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Su Netflix, lo spirito critico e la nostra insopprimibile voglia di guardare tutto ciò che è “pazzesco!”

Quando inizio un libro devo arrivare fino alla fine. Per quanto la lettura possa essere pesante, noiosa e poco soddisfacente non riesco ad arrendermi all’evidenza che, semplicemente, quel libro non fa per me. Anni fa ripresi la lettura de L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon solo perché non volevo “dargliela vinta”. Risultato? Tre mesi a penare su quelle novecentosessantasei pagine, solo per poter dire che ce l’avevo fatta. Ma non so se ho davvero vinto io, o il mio bisogno ossessivo-compulsivo di completismo.

Per alcuni al mondo ci sono così tanti libri da leggere che è stupido incaponirsi su quelli che non ti danno soddisfazione, e comprendo il loro punto di vista, ma per me anche la fatica di entrare nella testa di quegli autori che non capisco è una (masochistica) soddisfazione. Passando a un altro media, e avvicinandomi al tema del titolo, pensare di guardare un film di Lynch con lo stesso livello di attenzione di un American Pie qualsiasi è inutile: non siete costretti a farlo, ma se lo state facendo è perché qualcosa vi spinge, una malsana curiosità verso quel “di più” che magari non capirete fino in fondo, ma è una porta verso nuovi modi di vedere le cose. E parla uno che adora Mulholland Drive e si è addormentato a più riprese con Inland Empire, quindi non un apostolo del regista di Twin Peaks.

Il mio sguardo alla fine di Inland Empire, con un po’ di occhiaie per il sonno in meno

Come ci sono tantissimi libri obbligatori da leggere ci sono anche tantissimi film e serie tv che sembrano imperdibili, ma in questi due ultimi casi c’è uno strumento che ci rende molto più facile e immediato il recupero, se non a scapito “solamente” del nostro tempo e del prezzo di un abbonamento mensile: i servizi on demand, tipo Netflix, Amazon Prime, Apple tv e chi più ne ha più ne metta.

Sono stato anche io drogato di binge watching. Lo sono ancora, ogni tanto, tipo che con la mia fidanzata stiamo recuperando a velocità record Mad Men prima che Netflix lo tolga dal suo catalogo. Abbiamo fatto tirate in tempi brevissimi di Game of Thrones, Bojack Horsemen e Better Call Saul, e sono sicuro che altre ne faremo, ma in tutta l’abbondanza di contenuti che mi viene sparata in faccia costantemente ho trovato modo anche di dire, a differenza dei libri, “io qui mi fermo”. L’ho fatto anche grazie agli influencer, o meglio nonostante loro.

Ho un profilo Instagram che uso pochissimo, ma chi è più avvezzo di me a questo social network avrà sicuramente sentito definire un sacco di cose “pazzesche”. L’ho sentito usare per tanti di quei contenuti di Netflix che ho cominciato a chiedermi quale fosse il limite fra product placement camuffato e spirito critico assente, al punto che a ogni nuovo consiglio ho cominciato a dire no, oltre questo episodio non vado.

Non ci rimanere male, Messiah, ma oltre il quarto episodio non vado

La riflessione mi è scattata dopo essere caduto nell’inganno, per l’ennesima volta, con Unorthodox, miniserie tedesca basata molto liberamente sull’autobiografia di Deborah Feldman. Il tema alla base è controverso e interessante: l’esperienza di una donna che decide di abbandonare una comunità chassidica (ala dell’ebraismo ortodosso caratterizzata da regole piuttosto rigide, in particolare per le donne), perseguendo le sue aspirazioni e cercando di evitare il ritorno forzato all’interno della comunità. Critiche unanimemente positive, addirittura un documentario riguardante la lavorazione, eppure dopo il primo episodio rimango perplesso e mi dico “ci sarà sicuramente di più”. E invece no.

L’unico lato positivo di Unorthodox sta nel suo far vedere i lati negativi di una comunità ultra ortodossa senza cercare di demonizzare chi ne fa parte, cosa che sarebbe stata facile viste le ferree regole che vigono all’interno della comunità, ma dal punto di vista del racconto latitano troppe cose per giustificare quanto se ne parla bene. Tutto si risolve fondamentalmente in una favoletta in cui il realismo va a farsi benedire, tanto che infatti la vera storia della Feldman è molto diversa nella sua fase post-matrimonio: il modo in cui la protagonista Esty riesce a trovare nuovi amici, una sistemazione, la realizzazione dei suoi sogni e la libertà dalla comunità opprimente in cui è cresciuta è credibile solo se si ha una fiducia nell’umanità molto maggiore della mia, e io pensavo di essere messo bene da questo punto di vista. Aggiungiamo che gli eventi importanti nelle quattro puntate della miniserie sono davvero pochi, che il ritmo ne risente e che l’unico personaggio su cui avrei davvero voluto un approfondimento (Moishe, il cugino del marito Yanki incaricato di accompagnarlo a Berlino per riportare la fuggitiva a casa) viene lasciato monco di approfondimenti sul suo passato. Ho evitato accuratamente spoiler, ma se avete visto la serie e volete un parere approfondito sappiate che la penso più o meno come chi ha scritto questo articolo.

“Io spero in uno spinoff!”

Ho visto tutto Unorthodox perché in fondo si trattava di sole quattro puntate, ma già da tempo ho imparato che non posso sospendere il mio giudizio per tutto ciò che viene propinato come fondamentale. Quando sento di persone che hanno mollato Breaking Bad a metà della prima stagione (l’unico vero punto di stasi della serie) mi scandalizzo, ma comincio a capirli, perché probabilmente anche loro hanno ricevuto troppe delusioni basate su aspettative gonfiate da chi trova tutto entusiasmante. Vale la pena fare lo sforzo, dare un’opportunità, ma anche il tempo ha un valore e lo spirito critico si forma anche rifiutando qualcosa nel momento in cui i “capolavori” diventano prodotti carini ma tutt’altro che epocali: per dire, bello Stranger Things, ho guardato le tre stagioni e guarderò anche la quarta, ma ce ne ricorderemo fra dieci anni?

I miei NO possono essere più o meno condivisibili. Ho detto addio a Messiah dopo una prima puntata promettente e tre episodi interlocutori che sembravano voler allungare il brodo per non giocarsi tutti gli assi nella manica subito (gli è andata male, la seconda stagione non si farà), difetto che a un certo punto ho temuto infettasse anche The Morning Show salvo ricredermi, per fortuna, dopo una breve impasse. Mi è spiaciuto non dare fiducia a Jason Bateman, ma dopo due episodi Ozark non aveva fatto niente per meritarsi il recupero di tre stagioni. Mi sono incaponito, da amante della fantascienza, su Altered Carbon per sette episodi prima di vedere inabissarsi le mie speranze su un’ambientazione interessante in un mare di luoghi comuni e colpi di scena telefonatissimi che la sprecano in maniera criminale. E sì, ho mollato anche il cult del momento, La casa di carta, dopo soli tre episodi: non so voi, ma personalmente vedere che il piano geniale del Professore va subito a monte perché non è riuscito a scegliere le persone giuste per farlo funzionare mi ha fatto sentire preso in giro, e non ho avuto voglia di scoprire quanto fosse geniale nel recuperare una situazione di merda causata dalla sua stupidità.

E voi? Cosa avete seguito, cosa avete lasciato, e perché? Fatemelo sapere, e già che ci siete spiegatemi anche il senso di Inland empire, se lo avete trovato.

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Racconto in musica 13: Del movimento spontaneo (Ezio Bosso – Between men and trees)

Ci sono vari passaggi che mi hanno portato alla decisione di scrivere racconti basati su canzoni. Anni fa mi era venuta l’idea di raccontare l’assedio di un motel sperduto da parte di un gruppo di folli, traendo ispirazione per ogni capitolo da una canzone diversa: all’inizio ci sarebbe stata L’agguato dei Marlene Kuntz, seguita da The moonlight murders psychedelic band di Samuel Katarro (oggi a capo del nuovo progetto King of the opera) e Questa no di Giorgio Canali & Rossofuoco. Poi mi sono incartato, ho cominciato a pensare ad altre cose e il motel è ancora salvo. Per ora.

Della rubrica Musica Aumentata su Indie-Zone avevo già parlato, ma c’è stato un piccolo passaggio prima di questa esperienza, un esercizio svolto alla scuola di scrittura Belleville di Milano che consisteva proprio nell’inventare una storia di tremila battute su un argomento diverso per ognuno: poteva essere un quadro, una fotografia, nel mio caso fu una canzone.

Di Ezio Bosso so ben poco, se non che era un compositore famoso e che da anni era affetto da una grave malattia. Non mi metterò a cercare su Wikipedia per elencare dati che non fanno parte del mio bagaglio di conoscenze, ma se questo blog esiste lo devo anche al tempo speso sulle sue note. Il primo, vero racconto in musica è stato questo, e mi è sembrato giusto pubblicarlo a pochi giorni dalla sua morte: un sincero tributo a un ispiratore.

Questo racconto cerca parzialmente di rispondere anche a una domanda che mi sono fatto spesso negli anni: perché esistono così pochi film horror che si svolgono alla luce del giorno? Se c’è una cosa che, a mio parere, può testimoniare la perdita di ogni speranza è la conferma che i tuoi incubi notturni non svaniscono con la luce del sole, eppure riesco a pensare solo al recentissimo Midsommar come esempio di esperimento in questa direzione. Forse scriverò qualcosa al riguardo in un articolo, per ora godetevi una storia che parla del coraggio che ci vuole ad affrontare la vita quando qualcosa ci convince che non c’è più speranza. Buon ascolto, e buona lettura.

Del movimento spontaneo

La prima cosa a cui pensa è la fuga.

Ma dove può rifugiarsi? Non c’è nessun luogo sicuro, così si abbandona. Inspira. Espira. A lungo, affannosamente, cercando di escludere il mondo pur consapevole di non avere la forza di abbandonarlo.

E, quando riapre gli occhi, tutto esplode attorno a lei.

I colori la avvolgono, il rosso delle foglie sugli alberi, il giallo dei fiori, il verde dell’erba su cui poggia i piedi. Sente il vento scuoterle i capelli, il rumore delle fronde che si muovono ad un ritmo asincrono, il ronzare delle api che attorno a lei infondono vita alla natura. Avverte il lieve tremore del proprio corpo ogni volta che una le si avvicina troppo. Guarda lo spettacolo attorno a sé, cercando di non ascoltare il battito del proprio cuore, quel ritmo serrato che la avvisa che qualcosa non va.

Che c’è un elemento stonato.

Quello strisciare, lento e tormentato, proprio di fronte a lei, dove non ha più il coraggio di guardare. La creatura che le si avvicina, come vomitata da una terra che immaginava capace solo di magnificenza.

Non può ignorarla a lungo, e quando la fissa si accorge di esserne avvinta. Sa che la vedrà ovunque, d’ora in avanti, se non lei la sua minaccia di destino ineluttabile. Sarà in ogni specchio d’acqua in cui si bagnerà, pronta a trascinarla a fondo. In ogni atomo d’ossigeno che inspirerà, pronta a diffondersi nel corpo come un cancro.

Il battito del suo cuore si piega al movimento della creatura. C’è qualcosa di ipnotico in quell’incedere, una grazia che supera l’orrore. Non sono più le fauci sbavanti a soggiogarla. Non il puzzo nauseabondo. Quello strisciare è ormai una ninna nanna gotica, promette un riposo eterno. Lì, il ritmico pulsare che sente rimbombare nelle orecchie non sarà più un fastidio.

Si sente pronta a dire addio, a salutare una vita che ormai promette solo paura. Chiude gli occhi, si protende in avanti, aspetta l’ultimo istante della sua esistenza con estatica enfasi.

Così assorta che lo scatto dei denti a vuoto stupisce anche lei.

Cos’è quel battito ribelle? Da dove vengono le energie che l’hanno fatta ritrarre di scatto?

Si sente muovere, quasi non avesse più il controllo dei propri arti. Guarda un’ultima volta la creatura prima di volgerle le spalle, di cominciare a camminare, a correre, libera, senza temere le api, il vento impetuoso o i rami che la graffiano mentre si protende oltre il bosco e la paura.

Perché la vita non è questo. Non è arrendersi all’orrore, ma lottare per conquistarsi il diritto a godere di ciò che di bello porterà il prossimo attimo. È un cammino, forse inutile, ma che può essere permeato di gioia oltre che di sofferenza.

E così corre, oltre gli alberi, oltre il lamento che sente alle sue spalle, oltre la paura, oltre i sogni gli incubi le aspettative i timori e ad ogni battito un passo la porta un po’ più in là, sempre più in là, ancora più in là.

Finché, esausta e ormai salva dal mondo e da sé stessa, comincia a vivere per ogni istante che le è concesso.

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Ode a un compositore: Carter Burwell e le sue colonne sonore

Ho da poco finito di vedere una serie di cui magari avrete sentito parlare. Si chiama The Morning Show, ha Jennifer Aniston e Reese Whiterspoon come interpreti principali (e produttrici) e scandaglia le reazioni del personale di un network televisivo quando le accuse di molestie sessuali sul posto di lavoro, che hanno dato il via al movimento #MeToo, arrivano a toccarli da vicino. Al netto di poche concessioni alla drammatizzazione stucchevole la serie è davvero ben scritta, ma non è di questa che voglio parlare bensì della musica che la accompagna: mi sono bastate poche note di piano infatti per riconoscere la mano, alla direzione della colonna sonora, di Carter Burwell.

Burwell l’ho scoperto casualmente proprio col primo film a cui ha collaborato, Blood simple, esordio alla regia di una coppia che da lì ha fatto molta strada: i fratelli Ethan e Joel Coen. Già da quel momento (siamo nel 1984) si instaura un sodalizio che ha visto Burwell collaborare a tutti i film della coppia, A proposito di Davis escluso visto che le musiche furono curate dal cantautore T-Bone Burnett. Il tema portante di quell’esordio ce l’ho stampato in testa, l’ho perfino usato in una canzone del fallimentare progetto di reading distorto [progetto morosa], che avevo messo in piedi più di dieci anni fa: registrammo solo sei canzoni, perse ormai nell’etere dopo la morte di myspace, in una sala prove di Gaggiano con un’ora di tempo e zero esperienza, ma sono orgoglioso di essere riuscito con le mie scarse capacità musicali a registrare al volo una sopra l’altra tre parti di chitarra per citare la musica che trovate qui sotto.

Non è certo l’unico compositore che ha associato il proprio lavoro alla quasi totalità dei film di un regista (penso a Ennio Morricone con Sergio Leone, o John Williams con Steven Spielberg, giusto per fare due esempi), ma quello che mi ha colpito di Burwell è come sia riuscito a collaborare stabilmente con alcuni dei miei autori preferiti. Oltre ai Coen, che venero a partire da quel cult che è Il grande Lebowski, altri due registi lo hanno richiesto stabilmente per i loro lavori, e se non mi ero sinceramente accorto della sua mano nei film di Spike Jonze l’avevo invece notata eccome in quelli di Martin McDonagh.

Ho adorato ogni film di McDonagh, tanto che quando ho visto la pioggia di nomination per il suo Tre manifesti a Ebbing, Missouri ho deciso di farmi l’unica tirata della mia vita per vedere tutta la cerimonia degli Oscar. Tristemente vinsero solo l’annunciatissima Frances McDormand e Sam Rockwell (altro mio feticcio), e fra quelli che rimasero a bocca asciutta c’era lo stesso Burwell, alla seconda nomination dopo il Carol di Todd Haynes (altro regista con cui la collaborazione è continua). Se questo film e In Bruges hanno però ottenuto la visibilità che meritavano, mi sono sempre chiesto per quale motivo la stessa attenzione non l’ha ricevuta Sette Psicopatici: cast di attori azzeccatissimo, storia metacinematografica come non se ne vedeva da Il ladro di orchidee (Spike Jonze, guarda caso), e scelte musicali fantastiche. Quando parte il tema sottostante, subito dopo l’ultima scena del film, io ho sempre un brivido.

Non ho i mezzi per analizzare il lavoro musicale di un compositore, ma da appassionato mi sono sentito in dovere di far conoscere un nome che ha contribuito a fare la storia del cinema e che è ingiustamente poco noto fra il pubblico (chissà se il suo nome dice qualcosa ai fan della saga di Twilight: i due Breaking Dawn hanno la sua impronta musicale, altro rapporto di lunga data col regista Bill Condon). Sentire la sua mano e riconoscerla, oggi come anni fa, mi fa sempre piacere: spero che prima o poi se ne accorga anche l’Academy.

Bonus track: negli anni 80 ha fatto parte di molte band a New York, fra cui i Thick Pigeon. E in un brano come questo la sua mano è già riconoscibile.

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Racconto in musica 12: Una promessa (Muschio – Burian)

Da un qualche anno ho avuto modo di appassionarmi alla musica strumentale, e su questo blog ho già pubblicato due racconti ispirati a gruppi di questo interessante sottobosco musicale. La presenza della sola musica in fondo rende facile vagare con la mente, immaginarsi storie di cui la canzone può fungere da ideale colonna sonora. Mai come in questo caso è stato così.

I Muschio li ho scoperti dal vivo, in una data che dividevano con quell’altra grande band che sono i Valerian Swing, ed è stato amore al primo ascolto. Due chitarre e batteria, un suono potente e psichedelico, nella loro carriera hanno pubblicato due album (Antenauts del 2013 e Zeda del 2016). Ho avuto la fortuna di suonare in apertura ad un loro live, intervistarli e, in generale, seguirli per tutti questi anni: quando una loro canzone mi ha lasciato intravedere le basi per un racconto è stato quindi un piacere seguire la corrente.

Burian è il quinto brano di Zeda, una canzone dal ritmo incalzante che, complice la splendida cover del disco (di Luca Solomacello), mi ha subito fatto pensare a una storia dalle tinte horror. Mi sono divertito a giocare con il ritmo, orchestrando gli avvenimenti in base alle pause e ripartenze della musica: il risultato lo trovate qui sotto, subito dopo il brano. Buon ascolto, e buona lettura.

Una promessa

Non gli ho mai creduto quando diceva che non ci sarebbe successo niente, che isolati non significava in pericolo. Ho vissuto sempre all’erta.

Lo schianto della porta non mi coglie impreparata, i muscoli sono già tesi per lo scatto che mi porta in cucina mentre l’ingresso viene invaso dal vento e dal gelo della notte, corro di stanza in stanza sbattendo porte che si schiantano alle mie spalle mentre l’invasore avanza, inesorabile, finché non sposto la cassapanca dello studio a bloccargli la strada.

L’impatto è forte, ma la barricata regge. Ero preparata, sapevo dove sarei dovuta andare per riprendere fiato. L’invasore batte forte contro il legno, il vento fuori impazza, ma da qui posso raggiungere le scale. Rido di quella presenza che vuole ghermirmi, delle false promesse di sicurezza. Ora sono la preda, ma sono tutt’altro che inerme.

Forti colpi tempestano la porta. Le fronde degli alberi si agitano impazzite.

Scatto appena prima che il legno si deformi, che la forma dell’invasore violi un altro angolo del mio rifugio, balzo alla volta del piano di sopra col buio che mi incalza, mi sfiora, ulula di collera per la mia audacia, quasi scivolo prima di raggiungere il pianoforte, le mani tremano mentre stringo il tassello che lo tiene in equilibrio e lo strappo con un urlo coperto dal fracasso degli scalini sfondati quando rotola giù, libero di investire il mio inseguitore.

Resto sul pianerottolo, il cuore in gola. Immobile osservo il buio che nasconde lo sfacelo, impossibilitata a tornare indietro. Troppo curiosa per andare avanti. Gli ultimi scricchiolii si placano, le note dolenti dei tasti sfondati cessano la loro melodia distorta. Il silenzio incombe su di me. Mi scuoto, avanzo con cautela lungo il corridoio. Ogni passo non calibrato è una possibile condanna. Salgo verso la soffitta, mi stendo sul pavimento a ritrarre la scaletta, scivolo verso un angolo fra bauli e libri impolverati. Le ombre dei rami sembrano dita protese verso di me.

Un refolo d’aria mi sussurra all’orecchio che non gli sfuggirò.

Le finestre vanno in frantumi, schegge di vetro mi si piantano nella carne, cercando gli occhi, correnti violente mi agitano i capelli strappandomi un urlo dalla bocca.

E la scala si stende, i passi avanzano, il buio si fa più denso man mano che l’invasore si avvicina, mi trova, ride di me e dei miei sforzi e mi tocca, lascivo, prima una guancia e poi l’altra, a cercare le lacrime che provo a trattenere con un ultimo sussulto d’orgoglio prima di cedere mentre la sua voce mi raggiunge dai recessi di tenebra che ne sono l’essenza.

«Ma che fai quassù? Ancora i tuoi incubi?»

Apro gli occhi sul suo sorriso paterno, lo guardo fra lacrime di pentimento. Aveva promesso che mi avrebbe difesa, anche da me stessa, portandomi dove non sarei più stata in pericolo. Non pensava che potessi essere io, il pericolo.

Guardo i suoi vestiti sporchi di terra, la sua pelle pallida, l’erbaccia fra i capelli. Aveva fatto una promessa, ora non potrò più impedirgli di mantenerla.

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Abbiamo ancora bisogno di Tutorial: alla scoperta dell’ultimo album de iFasti

iFasti sono una band torinese in giro da molti anni, e con alle spalle progetti fra i più disparati. Hanno realizzato tre album e due Ep di cui uno, Morula, registrato in una sola notte e contenente tre canzoni, quattro racconti e molte immagini. Hanno sonorizzato due libri, promosso una compilation, Un disco grezzo, un disco che ci impegna, nata con l’intento di prendere posizione su temi sociali come l’uso di psicofarmaci sui bambini e la discriminazione subita dagli immigrati (in tempi non sospetti, era il 2009). Dal vivo alternano live elettrici ad altri più sperimentali, da sonorizzazioni di libri e film a reading.

Io tutto questo me lo sono perso, perché iFasti li conosco solo da poco più di una settimana grazie all’ascolto continuo dell’ultimo album Tutorial.

Mi sono avvicinato a questo disco leggendo una recensione su Impatto sonoro, incuriosito dal paragone con Il teatro degli orrori. La voce di Rocco Brancucci in effetti ha molte affinità con quella di Pierpaolo Capovilla, così come i testi, ma la musica qui è più affine, se vogliamo continuare a fare esempi, a degli Offlaga Disco Pax con più ritmo nelle vene. Fare nomi di altri non vuole essere sminuente, perché per fortuna iFasti hanno una loro personalità ben definita.

In Tutorial viene indagata la nostra realtà quotidiana, in maniera addirittura profetica visto che nel singolo Bomba Rocco dice “ci hanno convinti ad aver paura, tutti chiusi in casa”. Viene analizzato il nostro modo di comunicare, dall’individualismo imperante persino nel modo di raccontare le storie (Ionoi) a quello che rende banale e simile ogni canzone d’amore (Lamore), un “linguaggio che diventa sempre più americano” come dicono in Buoni anni. Finisce sotto esame il nostro modo di isolarci, ignorando ciò che ci accade intorno per un falso senso di sicurezza che rende amorfa la nostra vita (“Mentre beato fischiettavi contento/ scegliendo e baciando la tua latitanza dall’impegno/ non ti sei neanche accorto del numero chiuso nelle scuole/ del numero chiuso nelle feste/ ogni cosa è chiusa/ e ogni casa è chiusa”, Tpunto4), dove al massimo possiamo fantasticare sulla donna che ci mette gli occhi addosso al supermercato solo per scoprire che puntava ai nostri bollini della spesa (Meritiamo). È quasi paradossale che in tanta amarezza, velata comunque di un’ironia che ci ammanta sempre, il messaggio iniziale sia che per L’umanità migliore “è una questione di minuti e poi ritornerà”, ma in fondo il discorso è circolare: le ultime parole dell’album, dedicate a “un avveduto consumatore”, gli ricordano che merita ancora una vita “assolutamente pazza e meravigliosa”.

Tanta mole di contenuto viene veicolata musicalmente in modi diversi ma complementari. L’armamentario tecnico della band (due bassi, due computer, una chitarra e un sax) porta ad un approccio elettronico in brani come Tpunto4, dove si flirta con la house, e in Buoni anni e Pietro, dove invece i toni sono più minimali e cupi (ed è un peccato che in quest’ultima lo sfogo distorsivo tanto atteso non giunga mai). Bomba è il brano più “indie” e debole del lotto, arpeggio continuo in sottofondo ed esplosione contenuta nel finale a cui il sax riesce a donare un’anima più profonda. La palma di brano migliore va sicuramente a Lamore: sbarazzina senza essere stupida, la canzone ha un ribaltone a metà brano che ci proietta in un’atmosfera da discoteca ma con qualcosa di malinconico nella melodia, perfetta espressione sonora del concetto “si parla d’amore e ci si nutre d’odio, che strano paradosso” che Rocco continua a recitare come un mantra. In generale c’è un equilibrio fra gli elementi che si apprezza sempre più col procedere degli ascolti, dato che la prima cosa che spicca è la voce: dategli tempo e fiducia insomma, non ve ne pentirete.

Anche il video è perfetto

Per farvene un’idea di persona potete ascoltare Tutorial qui. L’album esce per I dischi del Minollo e Scatti Vorticosi Records, e voglio approfittare di questo spazio anche per portare all’attenzione un’iniziativa di quest’ultima etichetta: riunendo settanta band musicali indipendenti, fra cui gli stessi iFasti, hanno creato una compilation benefit il cui ricavato andrà tutto nelle tasche dei live club. Per scaricarla potete fare un’offerta libera direttamente al locale prescelto, e se volete suggerire al vostro locale preferito di aderire (e per ulteriori istruzioni) vi invito a dare un’occhiata a questo link: pensate ai soldi che avete risparmiato non andando ai concerti, ai locali che avete amato, alle band che potete scoprire attraverso questo vortice di musica e donate qualcosa.

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Racconto in musica 11: Pirocene (Sigur Rós – Ég anda)

Piano piano cominciano ad arrivare contributi esterni per il blog, e sono orgoglioso di ospitare il secondo novarese di fila. Luca Ottolenghi, giornalista nella vita, oltre a essere un amico è soprattutto uno scrittore: autore del romanzo Questa terra, edito da Iemme e vincitore del bando SIAE/Mibact per nuove opere Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura nel 2016, Luca ha partecipato e curato anche l’antologia NO – Dieci racconti per un nuovo immaginario novarese, dove è presente col racconto La pacchia scritto a quattro mani con Dembo Djabi.

Il suo racconto per Tremila Battute è anch’esso ancorato alla città di Novara, scossa da avvenimenti che vi lascerò il piacere di scoprire più in basso, ma l’ispirazione di partenza viene dal brano di una band molto lontana. I Sigur Rós, gruppo islandese sperimentale attivo fin dal 1994, sono riusciti fin dagli albori della carriera a creare un proprio suono riconoscibile e in continua mutazione, un post rock rarefatto cantato in una lingua immaginaria dal vocalist Jón þór Birgisson e permeato dagli spazi immensi della loro terra (sulla cui scena musicale vi consiglio di recuperare questa puntata del podcast L’audionario, realizzato dal giornalista e autore televisivo Francesco del Gratta). Ég anda è la traccia che apre Valtari, sesto album della band uscito nel 2012.

Una storia che parla di fuoco non poteva che avere la musica di una band della terra dei vulcani ad accompagnarla: sotto trovate la canzone, seguita dal racconto, io non posso che augurarvi per l’ennesima volta buon ascolto e buona lettura.

Pirocene, di Luca Ottolenghi

L’uomo cammina sulla strada Mercadante sotto un cielo color dell’oro. 

Alle sue spalle, la città è in fiamme.

L’asfalto è crepato in superficie, come tutta la terra che lo circonda e che un tempo ospitava le risaie. Tra le fenditure affiorano rivoli di lava che lentamente ricoprono campi e sentieri.

Ovunque è incandescenza e siccità.

Gli scienziati l’avevano battezzata “Pirocene”: l’era del fuoco. Una fatalità geologica tanto semplice quanto inevitabile.

Inizialmente i novaresi avevano guardato al Cataclisma con sufficienza, pensavano che da loro non sarebbe mai arrivato: erano sempre gli altri i paesi toccati dalle sciagure.

«A Novara non succede mai niente», scherzavano tutti durante l’aperitivo alla Brace. «Neanche l’Apocalisse».

L’uomo sta andando incontro al suo ultimo desiderio. Ogni passo è accompagnato dall’eco lontana delle frane. Tutta la catena alpina alle sue spalle si sta sgretolando. Alcune cime esplodono, non riescono più a trattenere la lava che risale dal nucleo imbizzarrito.

Al secondo bivio l’uomo imbocca la strada sterrata che conduce al ponte, il luogo dove si erano conosciuti anni prima e dove ogni tanto, nei giorni felici, tornavano ad ascoltare il torrente.

Dicevano sempre che quel ponte era una presenza distopica lì in mezzo alle campagne: sembrava scampato a una guerra mondiale, o all’Apocalisse.

L’uomo supera le rovine della cascina San Maiolo, circondata di cadaveri su cui i corvi e i cani randagi si accaniscono famelici. 

Anche gli aironi partecipano al banchetto; quei maledetti erano i più ingordi di carne umana.

Lì si era combattuta l’ultima battaglia di Novara: un manipolo di sopravvissuti si era scannato per accaparrarsi le porzioni di riso rimaste.

In lontananza l’uomo vede il ponte. È stanco, crede di non farcela. Ma la voce di lei, da qualche parte nell’aria, lo sprona a continuare. Gli dice «Vieni».

Anche per questo ignora i lamenti e le richieste d’aiuto di una coppia caduta nella roggia. Li riconosce, sono i suoi ex vicini di casa: da quando era rimasto solo lo salutavano a fatica e per strada facevano finta di non conoscerlo.

L’uomo continua la sua marcia in un crescendo di vibrazioni telluriche. Con fatica riesce finalmente a salire sul vecchio ponte, interrotto a metà proprio sopra l’Agogna, ora ridotta a un letto di fango e carcasse di nutrie che sta per essere inondato di lava.

Vede la donna quasi in trasparenza. Le appare seduta di spalle sul bordo estremo del ponte, ha le gambe penzoloni nel vuoto come faceva sempre ai loro appuntamenti.

La vede voltarsi e sorridergli, sembra dirgli qualcosa, appena prima dell’esplosione del Monte Rosa.

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Solidarietà negativa e hikikomori: come la società moderna incide sulla sanità mentale.

La società non avrà fretta di riconoscerci un’autorità. Essa è destinata a opporci resistenza perché noi abbiamo un atteggiamento critico nei suoi confronti: noi le dimostriamo ch’essa stessa svolge un’importante funzione nella causazione delle nevrosi. Nello stesso modo in cui ci rendiamo nemico il singolo scoprendo ciò che in lui è rimosso, così anche la società non può rispondere con cortese accoglienza alla spregiudicata messa a nudo delle sue insufficienze e dei danni che essa stessa produce.

Sigmund Freud, Le prospettive future della teoria psicoanalitica

Queste parole di Freud sono meno famose del suo “non sanno che gli portiamo la peste”, pronunciato allo sbarco negli Stati Uniti, ma sono altrettanto profetiche, non tanto per l’opposizione della società alla psicoanalisi quanto per le correlazioni fra nevrosi e terreno sociale.

Pensare di vivere in un periodo peggiore di altri è un atteggiamento che si può riscontrare in qualsiasi altro periodo storico. Già l’anonimo autore del papiro egizio codificato come Berlino 7024 lamentava “A chi parlerò oggi? I fratelli sono malvagi. Gli amici non sanno amare. I cuori sono avidi”, ed è vissuto duemila anni prima di Cristo. Anche nel Giappone feudale, in preda a grandi cambiamenti, si pensava che la tempra degli uomini fosse peggiore di quella degli antenati: Yamamoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, rispondeva a queste critiche in maniera esemplare.

Lo spirito di un’epoca è qualcosa a cui non possiamo tornare. […] È importante trarre il meglio da ogni generazione.

L’errore di chi ha nostalgia del passato sta nel fatto che non afferra questo principio.

Ma coloro che mostrano considerazione solo per la realtà attuale, ostentando disprezzo per il passato, appaiono molto superficiali.

Yamamoto Tsunetomo, Hagakure

Fra il pessimismo dell’anonimo egiziano e il solo apparente ottimismo di Tsunetomo (monaco ed ex samurai che, per inciso, avrebbe preferito il suicidio rituale a una vita non al servizio del proprio daymio) c’è un mare di sfumature. Idealizzare il passato serve a poco, ma una fede cieca nel progresso della società moderna può essere altrettanto deleteria.

Due libri mi hanno fatto molto riflettere su come la società può incidere sulla vita dei singoli, sui meccanismi a cui siamo asserviti e che cambiano la nostra percezione dell’altro: sono Il nostro desiderio è senza nome di Mark Fisher e Hikikomori – I giovani che non escono di casa di Marco Crepaldi.

Capitalismo e disturbo bipolare

Mark Fisher è stato uno scrittore e critico culturale inglese. Attraverso il suo blog K-punk ha parlato di musica, cinema, cultura in generale e, spesso e volentieri, società. Il nostro desiderio è senza nome, edito da Minimum Fax, raccoglie tutti i suoi scritti politici apparsi nel blog, ed in particolare è una lucida e spietata critica del capitalismo e dei movimenti politici che gli hanno permesso di infiltrarsi in ogni ambito delle nostre vite.

L’attuale ontologia dominante esclude ogni possibilità di causa sociale della malattia mentale. La biochimizzazione della malattia mentale è ovviamente legata a doppio filo alla sua de-politicizzazione. Concepire la malattia mentale come un problema biochimico individuale offre enormi vantaggi al capitalismo: innanzitutto rinforza la spinta del capitale verso l’individualizzazione atomistica (se sei malato dipende dalla chimica del tuo cervello), in secondo luogo crea un mercato enormemente redditizio che permette alle “psicomafie” multinazionali di spacciare i loro loschi farmaci.

Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome

Ho trovato particolarmente interessante le sue correlazioni fra disturbi bipolari e società capitalistica. In un mondo in cui il lavoro si è fatto sempre più precario il tempo “cessa di essere lineare, diventando caotico e puntiforme”. L’impossibilità di pianificare un futuro ci attanaglia, e in casi estremi si può arrivare a esempi come quello dell’autore di Non-stop inertia Ivor Southwood, citato nel libro, che nel periodo in cui viveva di contratti a breve termine offerti all’ultimo minuto da agenzie interinali si è visto rimproverare la negligenza di essere andato per dieci minuti al supermercato, perdendo in quel lasso di tempo un’opportunità di lavoro: nelle sue stesse parole “dieci minuti sono un lusso che il lavoratore giornaliero non si può permettere”.

Fisher nei suoi articoli parla di questa condizione utilizzando il termine privatizzazione dello stress, una condizione di isolamento che, paradossalmente, è acuita dalla continua connettività e dalla mole di informazioni che abbiamo a disposizione, che ci appare indispensabile processare in un mondo in cui la competizione è serrata. Soluzioni come il “volontarismo magico”, ovvero l’assicurazione che se non abbiamo successo è solo perché “non abbiamo lavorato abbastanza duramente per rimettere insieme noi stessi”, sono anche peggio della cura, perché amplificano l’individualismo dei soggetti. Da qui si arriva al concetto di Solidarietà negativa, preso a prestito da Axel Williams, un modo di pensare che ci permea e ci porta a guardare gli altri come avversari da abbattere o, al massimo, sfruttare per i propri fini.

Si tratta della tendenza dei soggetti neoliberisti alla “corsa al ribasso”. Se altri vengono percepiti come beneficiari di risorse e sussidi che “non si sono meritati”, bisogna non soltanto negarglieli, ma mortificarli pubblicamente per il fatto di esigerli. Tutti devono “camminare con le proprie gambe”.

Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome

La società capitalistica moderna, secondo Fisher, ci ha portati ad indurirci come individui per far fronte al graduale abbandono istituzionale ed esistenziale. Il futuro è “un ambiente dominato da competizione e insicurezza perpetua”, in cui fidarsi degli altri è una debolezza che non ci possiamo permettere.

La pressione della società e gli hikikomori

Questo concetto di società in cui la competizione è esasperata e la solidarietà ai minimi storici si lega a doppio filo col secondo libro di cui voglio parlare. Hikikomori – I giovani che non escono di casa, scritto dal fondatore dell’associazione Hikikomori Italia Marco Crepaldi e pubblicato da Alpes, è un’accurata indagine di un problema sociale che, sebbene radicato principalmente in Giappone, ormai investe tutte le società capitalistiche.

L’hikikomori può essere allora interpretato come una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società economicamente sviluppate.

Marco Crepaldi, Hikikomori – I giovani che non escono di casa

Il fenomeno degli hikikomori si fece strada in maniera sotterranea dagli anni 70-80, all’interno di una società che non ci teneva a far vedere quali potevano essere gli effetti collaterali del proprio modello di successo. Fu una pubblicazione del giovane psichiatra Takami Saitõ nel 1998 ad aprire gli occhi sul problema dei giovani che, senza apparenti motivi, decidevano di autorecludersi e limitare quasi totalmente le proprie relazioni fisiche con l’esterno.

Nella società giapponese, dove l’identificazione col gruppo di appartenenza è essenziale nella formazione della propria identità, una delle cause principali fu la pratica nelle scuole dell’ijime, consistente nel tormentare ed escludere gli elementi più deboli della classe. Se è difficile immaginare come una pratica simile, non distante dal bullismo nostrano, possa aver portato a danni così grandi (i primi dati resi pubblici dal governo giapponese, nel 2010, parlavano di 696 mila casi), è più facile pensare a come possano incidere su menti fragili le pressioni che noi stessi subiamo costantemente.

Il capitalismo si basa sulla domanda e sull’offerta e, di conseguenza, sulla capacità di accaparrarsi i beni disponibili attraverso una migliore performance. Questo tipo di meccanismo può portare solo in una direzione, ovvero a un progressivo innalzamento dell’asticella e quindi delle competenze richieste per far parte del sistema. Tutto ciò si traduce in una competizione scolastica, lavorativa e sociale sempre più feroce dove a farne le spese sono coloro che non riescono a trovare la forza o la motivazione per tenere il passo, venendo di conseguenza lasciati dietro.

Marco Crepaldi, Hikikomori – I giovani che non escono di casa

Crepaldi trova tre motivazioni per l’impulso all’isolamento fisico che contraddistingue gli hikikomori. Uno è prettamente economico, in quanto chi si isola difficilmente è in grado di badare a se stesso se non con l’aiuto dei genitori, uno sociale, spiegato dal paragrafo soprastante, e un terzo che invece riguarda il fatto che nella società del benessere i bisogni primari sono garantiti: l’attenzione si sposta maggiormente quindi sulla realizzazione personale, una necessità che ribalta la Piramide di Maslow diventando spesso il nostro bisogno primario.

Rispetto al libro di Fisher quello di Crepaldi è, per ovvi motivi, più interessato a proporre un’analisi globale del fenomeno e sondare le possibili soluzioni, ma i punti in comune sono molti. L’aumento del numero di depressi osservato dall’OMS, del consumo di psicofarmaci anche fra i giovani, la mancanza di un tessuto sociale che dia un senso all’esistenza (cui contribuisce il crollo delle religioni) fanno parte del problema comune che i due libri affrontano.

C’è molto altro nei due libri rispetto ai pochi estratti che ne ho estrapolato, ma quanto qui scritto spero porti a una riflessione profonda, a cui voglio aggiungerne una personale. Mai come oggi siamo bombardati di notizie, e tutto questo ci sbatte in faccia quotidianamente quanto e come i comportamenti che teniamo incidono sul nostro futuro. Inquinamento, disparità sociale, discriminazione: per quanto facciamo, nel nostro piccolo, avere le mani pulite è possibile solo in una società completamente riformata. A questa pressione c’è chi sfugge con l’atteggiamento contrario, ostentando il proprio disinteresse quasi fosse un merito, una forma di autodifesa che si amplifica tanto più i nostri errori vengono ritenuti imperdonabili. Non dovremmo usare la nostra fallibilità come scusa per sentirci legittimati a fare quel che vogliamo, ma semplicemente farci pace e fare del nostro meglio: come Sartre fa dire al personaggio di Anny, all’interno de La nausea, “ciò che sarebbe sciocco sarebbe di essere sempre stoici: ci si esaurirebbe per niente”.

La ricodificazione di una società intera è un processo lungo e difficile, di cui si fa fatica anche a gettare le basi, ma il rapporto con l’altro è qualcosa che invece possiamo modificare giorno per giorno, partendo dalla nostra cerchia ristretta. Non sono in grado di dire se stesse meglio l’anonimo egiziano che scrisse il papiro quattromila anni fa o un giovane soggetto alle pressioni sociali del mondo moderno, certo ci troviamo in un contesto sociale in cui l’individuo è sempre più isolato: è necessario almeno fare il possibile per non ampliare questa distanza interpersonale.

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Racconto in musica 10: Intermittenze (/handlogic – Communicate)

Gli /handlogic sono già apparsi su questo sito, dato che avevo deciso di scrivere una recensione del loro primo disco Nobodypanic. Ascoltando il loro ultimo singolo Communicate sono stato colpito dalle prime righe del testo: “I don’t have a tongue/ no mother tongue/ to tell my own song/ I only speak in my mind. Il tema della difficoltà di comunicazione lo sento molto vicino, e il modo in cui lo affrontano gli /handlogic mi è sembrato tanto delicato a livello di testo quanto energico nella resa musicale.

La storia che ho tratto dalla loro canzone ha meno delicatezza, ma cerca di mantenere la stessa energia. È un monologo, forse interiore, forse esteriore, forse entrambe le cose: preferisco lasciare l’interpretazione a chi legge, nella speranza di aver reso giustizia alla fonte d’ispirazione. Fedele al tema non mi perdo in ulteriori chiacchiere: buon ascolto, e buona lettura.

Intermittenze

Avanti, non fare così. Cosa credi di risolvere? Dovresti capirlo che tutto questo è semplicemente ridicolo. Pensi che potrà mai amarti? Non c’è altra persona per te all’infuori di me. Per il resto del mondo non vali niente.

Ascoltami. Non fare finta che non esista. Non puoi dimenticare la mia voce, la mia bocca. Quanto ti piaceva baciarla? Le parole che ti sussurravo prima di addormentarci, riusciresti a dormire ancora se non ci fossero più? Se dovessi dimenticarle? Non pensare solo alle urla, cerchi sempre di passare per la vittima. Non è colpa mia se sei debole. Mi devi la vita, il minimo che tu possa fare è ringraziare e smetterla con questa sceneggiata.

Fermati! Cosa stai facendo? Dov’è la mia voce? Oddio la bocca! Cosa stai facendo alla mia bocca? Mi farai soffocare! Come puoi farmi questo, dopo tutto quello che abbiamo vissuto? Smettila immediatamente! Mi fai male, sei crudele! Fermati ho detto!

Guardami!

Ecco, così. I miei occhi, come puoi volerli scordare? Non c’è persona al mondo che ti guarderà mai come facevo io. Ci avevi scritto una poesia, ricordi? La luce dell’universo intrappolata in iridi nere, sono parole tue. Sì, era bellissima. Quasi mi pento di averla strappata. Ma te lo meritavi, ammettilo. Pensa alle carezze che ti ho lasciato con queste mani, non solo ai graffi e agli schiaffi. Qualche livido non ha mai fatto male a nessuno. Bisognava pure che imparassi come si sta al mondo. Senza di me non puoi fare un passo, sono la tua dipendenza. Coraggio, ora vieni via da quel tavolo. Non fa per te.

Ancora? Smettila di ribellarti! Cosa credi di fare? Non ce la potrai fare senza di Le mie mani! Come hai potuto? Non puoi crederci veramente, dopo tutto quello che ho fatto per Ah! Le mie gambe! Correvamo insieme, non mi lasciare indietro, ti prego! Fallo per noi! Patetica creatura morirai senza di me, morirai fra atroci tormenti, sai solo fallire, fallire, fal No! Scusa ti prego ho pau come p Ricordami! Perc la m Dove sono? Obl t eg è bu eddo non Lasciami parlare per un ult

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L’ennesimo fallimento del sogno americano nei racconti di Mary Miller

Ho scoperto da poco la casa editrice Black Coffee, anche grazie al podcast presente sul loro sito e sul contenitore Storie libere. Specializzata in letteratura nordamericana contemporanea, con una propensione per le voci fuori dal coro e per la forma racconto, era solo questione di tempo prima che un loro libro finisse fra le mie mani. Ero attratto da Lingua nera di Rita Bullwinkel, curioso di scoprire di più su una maestra del racconto come Joy Williams (di cui Black Coffee ha edito l’antologia di tutti i racconti L’ospite d’onore), infine mi sono orientato sulla raccolta Happy hour di Mary Miller.

Quando mi lascerai, non lascerai me, penso, ma la ragazza che pensavi che fossi, una che mi somiglia ma che non sono io.

Un tempo questo era il passaggio coperto più lungo del mondo

Le protagoniste dei racconti della Miller hanno tutte vite problematiche sull’orlo dell’indigenza, rapporti con l’altro sesso che si trascinano stancamente (spesso con almeno un divorzio alle spalle) e, più in generale, nessuna vera aspirazione. Come molta letteratura nordamericana quello che si vive nelle pagine di Happy hour è il crollo del sogno americano, il punto di vista di persone che non sperano nemmeno più che le cose possano cambiare, di sicuro non in meglio. Meglio attaccarsi a quello che si ha, anche se non soddisfa, anche se restare immobili fa comunque male.

Tutti i racconti sono ambientati nel sud degli Stati Uniti, una realtà nella quale, prendendo a prestito le parole di una delle protagoniste, i giovani (del college) “sono ipersensibili verso il sessismo, ma non altrettanto verso razzismo e classismo”. In una bella intervista sul sito della casa editrice l’autrice si lamenta della mentalità delle sue zone d’origine in questi termini:

La bandiera confederata è ancora parte della bandiera del nostro Stato. La mattina accendo la radio e mi vergogno come una ladra a sentire tutta la merda che dicono questi (bianchi) razzisti, sessisti, omofobi…

…Non amo nemmeno parlar male del posto in cui vivo, e non è necessariamente colpa della gente. Il punto è che non ne sappiamo un granché di cosa avviene fuori di qui. La gente non conosce un modo di vivere diverso, e teme ciò che non conosce…

…Perché non me ne sono ancora andata è una domanda che mi pongo tutti i giorni e alla quale non ho ancora trovato una risposta.

Quest’ultima è più o meno la stessa domanda che si pongono le protagoniste dei racconti. Nessuna di loro è veramente dipendente da qualcuno o qualcosa, anzi spesso sono donne che hanno saputo lasciarsi alle spalle situazioni anche peggiori, eppure sembra che il fallimento e l’insoddisfazione le inseguano. Vengono dipinte in momenti banali della loro vita, mai ad un punto di svolta, come se per loro l’apice fosse qualcosa di irraggiungibile. Il massimo a cui possono aspirare è un lavoro emotivamente lacerante in un istituto di accoglienza per minori vittime di abusi, come in Un amore grande, grosso e cattivo, o la possibilità di viaggiare a spese di un’amica insopportabile che ha vinto alla lotteria (Prima classe).

“Terry è davvero convinto che stia arrivando l’apocalisse. Darcie credeva che stessero solo giocando, ma non è così: secondo lui la fine è vicina perché desidera che lo sia.”

Hamilton pool

La Miller utilizza quasi sempre la prima persona, immedesimandosi nei gesti quotidiani delle sue protagoniste (a proposito del suo romanzo d’esordio Last days of California un critico ha dichiarato “[Elise] e Jess trascorrono più tempo in bagno di qualsiasi altro protagonista di qualsiasi altro romanzo di cui sia a conoscenza”), descrivendo con misura vite inquietanti vissute come perfettamente normali. Il sarcasmo è molto presente, una delle poche difese che le protagoniste riescono a erigere attorno a sé stesse per non sprofondare nella completa apatia, ed è un particolare che rende i racconti scorrevoli e piacevoli nonostante i temi trattati. Dove calca più la mano sul disagio, come nel già citato Un amore grande, grosso e cattivo o nello splendido Le mele dell’amore (tutto scritto in seconda persona, esercizio di stile assolutamente non fine a sé stesso), Miller lo fa senza perdersi in drammatizzazioni inutili ma mostrando la realtà quale è, il che basta e avanza. Una realtà in cui purtroppo i gesti di altruismo sono rari, e quei pochi sono permeati da un alone di fatalismo.

Fra i ringraziamenti alla fine della raccolta ce n’è uno dedicato ai propri ex, “per avermi fornito materiale ancora per molti anni a venire”. È certo che l’esperienza personale dell’autrice sia molto presente, anche con citazioni di film e libri (fra cui lo splendido Il museo dei pesci morti di Charles D’Ambrosio, altra raccolta di racconti da recuperare), ma più di tutto quello che sembra emergere è il sentimento di un paese che non riesce a reimmaginarsi, dove vivere ai margini della società è vissuto come un destino ineludibile. Ho letto un interessante articolo sull’esordio letterario di Claire Vaye Watkins, Nevada, in cui il “desert state” permea i protagonisti dei racconti, descritti come “riflessi sbiaditi di esistenze vissute da altri, ma che sono filtrate nelle loro vene, rendendoli lo stampo di chi li ha preceduti”. Libri come Happy hour sono un’ottima lettura, ma mi chiedo quanto l’aridità di queste vite vuote e le utopie negative, che al contrario di quelle positive abbondano, ci stiano privando della capacità di immaginare un mondo diverso.

“Lo capisco anch’io che l’unico modo che abbiamo di cavarcela è restare in mezzo a disabili e ubriaconi, legare le nostre vite alle tristi e inutili esistenze di gente messa peggio di noi.

Sporca

Non voglio fare il saputello, anche io fatico a scrivere qualcosa che abbia un messaggio positivo senza sentirmi finto o banale. Forse dovremmo solo imparare a prendere ciò che ci serve dalla letteratura: nel caso dei racconti di Mary Miller una prosa incisiva, mai spettacolarizzata, e una serie di esempi da tenere a mente quando guardiamo le nostre vite dall’esterno.

Racconti preferiti: La casa di Main Street, Un amore grande, grosso e cattivo, Verso l’alto, Le mele dell’amore.

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Racconto in musica 9: Interno verde (Alt-J – Hunger of the pine)

Ogni racconto di questo blog nasce con una canzone come ispiratrice, ma per questa volta ho fatto un’eccezione. Pur prendendo parte dello spunto dall’immaginario creato dagli Alt-J nella loro Hunger of the pine, e dallo splendido video che la accompagna, la scintilla iniziale è stato il quadro che vedete qui sotto.

L’autore è Andrea Spinelli, e ha realizzato un progetto che mischia le arti ben prima di me. Da qualche anno fa il live painter, ovvero dipinge gli artisti mentre si esibiscono sul palco. Negli anni ne ha ritratti più di trecento, fra cui Afterhours, Marta Sui Tubi, Ex Otago, Daniele Silvestri e Iosonouncane. Col suo pennello ha partecipato a manifestazioni come il 68° Festival di Sanremo, il MEI 2016, il Concerto del Primo Maggio 2017 e il Primo Maggio Libero e Pensante 2018 di Taranto, ha firmato la locandina per la data di Madrid del tour europeo 2018 di Levante e molto, molto altro.

Gli Alt-J (o Δ) sono invece una band britannica che ha cominciato a far parlare di sé fin dal debutto An awesome wave, caratterizzandosi per un suono che prende tanto dall’indie rock quanto dal folk e dall’elettronica. Nonostante abbiano all’attivo solo tre album sono già un nome di punta nella scena rock internazionale, tanto che comparivano fra gli headliner del Mad Cool Festival di Madrid nel 2017 accanto a Foo Fighters, Green Day, Kings Of Leon, Foals e Wilco (e io c’ero). Hunger of the pine è tratta dal secondo album della band, This is all yours, uscito nel 2014.

Già da mesi pensavo di tirare fuori una storia da questo connubio di influenze, visto che mi si era stampata in testa da subito l’idea di una particolare simbiosi uomo-natura. Finalmente il parto è avvenuto, e sotto potrete leggere il risultato. Oltre al solito augurio di buon ascolto e buona lettura aggiungo quello di buona visione, dato che vi invito calorosamente a visitare i canali instagram, facebook e il sito di Andrea Spinelli per perdervi all’interno del suo mondo di suoni e colori.

Interno verde

Qualcuno mi ha detto che vestito così, di marrone e verde, sembro anch’io parte degli alberi e gli rispondo magari fosse così, magari, ma non mi credono.

Forse è perché ho una bella vita, ho una moglie e due figli che adoro, mi fanno sentire speciale, a me, che non è che sia poi così intelligente, davvero. Non so cos’avrei fatto senza di loro, davvero.

Il loro amore mi fa sentire in colpa quando di notte mi sveglio e piango e non so perché, dovrei essere felice, qui ho tutto non come quelli che vivono fuori città. Abitano in delle roulotte, li vedo sempre al market a comprare bottiglie di alcolici o a chiedere l’elemosina fuori dai negozi del centro. Loro sono quelli sfortunati, non io.

Non piango mai quando sono lassù. Mi arrampico lungo il tronco, assicuro l’imbragatura e do gas alla motosega, taglio i rami, li guardo cadere in basso e penso che almeno in qualcosa sono bravo, davvero. Sto facendo il mio lavoro, lo sto facendo bene.

Gli alberi non mi giudicano. Sento che c’è qualcosa di giusto in quello che faccio.

Vorrei sentirmi sempre così.

Non so perché ogni tanto arriva quel vuoto. Forse è perché mentre sono là in alto so che la terra non può spalancarsi e inghiottirmi, è un pensiero stupido lo so ma non sono bravo a trovare le risposte e continuo a svegliarmi la notte e a sentire che c’è qualcosa di terribile che si avvicina e che prima o poi mi prenderà.

Mi danno delle medicine, per stare meglio. Mi fanno venire sonno, se ne sono accorti anche a lavoro che quando le prendo poi mi arrampico più lentamente. Dicono che dovrei rimanere a terra, ma io dico cosa mi danno le medicine a fare se poi non posso fare quello che mi fa stare meglio? Ma mia moglie insiste tanto per farmele prendere, dice che posso sempre lavorare in ufficio e io la amo troppo e così certi giorni li passo seduto, alla scrivania, faccio cose che non capisco e poi guardo fuori gli alberi, così alti.

Voglio smetterla di avere i brividi, smetterla di sentirmi in colpa perché non voglio e non so spiegare che se anche tutto va bene io mi sento male. Ma così è peggio, muoio solo più lentamente.

Per questo quando un giorno mi lasciano salire e il tronco si apre io dico va bene così, non vi preoccupate, non piangete. Ora sarò davvero con gli alberi. Penso a mia moglie e ai miei figli, solo un attimo, spero che trovino le mie scuse sulla corteccia perché mi spiace andarmene così ma poi all’improvviso sono libero e non importa, non importa più niente.

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