portare lì (SPOILER: dove gli Ufo si pappano la gente insomma), e che basa il suo andamento su una regola che è fondamentale e la cui efficacia è direttamente proporzionale alla nostra voglia di crederci (aka “sospensione dell’incredulità”).

Quanto avete amato gli Shyamalan twist?

L’acqua ci fa male, andiamo a conquistare un pianeta fatto principalmente d’acqua

Tanto vale tutto

A me Signs è piaciuto. I primi film di M. Night. Shyalaman mi sono piaciuti tutti, anche se Il sesto senso l’ho visto sapendo già come finiva, anche se The village svoltava pesantemente a metà e ti ritrovavi a guardare non dico un altro film, ma un qualcosa di molto diverso da quel che ti aspettavi (e l’ho già scritto sopra che preferisco uno che sa sorprendermi a uno che mi porta verso un bellissimo posto che conosco già). Il regista indiano si è però guadagnato lo stigma di autore che ribalta tutto in un sol colpo, lo Shyamalan twist appunto, e in Signs questo ribaltamento è la cosa che rischia di far affondare un film che fino a quel punto era riuscito a mantenere alta la tensione con una buona prova attoriale e un punto di vista inedito per un film di invasioni extraterrestri: perché gli alieni del film, che si sono fatti chissà quanti anni luce di strada per arrivare fino a noi, si accorgono alla prima pioggia di essere allergici all’acqua. In un pianeta formato al 70% circa d’acqua. Controllare prima?

Jordan Peele basa tutto il secondo atto del suo film su qualcosa di simile ad uno Shyamalan twist al quadrato: la creatura assume contorni molto diversi da quelli che pensavamo e i protagonisti imparano qualcosa su di lei senza che ci sia un motivo logico per cui quella cosa dovrebbe funzionare. La cavalcata finale (in tutti i sensi) è tanto entusiasmante quanto siete disposti a dare credito alle fondamenta barcollanti su cui si basa la tattica dei protagonisti, un patto con gli spettatori che non arriva alla sospensione dell’incredulità necessaria per credere a una razza aliena che non si è informata sulle caratteristiche morfologiche del pianeta che vogliono conquistare, ma che pregiudica comunque il piacere della visione a chi non riesce a sottostare a quel patto.

È quindi un brutto film Nope? No, ma se non siete convinti amanti di Peele forse vi conviene aspettare di recuperarlo da qualche altra parte (che poi arrivo a un mese dalla prima proiezione a parlarvene, ancora un po’ e lo tolgono). È probabilmente la sua pellicola più confusa, quella in cui il numero di cose che voleva fare era maggiore di quello che era in grado di gestire… Ma ben vengano registi che ci provano, ché io il prossimo film vado a vederglielo ancora.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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