Già in un’altra occasione ho parlato di Flux, un canale televisivo di sola musica che nei primi anni 2000, al contrario di Mtv, passava tutta roba strana, fuori dagli schemi, il tutto in una programmazione caotica che non dava punti di riferimento. Non ricordo se quello fosse il primo passo verso qualcosa di più concreto, quello che invece mi è rimasto impresso è stato il mio primo approccio con quel canale: un corto cinematografico con una musica ossessiva e inquietante ad accompagnarlo, l’evoluzione in diretta di una misteriosa creatura all’interno di una vasca che alla fine emerge, in un crescendo di synth e frequenze basse, in tutta la sua orrorifica magnificenza. Ovviamente avrete capito che la musica d’accompagnamento era degli ospiti musicali della settimana, ovvero gli Ufomammut.
Si possono condensare ventitré anni di storia in un solo articolo? Riassumere l’importanza della band di Tortona per la musica psichedelica lenta e massiccia? Probabilmente no, e forse non è neanche il modo migliore per parlare della creatura di Poia (chitarra ed effetti), Urlo (basso, voce, effetti e synth) e Vita (batteria), nata nel 1999 ed evolutasi tentacolarmente pescando influenze dal doom, dallo stoner, dal rock psichedelico in senso più ampio e da qualunque altra cosa che passasse loro per il cervello. Il loro primo album è del 2000, Godlike snake (Beard of stars records), una dimostrazione d’intenti di libertà creativa che si compone di riff mitraglianti, synth annichilenti e improvvisi spazi atmosferici in cui riprendersi dagli scossoni o perdersi definitivamente, e quella voglia di sperimentare non li ha abbandonati nel corso degli anni e dei dischi, ben sette fra il 2004 e il 2017. La loro storia non può però essere distaccata dalle altre creature che accompagnano e completano il progetto Ufomammut, ovvero il Malleus Rock Art Lab e l’etichetta Supernatural Cat: la prima, formata da Poia e Urlo insieme al visual artist Lu, da anni si occupa di creare le locandine più belle che potete vedere in circolazione (io ne ho in casa una di un concerto dei Mudhoney al compianto Rainbow di Milano) ovunque nel mondo e, lateralmente, dei visual che accompagnano le esibizioni live degli Ufomammut, la seconda è dal 2005 la casa in cui un sacco di sperimentazione sonora è stata possibile, dove sono stati partoriti i dischi di band come Morkobot e Lento e dove tuttora pubblicano gli OvO, uno dei gruppi più indecifrabili del panorama musicale italiano e che il mondo intero ci invidia.
Fra locandine, visual, riff, dischi prodotti, contratti importantissimi come quello con la Neurot Recordings (etichetta fondata dai membri dei Neurosis che dal 2012 pubblica sul mercato internazionale i loro dischi) gli Ufomammut vagano per l’aere musicale, spaziano dal concept album Eve (2010, cinque tracce che, come un unico fiume sonoro, veicolano la loro visione della prima donna della storia) al successivo Oro del 2012, suddiviso in due dischi (Oro: Opus Primum e Oro: Opus Alter) ma concepito come un’unica traccia riflettente la suggestione del processo alchemico… Quanto altro si potrebbe dire della loro musica? La cosa migliore che possiamo dire è che non ci ha abbandonati, nonostante avvisaglie preoccupanti all’inizio del 2020, poco dopo aver festeggiato i vent’anni di carriera con la raccolta XX: una pausa a tempo indefinito, una pandemia subito dopo, la fuoriuscita dal progetto del batterista Vita e poi, a far tirare un respiro di sollievo, la ripresa dell’attività. Rieccoli, nel 2022, con un album che forse non poteva che chiamarsi Fenice, con Levre dietro le pelli (già fonico, tecnico di palco e addetto al merchandise della band) e un tour europeo appena concluso alle spalle: quando torneranno sui palchi italiani non perdeteveli, ne uscirete storditi ma avendo visto qualcosa di cui ignoravate l’esistenza.
Ho titubato un sacco sulla canzone a cui ispirarmi: Deityrant mi tirava per la manica con la sua carica trascinante, Stigma flirtava con le mie orecchie con la sua lenta e ipnotica ascesa. Alla fine ho deciso di barare, traendo una storia dal brano The overload che non è parto solo del trio piemontese, bensì l’unione delle forze con i già citati Lento, compagni di etichetta e collaboratori di lungo corso (il chitarrista Lorenzo Stecconi ha prodotto alcuni dei loro dischi, oltre che per altre band nazionali e internazionali): il brano è tratto dal disco Supernaturals: Record One del 2007, in cui le due band mischiano le loro suggestioni musicali in un brodo primordiale che nella traccia in questione assume contorni da esperienza mistica, un qualcosa che ho cercato di ricreare ricordandomi anche di ciò che Aldous Huxley affermava ne Le porte della percezione, cioè che il cervello è un organo occlusivo. Potete leggere il delirio che ne è conseguito subito dopo la canzone che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Scarica il numero Zero della fanzine di Tremila Battute a questo link!
Un organo occlusivo
La funzione del cervello e del sistema nervoso è di proteggerci conto il pericolo di essere sopraffatti e confusi da questa massa di conoscenza in gran parte inutile e irrilevante, cacciando via la maggior parte di ciò che altrimenti percepiremmo o ricorderemmo in ogni momento, e lasciando solo quella piccolissima e particolare selezione che ha probabilità di essere utile in pratica.
Charlie Dunbar Broad
La paura è una fase che diventa presto parte di un insieme. Mancano le parole per descrivere ciò che prova, illuminazione è quella che avrebbe usato ma esclude il buio, parzializza. La necessità di dare una spiegazione all’esperienza dura comunque solo pochi istanti, annichilita dal mare di informazioni che lo bombarda.
All’improvviso capisce le chiome degli alberi, assorbe il vento che le fa oscillare. Assapora il volo degli uccelli, striscia nei meandri del profumo di un bocciolo di rosa: conosce ogni sensazione in maniera assoluta e sinestetica, ciò che una volta gli appariva caos è ora partecipazione. Non esistono barriere, può ascoltare i meandri del piccante e toccare un pensiero con la punta delle dita.
Ne vuole ancora. Non potrebbe fermarsi, neanche volendo.
Nomi turbinano nella sua mente, si fissano per un poco e poi vengono sovrastati, si accumulano in pire fiammeggianti di immagini in movimento, cascate poderose di istanti unici e ripetibili. Tutto è suo e non può trattenere niente, una scintilla d’istinto possessivo adombra l’esperienza e gli ricorda per un momento che è parziale, un elemento scisso che cerca la completezza. Un elemento scisso che non sa gestire la completezza.
La pressione è un rumore che nasconde i dettagli. Nulla cambia davvero, ma ora non è più corrente ma ciò che ne è trascinato, tutto si sussegue a un ritmo troppo veloce, vorticoso. Si è davvero immensità quando ci si accorge di non saperla reggere? Non ha occhi da chiudere, orecchie da serrare, mani da ritrarre; tutti gli odori lo assalgono al punto che vorrebbe urlare, in una qualsiasi delle lingue che gli affollano la mente, ma nella confusione non sa trovare la sua bocca. Nel mare in cui si perde dimentica la parola io, diventa un contenitore vuoto con un difetto congenito: avere un limite.
L’uomo seduto davanti alla scrivania ha la palpebre socchiuse, al loro interno i bulbi oculari roteano freneticamente in ogni direzione. Dalla bocca cola un filo di bava, si mischia al sangue che esce copioso dal naso. Sulla testa ha una rete di cavi che formano una specie di casco, sono applicati tramite elettrodi lungo tutta la circonferenza del suo cranio.
Una donna lo osserva attentamente, appoggiata alla scrivania. Di fianco a lei uno schermo è invaso da una pioggia frenetica di lettere e numeri. Avvicina il volto a quello dell’uomo seduto, annusa i suoi capelli. Si ritrae con una smorfia di disgusto.
Con un tocco sullo schermo la donna interrompe il flusso. Distacca lentamente gli elettrodi, ripone i cavi in una valigetta. Tira fuori dalla tasca un cellulare, immortala l’uomo i cui bulbi oculari continuano a roteare. Invia la foto, ripone il cellulare, prende la valigetta e si avvicina alla porta. Osserva dallo spioncino il corridoio all’esterno
Prima di uscire dalla stanza d’albergo, applica sulla maniglia il cartello Non disturbare.
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2 pensieri riguardo “Racconto in musica 115: Un organo occlusivo (Ufomammut – The overload)”