
Iscritta al campionato emo/post-hardcore, sorretta da una società composta dalle etichette To Lose La Track, Shove Records e Controcanti, la formazione Heisenberg si presenta ai nastri di partenza del campionato con una formazione classica: Stefano Tamorri (basso) e Giovanni Lista (batteria) sulle linee arretrate ad impostare l’azione, Massimo Cardellicchio e Giorgio Vallone (chitarre) a correre sulle fasce e Matteo Cellini (voce) di punta, un falso nueve che alterna urla e spoken word per offendere ma non disdegna ritrarsi per lasciare spazio agi strumenti. Con alle spalle un Ep (Immaginarie linee tematiche tra cielo e terra, 2011) e un singolo (Caporetto, 2014), Heisenberg intende fare il salto di qualità con Lunazione, lo schema che nelle intenzioni dovrebbe aprire le difese avversarie: “pezzi che raccontano la ciclicità della vita”, “un concept legato alle fasi di congiunzione fra la Luna ed il Sole”, queste alcune delle dichiarazioni alla vigilia del primo match.
L’inizio di campionato (Nera era) è balbettante. Tanta energia fin dal primo minuto, ottimi fraseggi sulle fasce, ma la punta cerca di strafare e finisce per correre a vuoto, inanellando frasi che mal si installano coi tempi dettati dalla sezione ritmica e spoken word fin troppo frettolosi. Accelerazioni improvvise e cambi di tempo non riescono a imprimere una svolta, con la squadra che abbandona lentamente il campo mentre dagli spalti s’intona il coro “e con le dita in fondo ai polmoni, finalmente posso respirare”: aria di metà classifica purtroppo, per un pareggio a reti inviolate.
Nella seconda giornata (Hringvegur) l’allenatore imprime una svolta. Schema più semplice, partenza lenta e metodica ma alla prima accelerazione è gol: orchestrazione perfetta dalla difesa, la batteria si fa strada e infila con una sferzata delle sue, ben coadiuvata dal resto della squadra che apre gli spazi e segue brillantemente l’azione. Lo schema funziona, il raddoppio arriva con un’azione corale simile a quella della prima segnatura ma più ragionata: ritornelli, dirà qualcuno a fine partita, se tali si possono definire quei momenti simili in cui l’Heisenberg dà il meglio di sé. Lungo outro fino al novantesimo, ma non meno spettacolare: ritmo stabile e tanta garra, disimpegni fatti con la disinvoltura di chi ha il pallino del gioco e non intende mollarlo, voce che davanti punge con urla contropiediste e rullatona finale della batteria a sancire il fischio finale.

Squadra che vince non si cambia, recita l’adagio, ma l’Heisenberg ama sperimentare. Per il terzo incontro (Il destino non tradisce) inizia con una tattica alla Massimo Volume, accelera un po’ a ridosso dell’intervallo ma poi comincia a pretendere troppo, fraseggi complicati che non portano a soluzioni efficaci, stop & go forzati, voce che insegue gli strumenti senza trovare una coesione. La squadra osa troppo, e finisce per esporsi alle critiche.
Smaltita la delusione nell’incontro successivo (Nel nome del) la squadra entra in campo col morale alto, fa le cose semplici e le riescono bene. Poi la mossa a sorpresa, le ali chitarristiche cominciano a far impazzire i difensori avversari con fraseggi math rock sorretti dall’ossatura ritmica, gol e spettacolo. Il resto è gestione comoda del risultato, ritmi compassati ma senza che subentri la noia: qualche rischio nei secondi finali, quando addormentare ulteriormente la partita non sembra l’idea migliore.
Per il gran finale (A chi mise ricordi) lo stadio è pieno. l’Heisenberg entra in campo coesa, voce e strumenti dialogano efficacemente, poi lo spoken word apre ad una fase di accelerazioni e stop improvvisi, buon gioco ma manca il colpo del ko: la squadra sembra aver dato tutto, rallenta il ritmo, si chiude a riccio e dà l’impressione di non poter creare nuovi pericoli. È in quel momento che i cinque gettano il cuore oltre l’ostacolo, cavalcata trionfale con ordine, potenza e distorsione, scandita dal coro dei tifosi che cantano “noi non siamo quello che possediamo, ma ciò che immaginiamo”: solo cinque partite disputate, e l’inno della squadra è già pronto.
Mi perdoneranno (spero) gli Heisenberg per questa recensione bizzarra, ma la metafora calcistica mi sembrava adatta a definire la loro eccentricità. La band romana infila ottime cose, tuttavia manca ancora di certezze e questo la porta a esagerare dove basterebbe solamente gestire le energie, come un giocatore che ha degli ottimi guizzi ma si incaponisce nel voler dribblare tutta la difesa. Piacevoli i testi, intrisi di un romanticismo dolente ma fin troppo verboso: a volte la voce di Cellini mal si incastra con le strutture musicali, spezzettando frasi che avrebbero bisogno di maggior coesione o facendosi prendere dalla foga di infilare tutto ciò che vuol dire in uno spazio limitato, soluzione quest’ultima che risulta più efficace quando viene utilizzata la forma dello spoken word. Fosse un vero campionato l’Heisenberg arriverebbe a ridosso della zona Europa, come il Sassuolo di oggi o l’Atalanta di qualche anno fa: aspetto il prossimo episodio della loro carriera per capire se rimarranno una bella realtà incompiuta o se riusciranno a fare il salto di qualità.
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