Racconto in musica 110: Dettagli (Inude – Hudea)

Ci sono attori le cui carriere hanno alti e bassi, e non sempre gli alti corrispondono ai momenti di maggior successo. Per esempio, prendete Keanu Reeves. L’attore canadese (eh sì, non lo sapevo manco io che era canadese) fra l’inizio degli anni 90 e i primi anni 2000 ha spaziato attraverso i generi azzeccando una serie di film impressionante: Point break, Piccolo Buddha, Dracula, Speed, L’avvocato del diavolo, Johnny Mnemonic, Matrix, non tutti per forza dipendenti dalle sue capacità (ricordo critiche che lo dipingevano come un attore inespressivo) ma oh, se lo volevano alcuni dei più grandi registi un motivo doveva esserci. Poi sono arrivati i sequel di Matrix (su cui io stendo volentieri un velo pietoso), i primi flop, le nomination ai Razzie Award e Constantine, la ciliegina sulla torta di una fase che sembra chiudere per Reeves le porte del cinema dei grossi budget, complice anche il ruolo di protagonista in quel capolavoro intitolato A scanner darkly in cui sembravano riuniti buona parte degli ex divi sulla cresta dell’onda (tipo Robert Downey Jr. e Winona Ryder, che in tempi diversi sono ritornati al top con un dito medio alzato verso chi ne aveva annunciato la fine). Ma Keanu Reeves, che qualcuno sospetta far parte di una schiera di immortali che conta fra i membri anche Morgan Freeman, rinasce come attore che fa il cazzo che gli pare: soprattutto dopo il 2014 comincia a illuminare la scena in piccole parti che spesso sono una delle cose migliori dei film a cui partecipa (il leader spirituale semi-pappone di The bad batch, il rozzo gestore di motel di The neon demon) e fa capire al mondo quanti casini possono nascere se ammazzi il cane della persona sbagliata con la trilogia di John Wick, saga action in cui brilla per carisma e capacità atletiche. Oggi Reeves mi piace immaginarlo un po’ come Bill Murray, uno che quando non ha voglia di lavorare spegne il telefono e quando lo riaccende c’è qualcuno che gli propone Matrix Resurrection: bella la vita, se sei Keanu Reeves.

Ma perché tutta sta premessa? Non dovremmo essere qui a parlare di Elena Soprano e del suo racconto ispirato a una canzone degli Inude? Il legame c’è, fidatevi…

Elena da queste parti è già stata gradita ospite, portando in dono un suo racconto ispirato alla musica di Steve Reich. Scrittrice poliedrica dalla lunghissima carriera che non fa distinzioni fra racconti, romanzi per adulti e romanzi per ragazzi, Elena con questo racconto mostra un amore per il teatro che già emergeva nella sua precedente storia. Dobbiamo aspettarci presto una sua svolta di carriera sul palco? Non ci è dato saperlo, ma chissà…

Quando Keanu Reeves inizia a vestire i panni di John Wick inizia anche la carriera degli Inude. È il 2014 infatti l’anno in cui Giacomo Greco (voce, synth e batteria elettronica), Flavio Paglialunga (chitarra, synth, voce e programming) e Francesco Bove (tecnico del suono e dubmaster), musicisti pugliesi che hanno già collaborato in precedenza, decidono di mettere in piedi un progetto che unisca elettronica e pop con un respiro internazionale: non una delle operazioni più semplici, ma già il primo Ep autoprodotto Love is in the eyes of the animals (2016) dimostra che il trio pugliese sa quello che fa e ha una spiccata capacità di coniugare ritmo, melodia e originalità in maniera simile agli /handlogic (ricordate? Ve ne avevo parlato qui e qui). Altra impresa difficile è quella di saper portare sul palco la stessa energia del disco, ma anche qui gli Inude dimostrano di sapere il fatto loro calcando palchi italiani ed europei senza alcun timore reverenziale, arrivando a suonare per più di 80 date e al fianco di artisti del calibro dei Moderat. Su di loro punta gli occhi l’etichetta Oyez!, che nel dicembre 2019 pubblica il primo disco della band: Clara Tesla esprime il lato più melodico e “atmosferico” del trio, fra tappeti di synth sognanti che placano lo spirito lasciando il piede a battere il tempo senza quasi accorgersene. Nel 2020 c’è un nuovo cambio di etichetta e gli Inude entrano a far parte del roster della Factory Flaws, per la quale ad aprile di quest’anno pubblicano Primavera, un disco che mostra l’ennesima evoluzione del trio in pochissimo tempo: i sette brani dell’album brillano per varietà, passando agevolmente dalle suggestioni soul di We share alla delicatezza ariosa di There is no way out, e lo spettro sonoro si allarga a suoni più decisi e strutture che, non fosse per la durata piuttosto breve, in Ok, it’s monday e Noisy floor, silent room (di cui vi consiglio la visione dello splendido video, estratto dal cortometraggio Photograph of me) avvicinano gli Inude al post-rock. La band è in giro per concerti (vivaiddio i concerti!), vedete di non perderveli.

E qui è dove si scopre perché ho fatto tutto quel preambolo sulla carriera di Keanu Reeves: l’attore è infatti a suo modo protagonista del racconto che Elena ha ideato ispirandosi a Hudea, il brano che apre il primo Ep degli Inude, una storia che ha a che fare con una pièce teatrale molto particolare ambientata in un futuro prossimo in cui Matrix è arrivato alla sua ottava incarnazione. I dettagli li lascio scoprire a voi, Tremila Battute intanto si prende un breve periodo di pausa ma vi aspetta a settembre con nuove band e nuovi narratori: intanto, come al solito, buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero della fanzine di Tremila Battute a questo link!

Dettagli, di Elena Soprano

La pièce si intitolava Dettagli e non era stato facile trovare chi interpretasse un Keanu Reeves anziano che voleva riprendersi l’anima della recitazione, svincolata da fama e ruolo, dopo il Matrix n. 8. Parole “trappole di significati” incapaci di catturare la reale intenzione delle cose: la regista si innamorò subito di questo testo sulle barriere del linguaggio e concepì una regia come improvvisazione interattiva. Gli spettatori digitando un vocabolo su una tastiera lanciavano un input a un software che, dopo aver associato lettere di 30 alfabeti e 4000 lingue a numeri, elaborava e proiettava sulla parete dei punti: uniti da una luce laser davano vita a una forma/non forma, una sorta di costellazione simbolo di un nuovo senso del termine. L’attore, indossando una maschera col volto di Reeves, creava allora una narrazione sul significato. Ad ogni incipit cambiava maschera, con immagini del viso sempre più giovane, fino a ad arrivare a quello di un neonato. A questo punto l’interprete si sdraiava al centro della scena fingendo di addormentarsi mentre gli spettatori, in silenzio, si mettevano a loro volta una maschera di Reeves novantenne: il testimone della ricerca di senso veniva passato dall’attore al pubblico. Sull’effetto sonoro di un vagito, partivano gli applausi.

La pièce incuriosì, da un piccolo teatro lombardo arrivò a Roma. Entrò in un circuito di teatri olandesi d’avanguardia, poi fu il boom. La gente adorava il gioco alchemico della parola trasformata in linea di luce, quasi un teatro terapia che giustificava l’elevato costo del biglietto. Certo, la riuscita della performance dipendeva dal protagonista, non tutti avevano talento e background culturale per improvvisare in modo credibile. E non sempre l’attore era in forma.

Una sera, nel Dettagli Tour al West End di Londra, Anthony Wilson, un performer di solida formazione shakespeariana, ebbe un malore. Lo spettacolo cominciò con quarantacinque minuti di ritardo. Nel brusio dell’inizio non si capì il nome del sostituto che, ad ogni linea rielaborata dal computer, vide immagini di animali. L’improvvisazione fu un racconto dove si inanellavano leggende di creature mutanti l’una nell’altra fino ad arrivare all’ultima, un lupo, un lupo che per animale domestico aveva l’uomo. Non si seppe mai con precisione chi recitò in quella serata. Quando l’attore si tolse l’ultima maschera era truccato per sembrare Keanu Reeves, come del resto era stato per tutti i precedenti interpreti. Sui quotidiani uscirono nomi diversi e qualcuno pensò che la cosa fosse voluta. Un anno dopo però, per l’addio alla carriera, il vero Keanu Reeves, più bianco di Gandalf il bianco, diresse un corto, Love is in the eyes of the animals. Chi aveva assistito alla serata di Londra e vide il film riconobbe non solo le stesse storie, ma la stessa capacità di svelare in dettagli l’ombra delle parole dove si rifugia il non detto, il segreto delle cose che si dissolvono nell’invisibile oltre l’apparenza del tempo.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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