Non nella Enne non nella A ma nella Esse di Mariana Branca descritto come fosse un’esperienza sonora

Scrivendo da un bel po’ di tempo di musica mi capita spesso di chiedermi: ma la gente ci capirà qualcosa in quello che scrivo? Perché è facile, per me che ascolto un disco, provare qualcosa, che sia un’emozione o un piacere più dovuto alla costruzione del momento musicale, ma poi trovare le parole giuste per trasmetterlo è un gran casino. Non sono un grande lettore di critica musicale (anche se ci sono eccezioni altamente meritevoli), per cui ignoro od ho solamente un’infarinatura di come abbiano risolto il problema altri prima di me: la mia soluzione è affidarmi perlopiù all’istinto, ma chissà se capite cosa intendo quando parlo di “ventate elettroniche che sgorgano qua e là e improvvise sferzate percussive a buttarla in caciara ma senza mai esagerare“, o cosa vi appare alle orecchie quando descrivo cosa sta “fra voci modificate elettronicamente e suoni che, come in una megalopoli futuristica, mischiano freddi ritmi sintetici a pulsioni esotiche“. Ho persino scritto una recensione come se fosse la sintesi di una stagione calcistica (mutuando il titolo dell’articolo, come in questo caso, dal capitolo L’assassinio di John Fitzgerald Kennedy considerato come una gara automobilistica in discesa in La mostra delle atrocità di James Graham Ballard)! Questo aiuta magari narrativamente, ma poi a chi legge arriva l’idea del suono in qualche maniera?

Questa domanda mi si è riaffacciata in testa mentre pensavo a come iniziare a parlare di Non nella Enne non nella A ma nella Esse di Mariana Branca, autrice che ho scoperto tramite lo splendido racconto Angelina no pubblicato sul numero 4 della rivista Quaerere. Perché di musica parla il romanzo d’esordio dell’autrice, scritto in nove mesi fra il 2016 e il 2017 e arrivato alla pubblicazione con Wojtek Edizioni, anche tramite il Premio Calvino di cui è stato finalista, solo nel 2022. Parla di musica e parla con la musica, con il ritmo fisso agli ottanta bpm delle canzoni dell’enfant prodige della scena elettronica Nicolas Jaar, di cui il romanzo è una sorta di biografia. Lo è nei termini in cui racconta il suo percorso artistico e di vita, dall’adolescenza passata a manipolare suoni e correre in bicicletta ai concerti in enormi auditorium in giro per il globo passando per il college e le esperienze nella scena dei club newyorkesi, ma i contorni degli eventi sono confusi e l’autrice sembra disinteressarsi della precisione didascalica se non quando deve stilare elenchi di walkman o la componentistica presente nella prima versione del programma Reason, perché a Branca interessa l’emozione e non la precisione.

Io di Nicolas Jaar non avevo mai sentito niente, e mi sono approcciato alla sua musica solo dopo aver finito il libro. Il suo brano che più assocerei all’esperienza provata durante la lettura, a posteriori, è Swim, liquidità sonora che si trasforma velocemente in esperienza ritmica da dancefloor in continua mutazione che sfocia in territori tribalistico-spirituali nei vagiti finali dei suoi tredici minuti di durata, ma la canzone (contenuta nel disco Nymphs) è stata pubblicata nella seconda metà del 2016, di poco antecedente l’inizio della stesura del libro. Può aver Branca mutuato la sua idea da quelle note? Non lo so, e forse la stesura è stata influenzata da un medley di composizioni dell’allora ventiseienne Jaar, ma in quella traccia c’è tanto dell’esperienza ipnotica e trascinante che le parole dell’autrice creano, di quell’atmosfera vagamente elitaria ma non escludente in cui il musicista sguazza con il suo compagno e biografo Andres F. Rodriguez, la voce narrante che ci accompagna lungo il percorso.

Così, esattamente così erano i suoi occhi, i suoi occhi blu pieni di blueprints, di immagini future, i suoi occhi cianografici come una carta lucida sensibilizzata con ferrocianuro di potassio e citrato di ferro ammoniacale, sulla quale, appena a contatto con l’acqua, apparivano tratti bianchi sul fondo blu scuro. Di notte, ancora più di notte che di giorno, ne erano pieni, di immagini future, e faceva fatica a mettere a fuoco per leggere, allora lui guidava e cantava Leonard Cohen e io leggevo tutte quelle informazioni sul Marcy Hotel e fu così che conoscemmo Nino.

Non nelle Enne non nella A ma nella Esse, pag. 47

Ma chi è Rodriguez? Amico, fratello, gemello, figura enigmatica che fluttua nella vita di Jaar in maniera simbiotica, partecipe di tutte le sue esperienze eppure inesistente (oppure no? Una ricerca su Google non mi restituisce niente sulla sua vita e la sua presenza nel creato tangibile). Del suo entusiasmo si permea tutta la narrazione, spandendo sugli eventi la luce della predestinazione di modo che tutta la vicenda suoni estatica, gioiosa, la colonna sonora di un mondo in cui nulla di male può accadere e tutt’al più può sopraggiungere della malinconia, caratteristica unica di Jaar e non sua, a velare lievemente l’atmosfera solare che avvolge i personaggi anche quando piove, come fuori dalla centrale elettrica quando un’acquazzone fa da punto di passaggio per passare oltre.

In Non nella Enne non nella A ma nella Esse anche gli ambienti creano un suono, un’atmosfera. La centrale elettrica in cui Jaar e Rodriguez si avventurano nei primi esperimenti sonori, la casa del musicista in cui il signor Jaar e Evelyne (Evelyne Meynard, la madre designer) ballano sotto lo sguardo incantato dei due, l’università che frequentano come meteore distanti dalla massa e ad essa capaci di adeguarsi e il Marcy Hotel dove entrano in contatto con la scena elettronica newyorkese, luoghi che hanno una loro frequenza distinta in cui le esperienze sono vibrazioni, suoni onirici e dilatati in cui lasciar andare pulsioni e amori giovanili che si mischiano con le luci di dancefloor in cui un sfogarsi e poi sdraiarsi estaticamente, avvolti dal suono. La vita di Jaar scorre inarrestabile come la corrente di un fiume, non impetuosa ma docile e decisa, incapace di trovare ostacoli, come una melodia che ti si ficca in testa e non esce più e che non maledici per la sua pervicacia, ma benedici per il modo in cui accompagna i momenti migliori, in cui getta luce nuova anche su quello che fino a poco prima creava solo ombre.

Ebbe, come tema d’esame, Israele e la Palestina, forse perché la famiglia Jaar arrivò a NYC dalla Palestina più o meno intorno al 1920, e il suo primo istinto fu quello di guardare i segnali di stop nella zona ovest. I palestinesi e gli israeliani avevano lo stesso segnale di stop, una mano con le dita inspiegabilmente incollate tra loro, una sagoma in cui non sono distinguibili le dita, su un fondo rosso ottagonale. L’immagine lo intrigava, sembrava tanto futuristica quanto antica, voleva dire che Israeliani e Palestinesi avevano la stessa idea di mano, senza dita, lo stesso modo di dire fermati senza usare le parole. Per quanto si volessero separare, distinguere l’uno dall’altro, i due popoli usavano lo stesso identico disegno-segno-segnale per dire che ti dovevi fermare. Che oltre non potevi andare. Così aveva fatto cinque adesivi della misura di un segnale di stop americano e mi disse: appiccichiamoli a Providence. Ne attaccammo solo uno, gli altri decidemmo di applicarli a NYC, da qualche parte intorno la Occupy Wall Street.

Non nella Enne non nella A ma nella Esse, pag. 65

Anche l’amicizia è un suono, note limpide e solari come il rapporto fra Jaar e Rodriguez, una simbiosi che crea un modello di mascolinità ideale e auspicabile, totalizzante ma non esclusivo, e poi il rapporto fra loro e il mondo, uno scrigno pieno di opportunità in cui nessuna ombra sembra riuscire a entrare, perché Il ritmo vitale della scrittura di Branca riassume e crea un’esistenza in cui il conflitto è limitato al minimo indispensabile senza che se ne avverta la mancanza. Il duo e gli amici che ruotano loro intorno, dal Nino amante di Leonard Cohen e di Jean-Luc Godard al Dave Harrington che di Jaar è sodale nei Darkside, attraversano ambienti e situazioni permeati di gioia e curiosità, alla ricerca del bello e dal bello trasfigurati, un bello che si manifesta nelle numerosissime suggestioni che continuano a vagare nella narrazione, dalle foto di Gordon Matta-Clarck all’arte a tutto tondo di Man Ray fino al Nastro che cambia tutto, la musica di Ricardo Villalobos che… ma facciamolo dire a Branca

Quella volta, invece, che il Nastro si era inceppato, ingarbugliato, che gloglottava un suono extraterrestre, un po’ sublime, quella volta nel suo sguardo di fondale marino avveniva una desquamazione, i suoi occhi si stavano spiccicando di dosso la cornea, si spogliavano per una specie di muta esistenziale, trasformandosi in due diamanti arrotondati, centinaia di schegge di flex nel bianco albuminoso degli occhi. Erano due sfere di polveri metalliche in procinto di schizzare, e dentro un’espressione fumosa, vacua, perduta, lontanissima; al suono alieno solidali, penetrati in esso, da esso penetrati. Animisti, animali.

L’ho guardato e guardandolo sono sparito, entrato in un tunnel fatto di LSD, come fossi scivolato nell’ipnosi; il suono ingarbugliato del Nastro in sottofondo, a ripetizione, e più lo guardavo e più capivo, lo sapevo. Era come una volta ascoltando Bonga, la canzone Mona Ki Ngi Xica: gli era preso un colpo, una specie di collasso. Si era seduto, buttato, sfinito, e alla fine della canzone aveva detto che si sentiva amato. Mona Ki Ngi Xica, Il Bambino Che Mi Lascio Dietro, e io piangevo, in segreto zitto muto.

Non nella Enne non nella A ma nella Esse, pg. 18/19

Non nella Enne non nella A ma nella Esse è narrazione musicale e musica incarnatasi (incartatasi?) in testo, contiene la capacità di descrivere con tutte le parole che servono melodie emozioni eventi e situazioni e trasformarle in suono. Quanto di questo è realtà? Molto sembra suggerire l’elenco di interviste a cui Branca ha attinto per creare la sua opera, poco sembra affermare la visionarietà emotiva con cui Rodriguez vive, e noi viviamo di conseguenza, la parabola ascendente di Jaar nell’Olimpo della musica, un Olimpo forse minore che mica stiamo parlando dei Rolling Stones ma che qui sembra l’apoteosi dell’esperienza vitale tutta. Ha importanza che tutto quanto narrato sia reale? No, e forse ne dovrebbe avere il fatto che io sia riuscito o meno a trasmettervi l’unicità dell’esperienza multisensoriale che dona la lettura di questo libro, a descrivere la musica delle parole anche solo in maniera simile a quanto riesce così facile in maniera tutt’altro che semplice a Mariana Branca: nel timore di non riuscirci ve lo dico chiaramente, questo è il miglior libro che mi sia capitato in mano da qualche anno a questa parte.

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Racconto in musica 156: Cose adorabili da fare assolutamente in (The André – Specchio nero)

Da un paio d’anni a questa parte quando scrivo qualcosa di più lungo di tremila battute, detto che le volte che scrivo qualcosa di più lungo di tremila battute sono drammaticamente meno di quelle in cui scrivo molto meno di tremila battute, mi piace spesso perdermi in una esagerata prolissità. Lo avete per caso notato? Fare una frase che ci vuole un decennio a leggerla per descrivere una cosa minuscola, ma con la pretesa che in quel giro assurdo si riesca a cogliere un lato di quella cosa minuscola che era sfuggito, che è proprio di quella cosa lì e di nessun’altra cosa, o forse solo per farmi onanisticamente bello, che poi spesso quelle cose lì non le legge nessuno a parte me. L’ambizione è sempre raggiungere la chirurgica precisione di un certo David Foster Wallace, il che non significa che io scriva come DFW, anzi, non significa nemmeno che io abbia CAPITO DFW: ma ci provo.

Stacco: ora parliamo di Byung-chul Han. Oh, non vedevate l’ora in una tranquilla domenica di farvi ammorbare da me con le teorie sulla società contemporanea di un filosofo sudcoreano vero? Sorpresa: non lo farò. Volevo però concentrarmi su un’intervista inserita nel volume Perché oggi non è possibile una rivoluzione, edito da Nottetempo, perché contiene una risposta che contestualizza bene la contraddizione in cui tutti viviamo: alla domanda su quale fosse il suo personale approccio riguardo alla società moderna iperconnessa (si parlava in quel punto di un paragone fra Facebook e il feudalesimo, giusto per dare un po’ di contesto), Han risponde “Come tutti, mi agito quando non sono connesso, ovvio. Anch’io sono una vittima. Senza questa comunicazione digitale non posso svolgere il mio lavoro di professore, autore e pubblicista. Ognuno di noi è parte integrante e ingranaggio del sistema”. Si può riconoscere il problema, insomma, ma riuscire a combatterlo è un altro paio di maniche, ed è già buona se ci rendiamo conto di essere parte del meccanismo.

La specificità di DFW e l’ammissione di “colpevolezza di BCH (evvai di acronimi!) mi sono venute in mente ascoltando a ripetizione continua il disco Mentre non riesco a dormire di The André, perché come il primo riesce a fare giri lunghissimi di frasi che alla fine riescono a cogliere un frammento di verità (o di una verità, almeno) che era sfuggito, e come il secondo non si mette su un piedistallo ma parla in prima persona assumendosi la responsabilità di essere parte del problema che condanna. Ma chi è The André?

Si chiama Alberto in realtà, e una veloce ricerca su internient non mi restituisce il cognome, o meglio forse me lo restituirebbe aprendo i link di siti acchiappaclic a cui non voglio dare una visualizzazione, e in fondo che importa? Proprio l’anonimato è stata la cifra della prima parte della sua carriera, nata online con il moniker Gab Loter attraverso un canale YouTube in cui pubblica cover di canzoni trap… Ma con la voce di Fabrizio De André. Il senso di straniamento e meraviglia che ha colto chi sente i testi di Ghali e Sfera Ebbasta recitati con enfasi e con il solo accompagnamento di una chitarra acustica dev’essere stato lo stesso mio, che l’ho scoperto in colpevolissimo ritardo solo da pochi mesi, e non so quanto il giovane bergamasco che stava dietro al progetto si aspettasse il successo ottenuto con questi video: sta di fatto che, pur mantenendo l’anonimato grazie ad occhiali da sole, felpa con cappuccio e luci sparate da dietro sul palco, Gab Loter diventa The André e comincia a esibirsi anche dal vivo, pure a X Factor, iniziando lentamente anche a variare il tiro “omaggiando” a modo suo l’indie italiano e a far capire che sì, belle le cover, ma dietro c’è una sensibilità artistica molto più ampia di così.

L’ho fatta molto veloce, perché in fondo quello che mi interessa è parlare di musica. Che del talento e non solo la capacità di strappare un sorriso ci fossero lo facevano già intuire le “cover rivisitate”, perché recitare enfaticamente Habibi di Ghali con sotto una chitarra acustica è un colpo di genio, ma prendere il testo di Vendetta vera di Trucebaldazzi e trasformarlo in un testo che forse anche il vero De André avrebbe potuto cantare significa dimostrare doti di scrittura ottime. Nel suo primo disco del 2019, Themagogia – Tradurre, tradire, trappare, The André mischia così le cover, le cover “allargate” e un timido accenno di poetica personale, nei brani Una canzone indie e Originale, in cui parla di sé stesso ma senza il tono tronfio dei trapper che percula, anzi dimesso e quasi nascosto in un angolo da cui dice “sono qui, sono una rotella dell’ingranaggio ma di quello star system che si crea attorno a me non godo”. L’album esce per la Freak & Chic di Immanuel Casto, una scelta che sulle prime mi è parsa incomprensibile, ma Casto è sì il cantante di canzoni assurde e l’autore del gioco da tavolo Squillo ma anche il presidente della sezione italiana del Mensa, l’associazione che riunisce le persone che hanno il QI più alto al mondo, e sentirlo parlare al BIG – Brief in Genova qualche settimana fa mi ha chiarito come mai l’etichetta per cui esce Magari muori di Romina Falconi (che ha contribuito anche ad alcuni dei testi di The André, tanto per dire che la demenzialità a volte si può coniugare con l’intelligenza, in fondo abbiamo avuto gli Skiantos qui in Italia) poteva essere la stessa di un progetto sfaccettato come quello che stava emergendo dal semplice gioco con cui era iniziato.

La vena “matura” di The André, che nel frattempo entra in contatto con Dori Ghezzi e pubblica l’autobiografia Io è un altro, si manifesta nel suo primo Ep di inediti Evoluzione (2021) e, nello stesso anno, nello spettacolo teatrale in cui omaggia Faber portando a nuova vita La buona novella, uno degli album più iconici del cantautore genovese. In maniera completamente diversa, eppure in qualche modo speculare, The André e De André dimostrano di avere parecchi punti in comune quando finalmente, nel 2023, esce Mentre non riesco a dormire, in cui Alberto parla di sé stesso, della società che ha attorno e del rapporto problematico con questa, interrogandosi sul politically correct in Signora mia facendo volteggi linguistici che non sbeffeggiano solo i Pio e Amedeo o gli Indro Montanelli ma problematizzano anche chi la bandiera del politically correct la agita senza aver capito bene cosa ci sta dietro, parlando dell’illusione del successo in maniera simil Caparezza in Le cose che voglio (“Nel Club 27 ci entro vicino ai 40” è un modo magistrale per manifestare l’arte di arrivare in ritardo alla fama), ritorcendosi sul proprio ego nella clamorosa Piuttosto che affermando “però io che sono scemo e che pure me ne accorgo sono scemo non una, ma ben due volte”, ma anche buttandosi su toni più intimistici e meno chiaramente decifrabili in brani come Pesce e Sale, dove fra ricordi di un’amore adolescenziale e apparenti elaborazioni del lutto Alberto mostra quanto sa spaziare a 360 gradi dentro e attorno a sé, uscendo musicalmente dal cantautorato voce e chitarra acustica e adottando gli stilemi dell’indie e (più vagamente) del rap dandogli dignità e spessore (nota a margine: mix e mastering del disco sono appannaggio di Andrea “Sollo” Sologni, che qui a Tremila Battute conosciamo come gran professionista ma soprattutto come bassista dei Gazebo Penguins). Mentre non riesco a dormire contiene i testi migliori che io abbia sentito negli ultimi tempi, e porca di quella vacca (scusa vacca) quanto mi girano che ho scoperto del suo concerto all’Arci Bellezza di Milano tipo due giorni dopo la data: torna a suonare a Milano presto, mi raccomando.

Ero indeciso, mentre pensavo alla direzione da dare al racconto che avevo in mente, se associarlo al brano Bianconiglio o a Specchio nero, come poi ho fatto, perché la storia che volevo raccontare ben si associava a entrambi i testi. Partendo da un evento reale, semplice e banale, ovvero io e la mia compagna che in Giappone aspettiamo per dieci minuti che una commessa ci dia l’ombrello che stiamo comprando osservandola confezionarlo con cura che definire eccessiva è sminuente, ho prima ragionato sulla sindrome della performance che ci spinge a correre continuamente da una parte all’altra, che in Bianconiglio è resa alla perfezione dalla frase “sulla mia lista delle cose da fare c’è scritto che mi devo ricordare che devo fare una lista delle cose da fare”, poi sulla nostra ansia di produrre contenuti (che pure io in Giappone ho perso del bel tempo sui treni a fare contenuti per Instagram invece di, che so, guardare il panorama o leggere un libro), che è poi ciò che viene scandagliato senza facili soluzioni proprio nel brano che alla fine ho scelto. Solitamente vi dico di godervi il racconto ascoltando la canzone, ma il testo di The André va assaporato senza altre distrazioni e quindi vi consiglio di prendere la storia più in basso come una rielaborazione di quei temi e di ascoltare prima il brano: in ogni caso, buon ascolto e buona lettura.

(P.S. Alla fine il cognome l’ho trovato, per puro caso: è Ghezzi)

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Cose adorabili da fare assolutamente in

Guardi la commessa guardarti e sorridere prima di iniziare a ripiegare per la seconda volta dal lato sinistro la stoffa fra ogni singola bacchetta dell’ombrello che stai comprando e ti chiedi Come posso immortalare questa scena in maniera che non sembri che mi sto annoiando? Cosa posso imparare da questo momento, ti domandi, mentre il sangue nelle vene impazzisce e ti spinge ad alzare quel cazzo di telefono e filmare tutto questo, il negozio triste e dimesso e pure abbastanza vuoto all’interno di un centro commerciale non così anonimo (ma qui sì) dove hai trovato rifugio dall’acquazzone che con tua somma sorpresa si è abbattuto sulla città senza che tu l’avessi preventivato.

Avresti potuto essere fra profumi e sapori impossibili da far provare ma così interessanti da descrivere in quel mercato rionale caratteristico a quattro fermate della metropolitana da qui, o nell’armeria del periodo feudale del castello appena fuori città, sempre al coperto ma con della Cultura da promuovere, ma non hai controllato le previsioni del meteo. Avresti potuto essere anche solo in una di quelle sale giochi multipiano rumorose e vagamente psichedeliche piene di invasati dall’aria annoiata che contrastano in maniera netta con l’atmosfera generale, a fingere anche tu di divertirti per giustificarti nella mente e nel portafoglio un volo tutt’altro che conveniente e soggiorni in alberghi decisamente al di sopra del tuo standard economico attuale ma in linea con lo standard che vuoi trasmettere a chi ti segue da casa, in attesa di sapere come ti divertirai oggi.

E invece ti stai massacrando i testicoli. Ti stai ammazzando la vita di fronte a una commessa imbarazzata che ci ha messo due minuti a venderti un ombrello e ce ne sta impiegando dieci a confezionarlo, con un’indecisione talmente contrita che non ti riesce proprio di metterla in ulteriore imbarazzo riprendendola con la videocamera dello smartphone anche solo per dire al mondo La vita è anche questa, La lentezza è preziosa o un’altra frase efficace per descrivere un’emozione intensa da corollare con un’hashtag appropriato.

E ti chiedi se non potresti davvero godertelo, questo momento, goderti la noia, goderti una pausa dalla rappresentazione estetica di ciò che ti aspetti da questo viaggio costoso ed esotico e dall’aspettativa che speri e temi di generare nei tuoi follower, in ansia (o forse no) perché da due ore non trovi qualcosa di adorabile da condividere con loro.

Goderti la noia. Cazzo questa sì che ci sta come frase. Fai una foto, postala. Fatto.

Quando esci dal centro commerciale hai dieci follower in più, venti minuti di tempo utile per fare nuove esperienze già approvate da molteplici guide online in meno, un ombrello inutile e ingombrante in eccesso attaccato al polso perché nel frattempo, ma guarda un po’, è uscito di nuovo il sole.

Sono le tre del pomeriggio, non hai fame, ma quel mercato rionale caratteristico è a sole quattro fermate di metropolitana.

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Un po’ più in profondità nell’universo: Aves raras dei San Leo

Dopo l’ascolto di Aves raras è difficile non pensare che chi ha composto il disco ha un amore folle per la musica e per il cazzeggio in sala prove. Riesco a immaginarmi Marco “inserirefloppino” Migani (batteria, e mio mito personale per questo moniker estrapolato da Futurama) e Marco “m tabe” Tabellini (chitarra e varie ed eventuali) che prendono in mano i loro strumenti e partono per due ore minimo di spippolate sugli strumenti volte ad arrivare dove non si sa, proviamo a prendere quella linea lì e poi boh, dove cazzo siamo finiti? Non lo so, tu? Figo però eh? Il tutto giocando, sperimentando, allargando uno spettro sonoro che dal primo disco XXIV, anno di grazia 2015, si è espanso e ha portato il duo romagnolo dallo sperone roccioso su cui è abbarbicato il borgo da cui prendono il nome fin su nel cielo e poi ancora più su, nel cosmo infinito, a mischiare con l’elettronica i vagiti di un modo diverso di suonare la chitarra e la primordialità di una batteria sempre più technotribale.

Allo stesso tempo non riesco a immaginarmeli senza almeno una canna in mano in quelle due ore minimo, perché Aves raras (pubblicato dalla benemerita fucina di cose dedite all’esplorazione sonora chiamata Bronson Recordings) è anche un bel monumento alla fattanza in musica. Da che stanno su questa terra come entità fattasi duo musicale i San Leo non puntano all’accessibilità, e chi protende le orecchie all’ascolto di un loro disco sa che si troverà a dovergli concedere molto tempo, che aspettarsi di essere convinto dopo due minuti di un brano che ne dura quindici è pretendere un po’ troppo. Dilatano già di base, i due Marco, e qui non è che lo fanno ancora di più, anzi piazzano due brani su quattro al di sotto dei cinque minuti: in compenso lo fanno in maniera diversa, perché il loro suono continua ad espandersi come l’universo.

Il brano più lungo del lotto lo ficcano in apertura del disco, via il dente via il dolore, seguiteci ora o andate pure da un’altra parte. ARIES comincia subito fissando il ritmo, con le bacchette di inserirefloppino che si agitano veloci e la chitarra di m tabe che infila suonini in loop l’uno sull’altro: nessuno si fermerà più per un bel po’, al massimo c’è la dinamica che si smorza, l’atmosfera che si fa più o meno intensa, ventate elettroniche che sgorgano qua e là e improvvise sferzate percussive a buttarla in caciara ma senza mai esagerare, come in una continua onda che non punta all’ascesa, allo sfogo conclusivo, ma a bastarsi per quello che è. Funziona? Dipende dallo stato d’animo, forse anche dal vostro grado di alterazione psichica, perché Aves raras è pur sempre anche un monumento alla fattanza e comunica più alla parte inconscia che a quella conscia, arriva al petto più che alla mente, è tecnico ma in quel modo alla Godspeed You! Black Emperor e ARIES è l’apoteosi di questo concetto: il percorso è più o meno piacevole a seconda di quanto riuscite a entrare in sintonia con questo fluire nervoso che non cerca una risoluzione, tanto che quando arriva dopo un quarto d’ora una sana iniezione di distorsioni e volumi in crescita esponenziale capisci che il punto focale del discorso non è lì, anche se un po’ di casino in più le orecchie lo avrebbero assaporato ben volentieri. Ma aspetta un paio di minuti, giusto quelli dell’outro rarefatto, e te la diamo una bella bordata sonora.

J!OY di minuti ne dura solo tre e mezzo, parte a spron battuto come la precedente traccia e non si ferma più, ma qui non c’è un affastellarsi continuo di suoni storti che entrano in punta di piedi e un po’ battagliano, un po’ collaborano per il risultato finale: qui c’è uno sfogo distorto e riverberato che tronca il fiato e che, paradossalmente, aggiunge la voce al quadro generale, anch’essa confusa e gonfia di riverberi a diffondere il suo verbo da galassie distanti. È una pausa al contrario quella della seconda canzone, il riprendersi da un percorso iniziatico spaccandosi il collo con un headbanging forsennato, dura il giusto e lascia spazio di nuovo ai ritmi della marea stellare.

FUTURA 2000 torna alla rarefazione, ma sempre con quella percussività batteristica che ti lascia coi carboni ardenti sotto ai piedi, mai troppo rilassato, mentre chitarra e inserti elettronici tessono la trama di un movimento criptico e plumbeo. Qui la svolta arriva a metà brano, dopo sei minuti di viaggio, con i synth che si prendono sempre più spazio e portano la band in territori simili a quelli solcati con più tamarraggine da Blanck Mass, verso un nirvana elettrico con tocchi tribali, che alla fine la definizione che la band dà della propria musica è pur sempre mantracore: peccato solo che anche qui la carica ad armi spianate si smorzi in breve tempo.

Lungo-breve-lungo-breve, su questa direttrice il modo in cui i San Leo decidono di chiudere i giochi è ancora con un brano dalla durata contenuta ma in cui sfogare tutta l’energia rimasta in corpo. AL.AY è estatica apoteosi, un crescendo che parte già dalla cresta dell’onda e ti dà l’impressione di salire sempre più anche se non si può, sei già al massimo del volume, fra riverberi a sei corde e piatti martoriati per tutti e quattro i minuti mentre la grancassa implode a ritmo regolare come se ci fosse un motore nucleare che batte lì sotto, da qualche parte, e meno male che lo tengono a freno. Poi bon, si cala velocemente e arriva il silenzio, dopo trentotto minuti di caos controllato.

Aves raras è un gioco al rilancio per i San Leo, l’ennesimo visto che già il precedente Mantracore settava nuovi standard. Qui è dove il duo cerca di uscire un po’ dagli schemi “consueti” (mi si concedano le virgolette, che parlare di consuetudine per una band così è sfiorare il ridicolo), fregandosene della necessità di portare un’ascesa verso il suo compimento fatto di assalti distorsivi all’arma bianca. Serve tempo per entrare in questa nuova ottica, servono minuti passati a cercare di capire cosa stanno facendo lì sotto e minuti passati semplicemente a godersi di pancia l’esperienza: il gioco gli riesce forse meno bene che ai Sabbia, altra band che, con un approccio sempre strumentale ma sonoricamente molto distante, quest’anno ha sviluppato il concetto di “tensione che non si risolve”, ma ad avercene di musicisti così che osano, si lanciano e, ne sono certo, in sala prove si divertono da matti.

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Racconto in musica 155: Seguire i fossi (CCCP – Emilia paranoica)

Quante volte vi ho già ammorbato col fatto che Tremila Battute ha determinate regole d’ingaggio? Penso almeno quattro o cinque, che su centocinquantacinque articoli introduttivi ai racconti è una minoranza ma per chi frequenta questo blog magari fin dall’inizio (esistete? Se sì scrivetemelo nei commenti) può essere anche fastidioso, soprattutto contando che c’è una sezione apposita in cui sono spiegate per filo e per segno. È che poi ci sono le regole aggiuntive, opzionali per così dire, che non so mai se mettere o meno, perché sarebbe bello mantenere un racconto solo per artista ma non è che posso costringere tutt* a scandagliare il sito per scoprire se ho parlato o meno di Edda (e infatti ci sono due racconti dedicati a lui), così come non me la sento di obbligare l* aspiranti collaborator* a scegliere come ispirazione la canzone di artist* tuttora in attività (che preferisco semplicemente perché li potete ancora supportare). Sulla base di ciò che ho detto (oggi meno il can per l’aia meno del mio solito. Che brutto detto fra l’altro, c’avete mai pensato? O magari si dice solo dalle mie parti, boh) potevo forse dire di no a Michele Scaccaglia quando mi ha proposto un racconto basato su una canzone dei CCCP, a maggior ragione contando che hanno appena fatto una clamorosa reunion? Direi proprio di no, quindi via alle danze!

Michele va ad aumentare la già cospicua truppa berlinese di Tremila Battute ed è arrivato a noi, guarda un po’, su consiglio del primo membro di questa enclave. Nato a Praticello di Gattatico nel 1984, nella capitale tedesca ci è arrivato otto anni fa e da allora non se n’è più andato: qui lavora come copywriter, coordina un gruppo di lettura per persone diversamente abili e canta nel gruppo electro-punk IOCI (che vi esorto ad ascoltare a questo link). Ovviamente scrive anche, molto e in svariate forme: i suoi racconti li potete trovare su Wertheimer – La rivista (fate caso al barista, lo ritroverete più in basso) e su CrunchEd, una sua poesia in inglese su Soft Star Magazine e i suoi articoli musicali (interviste, recensioni e live report) su Yanez, Frequencies e Kalporz, storica webzine con cui collabora sin dal 2013. Potremmo finire qui, ma anche se è del 2018 vi invitiamo a leggere anche questo suo interessante articolo pubblicato su Doppiozero, letto il quale probabilmente vi verrà meno voglia di andare a mangiare qualcosa che so, al Mercato Centrale di Milano.

Dei CCCP, la band che negli anni 80 rivoluzionò il punk italiano principalmente attraverso le figure di Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur (ci sarebbero altr* membr*, perlopiù subentrati nella fase di passaggio verso i CSI rappresentata dall’ultimo disco Epica, Etica, Etnica, Pathos del 1989, fra cui il nostro amato Giorgio Canali), troverete probabilmente in questi giorni mille informazioni, molto più dettagliate di quelle che potremo darvi noi. Per questa volta invece faremo una cosa diversa: far raccontare a loro la storia, riprendendo alcune dichiarazioni rilasciate nel documentario Tempi moderni di Luca Gasparini del 1989, un anno prima dello scioglimento, trascritte nel libretto della raccolta Ecco i miei gioielli.

FERRETTI – Sono nato in una arcaica famiglia montanara. Sono stato allevato cattolico e felice. Poi con l’adolescenza ho scoperto il mondo moderno e la vita. Da studente sono stato militante di Lotta Continua per tantissimo tempo, fino a che è esistita Lotta Continua. Poi volevo fare qualcosa di più sensato, di più utile, e ho fatto l’operatore psichiatrico per cinque anni. Poi non ne potevo più, perché avrei dovuto scegliere di comprarmi una casa a schiera, o un appartamento, fare un mutuo e decidere che la vita era finita, e allora sono andato un po’ in giro per l’Europa e mi sono ritrovato a Berlino. A Berlino, una tarda notte in cui ero malato, febbricitante, in una discoteca impossibile ho conosciuto Massimo Zamboni, che era di Reggio Emilia e che io non avevo mai visto, anche se poi abbiamo scoperto che avevamo moltissimi amici in comune. Anche lui probabilmente aveva voglia di cambiare vita. In quelle sere abbiamo deciso che saremo tornati in Italia e avremmo fatto più o meno quello che vedevamo fare con così nostro grande piacere in quei mesi a Berlino: volevamo fare della musica moderna, volevamo dire la nostra, fieri e orgogliosi.

ZAMBONI – Siamo arrivati a Reggio e in qualche modo si è aperto il mondo. Io di colpo mi sono sentito che proprio abitavo a Reggio. Per la prima volta in vita mia non mi sentivo come un turista qua e… Abbiamo cominciato a pensare che tutto quello che era un difetto diventava un pregio, bastava volerlo, non ci voleva neanche un grande sforzo intellettuale. Bastava che l’Emilia diventasse il centro della nostra cultura, del nostro modo di vedere, e un’Emilia allargata comprendeva anche Berlino, comprendeva il mondo dell’Est, comprendeva anche i paesi arabi. Però il centro è qua. Per noi Reggio era diventata in quel momento il centro del mondo.

FERRETTI – Dopo un anno ci siamo resi conto che i CCCP avevano una grandissima forza, però avevamo anche un grosso handicap: quello di gelare il pubblico. La gente non si schiodava. Un po’ per la musica, un po’ per la qualità e la quantità delle parole, la gente rimaneva allibita, agghiacciata, ferma sotto il palco. Allora ci siamo guardati e ci siamo resi conto che mancava qualcosa sul palco, mancava la vita… quella vera, la vita animale. Noi tre animali, cantante, chitarrista e bassista (in quel periodo fa parte del gruppo Umberto Negri, che ne uscirà nel 1985 ndr) eravamo insufficienti, perché eravamo ancora il prototipo di un gruppo rock, di un gruppo musicale. Ci siamo guardati intorno e abbiamo scoperto che c’erano delle personalità del nostro giro che – oltre ad affascinare noi per simpatia o amicizia – potevano anche affascinare il nostro pubblico. Uno era il nostro barista preferito, allora si faceva chiamare Josè Lopez Macho Frasquelo (Danilo Fatur ndr), stava al Tuwat e preparava cocktails in grado di assassinare qualsiasi persona si avvicinasse al banco…Dell’acqua di fuoco marroncina, schifosa, ma ubriacava. Con 700 lire ti potevi ubriacare una sera intera. Era un’ottima personalità… Il contrario di tutti noi, molto grezzo, molto vitale, e parafascista.

ZAMBONI – Era l’unico che riusciva a ballare in una pista facendo uno spazio di due o tre metri tutt’attorno nella massa totale di questa pista da ballo. […] Lui ballava con la canottiera tirata su, sprizzava sudore, sputi, saliva da tutte le parti, si agitava da tutte le parti, gli cadevano le braghe, e la gente aveva assolutamente paura di lui. […] Lui era questo Josè Lopez Macho Frasquelo, vestito da chierichetto, con una croce di tre metri, che faceva uno spogliarello furioso su musiche di Lou Reed, Kraftwerk, e cose del genere. Da quel momento ci ha turbato, molto.

FATUR – A uno di questi strip-tease vennero ad assistere quelli che erano i CCCP Fedeli alle linea. I CCCP Fedeli alla linea erano un gruppo che all’apparenza – e anche nella realtà – dava un senso un po’… era diverso dagli altri gruppi. Erano in tre… l’immagine era quella classica degli studenti universitari annoiati […] Ma più che il nome che insomma… era la faccia del cantante, ecco, la faccia di Giovanni Ferretti… Adesso è abbastanza normale, ma anni fa, gentilissimo pubblico, aveva un aspetto da rabbrividire.

FERRETTI – La personalità di Fatur a quel punto era un po’ troppo prorompente, e allora…

ANNARELLA – Mondina Dottoressa Resdora Domatrice Fotomodella Presentatrice Danzatrice Suora Cabarettista Militare DDR Guardia rossa Sibilla Statua Occidente rosso Ginnica Cinese Sposa Matrioska Matrona Ballerina liscia Ballerina classica Danza del ventre Danza classica cinese…

ZAMBONI – In qualche modo, quello che ci ha colpito nell’Antonella era il fatto che – molto banalmente – era la persona che riusciva a portare meglio la maggior quantità di vestiti sempre diversi che io avessi mai conosciuto. […] e da indossatrice – cosa che non andrebbe bene per i CCCP – è diventata Benemerita Soubrette del Popolo.

FERRETTI – Adesso sono passati degli anni. Noi continuiamo ad essere sempre quelli. Abbiamo voglia di fare ancora un po’ di cose. Non so quello che succederà. Io nel frattempo sono tornato a vivere in montagna e assomiglio sempre di più a mio nonno.

ANNARELLA – A me non piace il termine arte, perché non mi definisco un’artista. È che sono una persona forse un po’ particolare, con un immaginario suo, tutto personale, dato dall’esperienza, dato dai viaggi, dato da un certo tipo di gusto. Non definisco questo arte, definisco questa una personalità particolare.

FATUR – Quindi il senso della mia arte, dell’arte di tutti, è il nulla, care signore e signori. Voi quando comprate dei quadri, delle sculture, voi comprate il nulla. Quando voi comprate una casa, un condominio, un palazzo, una villa al mare, una macchina più bella, è niente.

ORLANDO (Ignazio Orlando, basso, tastiere e drum machine dal 1986 al 1989 nonché produttore dei dischi Socialismo e barbarie e Canzoni preghiere danze del II millennio – Sezione Europa e fonico sin dagli inizi ndr) – I pezzi dei CCCP nascono da un testo di Giovanni o dalle musiche di Massimo. Mi arrivano delle cassette, un’idea, proprio un abbozzo di frase, anche un accordo di chitarra, un po’ giocato. Se non c’è un testo, se prima arriva la musica, viene chiesto a Ferretti, a Giovanni, di scriverne uno, subito, nello stesso momento. Lui ascolta… mentre noi si lavora per fare una piccola stesura, lui è lì che scrive in un angolo, e scrive miliardi di parole… È l’uomo più veloce che conosca a scriverle… a scrivere frasi… molto belle anche… anche se a volte io non riesco a capirle. Poi noi si finisce la stesura, e si prova a mettere il cantato. Giovanni viene preso, messo davanti a un microfono, e lo si fa cantare, per modo di dire […] perché lui quello che conosce, quello che sa realmente cantare sono i canti degli alpini e le canzoni da chiesa!

(Durante la registrazione in studio del brano Margini accecanti)

ORLANDO – Dovresti essere più sensuale…

FERRETTI – (ride) Ah! Piacerebbe anche a me!

ORLANDO – I rapporti da produttore sono difficili con i CCCP, perché i CCCP non hanno bisogno di un produttore, hanno solamente bisogno di un suggeritore, il che è diverso. […] Io sono forse l’ultimo a decidere. Posso decidere di un suono, ma non posso decidere di un testo, perché… quelli sono i CCCP: sono intoccabili, e guai a chi li tocca…

FERRETTI – […] Ignazio è indispensabile ai CCCP, perché è il loro lato chiaro, quello che i CCCP non hanno, per cui con lui si litiga volentieri e si fa volentieri la pace, e in ogni modo è indispensabile… Quando hai detto questa parola non puoi aggiungere niente, perché dopo sembra falso.

ZAMBONI – Il palco dei CCCP negli spettacoli credo che sia come tante raffigurazioni singole di tanti eventi o fatti che ci sono in questo mondo. […] Comunque c’è spazio per il comunismo, il cattolicesimo, c’è spazio per il punk e per il liscio. C’è spazio per tutto quanto fa parte del mondo in cui viviamo, che però siamo abituati a vedere in maniera sempre staccata. Noi buttiamo tutto questo alla rinfusa sul palco dei CCCP. e da questo nasce lo spettacolo.

FERRETTI – Noi siamo un po’ lo specchio della società in cui viviamo […] per cui abbiamo tutti i difetti che ha la società intorno a noi. Viviamo delle stesse contraddizioni.

ZAMBONI – Credo che il fatto che la gente ci fraintende sia assolutamente inevitabile. Non saprei se è un bene o un male. […] Tante volte anch’io fraintendo i CCCP.

FERRETTI – Allora fra il non fare niente per la paura di essere fraintesi e il fare quello che noi abbiamo intenzione di fare sapendo che molti ci fraintenderanno […] Noi stiamo sui palchi per cui abbiamo scelto questa seconda ipotesi.

Da un po’ di tempo in qua ho cominciato a sentirmi dire che sono un professionista, che so fare il mio mestiere, che sono nel mio genere bravo… Chi mi dice questo, in realtà, è convinto di farmi un complimento, o di darmi quello che mi spetta. […] Mi viene in mente che Pippo Baudo è un professionista, o questo marasma di gentaglia che appare sugli schermi tutti i giorni. Sono dei gran professionisti: esseri insignificanti che sanno fare ben poco.

Il mondo moderno è convinto che la massima libertà possibile sia uguale alla massima creatività possibile. Io sono assolutamente convinto del contrario. La massima creatività possibile viaggia entro regole le più rigide possibili. Tu non devi vivere in una situazione che ti aiuta a tirare fuori tutto il possibile di quello che hai dentro. Tu devi vivere in una situazione che ti obbliga a tirare fuori solo quello che assolutamente deve venire fuori.

FATUR – La gente pensa che gli artisti siano indisciplinati, ma anche se un’artista… non so… beve, o fa cose di questo genere, però dentro di sé ha una grande disciplina. Perché per l’arte, la recitazione, la musica, ci vuole molta più disciplina che per fare il muratore. Perché è tutto un niente, capisci? La disciplina del nulla è una cosa seria.

Il brano che Michele ha scelto come ideale colonna sonora del suo racconto è Emilia paranoica, forse uno dei brani più lunghi e allucinati della band. Non è difficile immaginarla risuonare nel bar di Barabba, il tipico posto che coniuga in sé la convivialità della provincia e la mancanza di prospettiva che ti urla nelle orecchie di fuggire il più lontano possibile, prima che a soffocare queste note dissonanti e marziali arrivino quelle dello stereo nella macchina di Vanni. Potete trasferirvi idealmente all’Arci di Gattatico scorrendo solo un po’ più in basso la pagina, immaginandovi i fossi lungo il percorso: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero e il numero Uno della fanzine di Tremila Battute!

Seguire i fossi, di Michele Scaccaglia

Quando Fagiano arriva al bar gli altri sono già carburati. Sudano da fermi e l’alcol non aiuta. È una di quelle sere paonazze in cui le cicale si dannano l’anima a cantare, nascoste tra le foglie appiccicose dei pioppi. Fagiano sa bene che gli altri sono nervosi per il suo ritardo, lo fa proprio per quello. Gli piace essere al centro dell’attenzione, dettare i tempi, dilatare la notte per accarezzare poi la rugiada all’alba.

“Oh dobbiamo andare!”, gli gridano non appena scende dalla macchina. Lui non risponde, impassibile si accende una sigaretta e si avvia verso il bancone. “Almeno un drink, dai”, dice. E lo dice sempre. Ogni volta. Stesse battute di un copione collaudato, che anche così che si inganna la noia. Marcello gli sbuffa in faccia, poi però un altro drink se lo fa volentieri anche lui.

Il bar è un forno. Barabba sembra una statua di cera abbandonata dietro il bancone. Dice che non ci sono soldi per montare il condizionatore, in realtà lo fa per tenere lontani i clienti. Il bar è suo e vuole starci lui, da solo, così può guardare la TV, che a casa è sua moglie che ha il controllo del telecomando. Sul soffitto ciondola stanco un ventilatore a tre pale degli anni ’70 che non serve a niente, se non a smuovere i cumuli di polvere annidati negli angoli.

“Barabba, il solito”, gli dice Fagiano. Non c’è bisogno di salutare, al bar Arci di Gattatico.

“E una sambuca con ghiaccio per me”, gli fa eco Marcello.

Barabba li guarda con disprezzo. Sa che non pagheranno. Nessuno paga. Segna tutto su un grande quaderno, una pagina per ogni cliente. Poi a fine mese si fanno i conti e volano parole grosse, perché Barabba ha il vizio di ritoccarli in eccesso.

“Chi guida stasera?”, chiede Fagiano.

“Non io”, gli risponde Marcello, mentre una farfalla rimane fulminata nella zanzariera elettrica. Vorrebbe tanto infilarci la testa di Fagiano in quella trappola, così si sveglia un po’. Oltre ad essere sempre in ritardo, non vuole mai guidare, ha la paranoia dei posti di blocco. Marcello, invece, ha quella delle nutrie che attraversano la strada.

“La prendo io la macchina”, grida Vanni dalle retrovie. “Anzi, andiamo a fare un giro che ho una sorpresa per voi”. Vanni ha sempre i sedili puliti e un arbre magique alla banana attaccato allo specchietto, insieme a un terribile crocifisso fosforescente: l’altra cosa sgradevole è che ascolta solo i Dream Theater. Agli altri due ormai sanguinano le orecchie, ma è il prezzo da pagare per farsi scarrozzare in giro.

​L’auto sparisce tra le stradine ghiaiate della campagna emiliana. Vanni tira fuori mezza scatola di roipnol. Di sicuro l’ha rubata a sua madre, pensa Marcello mentre conta i moscerini e le altre bestie che si spiaccicano sul parabrezza.

“Insomma, dove si va?”, chiede Fagiano, che s’aspettava chissà cosa.

Nessuno risponde. Marcello butta fuori una mano dal finestrino e si mette a giocare con l’umidità. In una serata così, non servono mete, basta seguire i fossi. Loro sì, sanno sempre dove andare.

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Giochiamo alla guerra? Tre videogiochi che allargano la narrazione sui conflitti bellici

War has never been so much fun recitava la colonna sonora di Cannon Fodder, videogioco del 1993 in cui alcuni soldati (letteralmente “carne da cannone”, come recita il titolo) devono far fronte a sfide sempre più difficili in un contesto bellico. L’opera di Sensible Software non è né la prima né l’ultima che ha affrontato il tema della guerra, così come non è né la prima né l’ultima ad aver scatenato polemiche alla sua uscita (se avete vissuto come videogiocatori gli anni 80 e 90 avrete sentito addebitare ai videogiochi gran parte delle problematiche del mondo): è la prima che ricordi però ad aver affrontato l’argomento in maniera sarcasticamente antimilitarista, fra soldati che attendono il loro momento per entrare in azione di fianco a colline che si popolano delle lapidi dei loro commilitoni, nomi dei defunti ricordati al giocatore alla fine di ogni missione e l’indicazione, nel manuale della versione MS-DOS (da quanto non scrivevo MS-DOS? Quanto mi sento vecchio nel ricordarmi cos’era?), che Cannon Fodder “mostra rapidamente che la guerra è un inutile spreco di uomini e risorse. Ci auguriamo di non doverla mai sperimentare dal vivo”.

Serietà e sobrietà

La guerra è stata affrontata videoludicamente in mille maniere differenti, da quella realistica (e spettacolarizzata) dei vari Call Of Duty alla demenziale battaglia fra vermi della saga di Worms, ma ci sono alcuni giochi che ho scoperto più o meno di recente (per quanto recenti non siano) che aprono uno spiraglio su un modo diverso di veicolare i conflitti. Il primo di questi ci porta idealmente in Myanmar e si chiama

War Of Heroes – The PDF game

La storia del Myanmar è difficilmente riassumibile in poche righe di un articolo sui videogiochi. Stretta sotto il giogo dei britannici fino al 1948 e di una dittatura militare dal 1962, la popolazione dell’ex Birmania ha avuto pochissimo tempo per godersi una parvenza di democrazia, “concessa” dalla giunta militare a partire dal 2011 e foriera di speranze quando, nel 2015, il partito della Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha vinto le prime elezioni multipartitiche nel paese asiatico. Speranze andate lentamente a fondo a causa di un controllo militare comunque strettissimo, di una campagna di pulizia etnica a danno della minoranza musulmana dei Rohingya che affossò la credibilità internazionale di San Suu Kyi (operazione in cui anche gli algoritmi di Facebook ebbero le loro gravi colpe) e crollate definitivamente il primo Febbraio 2021, quando le forze armate hanno ripreso il controllo totale dello stato, sprofondando in una crisi economica e sociale un paese che già faceva fatica a risollevarsi.

In tutto questo cosa c’entra un videogioco? War Of Heroes – The PDF game sembra all’apparenza uno qualsiasi delle migliaia di giochi a tema bellico che potreste scaricare sul cellulare: ha una modalità di gioco ripetitiva fatta di livelli in cui sopravvivere alle ondate di soldati avversari, livelli in cui uccidere bersagli sensibili e livelli in cui piazzare mine per distruggere convogli della fazione avversa, e non si fa mancare nemmeno una modalità zombi, dal trentatreesimo livello in avanti, che non aumenta di granché la varietà. Ciò che rende unico il gioco, e lo ha fatto scaricare da centinaia di migliaia di persone in Myanmar e nel mondo, è che con i profitti derivanti dagli acquisti in game e dagli inserti pubblicitari gli sviluppatori finanziano direttamente le PDF, le Forze di difesa del popolo vicine al governo di unità nazionale che combattono apertamente la dittatura.

Ko Toot, pseudonimo adottato da uno dei tre sviluppatori del gioco per parlare con la BBC, afferma che il gioco è stato scaricato in tutto il mondo da quasi un milione di persone e che i ricavi ammontano a circa cinquecentomila dollari, soldi utilizzati (come spiegato in questo articolo) per aiutare sfollati e feriti, distribuire cibo e acquistare armi per la lotta (le cifre sono comunque tutte da verificare). Gli avatar che è possibile impersonare in War Of Heroes sono mutuati da combattenti reali per la libertà del Myanmar (meno verosimile, anche escludendo la virata zombie, che le missioni facciano riferimento a reali operazioni partigiane), un modo per far sentire ancora più vicini alla lotta: del fomento attorno al gioco si è accorta anche la giunta militare che ha minacciato di ripercussioni chiunque lo avesse scaricato sul proprio cellulare, senza riuscire comunque a frenarne il successo.

Se la causa vi appassiona e volete passare parte del vostro tempo mitragliando anonimi militari trovate il gioco come War Of Heroes – The PDF Game su Google Play e semplicemente come War Of Heroes su App Store.

This war of mine

Nella guerra moderna… Morirai come un cane senza una buona ragione“. Con questa citazione di Ernest Hemingway si apre This war of mine, opera del 2013 sviluppata dallo studio polacco 11bit Studios che si distingue nel panorama videoludico per il ruolo in cui ci costringe: non più la parte agente del conflitto, che si tratti di un soldato manovrato in prima o terza persona o un intero esercito di cui decidere la strategia, bensì le vittime del conflitto, coloro che cercano ogni giorno di sopravvivere in un contesto nel quale il pericolo può arrivare da dovunque.

Ambientato nell’immaginaria città di Pogoren, nemmeno troppo velatamente ispirata alla Sarajevo assediata dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina (come spiega fra le altre cose questo articolo, scritto recentemente da Manuel Berto del blog di approfondimento videoludico Frequenza Critica per la rivista The Games Machine), This war of mine inizia con un manipolo di tre sopravvissut* alle prime fasi di una guerra, costrett* dagli eventi a cercare di ricreare una parvenza di normalità all’interno di una casa abbandonata. Fra comodità minime da allestire come letti per riposare, fornelli per cucinare le carenti scorte di cibo e la caldaia per scaldarsi durante il sempre più rigido inverno che accompagna la nostra esperienza, le giornate dell* protagonist* saranno scandite dall’orologio che nell’angolo a sinistra dello schermo scorre impietoso, limitando il numero di attività che potremo compiere. Meglio costruire un fucile per difendersi, un filtro per raccogliere l’acqua piovana o un distillatore per l’alcool, da scambiare proficuamente con i contrabbandieri che bussano talvolta alla nostra porta? Scelte a volte dettate dal buonsenso, altre dalle risorse a disposizione, perché se le giornate non sono allegre la situazione si fa ancora più cupa allo scoccare delle ore venti.

Durante la notte This war of mine ci costringe infatti ad uscire dalla relativa sicurezza del rifugio, prendendo il controllo di una delle persone che compongono il gruppo mentre si avventura in una delle zone in cui è possibile ancora trovare materiali per costruire le strutture di cui abbiamo bisogno, cibo per sostentarci, armi per difenderci e medicine per debellare le malattie che presto inizieranno a tormentarci. Ogni personaggio ha sue abilità peculiari, chi caratterizzato da maggiore agilità o chi da una forza che gli permette di portare più oggetti, ma sono comunque tutt* persone comuni, impreparat* per la situazione che hanno di fronte e di certo non addestrat* alla battaglia: ecco che allora le notti diventano una corsa contro il tempo per trovare ciò di cui abbiamo bisogno, corsa solamente metaforica perché dovremo perlopiù muoverci silenziosamente all’interno di supermercati già razziati, case parzialmente abbandonate e avamposti militari in cui sperare di trovare soldati abbastanza bendisposti da decidere di scambiare alcune delle loro scorte. La morte è sempre dietro l’angolo e può arrivare tramite bande di razziatori, cecchin* piazzati sui tetti o truppe che difendono un dato edificio, ma anche il nostro operato può creare danni e non saranno infrequenti le occasioni in cui dovrete decidere se sottrarre le medicine a una coppia di anziani per curare qualcun* del vostro gruppo, permettendovi di sopravvivere un giorno in più ma fiaccando il morale dell* abitanti del rifugio.

Ad aggiungere ulteriore difficoltà, sia videoludica che morale, il DLC The little ones ha aggiunto ai personaggi che possono far parte del gruppo (in continuo mutamento, fra nuovi arrivi alla porta, fughe notturne e morti in perlustrazione) l* bambin*, da difendere e nutrire ma la cui utilità nell’economia domestica è pressoché nulla, e in un gioco in cui le risorse sono limitate e di difficile reperibilità una bocca da sfamare in più fa tutta la differenza del mondo. Man mano che i giorni passano inoltre la città subisce delle modifiche, zone prima raggiungibili diventano inaccessibili e altre si sbloccano, cambiamenti ascrivibili al mutamento di un conflitto di cui abbiamo solo sporadici accenni tramite la radio installata in casa.

Nella partita che ho giocato mi sono ritrovato a seppellire quattro persone, a subire svariate irruzioni da parte di bande di predon* (mentre la persona designata del gruppo si avventura per la città in cerca di risorse è bene che qualcun* all’interno del rifugio faccia la guardia, nella speranza di avere anche un’arma con cui difendersi), a dare rifugio ad un anziano tabaccaio e al suo nipotino, a sottrarre cibo e medicinali a persone che ne avevano altrettanto bisogno o a bande organizzate che non si sono miracolosamente accorte della nostra presenza nel loro avamposto, costruendo nel frattempo il minimo indispensabile per vivere una vita ai limiti della decenza. Nulla ha impedito comunque la lenta disgregazione di un gruppo fiaccato dalle malattie, dal freddo e dalla fame, che le giornate passate senza poter mettere niente sotto i denti sono state più di quelle con un pasto caldo e cucinato: dopo trentacinque giorni, col morale ormai sotto i tacchi, gli ultimi membri hanno lasciato il rifugio in cerca di opportunità migliori altrove, portando ad un game over in cui, anche attraverso i disegni del bambino, viene ripercorsa la triste storia del nostro tentativo di sopravvivere alla follia della guerra.

L’opera di 11bit Studios (che pochi anni dopo hanno sviluppato, sulla stessa falsariga di gestionale dalle forti connotazioni morali, il postapocalittico Frostpunk) è videoludicamente variegata e caratterizzata da un buon livello di sfida che può essere anche customizzato, decidendo di affrontare la sfida in condizioni preimpostate piuttosto che lasciare che sia il caso a farci passare un inverno più o meno rigido. È innegabile che sia però la storia che ci fa vivere il motore portante dell’esperienza, perché di giochi che riescono a narrare così efficacemente l’abusata “banalità del male” di Arendtiana memoria non ne esistono molti: per chi volesse provarlo il gioco è disponibile per PC, Nintendo Switch e per entrambe le ultime consolle di Microsoft e Sony.

Papers, please

Se l* sopravvisut* di This war of mine se la passano male, nemmeno il protagonista di Papers, please se la passa esattamente bene. Ha una famiglia numerosa di cui prendersi cura al netto di notevoli ristrettezze economiche, il suo paese (il fittizio regime di Arstotzka, ispirato genericamente ai paesi del blocco sovietico) è appena uscito da un conflitto con la nazione vicina e la sua grande opportunità, un lavoro all’interno della complessa macchina burocratica, si rivela presto foriera di problemi più che di benefici: all’interno del gioco dovremo infatti destreggiarci come… Ispettori di frontiera, impegnati a controllare i documenti di chi cerca di entrare all’interno della nostra gloriosa nazione. Detta così non sembra granché interessante ma Lucas Pope, transfugo del celebre studio Naughty Dog (che i più conosceranno per la serie di Uncharted e soprattutto per i due The last of us), è riuscito con una semplicissima grafica retrò a creare un’esperienza di gioco allo stesso tempo coinvolgente e straniante.

Uscito nel 2013, Papers, please ci “costringe” a valutare un numero di persone variabile ogni giorno, in un periodo che sta a cavallo fra la fine del 1982 e l’inizio del 1983 (il che rende ancora più credibile l’ambientazione). Il “variabile” dipende da noi, perché più saremo svelti a fare il nostro lavoro più soldi otterremo per sfamare la nostra famiglia, comprare le medicine per chi si ammala, garantire il riscaldamento in casa: ma attenzione, perché per ogni errore di valutazione (cioè per ogni volta che respingeremo chi ha diritto d’accesso o faremo entrare chi non ha documenti in regola) verremo multati, e non conviene fare troppi errori se non si vuole essere licenziati in tronco, perdendo l’unica fonte di guadagno. Semplice? Tutt’altro: proseguendo nel gioco accadranno alcuni eventi (attentati terroristici, arresti internazionali, problemi diplomatici con le nazioni circostanti) che renderanno la mole di scartoffie da controllare sempre più grande, fra passaporti, permessi di lavoro, pass giornalieri e persino il body scanner, da utilizzare magari specificatamente con l* cittadin* di una determinata nazione.

Pope ha sviluppato l’intero gioco da solo nell’arco di nove mesi, e la sua povertà grafica (comunque efficace, così come il comparto sonoro) è solo la copertura per un gioco profondo che, alla ripetitività frenetica delle azioni da compiere, affianca una storia che si dipana per piccoli dettagli: in giorni specifici dell’esperienza potrà capitarvi di ricevere un controllo del vostro superiore, essere contattati da una guardia corrotta che in cambio di denaro vi chiederà di ritoccare al rialzo il numero degli arresti (con conseguente probabile aumento dei richiami) e soprattutto finire invischiati nelle operazioni dell’EZIC, un’associazione terroristica che vuole rovesciare il regime di Arstotzka. Conviene aiutarli? È il caso di accettare una mazzetta da qualcuno che vuole assolutamente entrare entro i confini che pattugliate? E cosa fare con la moglie dell’uomo che avete appena lasciato entrare che, a differenza del marito, non ha i documenti in regola? Questi sono alcuni dei dubbi che vi assaliranno mentre continuate a timbrare documenti e maledicete ogni controllo troppo approfondito che vi tocca fare, che limiterà lo stipendio giornaliero e renderà più concreta la possibilità di essere licenziati o di vedere un famigliare morire di stenti (beffa ulteriore: il game over può giungere anche a causa della morte dell’intero nucleo famigliare, che vi porterà direttamente in carcere in quanto pessimo esempio per la nazione).

Far entrare Papers, please all’interno dei giochi di guerra è un’evidente forzatura, eppure il punto di vista che ci fa sperimentare non è così diverso da quello di chi ogni giorno deve decidere del destino di migliaia di migranti, fuggiti da enormi difficoltà e da conflitti di cui noi vediamo solo (se va bene) le immagini al telegiornale. Pope, che è statunitense ma vive in Giappone, ha dichiarato di aver concepito l’idea a seguito dei numerosi controlli all’immigrazione affrontati nei suoi viaggi, ma sebbene ogni esperienza burocratica può rivelarsi infernale (e questo lo sapeva già bene un certo Franz Kafka) nel suo gioco lo sviluppatore è riuscito anche a rendere pienamente la drammaticità della condizione di tutt* l* protagonist* della vicenda, tanto di coloro che vengono respinti alla frontiera quanto del burocrate che gli nega il permesso, stritolato in un sistema che gli concede il libero arbitrio solo a fronte di enormi rischi.

Mentre ci destreggiamo fra nuovi controlli e scorciatoie ludiche che ci permettono di sveltire più velocemente la fila dei richiedenti (ma attenzione, anche queste hanno un prezzo), confusi dal cambio continuo di regole, la storia prosegue inesorabile verso uno dei venti finali a disposizione. Papers, please non richiede molto tempo per essere portato a termine, ma ha un tasso di rigiocabilità tanto alto quanto la vostra curiosità di scandagliare ogni possibile svolta della vicenda (in questo aiutati dal sistema di salvataggio, che vi permette di ritornare in qualsiasi momento al punto in cui avete deciso, che so, di trasferirvi in un appartamento più ampio con i soldi guadagnati facendo entrare illegalmente membr* della resistenza): potete provare questo insolito simulatore su PC, Mac, PS Vita e, da agosto 2022, anche su smartphone.

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Racconto in musica 154: Prima e ultima volta (Pornoriviste – L’Ale vive nei boschi)

Eh come cambiano le cose con gli anni. Di solito questa frase, con la quale già potrei vincere il Premio Originalità per il 2023, si conclude con la chiosa che le cose cambiano in peggio, ma io sono fedele a ciò che affermava in uno dei suoi aneddoti Yamamoto Tsunetomo, samurai riciclatosi a forza monaco e autore dell’Hagakure (meglio conosciuto come il codice dei samurai giapponesi) per interposta persona (lo scrisse un suo discepolo, raccogliendo gli insegnamenti che gli aveva tramandato e che Tsunetomo si era raccomandato venissero bruciati alla sua morte: grazie della disobbedienza, discepolo senza nome): “Non può, in effetti, essere sempre primavera o estate, e ugualmente non può essere sempre giorno; quindi, se anche desiderassimo riportare il mondo allo spirito del secolo trascorso, ciò non sarebbe possibile. È importante trarre il meglio da ogni generazione”.

Prendiamo la sicurezza ai concerti. Non dico che non esistano anche oggi situazioni al limite, ma non mi è mai capitato di vedere un palco più pericoloso di quello della Festa della birra a Travedona Monate, nel varesotto, a inizi anni duemila. Immaginate una discesa piuttosto ripida, piazzate in fondo a quella discesa un palco con poco spazio in piano davanti, piazzate in cartellone uno dei gruppi punk più importanti della zona e aggiungete, dulcis in fundo, dei tubi di metallo che sporgono dal suddetto palco: mi ci sono spaccato un orologio contro uno di quei tubi, e mi chiedo ancora oggi come sia possibile che non ci sia morto qualcuno contro nella frenesia del pogo. Oggi probabilmente sarebbe tutto diverso, quel palco dovrebbe sottostare a crismi che ne limitino la pericolosità per ottenere il beneplacito comunale e noi giovani punk potremmo concentrarci sullo spaccarci le ossa solo fra di noi… Ma l’unica cosa che è cambiata di sicuro è che della Festa della birra di Travedona non sento parlare da anni, e una ricerca veloce su internet mi restituisce due eventi, uno con cover e tribute band e l’altro con dj set anni 70/80/90 invece che con le Pornoriviste. Cosa stavo dicendo sul fatto che bisogna trarre il meglio da ogni generazione?

Eh sì, questa settimana vi tocca un amarcord bello grosso, e il merito di tutto questo è di Iacopo Innocenti. Classe 1983, nativo di Pistoia e lì residente da sempre (con brevi fughe), Iacopo ad un concerto delle Pornoriviste non ci è mai stato ma questo non gli ha impedito di sviluppare una dipendenza dal punk che dai diciassette anni dura ancora oggi, nonostante tutta la gente che gli diceva “sarà solo una fase”. Amante di tutto ciò che è accessibile, spontaneo e inaspettato, di lavoro fa l’impiegato e per divertimento racconta storie, come quelle dei due romanzi che ha pubblicato: Quarto di secolo (2010, Società Editrice Fiorentina) e Era destino (2021, Porto Seguro). Ha collaborato anni fa con la rivista Erba Magazine, scrivendo principalmente di musica e cinema, ma di racconti non ne aveva ancora pubblicati prima di oggi: augurandogli lo stesso successo di un altro scrittore che su Tremila Battute (per motivi fortuiti) ha pubblicato il suo primo racconto online gli diamo il benvenuto, sicuri che, contrariamente al titolo del suo racconto, questa sarà la prima ma non l’ultima volta che lo vedremo da queste parti.

Scriveva di musica Iacopo, e ha deciso di farlo anche per noi: gli lasciamo quindi lo spazio per presentare a modo suo la band capofila del sexy punk from Olona Valley, su cui io finirei per sbrodolare con aneddoti su aneddoti che manco Tsunetomo, come quella volta che il Tommy si mangiò il pollo (qualcuno capirà).

“Tra la fine degli anni Novanta e i primi del Duemila, pochi anni dopo lo tsunami pop punk californiano che travolse il mondo musicale e sconvolse le classifiche, l’Italia assistette al moltiplicarsi di etichette indipendenti e gruppi punk e ska.

Certamente, non era niente di paragonabile con il clamoroso fenomeno americano che vide il proliferare di band note ai più come Green Day, Offspring e Blink 182, e altre meno conosciute come Bad Religion, NOFX, Rancid o Pennywise.

Successe però che, anche in città di provincia come Pistoia, tra i banchi di scuola e nei gruppetti di alternativi, in mezzo a tanto, troppo prog rock e metal, si cominciasse a parlare di Derozer, Peter Punk e Moravagine.

Si prendeva il treno e si andava a Firenze, in un negozietto di dischi nel sottopasso della stazione di Santa Maria Novella (mi pare si chiamasse Super Records o qualcosa di simile), a comprare cd punk, a volte a caso, solo perché ci aveva colpito il nome della band o la copertina.

Fu così che acquistai Codice a sbarre delle Pornoriviste, gruppo di Varese. Mi piacque così tanto che presi anche Fino alla fine, ordinandolo per posta in una di quelle riviste (si chiamava Negative se non sbaglio), dove si trovava di tutto, cd, vhs, merchandising, gadget.

L’album, uscito nel novantanove con la Tube Records, a mio avviso è il migliore della band. Ha tutto ciò che ci si può aspettare dalle Pornoriviste e dal punk in generale. Semplice, diretto, veloce. E, soprattutto, in maniera del tutto elementare esprime concetti incredibilmente profondi.

La canzone che ho scelto è un chiaro esempio di tutto ciò. L’Ale vive nei boschi parla di qualcosa che è da sempre inscritto nelle nostre coscienze, ovvero la disperata brama di fuga dall’alienazione e l’insoddisfazione verso un’esistenza più serena e limpida.

Purtroppo, è sempre qualcun altro a farcela (in questo caso, appunto, l’Ale), mentre noi restiamo inspiegabilmente ancorati allo schifo che ci circonda.

L’Ale è uscita da un gioco di bugie e di infelicità, piglia il sole, agisce con calma e intanto io sono bloccato qua.

In pochi versi ecco sintetizzata la vita di tutti noi, o quasi.

Il finale del pezzo, merita l’eternità.

Come un cane malato ti ho sognato lontano da qua, poi ho sputato e ho chiuso gli anfibi con un tocco di attualità‘”.

Breve, sentito e ha già presentato da solo il proprio racconto. A me che resta da dire? Nulla, a parte consigliarvi di leggere questa vicenda intrisa di humor nero, che trovate come al solito subito dopo il brano che l’ha ispirata: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Prima e ultima volta, di Iacopo Innocenti

Banana morì perché voleva cambiare musica. Quando lo tirarono fuori dall’auto, aveva ancora il cd Fino alla fine delle Pornoriviste infilato nell’indice. Nessuno seppe mai se lo aveva appena tolto o stava per metterlo: se voleva chiudere con la roba che ascoltavamo da pischelli, o ne voleva ancora un gocciolino.

Penso spesso a lui, lo sto facendo anche adesso. Incredibile quante cose ti vengono in mente quando stai per schiattare.

Mi sento come la notte prima del rientro a scuola, quando non riuscivo a dormire e rimuginavo su tutto ciò che non ero riuscito a fare durante l’estate. Non ero andato al cinema all’aperto, non ci avevo provato con la tipa al mare, mi ero perso gli Shandon alla Festa dell’Unità. Mi attendeva un’era geologica di freddo, interrogazioni e ansia, e non ero stato in grado di godermi fino in fondo i tramonti di fine giugno, una partita in spiaggia subito dopo un acquazzone, una nottata sulle panchine del quartiere tra birrazze, cannette e stronzate.

Ora non posso che rimproverarmi la lite di ieri con Daria, sempre per lo stesso motivo, ovvero io che non prendo mai ferie a lavoro. Fino a pochi istanti fa ero convinto che non ci fosse verso di trovare un altro che potesse, per qualche giorno, scrivere al posto mio il progetto per il servizio di pulizia degli uffici del Comune di Vergate sul Membro: ora che per me sta per suonare l’ultima campanella dovranno per forza sostituirmi. La Bertoni non la prenderà bene, ha già la scrivania che trabocca di scartoffie e cose da fare.

Mi dispiace che l’ultima volta che ci siamo visti, con Daria, eravamo entrambi incazzati. Non avremo modo di rimediare, stare insieme un’altra volta, una sola, e dimenticare tutto. Mi dispiace aver sempre avuto paura di tante, troppe cose. Due in particolare: chiedere ed essere felice.

Mi dispiace morire soffocato da una caramella, ciucciata con troppa foga qui, nel disimpegno all’ingresso di casa.

Vivo solo, nessuno mi può aiutare. Ci fosse stata almeno Daria, avrebbe potuto fare qualcosa.

Ho smesso di fumare da tre mesi, di sicuro una Winston non poteva andarmi di traverso. Saranno contenti tutti quelli che mi hanno spinto a mollare catrame e nicotina per le pastiglie balsamiche: miele e zenzero letali, a trentanove anni.

Eppure l’oroscopo di stamani non era così male. Di certo non diceva che sarei morto, in quel caso avrei fatto più attenzione.

Chissà se piangeranno al funerale, chissà se si rivolgeranno a me accostando al mio nome epiteti tipo “il povero”, “buonanima”, “che Dio l’abbia in gloria”.

Non sento i miei da tre giorni, spero non ci restino troppo male.

In frigo c’è il peposo da scaldare, ho anche mezza bottiglia di vino da finire, sennò poi prende d’aceto.

Mi restano qualche capitolo di 1984 e tre puntate di Cobra Kai.

Come morte stupida, la mia batte di sicuro quella di Banana.

Giuro, è la prima e ultima volta che faccio qualcosa del genere.

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Ripulirsi il giusto: Small talk, il secondo disco dei Leatherette

Cosa fai quando stai registrando il tuo primo album e improvvisamente il mondo chiude i battenti? C’è chi lo prenderebbe come un segnale che forse dovresti fare altro nella vita, chi come il segnale che forse non è destino che quei brani siano ascoltati da qualcuno soprattutto se, una volta scongiurata la prima ipotesi e assodato che ci credi abbastanza per andare avanti, ti sei buttato a scrivere cose nuove e hai deciso di far uscire un Ep. I Leatherette scelsero una terza via (pur facendo uscire anche l’Ep summenzionato, Mixed waste): pubblicare quel primo disco, fotografare il momento anche se le idee sul cosa fare “da grandi” nel frattempo potevano anche essere cambiate. E meno male che lo hanno fatto, perché Fiesta un annetto fa fu una piacevolissima sorpresa: ondivago come solo le cose pianificate il minimo indispensabile riescono a essere, libero da vincoli e aperto tanto alle urla e alle abrasioni sonore quanto alle strizzatine d’occhio verso l’indie rock, l’esordio dei cinque ragazzi bolognesi mi aveva convinto appieno. Sul finire della recensione mi auguravo per il loro futuro che non finissero rinchiusi in una bolla, quella del post-punk in particolare perché qualcosa di quel genere ce l’avevano attaccato addosso, ed è un timore che ha attraversato anche la loro testa a leggere quanto dichiara il bassista Marco Jespersen sulla pagina Bandcamp del nuovo disco, Small talk, in uscita proprio oggi ancora per Bronson Recordings.

La prima impressione che ho avuto ascoltando Small talk è stata quella di un disco più omogeneo. Questo non significa che i Leatherette hanno smesso di andare dove gli pare, perché se ascolti in fila anche solo gli ultimi due singoli Fade away, sinuosa estensione del loro lato più intimo e contaminato dal jazz, e The ugliest, punk stile Clash sporco e immediato, viaggi già in due mondi differenti: sono però i suoni a sembrare più sotto controllo, meno liberi di esprimere tutto il caos che i cinque membri della band dimostrano ancora di avere dentro. Aprire il disco con il sax sghembo e le sfrisate di chitarra alternate a momenti di cassa e rullante dritto per dritto di Bureaucracy apocalypse è il modo migliore per dimostrare che tutto è cambiato ma nulla è cambiato, eppure man mano che avanzavo nell’ascolto la sensazione che i momenti di follia sonora fossero meno esplosivi mi si è impressa a forza nelle orecchie, nonostante le note in caduta decadente nel finale di Isolation, la sporcizia apparentemente disordinata, amplificata dal basso distorto, di Experimenting (un titolo che è già una dichiarazione d’intenti, confermata dalle parole sputate dalla voce di Michele Battaglioli), la carica convulsa di Spying on the garden: il momento in cui lo sbraco sa di vera e propria liberazione arriva solo con Monday, la traccia conclusiva, con la melodia vocale delle prima parte del brano che si trasforma in un affastellarsi di voci sempre più caotico man mano che si va incontro al finale.

“We have an unspoken rule when we fuse pop and experimental music, that we must not create a monster”, questo dichiara Battaglioli sempre su Bandcamp, ed è forse proprio questa regola a limitare le asperità in questo secondo episodio della carriera dei Leatherette, insieme a un mixaggio (opera di Chris Fullard, già al lavoro con gli Idles, mentre le registrazioni sono state coordinate da Andrea Cola e Bruno Dorella) che tende a creare un’amalgama sonora il più possibile compatta. Questo non significa però che Small talk sia un brutto album o, soprattutto, un album riuscito male, perché un conto è il gusto personale e un conto è il risultato oggettivo, soprattutto al netto delle aspirazioni di chi quel disco l’ha creato.

I Leatherette amano il pop quanto i suoni più duri e caotici, un connubio che li porta a stortare il verse-chorus-verse di nirvaniana memoria in tutte le maniere in cui è possibile farlo. Ronaldinho potrebbe correre fino in fondo sulla sua ritmica fra l’esotico e l’influenza (ancora) dei Clash, invece butta lì un intermezzo di sax e note sporche di chitarra che sa di sfregio; Fade away continua ad aggiungere elementi al suo jazzistico e fumoso incedere, tanto da illuminarla di luce nuova una volta giunti alla conclusione; persino il lato più festaiolo e spensierato di Ronaldo (almeno musicalmente, che il testo comunica tutt’altro: e che ci sia un voluto gioco di parole recitando “Oh MESSY life, MESSY life, I’m Cristiano Ronaldo”?) si apre a scenari più intimistici. Small talk è un album che parla, fra le altre cose, di crescita e di paure legate alla crescita (“I don’t wanna be free, cause I’m scared I wouldn’t wanna fly” canta Battaglioli in Spying on the garden), e una crescita di sicuro l’hanno compiuta i Leatherette, focalizzandosi su alcuni aspetti della propria musica e limando, cesellando, togliendo forse troppo ma aprendo anche a nuove soluzioni, come l’utilizzo del piano nell’intensa Lips. Non posso inoltre chiudere senza citare Ponytail, un percorso oscuro in cui la voce insolitamente cantilenante e dimessa di Battaglioli si mischia efficacemente a quella di Agnese Finelli (ospite anche in Lips, Fade away e, se le orecchie non mi ingannano, pure in Nightshift), donando ad un brano dall’andamento piuttosto lineare una marcia in più.

Non avendo mai visto dal vivo la band (cosa a cui spero di porre presto rimedio) non so dire se la decisione di registrare in presa diretta abbia impresso in Small talk la carica dei loro concerti, da cui in realtà mi aspetto qualcosa di più folle e meno controllato. Quel che posso dire è che più che un passo indietro o un passo avanti il nuovo disco dei Leatherette è un passo di lato, un momento di urgenza espressiva (arriva pur sempre ad un solo anno di distanza da Fiesta, pur tenendo conto della dichiarata presenza di altri brani già scritti all’uscita dell’esordio) che servirà ancora di più alla band per capire cosa gli piace, cosa non gli piace e quali etichette scrollarsi di dosso quando e se gliene verranno affibbiate altre: a noi restano dodici brani che li mostrano più consapevoli e ancora propensi a non farsi ingabbiare.

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Racconto in musica 153: Esc (Bruuno – Casper)

Come nasce un racconto di Tremila Battute? Potrei farvi mille esempi (va be’, facciamo una settantina) di come mi sono venute idee mentre guidavo, mentre parlavo con qualcuno, di come sono stato suggestionato da altre opere, ma sarebbe autoreferenziale e sta già diventando noioso. Facciamo un esempio specifico di racconto non mio allora, e di come è arrivato qui.

Il tutto comincia a Firenze, fra gli stand di Firenze RiVista. Qualche chiacchiera con gente che non conoscevo, molte con gente che già conoscevo e fra queste persone uno che con Tremila Battute ha già avuto a che fare. Si parla, si beve, si fa serata insieme e in un momento a caso fra tutte queste cose viene fuori che la persona in questione ha un racconto che potrebbe mandarmi. La lunghezza è giusta, perché no? Me lo leggo il giorno dopo in Piazza della Signoria (storia vera), e mi piace un sacco: ha ritmo, un inizio fulminante, dice il giusto e si tronca dove dovrebbe, senza aggiungere dettagli superflui. Ma non c’è ancora una musica ad accompagnarlo. Non dico che passo il sabato a pensarci, perché un collegamento mi viene in mente subito, ma poi ci ragiono sopra ancora nei giorni successivi e penso che forse c’è un’altra canzone con cui questo testo andrebbe a nozze. La propongo all’autore, lui accetta con entusiasmo l’associazione, si va in scena.

Non è sempre semplice così, ma con l’ultimo racconto di Stefano Tarquini è andata in questa maniera. Ad accompagnarlo, tutta la potenza dei Bruuno.

Stefano è collaboratore storico di Tremila Battute, uno dei primi ad aver pubblicato più di un racconto. Grazie a lui vi ho parlato dei La Quiete, de I Camillas e vi ho reintrodotto i Morso, poi un lungo periodo di silenzio in cui Stefano ha fatto un sacco di cose oltre a quelle che faceva già. Voce dei Palkoscenico al Neon da parecchi anni (qualcosa bolle in pentola da quelle parti), dal 2021 Stefano si diletta nello spoken word nei notevoli L’Amorte; conduce su Radio Kaos Italy insieme a Michele Piramide (ideatore e conduttore con lui anche del festival di poesia e letteratura Argini, la cui prima edizione si è svolta il 16 giugno 2023) il programma Read(y), un open mic in onda il mercoledì fra le 18 e le 19 che punta a “smuovere l’underground poetico e non solo”, e all’interno del gruppo Facebook Segnalazioni letterarie con Matteo Rusconi lo streaming di poesia italiana Sour Poetry; pubblicazioni poetiche online come se piovesse, in ordine sparso su Versolibero, Suite Italiana, L’Asterorosso, La seppia, Intermezzo Rivista, Di sesta e di settima grandezza, Scemo Magazine, La rosa in più, Transiti poetici, oltre ad aver contribuito alle edizioni 2021 e 2022 dell’agenda Scarceranda con le poesie Al contrario e Vivere (e vi ricordiamo, già che siamo in vena di completismo, la sua raccolta di poesie I giorni furiosi); e poi racconti, dappertutto, ad esempio su Birò, L’incendiario, Sulla quarta corda, Quaerere, Downtobaker, In fuga dalla bocciofila, Eisordi, Mirino, multiperso (anche nell’antologia cartacea), Senzadieci, Madre (sul numero 6), Fumo Magazine, La nuova carne, Super Tramps Club (pure qua, e anche sull’estensione cartacea Turchese: già che c’è ci collabora pure come editor della sezione poetica) e Topsy Cretts. Che faccio lascio? No, aggiungiamoci pure le sue due raccolte di racconti, Irrequiete Vol. 1 e Vol. 2, entrambe edite da Another Coffee Stories.

Ma ora passiamo ai Bruuno, formazione di Bassano Del Grappa nata nel 2015 sulle ceneri di altre band (Soft Moon, I Am Titor) che definisce sinteticamente sé stessa come “la conseguenza di un gesto impulsivo, un incastro di esperienze musicali diverse, unite per scuotere l’apatia del vivere quotidiano. Come il lato duro della gomma, che strappa il foglio ma non cancella lo scritto”. Di sicuro strappa le orecchie il loro Ep d’esordio Belva, uscito nel 2016 per la benemerita V4V Records (vi lascio il piacere di approfondire il modo in cui la band è entrata in contatto con Michele Montagano e la sua etichetta leggendo questa intervista), una bordata di sei brani che mischia post hardcore, noise e math rock cavandone fuori qualcosa di originale, virulento e incisivo. Tommaso Trippi (batteria), Nicola Rosson (basso e voce), Luigi Pianezzola (chitarra), Carlo Zulian (voce e tromba) e Filippo Tasca (chitarra) portano ben presto la stessa carica dal vivo, un muro di suono condito dallo show dei componenti che schizzano come molle per tutto il palco e anche oltre, come mi è capitato di vedere all’Arci Scuotivento di Monza nel gennaio 2019 fra Zulian che cantava sul bancone del bar e Rosson che si dimenava fra il pubblico: in quel periodo si era già modificata la formazione, con l’ingresso di Dado alla chitarra in luogo di Tasca, ed era già uscito il secondo Ep Deconcentrazione (2018), che sarebbe stato di lì a poco seguito da un terzo, Paura (2019). In questi nuovi parti creativi la band approfondisce il proprio suono, complica il complicabile affastellando le parole a mitraglia di Zulian alle ritmiche in continua mutazione degli altri membri, stordendo l* ascoltator*, confondendol* a volte ma senza mai lasciarl* indifferenti. Essendo legati alla composizione in sala prove tutti insieme la pandemia gioco forza li blocca, ma approfondendo altre passioni rimaste in standby (Zulian ad esempio dipinge, come emerge da questa intervista prima del loro live per Udinì Live Experience nell’estate 2021) i Bruuno tirano dritto e non si buttano giù, riemergendo musicalmente col recentissimo quarto Ep: Fosbury, pubblicato in digitale sempre con V4V, si compone di soli tre brani ma bastano e avanzano per veicolare tutta l’energia della band, rimasta inalterata ma diventata forse più diretta, il tutto condito dallo spettacolare video del singolo Rotto perfetto creato tramite l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Quando suonano dal vivo? Dove suonano dal vivo? Intanto qui, il 17 novembre al Bloom di Mezzago, ospiti ancora una volta di Tutto il nostro sangue, per altre date invece non vi resta che seguirli sul loro profilo Facebook.

“Me ne vado e basta”, urla attorniato da bordate di frequenze basse Zulian in Casper, la traccia che apre in grande stile il primo Ep Belva; “Sono venuto qui per uccidermi”, scrive Stefano nell’apertura del suo racconto Esc. Sul filo di questi diversi movimenti, uniti dalla stessa energia, si è sviluppata la decisione di unire racconto e musica: a voi constatare se il connubio è azzeccato, ascoltando la canzone e leggendo il racconto più in basso, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Esc, di Stefano Tarquini

Sono venuto qui per uccidermi. Sotto palazzi di vetro da cui s’intravedono scrivanie, controsoffitti alti che nascondono l’impianto di areazione, cavetterie di personal computer attorcigliate in bisce, stampanti da cui qualcuno fa uscire foto di famiglia.

Sono venuto qui per uccidermi. Sulla facciata esposta al sole il riflesso impazzito delle pale eoliche dà vita a uno scenario intermittente in cui tutto si muove e poi si ferma, si muove di nuovo poi ancora si ferma, in cui tutto è buio di luce e luce nel buio.

Sono venuto qui per uccidermi. Un attimo diventa un secondo, poi un minuto e un’ora, il tempo spicciolo degli uomini sembra spesso sabbia, chiusa in un codice binario riprodotto sempre uguale, resta impresso anche ai distratti e dà poco spazio all’immaginazione.

Si alza il vento, più forte che può scuote le guglie alle querce e ciba il suolo sottostante di foglie morte e pezzi di corteccia, la tangenziale al lato strilla di traffico e autobus a lunga percorrenza. Insieme ai rumori dei clacson, le picchiate dei gabbiani a stomaco vuoto e le lumache che risalgono ringhiere, una cosa sola disciplina i miei pensieri: io sono venuto qui per uccidermi.

Giusto il tempo di scrivere una lettera di addio a mia madre, una a mia figlia e bruciare due sacchi neri pieni di vestiti che mi vanno troppo larghi. Per morire ne ho scelto uno che non indossavo da tempo, una maglia nera con impressa una frase composta da una donna che non sono riuscito ad amare: “In questa chat non si parla mai”.

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Racconto in musica 152: Splendore (Faustus – Cenerentola)

Quest’estate sono stato in Giappone. Non lo dico per farvi provare invidia (ok, ora che l’ho scritto mi rendo conto che io al posto vostro sarei invidioso, ma magari voi amate il Giappone meno di quanto ho imparato ad amarlo io dopo questo viaggio. Non sto migliorando la situazione, vero? Neanche se dico che era agosto e faceva un caldo fottuto?), ma perché, come ogni introduzione arzigogolata che ho imparato a fare col tempo (e dire che scriveva cose così corte all’inizio…), questa informazione è propedeutica a ciò che verrà dopo. Non vi starò a raccontare quanto è bello, quante cose fighe ho visto, quante cose matte ho visto, ma mi concentrerò sul fronte musicale. Tipo: come artisti di strada ho beccato una ragazza che faceva beatbox nel pieno centro di Osaka che era incredibile, mentre a Kyoto ho beccato uno con quello che penso fosse uno shamisen che sarei rimasto ad ascoltare ore (questa informazione potrebbe essere un po’ esagerata per motivi di spettacolo). Tipo: in quasi tutti i ristoranti c’è musica jazz, e io mi chiedevo ogni volta “Ryuichi Sakamoto avrebbe approvato questa playlist?” Tipo: sono andato al karaoke con la mia compagna, prima in un baretto di Osaka dove mi sono esibito in una pessima interpretazione di Spoonman dei Soundgarden, poi nella saletta privata di una grossa catena in cui abbiamo scoperto che il video di Time is running out dei Muse (non abbiamo avuto molta fantasia nelle scelte) è girato in Italia, segue la vicenda di uno che scappa da dei cani e da gente che litiga per strada ed è impossibile da guardare senza morire dalle risate (il che ha inficiato la nostra performance canora). Tipo: camminando in un parco di Tokyo ci siamo imbattuti in una due giorni di festa di nonricordoqualequartiere (mi pare fosse Harajuku) in cui enormi gruppi di ballerini in costumi tipici si sfidavano su musiche perlopiù tamarre, aizzati da membr* del gruppo che al microfono accompagnavano la performance in maniera simile ai capi ultrà delle tifoserie allo stadio. Tipo: ho scoperto che la canzone che sentivamo ovunque (pure nei reel che vedevamo dall’Italia per scovare posti da vedere) è tratta dall’anime Oshi no ko – My star, che sotto una patina kawaii è in realtà una feroce critica del sistema dell* Idol in Giappone, un mondo di cui vediamo solo il lato pucciettoso con ragazze e ragazzi che cantano e ballano e che nasconde invece, come emerso ultimamente, sfruttamento emotivo, salariale e anche peggio (sullo stesso tema mi sento di consigliare anche Perfect blue del compianto Satoshi Kon). Tipo (e ora arriviamo finalmente al punto): volevo vedere un concerto in Giappone, qualcosa di piccolo che soddisfacesse i miei gusti storti, e dopo aver fatto ricerche su google e aver scandagliato le bacheche Facebook dei gruppi che conosco che hanno fatto tour in Giappone (ad esempio i Valerian Swing) ho trovato un locale dove suonavano quattro gruppi di domenica pomeriggio. Alle 15. Solo che ho scoperto poi che il concerto non era nel locale, sito al quarto piano dell’edificio in cui ci siamo introdotti temendo di entrare in casa di qualcuno, ma nella sala prove sita due piani più in basso. Quattro concerti, un paio di lattine di Highball per carburare, e dopo aver raccontato la barzelletta dell’italiano che va in Belgio per vedere un gruppo gallese ora posso raccontare quella dell* italian* che vanno in Giappone per vedere un gruppo thailandese, perché noi eravamo lì principalmente per i Faustus.

L’ostacolo linguistico che limita (comprensibilmente, provateci voi a imparare una lingua orientale) per la maggior parte dei giapponesi l’uso fluido dell’inglese, io l’ho provato al contrario cercando informazioni sui gruppi che suonavano in quella… pomeriggiata?… al Rinky Dink Studio di Shimokitazawa (un quartiere che avrei voluto approfondire di più). Ai Faustus ci sono infatti arrivato perché sono l’unica band di cui ho trovato in maniera relativamente semplice qualcosa da ascoltare, e quel qualcosa era math-rock fatto in maniera egregia: grande impatto, suoni ben calibrati, follia quanto basta ma senza diventare onanistici. Sulla storia musicale di Mo (chitarra), Van (basso) e Ginn (batteria, con cui ho fatto qualche piacevole chiacchiera limitata in quel caso dal MIO pessimo inglese) ho poco da dire proprio per il limite linguistico di cui sopra: si formano nel 2018 a Bangkok, uniscono influenze trasversali fra math-rock, post-hardcore, jazz e musica classica, escono già nel 2019 con un sette pollici contenente due brani per poi arrivare al primo LP l’anno dopo. A collection of tonal and aural movements constituting a creation of which persons can derive pleasure and amusement, uscito per Parabolica Records (etichetta nipponica piuttosto trasversale che sul proprio sito definisce il loro suono “nitido come una spada giapponese ben affilata”), resta a tutt’oggi l’ultima loro uscita discografica, e si compone di undici brani in cui la velocità di esecuzione e l’abilità tecnica si sposano con un gusto per la drammaticità e la tensione, tutte caratteristiche che sono riusciti a portare dal vivo in quella domenica pomeriggio in cui io e la mia compagna ce li siamo potuti godere dopo i live dei Sonic Shapes (band che li ha portati per la quinta volta in Giappone, coinvolgenti ma non imprescindibili nel loro crossover datato), dell* Onepercentres (indie-rock con un gran tiro che ti fa venir voglia di tornare adolescente) e prima dei The Shuwa (altro indie-rock più virato al pop e che, onestamente, mi ha rotto il cazzo dopo due canzoni). Unic* gaijin al concerto, ritornati in Italia abbiamo avuto la sorpresa di scoprire che da quel live è stato tratto un video, per cui se siete curiosi di scoprire la faccia che sta dietro a Tremila Battute (che in realtà potete trovare comodamente anche sul blog stesso) guardatevi questo video e cercate quello con la maglietta dei clamorosi Rope.

Cenerentola è il secondo brano del loro disco, un brano che fra accelerate e rallentamenti sarebbe la colonna sonora ideale di una versione dark e senza lieto fine della favola (che poi, fra mutilazioni e angeli sterminatori, non è che le prime versioni fossero meno dark): io invece ho preso spunto dalla storia narrata dalla Disney per il mio racconto, cercando di mettermi nei panni… della scarpetta di cristallo, quella persa sulla scalinata. Voi lo sapete che fine fa quella scarpetta? Perché io non lo sapevo (la mia infanzia non ha previsto la visione dei grandi classici Disney, ma non è stata triste per questo), e se anche voi lo ignorate/non lo ricordate andate a leggervi il racconto subito dopo aver ascoltato (o perché no, mentre ascoltate, che ho cercato di modulare la storia sull’andamento della musica) il brano da cui è ispirato: buon ascolto e buona lettura.

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Splendore

In principio è frenesia di preparativi, la corsa precipitosa, l’attesa in un ritmico battere sul pavimento della carrozza. Nervosismo misto ad aspettative pronte ad essere deluse, non per colpa sua, non certo per colpa sua. Dal basso splende e alimenta la speranza di una serata diversa, di una vita diversa.

Poi l’arrivo a palazzo, la discesa elegante sull’erba del giardino, il passo sicuro verso la scalinata. Morbido il piede si adatta alla postura inarcata che lei impone, per creare avvenenza laddove c’era solo timidezza, per alimentare una passione di cui sentirsi all’altezza. Il cristallo non è materiale fatto per la danza, alla feste presenzia per avvicinare liquidi altolocati alle labbra: ma lei è l’eccezione, volteggia con la sua gemella e lascia che le labbra si schiudano ad ammirarle, si aprano per incoraggiarle, si avvicinino per baciare colei che ha il privilegio di indossarle.

Ma il tempo scorre veloce, troppo veloce, lancette che battono e scandiscono il ritmo di una fuga scomposta, lontana dall’eleganza che le è consona. A quel rozzo agitarsi cui la sua gemella si adegua lei decide di ribellarsi, abbandona il piede sulla scalinata del suo ingresso trionfale e resta lì, monito di una bellezza che non deve scomparire.

Passano i secondi, i minuti, l’attesa di un destino di grandezza. Viene accolta da mani che bramano la carne che essa prima conteneva, la figura a cui ha donato leggiadria. Quelle stesse mani la portano in trionfo, la rendono emblema di felicità. Chi saprà calzarla avrà gioia e ricchezza, chi sarà degna d’indossarla avrà fama e fortuna. La scarpa di cristallo risplende negli occhi delle donne del regno, ma solo ad un piede può adattarsi.

E dopo lunga ricerca, dopo mille e più estremità troppo grandi, troppo piccole, troppo goffe e rozze per lei ecco che ritrova il piede giusto, ecco il momento solenne in cui assurgerà a motore degli eventi. Ma il cristallo è troppo affine allo sfarzo per non attirare su di sé la gelosia, mani avide e non un piede onesto ne diventano padrone per pochi attimi, quelli necessari a dimostrare la fragilità della bellezza contro un pavimento di pietra.

Non è una storia cui manchi il lieto fine questa, ma non è il suo. Ecco la gemella meno ambiziosa farsi avanti, attirare a sé tutti gli sguardi, calzare precisa su un piede che doveva essere oscurato dalla storia. Cala invece il buio su di lei, ora solo un mucchio di frammenti splendenti che qualcuno, fra la plebaglia disposta a rovistare nel pattume, forse reclamerà.

Ora, dopo la gloria, è una ramazza a decretarne l’uscita di scena.

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Racconto in musica 151: Taglia luce (Gilla Band – Baloo)

Sul lavoro durante le ore mattutine sono solito ascoltare una radio che si vanta del fatto che “comincia tutto lì”. La musica che passano non rientra al 90% nei miei canoni (stima molto generosa), ma sul lavoro ho bisogno di gente che parla e mi tenga sveglio (il mio lavoro è spesso ripetitivo) e la radio in questione tende a privilegiare, almeno fra dieci e le dodici, le chiacchiere ai brani musicali. Ok, ascolto Deejay Chiama Italia, e mi piace nonostante sia spesso in disaccordo con quello che pensano Linus e Nicola Savino. Mi dà soprattutto fastidio, e lo so che sono un cagacazzo, quel vantarsi che “comincia tutto lì”: da un paio di settimane ad esempio passa un nuovo brano di Birthh, che avevamo omaggiato di un racconto qui, e al di là della gioia di vedere un’artista che ho seguito fin dal primo disco passare su una radio a diffusione nazionale ammetto di temere il momento in cui i due speaker si attesteranno la scoperta (che non è neanche nostra, sia ben chiaro: i complimenti vanno fatti all’etichetta We were never being boring). Lo temo perché l’ho visto già fare, proprio in questi ultimi mesi, vantandosi di aver passato prima di tutti gli altri il brano Mercy di The Blessed Madonna. Davvero? Vantarsi di aver passato nel 2023 il brano di una dj che fa musica dalla fine degli anni 90? Eh sì, comincia proprio tutto lì.

Ma perché mi sono ficcato in sta diatriba? Perché The Blessed Madonna non è il primo moniker adottato da Marea Stamper, che prima si faceva chiamare The Black Madonna e ha deciso di modificarlo per rispetto verso parte della comunità nera che trovava offensivo il fatto che una donna bianca adottasse quel nome. Questo dettaglio la accomuna alla band di questa settimana, la Gilla Band, che per “evitare di propagandare una cultura di non inclusività” ha deciso che l’iniziale Girl Band si adattasse male a un gruppo composto da quattro uomini: mentre voi ragionate sulla scelta (magari evitando il “non si può più dire niente”, ricordatevi che lo affermano anche Pio e Amedeo: piuttosto è interessante questo punto di vista che chiama in causa anche Steve Albini) io passo a presentarvi Lorenzo Santangeli, che ci ha donato il suo racconto.

Sarebbe meglio dire ripresentarvi, perché Lorenzo è già stato ospite di queste schermate poco meno di un anno fa. Giramondo che ha abitato a Vienna, Dortmund, Lione, Kyoto (avendo da poco visitato il Giappone quanto lo invidio per questo) e a Londra, da poco è ritornato in Italia e precisamente a Roma: non ha smesso invece di scrivere, soprattutto racconti che gli sono stati pubblicati da Sulla quarta corda, Sigari e Playboy.com, mentre il testo in inglese On a sad disease è finito nella short list del Bath Flash Fiction Award. Lui forse non lo sa, ma c’è un romanzo Harmony che lo vede protagonista: se volete aiutarlo a diventare un playboy milionario come il personaggio principale andate a comprare tutti il suo di libro, Kernel, edito dalle edizioni Ensemble, se invece volete solo renderlo felice andate a curiosare su questo profilo Anobii.

Come già capitato per Eiko Ishibashi anche in questo caso Lorenzo si è preso la briga di introdurre la band, per cui faccio silenzio e gli lascio la parola.

“La Girl/Gilla Band, da leggere con la g dura, è un gruppo di quattro irlandesi, Dara Kiely alla voce, Adam Faulkner alla batteria, Alan Duggan alla chitarra elettrica e Daniel Fox al basso. Nel 2012 fanno uscire il loro primo Ep e nel 2014 si fanno notare con la canzone Lawman. Il disco d’esordio, dal titolo Holding Hands With Jamie, è uscito nel 2015, a cui è seguito un periodo di circa quattro anni di silenzio causato più o meno completamente da problemi personali del cantante. C’era già chi credeva che il gruppo fosse estinto, ma nel 2019 sono tornati con The Talkies e durante la pandemia hanno scritto e registrato Most Normal, il loro ultimo lavoro uscito nel 2022.

I pregi di questo gruppo sono molteplici. Prima di tutto, la loro musica ha stile. La formazione sulla carta è quella trita e ritrita di qualsiasi vecchio gruppo rock, ma quasi niente nei loro dischi ha un suono prevedibile. Chitarra e basso sono rielaborati come fossero due sintetizzatori da suonare a corde e plettro. In un’intervista a Sound on Sound, il bassista parla dell’influenza subita dalle chitarre in DI della prima St. Vincent. Le corde suonate vengono sparate direttamente in registrazione e poi rilavorate in circolo, buttate fuori da amplificatori, filtrate attraverso pedaliere selvagge, il segnale originale si perde nella trasformazione e un pensiero viene alla mente: che questi strumenti sono stati inventati per far uscire proprio quei suoni. La parti dei due strumenti talvolta si intrecciano in intelaiature di rumori, con tecniche di contrappunto o parti più orecchiabili. Nel pezzo d’apertura dell’esordio, Umbongo, già si trova tutto questo. Il chitarrista gioca con un motivetto semplicissimo, pizzicato su uno degli ultimi tasti della chitarra. Quel motivetto diventa linea guida per basso e batteria, che dopo una breve pausa ne seguono il pattern e lo trasformano. Sotto la voce spezzata di Dara Kiley rimane la batteria, fino a quando il basso in levare non preannuncia il ritorno furioso della materia sonora, che è stellare o anzi è una stella deflagrante nell’appartamento male insonorizzato dei vicini (introversi).

Il vicino introverso è indubbiamente il cantante Dara Kiley. Il suo canto è un taglio ritmico piuttosto che una melodia. Si muove tra il lamento rabbioso e il baritono drogato, ogni tanto falsetti (pochi), ogni tanto parlato. Il suo modo di attaccare il tempo determina il successo, ma anche la capacità di uscire dalla ripetizione un attimo prima che quella diventi davvero ripetitiva. Col passare dei dischi l’effetto ipnotico si è arricchito, in inglese si direbbe enhanced, con la post-produzione che esaspera questo approccio, capitalizza sulla ripetizione di frammenti, strania l’ascoltatore effettando parole e sintagmi, aumenta il sexy e l’oscuro, l’indifeso e l’urlo, il surreale sofferto in embrione. Il risultato è una voce che è in tutto e per tutto un altro strumento, ma che non perde mai la sua centralità nel dare volto alle canzoni.

Infine c’è la batteria, il vero motore di questo progetto. Adam Faulkner è letteralmente il cuore di questo organismo nervoso. Il suo battito è marziale e ballabile, la danza tribale comincia e finisce con lui. Nei tre dischi usciti finora la batteria è sempre un affare molto fisico e disciplinato e che finisce per suonare come il metronomo di un villaggio appena bombardato nella notte da cui tutti gli abitanti fuggono in preda al panico mentre lui tiene a bada le fiamme. Per l’amante del genere, la tag da cercare è probabilmente noise-rock, ma per andarli a vedere a Londra bisogna comprare il biglietto di una discoteca. Il mix di tecno, industrial, punk, new wave, dance avviene, come per gli effetti, giocando, anche qui provando a rifare quella o quell’altra particolare cosa sentita di sfuggita e, come dice sempre il bassista del gruppo, fallendo, dando così risultati nuovi e più in linea con i gusti del gruppo. L’abrasione è innegabile e inevitabilmente distanzia, ma per chi non ha paura la folgore è garantita.

Un’ultima nota sui testi, che sono ironici, sporchi, luridi e romantici, ci sono incomprensioni, pere banane e nutella, amori e disagi, a leggerli si capisce bene che le note e le frasi di Dara Kiley sono il risultato di come vede le cose. Anche le sensibilità quotidiane passano sotto il trattamento degli effetti, quelli dello strumento linguistico, uno dei sistemi più portentosi. Non sono testi eruditi, estratti da mille letture, ma è il nudo e crudo, come un’acqua di sorgente, il sangue di una ferita rimediata con un incidente goffo e spaventoso, personalissimo e che molti inseriscono nella triste cornice dei problemi mentali. Soluzioni a basso costo per la soluzione di testi che sono il perfetto compagno alla musica, commedia adolescenziale nera e surreale in prosodia. Sarebbe facile riportare qualche frase, meglio andare a leggersi i testi completi, per esempio Baloo, presa dall’esordio del 2015, con cui si balla mentre la gatta si muove nel giardino dei vicini alla ricerca del posto giusto dove lasciare una traccia.”

Baloo è la terza traccia di Holding hands with Jamie, una canzone che ondeggia fra momenti tarantolati in cui Kiely dà libero sfogo alla propria voglia di rovinarsi le corde vocali e altri in cui mormora nei più classici momenti di calma prima della tempesta. Lorenzo ha abbinato a questa canzone un racconto che sa di Bolaño, sarà per l’ambientazione calcistica che mi ricorda Buba (da Puttane assassine), sarà per quel modo di includere l’irreale nella realtà che caratterizzava anche il precedente testo che ci ha mandato, sarà anche perché ho appena finito di leggere Chiamate telefoniche dell’autore cileno. Se volete confermare o dissentire da questa opinione non vi resta che andare a leggervi la parabola (discendente? Ascendente?) di Ciro Grotto, che trovate come al solito dopo il brano che l’ha ispirato: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero e il numero Uno della fanzine di Tremila Battute!

Taglia luce, di Lorenzo Santangeli

Al ‘34 del primo tempo, durante un contrattacco degli ospiti, Ciro Grotto fa la diagonale per marcare il trequartista della squadra avversaria; siamo tutti certi che lo fermerà, ma quello lo inganna con un velo, tagliandolo di fatto dall’azione che porterà la sua squadra in vantaggio. Mentre gli altri si ricompongono Grotto, “l’invincibile Grotto”, in un’immagine ormai famosissima e altrettanto amara alza il braccio al cielo e chiede il cambio. Io sono in panchina, l’allenatore mi chiama e mi urla -Fedora, alzati che tocca a te -. Quando Grotto arriva a bordocampo gli chiedono cosa è successo, dove ha sentito dolore, ma lui dice soltanto – Un piano di luce, è incredibile, è incredibile –, e lo dice in brasiliano, la lingua dei suoi nonni, con le lacrime agli occhi. La conferenza del giorno dopo è storia nota, il ritiro dal calcio di Ciro Grotto a soli 27 anni è uno dei racconti più riciclati dal giornalismo sportivo. Due mesi dopo parte per Rio de Janeiro e presto nessuno, neanche la moglie, ne sa più niente.

In molti si sono chiesti cosa accadde: qualcuno parlò di depressione, altri di una patologia cardiaca rarissima. Un grandissimo allenatore, Nico Leiva, scartate queste soluzioni a basso costo parlò invece di quel velo con cui Grotto era stato neutralizzato al ‘34. – Ci sono circostanze in cui la realtà mostra la sua finzione, può accadere con ogni gesto. Movimenti in armonia con l’universo, intersezioni di piani fondamentali, collassi estatici che rivelano l’assurdo e risvegliano dall’allucinazione -, disse, minando per sempre la propria credibilità persino ai miei occhi pieni di stima. Questo fino a settimana scorsa, quando ho incontrato Grotto qui a Roma.

Stava seduto su un palco insieme a un gruppo di ragazzi. Nessuno l’avrebbe riconosciuto, grasso, strabordante, pochi capelli in testa, gli occhiali da sole. Ho capito che era lui non appena ha aperto bocca. Parlava di stile, di colori. Parlava di aironi fermi sulla superficie del lago. Di una donna nuda che esce dalla vasca da bagno. Di uno squarcio nel mondo, una parete di luce viola e arancione da cui irradia un suono tiepido e assordante. Non ci ho capito niente, ma appena si è ritirato l’ho visto camminare via dal gruppo e l’ho inseguito. L’ho raggiunto di fronte a un palazzo dove sostava come sovrappensiero, gli ho parlato e lui con grande sorpresa mi ha riconosciuto. Mi ha chiesto come stavo, come era andata la mia carriera. Puzzava di alcool da ubriacarmi, ma era lucidissimo. Abbiamo parlato presto di quello che accadde durante la partita. Cosa aveva fatto tutti questi anni? – Ho urlato -, ha detto.

Ci ha raggiunti una ragazza, bella da mozzare il fiato, sguardo omicida – Corta Luz -, si è presentata. -Lui come noi? -, ha chiesto. – No no- , ha risposto Grotto, – parlagliene se vuoi -. Ascoltandola rivedevo le immagini del cambio, quelle lacrime da miracolato. Non avrei mai capito, pensavo, ma di una cosa ero certo: avrebbero annientato pure me.

Li ho lasciati soli, non se ne sono neanche accorti.

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