Ho un ricordo sfocato ma rimasto impresso nella mia mente, quello di un concerto nella ridente cittadina di Castano Primo nei primi anni 2000. Ero all’ennesimo concerto dei P.A.Y. (di cui potete leggere qui) e assieme a loro suonava un gruppo di cui avevo già sentito qualcosa in radio (e con radio intendo Radio Lupo Solitario, emittente del varesotto che in quegli anni mi ha formato musicalmente) e che aveva collaborato, nella persona di tal Superlove, all’ultimo disco della punk band di Samarate. Quella band la incrociai anni dopo con un video su Flux, canale sperimentale di cui non ho mai capito la genesi ma che, santiddio, riusciva a far passare gli Ufomammut in televisione e questo mi basta per ringraziare chiunque lo abbia creato: il video era questo, ne rimasi folgorato e mi ripromisi di recuperare quanto prima qualcosa di loro… Ma non lo feci. Dovettero passare altri anni prima che l’ultimo incrocio del caso me li riportasse davanti: A night like this 2017, uno dei più bei festival italiani, ancora i Julie’s Haircut sul palco e un viaggio sonoro memorabile con tanto di video proiettai per ogni canzone. Ci ho messo un sacco, ma da allora non me li perdo ogni volta che posso vederli.
Formatisi nel 1994 in provincia di Modena grazie all’incontro fra Nicola Caleffi (chitarra, tastiere, basso, voce) e Luca Giovanardi (inizialmente alla batteria, poi polistrumentista anche lui), i Julie’s Haircut debuttano cinque anni dopo con Fever in the funk house, uscito per l’etichetta Gamma Pop Records con cui tre anni dopo porteranno alla luce Stars are never looked so bright. Caratterizzati da un suono che mischia rock’n’roll, garage, noise e anche un po’ di pop (non so perché ma a me è sempre venuto da definirli “i Sonic Youth italiani”, il che è ancora più strano se si conta che ho palesato la mia ignoranza sulla band statunitense giusto settimana scorsa), il gruppo emiliano in questo periodo è ancora ancorato a una forma canzone abbastanza standard, una situazione destinata a cambiare presto. Nel 2003 firmano per la Homesleep Records (purtroppo non più fra noi), pubblicando nello stesso anno l’album Adult situations che è anche il primo a ottenere una distribuzione internazionale: la collaborazione con l’etichetta porta all’uscita nel 2006 anche di After dark, my sweet, il disco in cui è presente Satan eats seitan e che mi fa drizzare le orecchie per la seconda volta, perché qui si espande l’interesse della band per composizioni alternative alla forma canzone più classica, scelta che porterà con gli anni verso trip psichedelici sempre più appaganti. Nel 2009 è l’etichetta pugliese A Silent Place a far uscire il loro quinto album, Our secret ceremony, disco per la cui promozione partono in tour con i Mariposa di Enrico Gabrielli, il “Concerto grosso” durante il quale i fortunati partecipanti (non sono stato fra questi, faccina triste) potevano accaparrarsi un cd-r contenente la cover di It’s about the time di Miles Davis registrata da entrambe le band, un brano inedito dei Mariposa e una reinterpretazione del tema di Escape from New York di John Carpenter ad opera dei JH: se ce l’avete tenetevelo stretto. Il periodo successivo è fatto di progetti paralleli di alto livello, come la rilettura dal vivo del disco Transformer di Lou Reed nel 2010, commissionata loro dal comune di Carpi (alla cui giunta di allora va tutta la mia stima, soprattutto se penso che alla rassegna musicale di Vigevano di quest’anno c’è Umberto Tozzi) ed eseguita con diversi ospiti alla voce fra cui Violante Placido, Giovanni Gulino dei Marta sui tubi e Angela Baraldi, e un omaggio ai Joy Division in quel di Reggio Emilia, con il membro originale della band Peter Hook al basso. Dopo un singolo in cui rileggono The tarot dalla colonna sonora de La montagna sacra di Alejandro Jodorowski e O Venezia Venaga Venusia dal Casanova di Federico Fellini (opera di Nino Rota), dimostrando ancora interessi cinematografici da applausi, i Julie’s Haircut anticipano con un Ep (The wildlife variations, 2012) e uno split con i Cut (Downtown love tragedies, 2013) il loro passaggio alla Woodworm, etichetta che nel 2013 licenzia, in collaborazione con Santeria, il sesto album della band Ashram equinox, un disco completamente strumentale che porta ancora più in là il discorso sperimentale della band.
Negli anni successivi i Julie’s Haircut firmano per l’etichetta inglese Rocket Recordings per cui pubblicano altri due splendidi dischi, Invocation and ritual dance of my demon twin nel 2017 e In the silence electric nel 2019, inframmezzati dall’uscita (sempre nel 2019) di Music from The last command, album realizzato su invito del Museo nazionale del cinema in cui sonorizzano la versione restaurata del film muto di Josef Von Sternberg del 1928. Nella band si sono succeduti svariati membri, ma dal 2010 oltre ai due fondatori sono presenti in pianta stabile Andrea Scarfone (basso, chitarra e synth, presente dal 2005) Andrea Rovacchi (tastiere e percussioni, arrivato nel 2006) e Ulisse Tramalloni (batteria): ha terminato invece da poco la sua collaborazione con la band, iniziata nel 2015, la sassofonista Laura Agnusdei, alle cui note devo molti trip mentali durante i live, per cui a chiunque graviti nei dintorni di Roma consiglio di non perdersi l’esibizione congiunta del primo agosto a Villa Ada, che di concerti ne abbiamo bisogno e quelli spettacolari a perderli si fa peccato.
Romancing the gun è un brano presente nella sonorizzazione di The last command, film che ingenuamente ammetto di non conoscere e di cui, va da sé, ignoro completamente la trama (sì, avrei potuto informarmi, ma nella società della performance ammettere i propri difetti è pur sempre rivoluzionario, nel precedente articolo ho pure fatto un errore con l’asterisco): il film che mi sono fatto io ascoltandola ha invece portato al racconto che troverete in basso, una storia d’amore in disfacimento che porta la coppia protagonista ad organizzare un finale a sorpresa. Potete leggerlo subito dopo il brano che l’ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Fate il vostro gioco
Lei è sensualità da vestito rosso e scarpe con tacco vertiginoso, polpacci slanciati in alto e culo armonioso. Spacco sulla schiena, pelle ambrata che profuma di rosa, capelli mossi a occultare quel tanto che basta da invogliare lo scostamento della chioma.
Lui è eleganza e tradizione, giacca camicia e cravatta, sì, ma allentata, particolare trasandato ad evidenziare la trasgressione. Rasato di fresco, dopobarba dall’aroma legnoso, non un taglio sulla mascella squadrata che ha levigato con attenzione.
Preparativi laboriosi, accanimento terapeutico dell’ego dopo mesi di tv, divano e pigiami orrendi. Non c’è altro da vedere che le macerie della routine, e allora un giro di giostra per ricordarsi di esser belli, di esser stati belli, di esser stati belli insieme.
Tavola pronta con candele e bicchieri affusolati, piatti in porcellana e posate argentate. Servizio buono comprato per l’occasione, quello d’acciaio riposa in un cassetto ché l’inox non fa bene all’eros, men che meno all’amore. Spumante in fresco, bollicine a ispirare brio e niente acqua ad annegare le occhiate maliziose, i sorrisi velati.
Il liquido si posa in due calici pronti a spiccare il volo, destinati a incontrarsi a mezz’aria in un tintinnio di complicità. Lei lascia tracce di rossetto meno nette di quanto vorrebbe sul vetro cristallino, lui sente tracce di un bruciore alle viscere che gli è amico da quando esagera col vino. Dettagli trascurabili, esteriori e interiori, solo finché si riesce ad ignorare che siano segnali.
C’è una musica lieve nell’aria, percussioni accennate, note malinconiche di fiati: armonia adatta alla danza con corpi stretti, languidamente abbracciati. Movimenti studiati, aliti che si sfiorano e piccoli baci rubati, a chissà chi poi, forse agli amanti che una volta sono stati e che regalerebbero quei simboli di una passione sopita che vorrebbe ardere ancora. Volteggi sinuosi, sempre più lenti, il distacco pare naturale quanto il trovarsi seduti con le mani intrecciate, occhi negli occhi, anime avvinghiate.
Che è finita lo sanno, non c’è più niente da fare, ma come lasciarsi andare via? Meglio un gesto teatrale che lo sfinimento delle parole, il logorio dei silenzi che svuotano di senso le orecchie, i gesti ripetuti che non saranno mai all’altezza dell’ideale che non riescono a rappresentare. Sulla tavola un coperchio lucente li riflette come sono ora, distorti elementi di un romanticismo che invita ad un colpo di scena.
Una cena speciale per un’occasione da ricordare, quella degli ultimi sguardi prima di iniziare a cancellarsi, l’una dall’altro e anche dal mondo intero. S’alza il coperchio ed ecco la portata principale, nera, lucida e latrice di una promessa definitiva, nel senso di mortale, ma pur sempre una promessa e ci si può accontentare.
Porta per primo lui la pistola alla tempia, iniziando il conteggio ritmato dei Clic che porteranno all’esplosione di ciò che una volta chiamavano amore, prima che la paura di sfiorire diventasse più forte della paura di morire.
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