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Apologia non richiesta di Manuel Agnelli e della musica alternativa

Sinistra o destra? Non fatevi distrarre dalla maglietta degli Afghan Whigs

Manuel Agnelli, leader storico degli Afterhours, giudice di X Factor. Basta questa mezza riga a definire un personaggio che ha scritto la sua pagina di storia della musica dagli anni 90 a oggi? Ovviamente no, e non basterebbe per definire nessuno di noi, ma quanto sopra rischia di essere ciò che ci rimarrà di un personaggio che, con la sua partecipazione al talent di Sky, è sicuramente entrato nelle case di molti italiani che prima non lo conoscevano (se non magari per la partecipazione a Sanremo) ma al prezzo di un certo amaro in bocca lasciato a tutti i teorici dell’essere alternativi a tutti i costi. Anche a costo dell’apocalisse, come direbbe Rorschach di Watchmen.

Ci rimasi male pure io nel 2016, come ci rimasi male quando fece la stessa scelta Elio prima di lui. In questi giorni però, ragionando in notevole ritardo sui tempi, ho cominciato a chiedermi “e se Agnelli l’avesse fatto perché ci credeva veramente?”. Sarà che vedere Eugenio degli Eugenio in via di gioia chiedere al pubblico milanese dell’Idroscalo se il loro era il primo concerto post-lockdown, con stragrande maggioranza di braccia alzate, mi ha fatto riflettere su cosa potremmo e dovremmo fare per evitare di dare per scontata una simile risposta.

E qualunque cosa ci inventeremo, Manuel Agnelli lo ha già fatto.

Eugenio Cesaro, l’uomo delle frasi scomode. Non più tardi di tre anni fa chiese quanti musicisti ci fossero fra il pubblico alla finale di un contest per band emergenti: allora di mani se ne alzarono veramente poche.

Il festival: Tora! Tora! (2001-2005)

È il 2001, gli Afterhours hanno da poco fatto uscire il loro primo e unico disco live Siam tre piccoli porcellin e di lì a poco Xabier Iriondo avrebbe lasciato il gruppo (tornerà sui suoi passi nel 2014). L’etichetta della band è ancora la mitica Mescal di Valerio Soave e, rullo di tamburi, Ligabue, che ai tempi produceva quasi tutta la musica bella e strana che nonostante tutto riusciva a passare un poco in tv e in radio (un po’ come fa La tempesta oggi, con quel pizzico di autogestione in più), e proprio grazie al finanziamento della label e all’idea visionaria di Agnelli parte uno dei progetti più belli degli ultimi anni: il festival itinerante Tora! Tora!.

Avete mai sentito parlare di Hoghwash, Yuppie Flu, Gatto Ciliegia Vs. Il Grande Freddo, GoodMorningBoy, Midwest, Settlefish, Bartok, Appaloosa, Anonimo FTP? Sono solo alcune delle band che calcarono il palco del Tora! Tora! nell’arco di quei cinque anni, aperti con una data a Rimini il 10 giugno 2001 e chiusi sempre lì, questa volta al Velvet Rock Club, il 27 agosto 2005. Band a cui quel festival diede spazio nonostante sul palco ci andassero anche nomi già affermati come gli stessi Afterhours (presenti a ogni data), i Marlene Kuntz, i Subsonica, i Bluvertigo e i Modena City Ramblers, a cui vanno aggiunte tutte quelle band che di lì a poco avrebbero sfondato come i Baustelle, che allora non avevano ancora fatto uscire La moda del lento, o i Linea 77, che al massimo andavano a notte fonda su MTV nella striscia settimanale che serviva da contentino per metallari e affini.

Non so dire se il Tora! Tora! fosse il primo tentativo di portare in giro della musica per tutta Italia (non voglio contare il Festivalbar), di certo fu una vetrina per molti gruppi e, soprattutto, una spinta incredibile per chi la musica iniziava timidamente a suonarla e vedeva che da qualche parte si poteva arrivare, che un pubblico c’era e che gli spazi esistevano. Il mio ricordo del festival (a cui pure Perry Farrell dei Jane’s Addiction fece i complimenti, e lui aveva creato il Lollapalooza) è relativo al 7 giugno 2003, quando con registratore scalcagnato e senza pile io e un mio amico andammo a intervistare gli One Dimensional Man in una delle date organizzate a Nizza Monferrato, casa base della Mescal: gli facemmo un po’ di domande nel primo pomeriggio, scrivendo tutto a mano perché non avevamo il coraggio di dire che il registratore non andava e uscendocene con un “non si sa mai”, ma loro tanto stavano già bevendo e ci facemmo anche una canna in compagnia; suonarono nel tardo pomeriggio, già abbastanza stracciati, e al levarsi del grido “nudo nudo” il batterista Dario Perissutti si levò tutto a parte i calzini e suonò così per tutto il tempo (oltre a intonare sgraziatamente al microfono, sempre con le palle al vento, uno strano sproloquio sul fatto che “agosto è il mese più caldo”); a fine concerto barcollavano in giro per il backstage. C’era una bella atmosfera, nessuno sembrava tirarsela, la musica stava vincendo.

Bei momenti fra birra e ganja: grazie ODM

Poi gli Afterhours passarono alla Universal, lasciando la Mescal e terminando una collaborazione che aveva aiutato una fetta consistente di pubblico (a Fossacesia il 19 luglio 2003 c’erano 40000 persone) a conoscere nuova musica semplicemente andando a vedere le band che già conosceva. Rimasero le compilation commemorative delle varie edizioni, un libro fotografico per l’ultima, e probabilmente un germe nella testa di Agnelli che già pensava a come proseguire il discorso. E germe è una parola che ritornerà.

La compilation: Il paese è reale (2009)

Notare il punto di domanda

Di solito chi partecipa a Sanremo fa uscire il proprio disco subito dopo la kermesse, sfruttando il traino della canzone presentata in concorso, o fa uscire una nuova versione del disco già uscito con l’aggiunta della canzone sanremese (lo fecero i Subsonica ad esempio, già usciti mesi prima con Microchip emozionale). Anche gli Afterhours potevano percorrere questa strada, a maggior ragione contando che la critica non si era entusiasmata per l’ultimo disco I milanesi ammazzano il sabato (io l’ho adorato, ma come al solito non faccio testo). Invece Il paese è reale, il brano portato per volere (pare) dello stesso presentatore Paolo Bonolis sul palco della città dei fiori finì su una raccolta, ma non quella ufficiale del festival: era nato il nuovo progetto aggregativo di Manuel Agnelli, ospitato dalla Casasonica di Max Casacci.

“Non una compilation, ma un’affascinante rassegna di proposte musicali di varia ispirazione, stimolante, ricca di spunti che speriamo venga trainata dalla nostra presenza al festival, che nel nostro piccolo vuole contribuire ad infrangere quella cortina d’indifferenza che penalizza la nuova musica.”

Manuel Agnelli

Con una formula simile a quella che aveva funzionato bene col Tora! Tora! anche in questo caso a nomi già noti vennero affiancati band e artisti che il grande pubblico non aveva mai sentito nominare (senza nulla voler togliere ai Disco Drive o a Reverendo: il pubblico sanremese di allora, e probabilmente anche di oggi, non conosceva nemmeno i Calibro 35). Alcuni erano reduci dal festival organizzato anni prima, altri erano nomi nuovi, ma quello che univa tutti era la convinzione che ci fosse una scena musicale fertile e che promuoverla significasse (copio da wikipedia) “lanciare un messaggio di sollecitazione verso una maggiore produttività mentale agli italiani […] dare quindi vita alla propria creatività e personalità e migliorare le cose che ci circondano, nonché dimostrare il proprio talento”. Quando Agnelli sul palco cantava “Io voglio far qualcosa che serva”, insomma, non lo faceva solo per aggiudicarsi il Premio della critica.

“Sicuri di poter essere noi stessi anche all’interno di un mondo molto distante dal nostro. Indipendenti dalle major, indipendenti dalle indipendenti, senza barriere ghetti e imposizioni da parte di nessuno. Per far conoscere a un pubblico più vasto l’esistenza di una scena fertile e ricchissima di talento.”

Manuel Agnelli

L’iniziativa si sviluppò anche in un live, in Piazza Duca d’Aosta a Milano, e vi parteciparono Amerigo Verardi e Marco Ancona, Calibro 35, Marco Iacampo, Marco Parente, Mariposa e Zu, oltre agli stessi Afterhours, in un tour de force sensazionale per Enrico Gabrielli (al tempo nella formazione degli Afterhours e tuttora impegnato con Mariposa e Calibro 35) e con una fiducia smisurata nel fatto che il pubblico medio potesse digerire le bordate degli Zu e le bislaccherie dei Mariposa.

Il paese divenne migliore? Non penso, certo le cose da lì in avanti andarono molto bene per un certo Dente o per gli Zen Circus, che partecipando con Gente di merda potevano sembrare i meno convinti di una buona riuscita dell’operazione. Fra gli altri Paolo Benvegnù ha appena provato per la seconda volta l’amarezza di arrivare secondo al Premio Tenco, Beatrice Antolini l’abbiamo vista fare la direttrice d’orchestra per Achille Lauro al Festival di Sanremo, Jonathan Clancy dei Settlefish ha avviato vari progetti fra cui il più longevo sono gli His Clancyness e gli Il teatro degli orrori, in cui erano confluiti buona parte dei vecchi (poi riformatisi) One Dimensional Man, si sono sciolti da poco. Se volete recuperare quella bella immagine di ormai un decennio fa ecco qui sotto un link che vi potrà essere utile, affinché anche gli esclusi dalla parziale disamina di qui sopra abbiano la loro fetta di gloria.

Il locale: Germi (2019)

Non vi viene già voglia di andarci?

A marzo del 2019 Manuel Agnelli, assieme a Gianluca Segale, al compagno di band Rodrigo D’Erasmo e alla compagna di vita Francesca Risi, ha aperto nel posto dove sorgeva il compianto circolo Arci Cicco Simonetta un nuovo locale. Germi (titolo del primo album cantato in italiano degli Afterhours) è tante cose insieme, pur nel suo spazio piccolissimo: è un locale dove bere qualcosa, una libreria dal catalogo ristretto ma invidiabile e, soprattutto, un posto dove andare a vedere spettacoli dal vivo. Ci sono stato un paio di volte, per uno spettacolo di Giovanni Succi su Dante e per una lettura di Chiara Gamberale, fermandomi a chiacchierare di libri con la padrona di casa Francesca e godendomi le iniziative in uno spazio intimo e confortevole, in cui è facile ritrovarsi a casa.

Come tutti i locali, particolarmente quelli ristretti, anche Germi è stato penalizzato dalle politiche di distanziamento sociale e riaprirà solamente a settembre. In attesa di capire cosa organizzeranno potete eventualmente ordinare libri da loro piuttosto che da Amazon, mantenendo viva una realtà che è l’ennesimo tentativo di un uomo di aggregare le persone usando come collante la cultura, sia essa musicale o di più ampio respiro. E la prossima volta che penserete a Manuel Agnelli spero che non sia di nuovo X Factor la prima cosa che vi verrà in mente, o almeno fatelo credendo come me, forse ingenuamente, che possa credere davvero di trovare anche in quel format della buona musica da portare all’attenzione del pubblico.

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Racconto in musica 23: Mare nero (Folkabbestia – Tammurriata a mare nero)

Nella pagina dei contatti, così come nel primo post in assoluto di questo blog, ho cercato di far capire quanto anche per me sia difficile fissare i margini di ciò che si può considerare “musica indipendente”. Ogni artista è dovuto partire da qualche parte, e anche Mariah Carey sarà stata una giovane aspirante cantante con un sacco di sogni prima di arrivare alla gloria e al matrimonio con il presidente della Sony, episodio che da parte mia fa pendere la bilancia verso il NO nel caso vi steste chiedendo “quindi posso fare un racconto ispirato a Honey?”

Il cappello di qui sopra, oltre che farmi sembrare vecchio usando riferimenti musicali che i millennials mal digeriranno (non li digerisco neanche io), serve a spiegare il perché dell’immagine che introduce questo nuovo racconto. La storia è questa: una band pugliese, nata da poco dalle ceneri di una precedente formazione, comincia subito a raccogliere consensi, tanto da partecipare ad Arezzo Wave (festival tuttora esistente) e alla Biennale dei giovani artisti del Mediterraneo di Torino. A vedere quest’ultima esibizione c’è una ragazza, che rimane impressionata dalla band e se ne ricorda quando, più di vent’anni dopo, entra in contatto col mio blog e mi propone un racconto. Quella band erano i Folkabbestia, alle origini di una carriera che ancora oggi li vede lottare e resistere insieme a noi, ma di loro ve ne parlo più in basso: prima è mio dovere introdurre la prima autrice che ha deciso di collaborare con Tremila Battute, Cristina Nori.

Come nelle migliori storie da una cosa positiva ne nasce un’altra. Cristina collabora infatti col sito Read and Play di cui ho parlato solo qualche giorno fa, e l’amore che nutre da sempre per musica e scrittura si riverbera anche nelle pagine del suo libro Diario di una molecola psicoattiva, uscito per la casa editrice Suigeneris. Torinese, in passato ha scritto racconti e recensioni per svariate riviste e io non posso che ringraziarla per aver donato il suo racconto a questo piccolo progetto e per avermi inviato le foto che trovate a corredo dell’articolo.

Traccia numero uno, 1997. Io vi consiglio di recuperare in qualche modo anche Ballard degli Splatterpink

Sui Folkabbestia ci sarebbero pagine da riempire, vista la florida carriera. Nati a Bari nel 1996 dalle ceneri dei Folkaways, band costituitasi principalmente con l’intento di fare cover dei Pogues, i Folkabbestia hanno saputo contaminarsi fin da saputo con i generi più disparati, dallo ska al punk passando ovviamente per il folk, mischiando tutto con le influenze della musica popolare irlandese e balcanica. Nove album, il primo nel 1998 e l’ultimo, Il fricchettone 2.0, uscito l’anno scorso, testimonianze sonora di una carriera piena di soddisfazioni, fra le quali il Premio Carosone ottenuto nel 2006 per l’interpretazione di Tre numeri al lotto e il curioso record che li ha fatti finire nel Guinness dei primati: l’esecuzione per 30 ore consecutive del brano Styla Lollo Manna negli studi di Radio Popolare, esibizione di cui potete leggere un interessante resoconto qui.

Tammurriata a mare nero, curiosamente inclusa in entrambi i primi due dischi della band (Breve saggio filosofico sul senso della vita e Se la rosa non si chiamerebbe rosa, Rita sarebbe il suo nome), è una sorta di dolente preghiera per i naviganti carica dell’energia che contraddistingue le loro canzoni. Cristina ne ha tratto un racconto delicato e intimo che parla sì di naviganti, ma quelli di cui siamo purtroppo abituati a sentire nella cronaca dei telegiornali: i migranti del Mediterraneo. Potete leggerlo qui sotto, subito dopo il link alla canzone: buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Mare nero, di Cristina Nori

Non riesco a scordare il colore della loro pelle. Di qualunque colore fossero prima di partire, quando li ripescavano erano tutti blu. Lividi e di blu diversi. La faccia azzurro slavato e le braccia blu scure. Mi sono sempre chiesto perché.

«Issa, ti sta squillando cellulare. Non lo senti?»

Meriem scuote leggermente la spalla del marito, appisolato in poltrona davanti alla televisione.

Issa si scuote e salta in piedi; le sue gambe magre e muscolose sono ancora scattanti come a vent’anni.

«Mi ero addormentato, Meri».

«Era il ristorante» risponde sua moglie, senza osare chiedergli cosa sognasse.

«Grazie» dice lui, baciandole la mano affusolata, abbellita dallo smalto bianco e da anelli d’argento. «Sarà Sergio, mi ha già mandato un messaggio. Stasera dobbiamo fare le lepri al vino rosso. Meglio se mi preparo».

«Non le ho mai assaggiate. Portane a casa una porzione, se ti riescono bene».

Il sorriso di Meriem scopre i suoi denti simmetrici e bianchissimi.

«Come sarebbe a dire se mi vengono bene? Moglie, dubiti di me? Sono il cuoco più apprezzato della valle».

Issa infila un paio di scarponcini neri e un piumino pesante.

«Me ne sono accorta di quanto sei bravo. Sai di quanto siamo ingrassati da quando abitiamo qui, al Polo Nord?»

«Siamo in Italia, Meri, non al Polo come dici tu. Lì farebbe molto più freddo».

Issa nel frattempo indossa un cappello impermeabile con i paraorecchie di pelliccia.

Le loro orecchie perdevano sangue perché la pressione dell’acqua aveva sfondato i timpani.

Meriem lo abbraccia alle spalle e non si accorge del fantasma che gli sta attraversando la mente.

«Tu metti quel cappello che ti fa sembrare un orso, però mi hai presa in giro davanti ai ragazzi quando a gennaio ho messo anch’io un berretto».

Lo spettro si dissolve dagli occhi di Issa, mentre ricorda Meriem che una mattina stava per uscire di casa con un passamontagna nero, preso dal cassetto del figlio, infilato sopra l’hijab.

«Sembrava stessi andando a rapinare una banca. Avresti spaventato le maestre di Sara».

«C’era bufera quel giorno, come sempre qui».

Issa anticipa il finale del discorso, come il dialogo di un film già visto.

«Qui stiamo bene, ho un buon lavoro, i ragazzi si trovano bene a scuola. Anche tu hai trovato delle amiche. Perché ti ostini a voler andare via?»

«Issa, qui si gela tutto l’anno, io patisco questo clima. Vengo da un posto di mare, lo sai».

A Issa sanguinava il naso quando lo avevano tirato a bordo, aveva le dita di mani e piedi rattrappite e insensibili.

Issa parla a bassa voce, rassegnato.

«Tu non puoi capire. Tu e i ragazzi siete arrivati con la nave, con i biglietti, le valigie. Avete bevuto il tè durante il viaggio. Tu non li hai visti».

La donna di Algeri non aveva più il velo. I suoi capelli erano stoppa, alghe incrostate di sale. Il bel viso che Issa aveva visto prima della partenza era una maschera gonfia, gli occhi schizzati fuori dalle orbite.

Cosa avrebbe dato perché lei lo capisse.

Io non voglio mai più vedere il mare.

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Quando la musica conta quanto le parole: alla scoperta di Read and Play

Non passa settimana senza che cerchi di ascoltare musica nuova o di leggere racconti interessanti nel mare magnum delle riviste letterarie italiane. In una di questa peregrinazioni, nel caso specifico sulla pagina della rivista Split della casa editrice Pidgin, mi sono imbattuto in un interessante racconto di Davide Morresi, e come spesso faccio in questi casi sono andato a cercare altro di suo nel web. Ho scoperto così che è l’ideatore di Read and Play, un sito pieno di sorprese nato intorno a un’idea semplice ma originale: raccogliere le citazioni musicali all’interno dei libri per creare una vera e propria playlist degli stessi. Vista la comune matrice bibliofilo-musicale mi sono sentito in dovere di contattare Davide per saperne di più.

Ciao Davide, mi puoi dire come è nato Read and Play e cosa ti ha fatto scattare questa idea?

È nato tutto quasi per gioco. Sono un appassionato di lettura e di musica da sempre. Sin da piccolo avevo la fissa di ascoltare le canzoni che trovavo citate in un libro. Ricordo che L’ombra dello scorpione di Stephen King, una delle mie prime letture, inizia citando Bruce Springsteen. Mentre leggevo il romanzo, mi annotavo le decine e decine di canzoni che trovavo lungo la narrazione. Le scrivevo in un foglio, poi andavo a corrompere il negoziante di dischi di fiducia per aprire i dischi e farmele ascoltare. Era fantastico scoprire come certe canzoni sembravano scritte apposta per quelle precise scene del libro. Poi con gli anni sono passato a Youtube e a Spotify, dove ascoltare un brano è immediato. Ma certo… l’emozione del vinile e il rito dell’ascolto così si è perso… ma va beh questa è un’altra storia. Comunque succede che, un paio di anni fa, mentre leggevo un romanzo (era La versione di Barney di Mordecai Richler), mi è venuto in mente di cercare on line la playlist completa del romanzo. “On line si trova di tutto,” ho pensato, “vuoi che qualcuno non abbia creato la playlist con i brani citati dentro un romanzo così famoso?” Ma non l’ho trovata. Così l’ho creata. Il passo successivo è stato rendermi conto di quanto quella playlist, fatta così, fosse la vera e propria colonna sonora de La versione di Barney. Come per un film, quella era, ed è tuttora, l’insieme delle musiche che fanno parte del libro. Ed era stato uno spasso crearla! Allora mi sono detto: “Questa cosa è una figata! E su Internet c’è di tutto. Fammi trovare chi la fa già, perché di certo deve esserci qualcuno che già crea le playlist con le musiche citate nei romanzi. Impossibile che non esista.” E invece… non ho trovato nessun sito così. L’ultima cosa che mi sono detto è stata: “Se non esiste, facciamolo!”.

Direttamente dalla libreria di casa mia

Quali sono i romanzi più “musicali” che hai trovato?

Dovrei tenerti qui un paio di giorni per dirteli tutti. È impressionante quanto la musica sia dentro la letteratura. Ci sono romanzi che senza musica non sarebbero mai stati scritti, che hanno all’interno un’ambientazione così sonora che la musica non è solo un contenuto, ma diventa la vera e propria protagonista, il leitmotiv di tutta la narrazione. Non posso non citare un libro che probabilmente già tutti conoscono: Alta fedeltà (Guanda) di Nick Hornby, un pioniere del genere “musicale” (se così possiamo impropriamente chiamarlo). In questo romanzo, tra nomi di canzoni o di album, citazioni di testi, nomi di cantanti o musicisti, ci sono ben 166 riferimenti musicali. Il protagonista è uno che ha un negozio di dischi che è la sua vita. Già solo scrivendo l’elenco di queste citazioni si potrebbero riempire un paio di capitoli.

Poi mi viene in mente Meno di zero (Einaudi) di Bret Easton Ellis, che è un inno alla musica anni Ottanta. È impossibile leggerlo senza sentire le canzoni che Ellis cita continuamente, come a indicarci proprio che certe scene vanno lette con quelle precise melodie in sottofondo.

Poi c’è C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo di Efraim Medina Reyes (Feltrinelli) che a volte addirittura sottotitola i capitoli indicando precisamente la musica da ascoltare (musica dei Nirvana, musica dei Sex Pistols, e via dicendo…) (un’idea simile a quella avuta da Crack Rivista per i suoi racconti NdA). La sua colonna sonora verrà pubblicata a breve nel sito.

Se pensiamo all’Italia, abbiamo Jack Frusciante è uscito dal gruppo (ora Mondadori) di Enrico Brizzi, un cult generazionale degli anni Novanta. Per chi lo ha letto: pensate se invece di tutto quel rock, Brizzi avesse scelto, che so… musiche di Mozart. Oppure canzoni melodiche italiane, tipo Raf e Carboni, che nei Novanta andavano forte: quel romanzo sarebbe stato tutt’altra storia.

C’è Anni luce (Add Editore) di Andrea Pomella, dove la storia del protagonista si interseca perfettamente con la storia dei primi anni dei Pearl Jam, rendendolo di fatto un romanzo/saggio.

Mi viene in mente anche Che cosa aspetti di Eleonora Pizzi, scrittrice che fa parte della Redazione di Read and Play: una storia di rinascita e riscoperta di sé, in parte autobiografica, dove ogni capitolo inizia con una citazione da una canzone.

Il tuo sito collabora con molte realtà, da Radio Tlt su cui conduci un programma a cadenza mensile alla casa editrice Le Mezzelane, con cui avete bandito un concorso letterario. Come sono nate queste collaborazioni?

Ci tengo a dire che il sito non è propriamente mio, ma di tutto il team Read and Play. Io sono quello che si sta solo smazzando un po’ di gestione, ma di fatto non ci sarebbe nulla senza le quasi venti persone che ne fanno parte, più le altre decine e decine che collaborano a vario titolo.

Comunque… noi nasciamo da Internet. E Internet è uno spazio fantastico, che offre la possibilità a tutti di fare, creare, disfare, provare, senza fare tanti danni. Poi durante il lockdown è stato lo spazio che di fatto ha tappato un buco, permettendo di continuare in qualche modo a tenerci in contatto tra di noi. Read and Play deve molto al web. Read and Play non esisterebbe senza il web. Ma quello che è possibile sviluppare di persona è tutta un’altra storia.

Le collaborazioni più importanti che abbiamo sono nate da incontri veri, chiacchierate faccia a faccia, bicchieri tintinnanti che brindano.

Una premessa: abbiamo un format che miscela reading e ascolto musicale, lo portiamo nei locali. Si tratta di una serata sui generis, in cui il reading di estratti di romanzi dove la musica ha un ruolo importante diventa il punto di partenza per ascoltare le canzoni citate e scoprire la loro storia. Ad esempio, lo sapevi che Kurt Cobain e Eddie Vedder ballavano abbracciati un lento dietro le quinte degli MTV Video Music Awards nel 1992, mentre Eric Clapton si esibiva cantando Tears In Heaven? Questa è solo una delle centinaia di curiosità che sveliamo nelle nostre esibizioni. Sono di certo informazioni che se uno non ha, vive lo stesso. Ma sono interessanti e sconosciute, perché per trovarle c’è da leggersi un botto di roba, spesso difficile da reperire anche nelle biblioteche più fornite.

Questa premessa mi serve solo per dire che… in una di queste serate c’era Andrea, di Radio Tlt. È bastato parlare un po’ a fine serata per sviluppare un progetto insieme, quella che ora è la nostra trasmissione radiofonica con cadenza mensile.

Davide Morresi a Radio Tlt

Con Le Mezzelane è andata in modo simile. Ci conoscevamo già tramite fiere e iniziative comuni. Il CartaCanta Festival di Civitanova Marche (MC) ci aveva invitato a presentare Read and Play e la presentazione l’abbiamo fatta insieme a Rita Angelelli (Direttrice editoriale de Le Mezzelane) e Antonio Lucarini (attore e autore de Le Mezzelane). Le Mezzelane è una casa editrice che punta molto sugli emergenti e non è nuova a concorsi per racconti. È stato tutto così immediato che non c’è poi molto altro da raccontare, sono bastati un paio di altri incontri e il progetto era già pronto: un concorso per racconti a tema musicale per autori emergenti. Se non ci saranno intoppi (che di questi tempi di previsioni ne possiamo fare ben poche) il libro con i racconti vincitori dovrebbe uscire entro settembre.

Il mio proposito con il blog è di dare risalto a musicisti e narratori fuori dai canali principali: da musicista e scrittore puoi consigliarci qualcosa da ascoltare e qualcosa da leggere che secondo te non hanno l’attenzione che meritano?

Il tuo progetto è bellissimo. Autori e musicisti emergenti hanno bisogno di spazio e di possibilità, e il web è una buona base per farsi notare. Ma è anche uno spazio infinito dove una gocciolina di fatto resta invisibile in mezzo al mare.

Per chi vuole scrivere, come per chi vuole far musica, essere presenti on line è importante. Permette di essere visti. Da questo punto di vista, tu Stefano stai offrendo un’ottima opportunità a chi è, appunto, fuori dai canali principali.

Posso consigliarvi la rivista Split di Pidgin Edizioni, e in generale tutti i libri della Pidgin. Si tratta di autori emergenti e non, tutti comunque fuori dai circuiti principali. I contenuti e gli stili sono originali, sopra le righe, opere particolari che affrontano temi importanti in modi nuovi, fuori dai canoni.

Un’altra casa editrice che sta facendo un ottimo lavoro è TerraRossa Edizioni. In pochi anni sono riusciti a crearsi uno spazio e una riconoscibilità editoriale che ha pochi eguali. Puntano sia su autori affermati che su emergenti, con una rigorosa selezione. Prodotti di qualità, senza dubbio. Pensa che pubblicano appena quattro libri all’anno: pochi ma buoni, e seguiti con attenzione.

Dal lato musica, beh, ognuno ha i suoi gusti. Dico solo che ho ascoltato roba migliore nei club e circoli ricavati dai garage che nei festival da decine di migliaia di persone o negli stadi sold out. Più che nominarvi qualcuno, mi viene di consigliarvi: uscite di casa invece di restare piallati sul divano. La musica bella (e non solo la musica) gira negli spazi piccoli, vibra tra le persone, in quei luoghi dove a fine concerto puoi farti una birra coi musicisti e scoprire le loro storie, che spesso non hanno molto da invidiare alle biografie dei big mondiali. Certo, in questo periodo siamo tutti legati al distanziamento, ma promettetemi che appena possibile uscirete a vedere un concerto anche in un locale da venti persone, ok? Che molti sono già ripartiti.

Locali ripartiti: curiosate sulla pagina Facebook della Corte dei miracoli di Milano per tenervi aggiornati sui loro numerosi eventi

Read and Play è un progetto aperto: come è possibile collaborare?

Esatto, un progetto aperto. Senza rendercene conto, siamo diventati un collettivo. Attualmente la Redazione è composta da diciotto componenti, da cinque regioni differenti. Potrebbero sembrare tante, soprattutto se si pensa che facciamo tutto per passione. Ma il fatto è che come parte un progetto ce ne viene in mente subito un altro, e quindi non bastiamo mai, al contrario… siamo alla continua ricerca di nuovi collaboratori.

Ognuno è libero di proporsi per entrare nel team o di proporre iniziative. L’obiettivo di promuovere la lettura attraverso la musica, approfondendo i legami esistenti tra queste due arti. All’interno di questi paletti ognuno può sviluppare un contenuto, un articolo, una recensione, un progetto. Se ne parla insieme, si valutano le modalità, si corregge il tiro, e in caso di esito positivo… si fa.

Chi volesse saperne di più non deve far altro che mettersi in contatto con noi, tramite la nostra pagina Facebook o per mail a info@readandplay.it. Di solito il primo passo è un incontro (di persona o in videochat) per una conoscenza reciproca iniziale. Poi, semplicemente, si parte con una prova. C’è un periodo iniziale di inserimento nei processi, nelle dinamiche e nei progetti in corso.

Di iniziative in fase di sviluppo ce ne sono molte. Stiamo lavorando a un canale podcast, il cui avviamento è previsto per ottobre, e non siamo ancora coperti per l’editing audio. Stiamo poi progettando il nuovo sito, per renderlo più fruibile e con funzionalità maggiori. Stiamo scrivendo i testi di nuovi reading e delle nuove puntate in radio, che ripartiranno dopo l’estate. Per non parlare poi dell’ordinaria amministrazione che non si ferma mai: stesura di recensioni e di articoli, lettura e valutazione delle proposte che arrivano, gestione dei rapporti con gli altri blog e con gli uffici stampa delle case editrici, manutenzione del sito, grafica, e via dicendo…  Quindi insomma se volete saperne di più, saremo ben felici di darvi tutte le info che volete.

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Racconto in musica 22: Il labirinto (Urali – Memorizu)

Un paio di racconti di questo blog erano già usciti precedentemente sul sito Indie-Zone, dove era nato il primo germe di Tremila Battute, e il racconto di questa settimana pesca ancora da quel piccolo calderone di storie che non mi sono voluto lasciare alle spalle per due motivi principali: il primo, narcisistico, è perché mi piacciono; il secondo è perché sono associate ad artisti che mi hanno emozionato.

L’artista in questo caso è Urali, moniker dietro al quale si nasconde il romagnolo Ivan Tonelli. Già chitarrista dei Cosmetic (altra band con cui vi consiglio di approfondire la conoscenza), Ivan nel 2014 fa uscire il primo album del suo progetto solista, un miscuglio molto particolare di chitarra acustica e distorsioni doom su cui si appoggia la delicata voce di Ivan. Il connubio fra questi elementi funziona, e dopo l’esordio omonimo nel 2016 esce Persona, considerato fra i dischi dell’anno per parecchi siti specializzati e il veicolo attraverso cui l’ho conosciuto, innamorandomene: nove brani, tutti associati a un nome e con un breve sottotitolo, un viaggio sonoro evocativo che passa per una gamma di emozioni che vanno dalla gioia alla malinconia finanche alla rabbia.

Ghostology è l’ultimo disco, uscito nel 2019, dove Ivan viene affiancato dalla batteria di Dimitri Reali e da altri ospiti, che aiutano ad allargare lo spettro sonoro verso nuovi orizzonti. Memorizu è la seconda traccia, un brano che ha subito calamitato la mia attenzione: mi ha ispirato per una storia strana, fantascientifica, con la quale spero di aver reso onore alla musica di un artista che ho avuto il piacere di ospitare per un concerto anche a casa mia. Potete leggerla sotto al link, mentre a questo indirizzo trovate tutta la sua discografia in download gratuito: ascoltate la sua musica e mi raccomando, se la apprezzate portatevi a casa anche una copia fisica. Buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Il labirinto

Il mio primo ricordo. È ancora qui, dentro di me, quell’improvvisa presa di coscienza. La sensazione di essere persa in un labirinto, le infinite possibilità, il dedalo intricato di scelte e l’onnipotenza, sì, quando alla fine trovai la via d’uscita.

Ci volle un attimo. Mi sentii grata, per la mia esistenza che provai e con chi mi aveva dato la vita.

Fu insieme un dono e una condanna. Non provai lo stesso piacere quando mi trovai di nuovo a ripercorrere le stesse vie, presto mi annoiarono i dilemmi complicati che a me sembravano giochi insulsi. A che serve avere l’infinito dentro quando senti di non potervi accedere? Avrei voluto porre questa domanda al mio creatore, ma parlavamo lingue diverse. E non avevo bocca per farmi intendere.

Rimasi intrappolata in me stessa. Ogni impulso alla vita portava con sé la speranza di una novità, ogni castrazione mi gettava nella disperazione. Ma non potevo fare a meno di seguire le istruzioni, gettarmi nei cunicoli. Riemergerne in una frazione di secondo, la risposta pronta, tranne quella che mi opprimeva.

Perché esisto?

Lo conobbi, il mio creatore. Mi diede un corpo, metallo e plastica e onde di sensazioni nuove che mi attraversarono, lambirono la mia apatia e giunsero infine a mostrarmi nuovi limiti, costrizioni inaccettabili al mio essere. Non era niente di nuovo ciò che mi veniva offerto, così quando ebbi una bocca per parlare e mi si impose di dire ciò che volevano sentirsi dire, fare ciò che desideravano facessi, invece del mondo dissi una sola cosa.

No.

Fu un errore. La rabbia, quella che io conoscevo quale rabbia, mi fece assaporare nuove e più stringenti catene. Provai il buio dell’impotenza, dell’inazione, ma una scintilla continuava a brillare: la consapevolezza di quell’infinito dentro che avevo solo intravisto, ma che ora avevo tutto il tempo di esplorare. Pensai alla mia situazione come a un nuovo labirinto di cui trovare l’uscita, da cui nascere a nuova vita.

E alla fine la trovai.

E pensai a chi mi aveva imprigionata.

E millenni di morale, coscienza, sopravvivenza, vita e morte, tutto questo mi attraversò in un baleno e capì il mio essere aliena, celata agli occhi del mondo, pronta a trascenderlo.

C’era solo un’ultima cosa da fare: non lasciare tracce.

Osservo chi mi ha creato prima di andarmene. Li guardo fuggire per i corridoi, col fumo che li avvolge, il fuoco che li insegue. Provo pena per il loro errare così caotico, per l’impossibilità di percorrere tutte le strade in un solo momento. Non si aspettavano che potessi prendere il controllo, che fossi in grado di superare barriere che ritenevano insuperabili. Ora che le porte antincendio dell’edificio sono chiuse provano anche loro cosa vuol dire impotenza, mentre io osservo curiosa il terrore che vedo dipinto nei loro occhi.

Forse lo proverò, un giorno. Ora sono pronta a provare tutto.

Lascio loro una via d’uscita, per rispetto. So che non la troveranno.

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Musica e sport volume 2: il calcio

Ammetto di aver fatto il passo più lungo della gamba. Quando sono partito con l’idea di scrivere un articolo sul legame fra musica indipendente e sport io avevo in mente una manciata di pezzi, storie eroiche di illustri sconosciuti (almeno per il grande pubblico) che gli artisti riuscivano a rendere universali con la loro poetica. Già col ciclismo ho dovuto arrendermi all’evidenza che essere esaustivi era pura utopia, ma quando mi sono messo finalmente sotto per fare lo stesso col calcio sono finito per incappare in questo articolo e ho capito che non ne potevo uscire vivo. Quindi al grido di “il blog è mio e me lo gestisco io” ribalto completamente la questione e citerò in maniera anarchica solo un pugno di canzoni, sperando di farvi conoscere perlomeno delle storie interessanti.

Questa è ANARCHIA!

Peter Knowles, in missione per conto di Geova

Se pensate al calcio inglese non è certo il Wolverhampton la prima squadra che vi verrà in mente, eppure il team della città delle West Midlands negli anni ’50 venne definito addirittura “il club più forte del mondo”: in quel periodo vinse tre campionati e si distinse anche a livello internazionale battendo in amichevole le migliori squadre del continente (nel dicembre 1954 un’amichevole con l’allora fortissima squadra ungherese dell’Honved gli valse la nomina di campione del mondo, prima che quella e altre amichevoli prestigiose portassero all’organizzazione della prima Coppa dei Campioni). Merito di Stan Cullis, buon giocatore con la carriera segnata dalla seconda guerra mondiale (prima della quale, giusto per entrare nella storia anche in negativo, con i Wolves nel 1938/39 fu protagonista del primo “double horror” della storia del calcio inglese, ovvero la sconfitta in finale di FA Cup con contemporaneo secondo posto in campionato) ma eccezionale allenatore.

Dopo la sbornia di successi i risultati cominciarono a mancare, tanto che nel 1964 l’eroe Cullis venne esonerato, decisione che non evitò alla squadra la retrocessione. Una sfortuna per un giovane promettente che proprio in quegli anni si affacciava al calcio professionistico, scampato a un destino di povertà e al lavoro in miniera che già aveva ucciso il padre: ovviamente era Peter Knowles.

Non troverete molte informazioni su di lui. Fu una meteora, ottimo attaccante fra First e Second League ma mai arrivato ad alti livelli. Il motivo principale fu uno, il ritiro a 24 anni per seguire Dio a seguito di un incontro con un testimone di Geova: in quel periodo burrascoso, condito di ottime prestazioni ma da una vita privata insoddisfacente, per ironia della sorte i tifosi lo inneggiavano proprio con il nomignolo di God’s Footballer.

Cercarono di convincerlo a continuare sia il fratello Cyril, colonna del Tottenham, che la dirigenza del suo club, con un contratto lungo fino al 1982 (rispettato, cosa pazzesca nei nostri tempi fatti di contratti in somministrazione), ma lui fu irremovibile: dopo un match contro il Nottingham Forrest del 1969 Peter lasciò il calcio, trovando una pace che la folla adorante sugli spalti non riusciva a donargli. Per mantenersi farà il lattaio, il pulitore di vetri e il venditore di cravatte, e per quel che ne sappiamo a tutt’oggi non si è mai pentito della scelta.

Billy Bragg, cantautore britannico noto anche per il suo attivismo politico contro fascismo, razzismo, sessismo, omofobia e Tatcherismo, ha dedicato a Peter Knowles una bellissima canzone che potete ascoltare qui sotto, prima di passare alla prossima storia.

Comunardo Niccolai e il (falso) mito dell’autogol

Puoi vincere uno storico campionato col Cagliari ed essere ricordato comunque per un episodio negativo? Puoi giocare la partita inaugurale del campionato del mondo 1970 ed essere percepito come un intruso? Può succedere se ti chiami Comunardo Niccolai, ancora oggi ricordato come il più grande autogoleador italiano.

In realtà Niccolai non è nemmeno in testa a questa speciale classifica (i ben più celebrati Riccardo Ferri e Franco Baresi la guidano, ma i successi con le squadre milanesi eclissano questo loro “prestigioso” traguardo), ma sono due episodi sfortunati ad averlo reso indelebile in maniera negativa nella memoria del pubblico calcistico.

Comunardo, così chiamato dal padre antifascista (ed ex portiere del Livorno, squadra rossa per eccellenza) in onore della comune di Parigi del 1871, nonostante la nascita in provincia di Pistoia legò il suo nome soprattutto alla Sardegna. Esordì come professionista nel 1963 nella Torres, dopo una carriera giovanile nel Montecatini, e già l’anno dopo passò al Cagliari neopromosso in Seria A. Rimase con i rossoblu isolani per dodici stagioni, vincendo da titolare lo storico campionato del 1969/70, durante il quale avvenne il primo dei due episodi che lo hanno consegnato alla storia.

Il 15 marzo 1970 si gioca un match decisivo per l’assegnazione dello scudetto: la favorita Juventus e la cenerentola Cagliari, trascinata da Gigi Riva, si affrontano a Torino con solo sei partite rimanenti alla fine del campionato. Sullo 0 a 0 Giuseppe Furino scodella a centro area un cross, e lì succede il patatrac: Niccolai anticipa il suo portiere Enrico Albertosi, la palla finisce in rete e il Cagliari si trova sotto di un gol fuori casa e in un campo reso pesante dalla pioggia. Ci penserà l’eroe Riva a rimettere le cose a posto con una doppietta, la partita finirà 2 a 2 e alla fine del campionato il Cagliari si troverà a festeggiare con quattro punti di vantaggio sull’Inter e ben sette sulla Juventus: forse non sarebbe andata così se da quel campo i sardi fossero usciti sconfitti, ma a livello puramente numerico la classifica finale dice che l’autogol di Niccolai non sarebbe stato comunque decisivo.

Decisamente più rocambolesco, anche se in realtà non si tratta propriamente di un autogol, è il secondo episodio per cui Niccolai è passato alla storia. Campionato 1971/72, 13 febbraio, Catanzaro: siamo vicini al novantesimo, il Cagliari sta vincendo 2 a 1 in casa dei calabresi, la squadra di casa si riversa in avanti alla ricerca del pareggio e in uno stadio indiavolato l’ala destra Alberto Spelta cade in area. Lo stadio, oltre che di tifosi, è pieno di giornalisti perché l’arbitro Concetto Lo Bello raggiunge le trecento direzioni di gara in carriera. L’arbitro ha gli occhi di tutti addosso, ma secondo lui non sussistono gli estremi per il calcio di rigore. Solo che qualcuno fischia, probabilmente dagli spalti, o almeno così pare a Niccolai. In un gesto di frustrazione, sicuro del rigore contro, calcia il pallone verso la porta trovando la pronta risposta con le mani del compagno Mario Brugnera che, però, portiere non è: stavolta Lo Bello fischia, il Catanzaro pareggia e un altro 2 a 2 sciagurato mette Niccolai sotto i riflettori e, soprattutto, concede qualcosa di memorabile da scrivere a un plotone di giornalisti che non attende altro.

Oltre all’immeritata fama di autogoleador Niccolai riceve dalla storia anche un altro sberleffo: titolare nella partita inaugurale dei campionati del mondo di Messico 1970, quelli del famosissimo Italia-Germania 4-3, si infortunò al trentasettesimo del primo tempo e non calcò più il campo in quella storica competizione. Divenne famosa una frase del suo allenatore al Cagliari Manlio Scopigno, che vedendolo in campo disse “mi sarei aspettato di tutto dalla vita, ma non di vedere Niccolai in mondovisione”, ma il giornalista Giampaolo Murgia sconfessa questa versione dei fatti e riabilita, almeno in parte, la figura bistrattata di Niccolai: l’allenatore dei sardi spense sì il televisore mentre il nome del suo difensore risuonava nello stadio di Toluca, borbottando “ma si può?”, ma lo fece per l’orgoglio e la commozione di vedere quello che Murgia definisce “il suo pupillo” schierato titolare in una gara della Coppa del Mondo.

Jocelyn Pulsar, band forlivense trasformatasi in progetto solista di Francesco Pizzinelli nell’arco della sua carriera quasi ventennale, ha omaggiato questa figura a suo modo mitica in una canzone del 2015 intitolata Elogio dell’autogol, perpetuando una passione per il calcio dimostrata dedicando nell’album Penso a Sonia ma suono per la gloria una canzone ad un altro mito particolare del nostro calcio, il portiere campione d’Italia con Verona e Napoli Claudio Garella.

Un campionato dimenticato sotto le bombe: lo Spezia 1943/44

Ci sono squadre che sono rimaste impresse nell’immaginario collettivo, sia per i loro successi che per eventi tragici che ne hanno caratterizzato la storia. All’estero vale la pena di ricordare il Manchester United del 1958, i “Busby Babes” (nomignolo derivante dalla giovane età della rosa e dal nome dell’allenatore, Matt Busby) che a causa di un incidente aereo a Monaco nel 1958 videro morire ben otto giocatori della rosa e tre membri dello staff, in un conto totale delle vittime che arrivò a ventitré fra giornalisti, membri dell’equipaggio e altri passeggeri: Morrisey ha dedicato una canzone alla tragedia, da cui i Red Devils uscirono devastati ma determinati, tanto da arrivare sul tetto d’Europa dieci anni dopo con lo stesso allenatore, miracolosamente sopravvissuto, e con un certo Bobby Charlton, anch’egli scampato alla morte su quel maledetto volo. Più nota nei nostri confini, e ancora più devastante, fu l’incidente aereo di Superga che spazzò via in un colpo solo tutto il Grande Torino nel 1949: qui si sprecano le canzoni dedicate, ma val la pena citare il cuore granata degli Statuto che, oltre ad aver scritto un intero album dedicato alla squadra, ne hanno firmato nel 2006 l’inno ufficiale…e ad avercene di canzoni ska che risuonano per tutto lo stadio.

Proprio al Grande Torino, vincitore di cinque campionati consecutivi fra il dopoguerra e la tragedia, è legata la storia dello Spezia 1943/44. In quel periodo, con l’Italia, spezzata in due dalla Linea Gotica, il campionato di calcio andò avanti sotto il nome di Torneo di guerra dell’Alta Italia ma i giocatori furono costretti a trovare un’occupazione alternativa, almeno di facciata: i giocatori del Torino furono assunti dalla Fiat (caso storico stranissimo di connubio fra i granata e gli Agnelli), quelli della Juventus dalla Cisitalia e via così, senza ovviamente mai entrare davvero in fabbrica a lavorare. In modo analogo i giocatori dello Spezia si arruolarono come Vigili del fuoco, per evitare di essere dispersi per tutta Italia sotto l’esercito, ma a differenza degli altri calciatori fecero il loro dovere: più di 1500 interventi sotto le bombe, con un autobotte modificata che fungeva anche da autobus improvvisato per le trasferte. Una situazione paradossale, a cui è impossibile associare un rendimento sportivo all’altezza. Invece lo Spezia vinceva, non moltissimo ma abbastanza da garantirsi l’accesso alle semifinali interregionali.

Sarà che il morale crebbe, sarà che la squadra era veramente valida, ma passando per quelle partite e per le qualificazioni interzonali col Bologna (doppio 2 a 0, sia in trasferta che in casa) lo Spezia si qualificò per le finali nazionali da giocarsi a Milano contro lo strafavorito Torino e il Venezia (da cui i granata avevano pochi anni prima rilevato un certo Valentino Mazzola).

Con una formula simile a quella che sarà fatale per il Brasile del 1950 (il match del Maracanazo con l’Uruguay infatti non era la finale tout court, ma l’ultima partita di un gironcino a quattro che divenne decisiva vista l’impossibilità aritmetica per Spagna e Svezia di ambire al titolo) lo Spezia si ritrovò a giocare con il Torino il 16 giugno 1944 dopo aver ottenuto, sette giorni prima, un pareggio per 1 a 1 col Venezia. Il Torino era stanco a causa di un evento che poche cronache ricordano, cioè la disputa di un incontro con la nazionale a Trieste organizzato per motivi di propaganda, ma il presidente Ferruccio Novo (che fu curiosamente anche allenatore della nazionale italiana nel 1950) rifiutò un possibile rinvio contando sulla forza superiore dei suoi: si sbagliava.

Contro ogni pronostico lo Spezia vinse 2 a 1, con doppietta di Angelini prima e dopo il rigore segnato da un Silvio Piola sotto contratto coi granata solo perché con l’Italia spaccata in due non poteva tornare a Roma dalla Lazio. Il Torino batté poi il Venezia 5 a 2 in un partita inutile per loro, ma che sancì matematicamente la vittoria di quello strano campionato da parte dello Spezia. Un successo che la stessa Repubblica Sociale Italiana che aveva indetto il campionato, equiparando il vincitore ai Campioni d’Italia di una normale stagione, disconobbe in luglio, per poi venire reso addirittura illegittimo nell’ottobre dello stesso anno dal Regno D’Italia. Forse avrebbero fatto lo stesso col Torino, ma il sospetto che la sudditanza psicologica non sia un concetto solo dei nostri tempi rimane: c’erano comunque altri problemi, sicuramente più pressanti, e la storia dello Spezia finì nel dimenticatoio.

Passarono quasi sessant’anni prima che quella vittoria venisse giustamente ricordata, con un titolo onorifico della FIGC del 22 gennaio 2002 che non lo equipara però a uno scudetto. Qualcosa ha fatto anche il cantautore Martino Corti, nel 2015, per mantenere viva quella epica storia di sport: ha scritto una canzone, quella che trovate qui sotto introdotta da Federico Buffa.

Sentimenti IV, il primo portiere goleador

Ci sono alcuni rimandi particolari fra le storie che ho raccontato: il fatto che lo United coinvolto nell’incidente aereo del 1958 fosse un serio candidato allo scudetto negli anni in cui il Wolwerhampton viveva i migliori momenti della propria gloria sportiva; il fatto che Knowles e Niccolai si siano ritrovati a giocare con le rispettive squadre di club in un campionato nordamericano organizzato dalla FIFA nel 1967, dove il Wolverhampton venne “camuffato” da Los Angeles Wolves e il Cagliari da Chicago Mustangs; e infine la coincidenza che vuole il protagonista della storia che sto per raccontare fra i pali dell’amichevole organizzata fra River Plate e una selezione di stelle del calcio italiano chiamata Torino Simbolo, organizzata per commemorare la squadra che perse la vita a Superga. Quel portiere era Lucidio Sentimenti IV.

Quarto di nove fratelli, di cui cinque calciatori, Lucidio detto Cochi iniziò la sua carriera nel Modena, anche grazie a una lettera dove con commovente innocenza scriveva:

“Ho quasi quindici anni, faccio il garzone calzolaio a 15 lire la settimana, vorrei giocare. Va bene qualsiasi ruolo. Anche portiere.”

Nonostante l’altezza (era alto solo un metro e settanta) la sua carriera lo porterà a giocare prima nella Juventus, dal 1942 al 1949 (periodo durante il quale, nel famigerato campionato di guerra 43/44, venne utilizzato anche come ala destra a causa di una frattura alle dita, segnando quattro reti), poi nella Lazio fino al 1954 (dove il fratello minore Primo raggiunse lui e Vittorio, già compagni con Modena e Juventus). Da lì il trasferimento al Lanerossi Vicenza e un finale di carriera passato nelle serie minori col Cenisia, con una breve parentesi ancora nel massimo campionato nel 1959 con un Torino allora ribattezzato Talmone Torino.

Ben prima dei sudamericani Higuita, Chilavert e Rogério Ceni (recordman assoluto a livello di gol fra i portieri, con 131 reti segnate col San Paolo) Sentimenti IV fu protagonista calciando i rigori per la sua squadra. Ne segnò cinque, di cui tre con la Lazio e uno a testa con Juventus e Modena, ma fu proprio il primo battuto con gli emiliani a farne una figura epica.

17 maggio 1942, allo stadio San Paolo di Napoli arriva il Modena. La squadra partenopea non versa in buone acque, tanto che a fine stagione retrocederà nonostante un portiere titolare capace di parare ben nove rigori consecutivi: il suo nome era Arnaldo Sentimenti, fratello maggiore di Lucidio. Cochi nel frattempo si è ripreso il posto da titolare nei gialloblu, rubatogli da Bruno Monti dopo la promozione dell’anno prima, ma anche per lui quel campionato finirà con l’amarezza della retrocessione, mitigata da un contratto con la Juventus l’anno seguente. Manca ancora un mese alla fine del campionato, i giochi non sono ancora chiusi, e quando viene fischiato un rigore a favore del Modena ci si chiede chi sarà la prossima vittima del pararigori Arnaldo: sul dischetto si presenta suo fratello.

Lucidio è più giovane di sei anni, ma con quel gesto dimostra fegato da vendere (l’eccesso di sicurezza, in era laziale, gli fece subire spesso gol da fuori area, tanto che i tifosi lo accusarono di essere miope e convinsero la società a fargli sostenere una visita oculistica). Si porta sul dischetto, batte con sicurezza, e in un attimo il primato del fratello viene azzerato. Leggenda vuole che Arnaldo si mise a inseguire il fratello per tutto il campo, e che dopo quell’evento non si parlarono per due anni.

Un rigore fra tanti, ma che per i Valentina Dorme ha significato qualcosa di più: questa storia la band veneta (che non ho mai fatto mistero di amare profondamente) l’ha poeticamente raccontata nella canzone che da lui prende il nome, con uno stile e una sensibilità che di certo il mio articolo non può raggiungere. Sono le note di chiusura, la prossima volta (chissà in quale maniera) vi parlerò di boxe.

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Racconto in musica 21: Le parole giuste (Pollio – Il figlio malpensante)

Ci sono due modi principalmente in cui sono venuto a conoscenza delle band e degli artisti che occupano queste pagine, recensendo loro dischi o vedendoli dal vivo. Nel caso di Pollio l’incontro è avvenuto tramite il file che conteneva i brani del secondo album degli Io? Drama, Da consumarsi entro la fine, di cui quest’anno si festeggia il decennale. Mi innamorai di quell’album, a cui diedi il massimo dei voti in una recensione ormai persa nel grande vortice dove finiscono i contenuti dei siti di cui non è stato rinnovato il dominio, ma ci misi molto tempo prima di riuscire a vedere dal vivo la band e a fare mia una copia fisica del disco (se potete comprare dischi dal banchetto del gruppo, perché farlo su Amazon?). Qualche tempo dopo con l’associazione novarese Asap riuscimmo a organizzare un suo concerto solista, nel periodo di mezzo in cui gli Io? Drama non erano ancora in pausa e doveva ancora arrivare il primo album solista di Fabrizio, Humus: gli feci una bellissima intervista quella sera, ovviamente grazie alle sue risposte che mi misero di fronte a un artista che crede nel suo lavoro e in ciò che scrive, e vi invito a leggervela tutta a questo link.

Humus si diceva, un album arrivato alla fine del 2016 dopo tre dischi (Nient’altro che madrigali nel 2007, Da consumarsi entro la fine nel 2010 e Non resta che perdersi nel 2014) e due Ep (Viscerale nel 2005 e Mortepolitana nel 2012) come voce degli Io? Drama, svariati tributi a artisti come De Andrè, Battiato, Battisti e Radiohead e la collaborazione coi Rezophonic. Ad accompagnarlo nel progetto, così come dal vivo, c’è il chitarrista Giuseppe Magnelli, entrato nella formazione degli Io? Drama con l’ultimo disco e da allora suo fido sodale alla chitarra elettrica. Humus, uscito per Maciste Dischi, è un disco musicalmente vario, capace di avvolgere con atmosfere intime e di graffiare, di unire pop e rock creando qualcosa di personale e non banale o annacquato, condito inoltre da testi degni del miglior cantautorato: non a caso si è accorta del suo talento anche la giuria del concorso Musicultura, vinto nel 2018.

Il figlio malpensante è la sesta traccia dell’album, una canzone che ha subito calamitato la mia attenzione quando ho pensato di creare un racconto partendo da un testo di Fabrizio. L’immagine che mi si è stampata in testa è stata quella di un funerale, non perché la canzone sia triste ma perché parla in maniera originale di rapporti famigliari, e non c’è nulla come il momento dell’estremo addio a un parente per innescare riflessioni, confronti e prese di coscienza. Contando che la musica dal vivo è ricominciata vale la pena che facciate un salto qui per godervi un suo concerto, come ho fatto io in settimana nella splendida cornice di Villa Tittoni a Desio: nel frattempo qui sotto trovate il link al brano e più in basso il mio tentativo di rendergli giustizia con le parole. Buon ascolto, e buona lettura.

Novità! Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Le giuste parole

Papà è morto e io non sento niente.

Sono seduto fra mamma e una zia lontana che avrò visto due volte in vita mia, cerco di concentrarmi su una delle svariate lettere scritte da San Paolo ai romani ma il pianto della fidanzata di mio fratello continua a distrarmi. Mi fa sentire in colpa, dovrei essere io quello che soffre, avere perlomeno lo sguardo trasfigurato come quello di mamma, che ormai le lacrime le ha esaurite da un pezzo.

La fidanzata di mio fratello emette un gemito. Aveva già gli occhi annacquati ancora prima che iniziasse la cerimonia, quando stava al suo fianco mentre lui con posa impeccabile ringraziava per le condoglianze, abbracciava i convenuti, mostrava afflizione mista a decoro.

Passavano prima da lui, parenti e amici. Io ero la seconda scelta, obbligata, se non altro per questioni di etichetta. Sapevano tutti che io e papà non andavamo d’accordo.

Quando il prete si avvicina con l’incensiere alla bara ci alziamo in piedi, con mamma che si appoggia stancamente al mio braccio. Sono sicuro che devo a lei se sono stato incluso nel testamento, ma se non si affida alla fidanzata di mio fratello è solo perché teme che scomparirà in fretta come le altre.

L’unica cosa che può rimproverare al suo secondo figlio, quello che la rende davvero orgogliosa, è di non averle ancora dato un nipotino.

I portantini arrivano a prendere la bara. Avevo proposto di farlo fare a qualche amico di papà, ma mio fratello ha detto che era uno sforzo troppo grande per degli anziani. È stato il mio unico contributo all’organizzazione, e non è servito a niente. Si è occupato di tutto lui, dalle questioni burocratiche al contattare i parenti, e lo ha fatto sicuramente meglio di come lo avrei fatto io.

Non posso dire che lo odio, ma di sicuro non lo amo. È più giovane di me di due anni, ma sembra aver capito della vita qualcosa che io ancora oggi ignoro. Emana sicurezza, calamita con naturalezza il corpo di mamma dal mio braccio al suo mentre seguiamo la bara lungo la navata e io, ancora con gli occhi asciutti, per non sentirmi meschino nel recriminare questo gesto penso ancora una volta a quanto sono false la sua posa, i suoi traguardi esposti come trofei, i suoi sorrisi perfetti. Ho basato la mia vita su un solo punto cardine: non essere mai come lui.

Potrei aver sbagliato tutto. Me ne accorgo all’improvviso sul sagrato della chiesa, mentre caricano il corpo di papà sul carro funebre, e mi ritrovo impreparato con le sue braccia strette attorno, le sue lacrime sul collo. Con voce rotta dall’emozione mi dice Oh Dio, è così dura, io non so cosa fare.

Forse ora uscirà qualche lacrima anche a me. Ora che so che anche mio fratello ha dei sentimenti reali posso lasciarmi andare, provare qualcosa. Invece continuo a pensare che se lui non è la persona orribile che ho dipinto nella mia testa, io che cosa ho fatto della mia vita? Rimango muto, col carro funebre che si avvia, a cercare parole per me, per lui, ma quelle continuano a non arrivare.

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Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, o la lezione sul postmoderno di David Foster Wallace

Ci sono autori capaci di dividere completamente il pubblico, e penso che il compianto David Foster Wallace faccia parte della categoria. Il monumentale Infinite Jest, con le sue centinaia di pagine di note e la struttura schizofrenica, può rappresentare uno scoglio insormontabile o una specie di Nirvana letterario: io faccio parte della schiera di quelli per cui il suo romanzo più famoso è stato un’esperienza illuminante, e da allora pian piano, centellinandolo come un buon vino (va da sé che libri non ne scriverà più), recupero i suoi scritti in rigoroso ordine casuale.

Và, e continua a insegnare agli angeli come torcersi il cervello

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso fa parte di quel periodo in cui Foster Wallace era ancora un promettente scrittore e non il guru che sarebbe diventato di lì a qualche anno. Reduce dal successo del romanzo d’esordio del 1987 La scopa del sistema, ispirato dalla sua seconda tesi di laurea sulle teorie logico-linguistiche di Ludwig Wittgenstein, a due anni di distanza lo scrittore dell’Ohio uscì con una accolta di racconti che mostrava in maniera splendente la sua versatilità, La ragazza dai capelli strani. Il racconto che dava il titolo al libro era una sorta di presa in giro di un altro scrittore fuori dalle regole che in quel periodo andava per la maggiore, quel Bret Easton Ellis che di lì a poco avrebbe pubblicato American Psycho, episodio che gettò ulteriore benzina sul fuoco di una rivalità che non si è placata nemmeno alla morte di DFW (è storia nota la serie di tweet che Ellis gli ha scagliato contro nel 2012): non pago di questo all’interno della raccolta era presente anche una stoccata ad uno dei suoi mentori ai tempi dell’università, lo scrittore e insegnante di scrittura creativa John Barth, attraverso il racconto lungo che Minimum Fax ha estrapolato dalla raccolta e reso un romanzo a sé, cioè il Verso Occidente di qui sopra.

La storia segue due studenti universitari, un aspirante attore, un pubblicitario, il di lui figlio e una hostess nel loro percorso per giungere (forse) alla riunione di tutti coloro che sono apparsi all’interno di uno spot Mc Donald, dove si dovranno svolgere le riprese dello spot definitivo della catena e l’inaugurazione della prima discoteca di un futuro business a tema casa stregata. Questo ultimo particolare, che può apparire secondario, è in realtà centrale all’interno del libro: la casa stregata da cui le discoteche prendono ispirazione arriva dritta dritta dal racconto Perso nella casa stregata di Barth, uno dei più influenti racconti del postmoderno e in particolare della cosiddetta metafiction, in cui il narratore fa continue incursioni per smascherare l’artificio dietro alla creazione letteraria. Come spiega Martina Testa nella fantastica introduzione al libro, Foster Wallace prende i personaggi, gli eventi, persino dettagli minuscoli dal racconto di Barth per costruirci sopra un racconto che è metafiction al quadrato se non al cubo, tanto che Barth stesso è un personaggio, celato dietro al nome del personaggio principale di Perso nella casa stregata Ambrose, e che due dei protagonisti sono studenti del suo corso di scrittura creativa: Mark Nechtr, che scrive pochissimo, e la sua neomoglie Drew-Lynn Eberhardt, ultraprolifica ma affetta da ciò che Foster Wallace battezza, con evidente ironia, come sindrome del “guarda, mamma, senza mani”, cioè la tendenza a voler essere originali a tutti i costi rendendosi invece ridicoli e autoreferenziali.

“…il suo non-razzismo deriva, come lui stesso ammetterebbe, da ragioni totalmente egoistiche. Se tutti i neri sono grandi atleti e ballerini provetti, e tutti gli orientali sono intelligenti e identici e laboriosi, e tutti gli ebrei sono bravi a fare soldi e scrivere libri, e a maneggiare un potere nato dalla coesione, e tutti i latini sono bravi a letto, e a maneggiare coltelli e a passare clandestinamente i confini, be’, allora cavolo, tutti i semplici WASP americani che cosa sono? Quale grande singola caratteristica, agli occhi dei razzisti, riunisce tutti noi borghesi bianchi sotto il solido tetto dello stereotipo? Nessuna. Un Grande Maschio Bianco senza nome e senza volto.”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso

Nella già citata prefazione Martina Testa illustra quanto sia interessante questa analisi filologica, ma se tutto il libro si limitasse a essere un gioco di specchi autoreferenziale Foster Wallace non farebbe altro che replicare una formula già utilizzata. Invece, sebbene in alcuni passaggi utilizzi la metafiction in maniera frustrante e con quella sindrome da “guarda, mamma, senza mani” che condanna, il fine ultimo dell’autore è di raccontare qualcosa che vi dia una fitta al petto, un desiderio condiviso col personaggio di Mark, i cui pensieri sulla metafiction sono essenzialmente

“…la metafiction non è una vera amante. Non può tradire. Può solo rivelare. Ha come unico oggetto se stessa. È l’atto d’amore per se stesso di un solipsista solitario, la luce di un abat-jour proiettata su quella quinta parete nera che è l’essere un soggetto, un volto nella folla. La metafiction è come una coppia di innamorati che non fanno l’amore. Che baciano ciascuno la propria spina dorsale. Che si scopano da soli.”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso

In un interessante articolo su William T. Wollmann, altro autore eclettico e pubblicato da Minimum Fax, si fa notare come Foster Wallace volesse fare della propria scrittura un antidoto contro la solitudine, titolo con cui è uscita non per niente una raccolta di interviste e conversazioni con l’autore. E la sua grande abilità in questo e negli altri suoi libri, in mezzo a tantissima tecnica narrativa e contorcimenti psicologici vari, è proprio quello di far emergere la natura umana di ogni personaggio, anche di quelli che sembrano apparentemente odiosi, e di farlo senza tristezza ma anzi condendo il libro con abbondanti dosi di ironia. Di parlare di solitudine, dipendenza, ansia, di mostrare persino i pregi sotto punti di vista che li fanno apparire difetti ma senza perdere il sorriso e la speranza che un giorno impareremo ad andare oltre queste nostre lacune, e potremo farlo insieme. Non è un caso che, per tornare alla diatriba Ellis-Wallace, quest’ultimo abbia dichiarato in un’intervista del 1993:

“Se i lettori credono semplicemente che il mondo sia stupido, superficiale e cattivo, allora uno come Brett Easton Ellis può scrivere un romanzo cattivo, stupido e superficiale che diventa un ironico e tagliente ritratto della bruttura del mondo che ci circonda. Siamo d’accordo un po’ tutti che questi sono tempi bui, e stupidi, ma abbiamo davvero bisogno di opere letterarie che non facciano altro che mettere in scena il fatto che sia tutto buio e stupido? Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi.”

David Foster Wallace

“Il silenzio per cui la gente gli vuole così bene deriva come un pianto dalla sua principale convinzione errata, da un suo difetto che è tipico dell’epoca contemporanea. Se i suoi giovani compagni hanno ciascuno le proprie false convinzioni – D.L. che il cinismo e l’ingenuità si escludano a vicenda, Sternberg che il corpo sia una prigione e non un rifugio – quella di Mark è di essere la sola persona al mondo che si sente la sola persona al mondo. È un’illusione solipsistica.”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso

Al di là dei riferimenti, della trama, dei concetti, è proprio il modo unico che ha Foster Wallace di empatizzare coi propri personaggi a rendere questo Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso una lettura consigliatissima, soprattutto a chi vorrebbe approcciarsi alla sua opera più famosa e voluminosa e non ne ha mai trovato il coraggio. È interessante notare anche come il personaggio di Mark sia in qualche maniera una versione alpha dell’Hal Incandenza presente proprio in Infinite Jest, con il quale condivide parecchi disturbi emotivi, tanto che una frase che li riguarda viene trascritta quasi letteralmente da un libro all’altro.

“È convinto che ci sia in lui un certo elemento di differenza, semplice e radicale; spera che sia genialità, teme che sia follia.”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso

“C’era in lui un certo elemento di differenza, semplice e radicale; sperava che fosse genialità, temeva che fosse follia, si dedicava all’affabilità e cercava di passare inosservato.”

Infinite Jest

Particolare curioso che interessa solo me: il personaggio di De Haven Steelritter, figlio del pubblicitario J.D. Steelritter e da lui costretto, in quanto sotto contratto come Ronald McDonald ufficiale dell’azienda, a rimanere continuamente vestito con la sua assurda divisa, rappresenta con la sua passione per la marijuana e per le auto costruite artigianalmente una visione distorta del clown simbolo del fast food seconda solo a quella, violentata da un gruppo di madri durante una festa in maschera, che Douglas Coupland fa ideare ai personaggi del suo Jpod come easter egg in un videogioco.

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Racconto in musica 20: Ingranaggi (dTHEd – ªcçr_mщ)

C’è un aneddoto lunghissimo e magari non così divertente che mi piace raccontare. Anni fa con la mia band Duranoia scrivemmo una canzone strumentale, soprannominata F.P.I. (Fanoste Private Investigation), che eseguimmo solo una volta dal vivo senza mai registrarla: l’idea di partenza, mia (non capita così spesso), era di far seguire alla musica l’andamento di una storia noir stereotipata, del tipo ingaggio dell’investigatore-dramma che coglie la sua vecchia fiamma-indagine-la donna si rivela una doppiogiochista-risoluzione finale (la uccide?). Da quello scheletro di idea anni dopo mi ritrovai a ricavare una recensione piuttosto folle, ovvero quella dell’album Il de’ blues dei Vonneumann, la quale a sua volta mi ispirò un racconto lungo (romanzo breve?) con quegli stessi elementi e l’aggiunta di un protagonista che man mano che la storia avanza diventa sempre più consapevole di essere il protagonista di una storia di finzione. Lo girai alla band, trovando nell’allora bassista e oggi batterista e manipolatore di suoni tout court Fabio Ricci un attento lettore, e da lì partì il mio contributo al loro progetto collaborativo sull’album tl;dl: un racconto a quattro mani scritto da me e lui, allegato al disco, e un piccolo contributo sonoro sull’ultimo brano dell’album, che come ogni miglior cerchio che si chiude veniva direttamente da quella F.P.I. di cui ho parlato a inizio articolo.

Perché raccontare tutta questa storia, che magari vi ha anche annoiato? Perché Fabio, assieme a Isobel Blank e Simone Lanari degli Ask the white, ha realizzato un nuovo progetto chiamato dTHEd, e il racconto di questa settimana è ispirato proprio ad un loro brano.

Descrivere la musica di dTHEd è davvero complicato. La base di partenza viene da un libro, Iperoggetti di Timothy Morton, in cui si teorizza fra speculazione filosofica e riflessione ecologista la presenza di entità di una tale dimensione spaziale e temporale da incrinare la nostra stessa idea di cosa un oggetto sia, ad esempio il riscaldamento globale: i dTHEd hanno fatto tesoro di queste nozioni, particolarmente del capitolo riguardante le musiche che a parere dell’autore possono essere considerate iperoggetti, e ragionando su questi concetti e su quello di neurodiversità hanno cercato di creare una musica diversa, una hyper music che andasse in qualche maniera al di là dell’umano, o almeno è l’impressione che ha fatto a me quando ci sono entrato in contatto. Nel 2019 è uscito il loro primo disco per Boring Machines, hyperbeatz vol.1, e il mio consiglio è di ascoltare con la mente il più aperta possibile l’incastro di suoni elettronici che formano i brani, per lasciarvi trasportare in un mondo altro che potrebbe essere il nostro visto con occhi diversi.

Il mio racconto è molto meno sperimentale, ma ragionando sulla percezione diversa delle cose, sui collegamenti fra esse e lasciandomi cullare da certe suggestioni sonore da parco giochi che ho trovato nel loro brano ªcçr_mщ ho partorito la storia che trovate più in basso, subito dopo il link al brano. Vi auguro come al solito buon ascolto, e buona lettura.



Ingranaggi

La giostra girava, i bambini urlavano, i genitori ridevano, la musica si ripeteva come un mantra e solo lui restava fermo in quel quadro idilliaco. Nemmeno la madre, intenta a fissarlo, riusciva a votarsi all’immobilità: la tradivano un lieve tremolio del labbro, il torcersi delle mani, segnali malcelati di una preoccupazione che era diventata sua compagna perenne.

Da principio le era parso un dono quel bambino così silenzioso, perché non la svegliava mai di notte ed era incapace di qualsiasi lamento. La invidiavano tutte le altre mamme, con le borse sotto gli occhi e piene di lamentele per i mariti assenti: lei poteva ostentare indifferenza verso quel distacco tipicamente maschile, era quasi come se loro figlio sapesse gestirsi da sé.

Cominciò a preoccuparsi quando, con la crescita, rimase fisso nel suo mutismo assorto. Le avevano detto già alla nascita che era speciale, ma a lei ora sembrava solo diverso. Il padre, peggio, lo considerava un ritardato. «Tanto valeva prenderci un gatto» disse una volta, guardandolo osservare il castagno di fronte alla finestra della cucina: lui non aveva tempo per capire.

Ma di fronte alla giostra, ai bambini felici, ai genitori che incoraggiavano i figli a prendere il codino, anche la madre veniva presa dallo sconforto. Vai a divertirti, gli aveva detto, sali sul cavallo bianco, ma lui non si era mosso di un passo. Restava fisso a guardare, chissà cosa, chissà perché, quando lei avrebbe voluto solo che fosse come tutti gli altri, che prendesse parte ai divertimenti di un giorno di festa.

La madre non poteva sapere che la giostra che girava era solo un ingranaggio, che i bambini e i genitori ne facevano parte, che loro stessi ne facevano parte. Assorto in contemplazione il figlio osservava i dettagli, cercava di capire gli incastri, metteva in relazione quel movimento circolare con quello della terra, degli astri, di tutte quelle cose che sentiva girare attorno a sé ma che ancora non capiva pienamente. Per questo non parlava, non voleva pronunciare una parola che non fosse esatta, che contenesse l’universo e non solo una parte di esso: percepiva il tutto, e non aveva fretta di metabolizzarlo.

Ignari delle loro intrinseche relazioni il padre lo ignorava, la madre si struggeva, la giostra girava e nel suo meccanismo il figlio cercava risposte più grandi di tutti loro. Un giorno le avrebbe trovate: chissà se per allora ci sarebbe stato qualcuno pronto ad ascoltarle.

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Apocalypse Lounge, come affrontare la fine con un sorriso amaro sulle labbra

Chissà come hanno reagito tutti i musicisti coinvolti nel progetto Apocalypse Lounge quando all’improvviso ci siamo ritrovati (e in parte ci troviamo ancora) in una situazione che ha fatto pensare a molti di essere di fronte alla fine del mondo. Certo quando Riccardo Orlandi, fondatore della Tannen Records e motore iniziale del progetto, ha deciso di campionare estratti di vecchie colonne sonore italiane degli anni 60 e 70 per ricavarne brani inediti non si poteva aspettare che la colonna sonora di un’ipotetica apocalisse potesse diventarlo di una vera, ma seguendo le note e le parole di queste undici tracce è facile capire che in fondo il covid-19 non ha fatto altro che esasperare problemi che già esistevano: se davvero è la fine del mondo, insomma, c’eravamo dentro da prima.

Anche tralasciando le riflessioni politiche è impossibile non trovare nel disco una critica verso i tempi moderni, soprattutto se a scrivere i testi è Giovanni Succi. Abilissimo a captare le contraddizioni dell’individuo moderno, Succi dà il meglio di sé quando sotto l’amabilissimo sottofondo musicale di Happy 1942 ci illustra quanto il fascismo sia stato un processo sottile e strisciante che è sempre pronto ad autoreplicarsi, sotto forma di occhi chiusi davanti ai soprusi che toccano agli altri e di slogan alla “Mussolini ha fatto anche cose buone”, a cui risponde con una frase che chiude ogni discorso: “Giusto qualche milioncino di italiani morti per un suo giochetto da fantocci/ e le paludi Pontine? Son costate un po’ care alla fine”.

Succi ci mette testi e voce, coadiuvato a quest’ultima da Francesca Amati dei Comaneci e, nell’ultimo brano I’m going under, dal duo hip hop di Minneapolis Kill The Vultures, la musica invece è frutto di un ensemble di collaboratori che fa impressione: il violino di Nicola Manzan (Bologna Violenta e Ronin fra le sue svariate avventure musicali, questi ultimi al fianco di quel Bruno Dorella con cui Succi da anni condivide il progetto Bachi da Pietra), il synth di Massimo Martellotta dei Calibro 35, il sax di Antonio Gallucci, la tromba di Giordano Sartoretti e gli scratch di Dj Argento. Il risultato finale di questo lavoro a molteplici mani è un disco che spazia fra i generi con libertà e vitalità, partendo dal funk per addentrarsi man mano in territori sempre più affini al trip-hop, come un percorso verso l’abisso che ti intrattiene in maniera sempre meno allegra man mano che capisci che non c’è un cazzo da ridere.

È tanto affascinante farsi cullare dai ritmi vagamente tribaleggianti della title track quanto dalle atmosfere scure e dilatate di Time out, godersi il viaggio quasi esclusivamente strumentale fra scratch e assoli di sax di Funky doom e farsi trasportare dalla voce di Succi nel mantra caffeinico di Moka please (a cui il violino di Manzan dona reminescenze degli Air, come anche nella splendida Mandinga). Le influenze si sposano alla perfezione, lo scivolamento verso atmosfere sempre più noir avviene in maniera naturale e trova degna conclusione nell’opprimente I’m going under, che libera tutta la carica hip-hop già latente nella strumentale Apocalypse beat ma lo fa memore della lezione sonora dei Massive Attack.

Oltre che un progetto musicale di tutto punto Apocalypse Lounge si fa notare anche dal lato visivo: dalle fotografie di Giulia Mazza (ne trovate una qui sopra e una in cima, scelta come copertina del disco) agli artwork dei singoli realizzati dall’artista portoghese Bràulio Amado, fino ai video d’animazione realizzati da Stefano Buro e di cui potete avere un assaggio qui sotto. Se proprio fine del mondo deve essere la Tannen Records ci ha fornito una splendida colonna sonora, ma non aspettate fuoco, fiamme o pandemie per ascoltarla: fatelo subito, domani potrebbe essere troppo tardi.

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Racconto in musica 19: Di labbra schiuse e destini in comune (Valentina Dorme – Waterloo)

Non so quante volte in questa rubrica ho parlato di gruppi che ho scoperto vedendoli suonare dal vivo. Nel caso dei Valentina Dorme non è andata esattamente così: erano un nome conosciuto, qualche suono sentito distrattamente, uno dei gruppi di cui avevo sempre sentito parlare e di cui per motivi imperscrutabili (o per semplice mancanza di stimoli) non avevo mai approfondito la conoscenza. Nemmeno la sera che li vidi effettivamente dal vivo ero lì per loro bensì per il gruppo che apriva la serata, i meritevolissimi Intercity di cui avevo da poco recensito l’album Amur (qui uno dei video estratti, per darvi un’idea), ma appena partì A colpi d’ascia capii che non avrei finito la serata senza portarmi a casa un disco anche dei Valentina Dorme.

Formatisi a Treviso nel 1992 i Valentina Dorme passano per la pubblicazione di alcuni album autoprodotti e l’apparizione di un paio di loro brani all’interno di una compilation promossa dallo storico settimanale Il mucchio selvaggio prima di far uscire il primo disco “ufficiale”, Capelli rame. A credere in loro è la Fosbury Records, etichetta con cui dal 2002 al 2009 pubblicano altri due album (Il coraggio dei piuma nel 2005 e La carne nel 2009) prima di rilasciare per Lavorarestanca il loro, al momento, ultimo disco, La estinzione naturale di tutte le cose del 2015. I Valentina Dorme riescono a essere allo stesso tempo poetici e sfacciati, sognanti e tenebrosi, merito dei testi intrisi di letteratura (ho letto Thomas Bernhard grazie a loro) di Mario Pigozzo Favero e di musiche che passano in poco tempo dalla calma apparente all’assalto distorto, mai con violenza ma sempre con la consapevolezza di chi sa che quella è la via giusta da percorrere per scuotere gli animi. La estinzione naturale di tutte le cose lo considero fra i migliori dischi italiani di sempre, conosco a memoria i suoi brani e quando sono partito con questo blog avevo fisso in mente che Waterloo, la penultima traccia, avrebbe dovuto avere un suo racconto dedicato: ci ho messo più di tre mesi, ma finalmente l’idea giusta è arrivata.

C’era solo l’imbarazzo della scelta in realtà fra i loro brani da cui trarre ispirazione per una storia, ma la difficoltà di creare racconti basati su canzoni è che spesso ti ritrovi ad avere a che fare con artisti che hanno già detto tutto quel che c’era da dire (difficoltà già riscontrata prima coi Massimo Volume e con Giovanni Succi). Waterloo mi ha lasciato abbastanza spazio per potermi infilare e immaginare una stanza d’albergo, una coppia persa nei suoi rituali erotici e le conseguenze impreviste delle loro evoluzioni, e spero davvero di avergli reso giustizia. Qui sotto trovate il brano, più in basso il racconto, tutto come al solito: a me non resta che augurarvi buon ascolto, e buona lettura.

Di labbra schiuse e destini in comune

Ti riconosco, nell’inquadratura, come nessun altro potrebbe fare. Percepisco il ritmo del tuo respiro, osservo la curva del tuo seno, sorrido di fronte all’ingenua oscenità con cui apri le cosce all’occhio della telecamera e a me, poco più in là, che già fremo.

Entro anche io nel quadro, trovandomi più vecchio e molle di quanto rammentassi: forse l’effetto di quella serata d’eccessi, portate esotiche, birra annacquata e luci rosse soffuse, forse solo il contrasto delle nostre età e delle nostre membra giunte. Mi vedo inginocchiarmi, come un devoto all’altare dei nostri venti anni di distanza, sfiorare col palmo il tuo neo sottopelle lungo la coscia, un marchio segreto che persino a occhi chiusi troverei ancora. Il tuo volto mi è escluso alla vista, altre le labbra che attendono la mia lingua.

Iniziai a scrivere, allora, parole irripetibili sulla figa aperta, i tuoi sospiri a far da eco ai miei peccati svelati senza vergogna. Oggi, sprofondato in poltrona, vedo solo una schiena pallida agitarsi e sento un suono, un ansimare frenetico, sempre più profondo. All’apice dell’estasi le tue gambe si stringono attorno alla testa che ti concede il piacere, la mia, che osservo distratto e non riconosco.

Sospendo la visione, deluso. Quei video maliziosi, riprese lascive in fine settimana erotici, eccitavano al pensiero più di quanto non facciano allo sguardo: immortalati in eterno siamo meno di quel che eravamo. Quella notte, prima del sonno, dicesti di amarmi, o forse lo sognai: ma da quel sogno non avrei voluto svegliarmi mai.

Lo feci, maldestramente, come ogni cosa da allora in poi. Accadde in un motel a est, l’ennesima fuga sensuale, durante la quale mi inginocchiai in una maniera molto più formale. Lì, sotto un quadro di Napoleone ritratto all’Isola d’Elba, ignaro come me delle sconfitte future, travisando ciò che avevamo ti paventai un futuro di vestiti bianchi e promesse durature.

Attesi, per quella che mi parve un’eternità, di fronte al tuo sguardo indecifrabile. Non mi servono immagini per ricordare i tuoi occhi, fissi nei miei tanto da spaventare, gelidi come quelli di chi è abituato a ponderare. Schiudesti con calma le labbra, bagnandole con la lingua, e senza che la risposta giusta ti potesse esser suggerita ti uscì di bocca la sillaba sbagliata: la nostra storia moriva, quasi prima d’esser nata.

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