Questo potrebbe essere uno degli articoli introduttivi più brevi che io abbia mai scritto da quando ho aperto Tremila Battute, un periodo in cui ancora mi contenevo e limitavo le informazioni sulla musica che faceva da sfondo ai racconti (sbagliando) e non sbrodolavo lessicalmente parlando dei cazzi miei come faccio di solito (e qui dovreste dirmi voi se sono insopportabile o meno). Via dunque con le veloci presentazioni, veloci perché sia la band della settimana che lo scrittore ospite sono facce note e altamente apprezzate in questo blog: i Morso e Stefano Tarquini.
Di Stefano ho già detto tutto altre volte: musicista (andatevi ad ascoltare i suoi Palkoscenico al Neon), sul web ha già pubblicato svariati racconti mentre all’interno di Tremila Battute potreste aver già letto questo, o magari questo. La poesia è l’altra sua grande passione e da questo ambito arriva la più grossa novità che lo riguarda, perché Stefano in questi mesi ha fatto cose ben più importanti che donare i propri testi a questo blog, ovvero pubblicare una raccolta di poesie per Transeuropa Edizioni: si intitola I giorni furiosi, potete trovarla qui e vi invitiamo caldamente a leggerla.
Dei Morso invece avevo già parlato in un articolo di marzo 2020, dopo aver intercettato per caso (e con un certo ritardo) il loro primo disco Lo zen e l’arte del rigetto (uscito per le etichette Dischi Bervisti e Cave Canem DIY). Originari delle provincie di Varese e Milano, formatisi da un’idea di Davide (chitarra) e Guido (voce) a cui si sono uniti presto il batterista Matteo e il bassista Silvano, i Morso hanno perseguito alla perfezione l’obiettivo di creare una musica senza briglie, furente, liberatoria e soprattutto genuina. Nelle undici tracce del loro esordio il punk hardcore a rotta di collo si mischia con le più svariate influenze, frutto delle esperienze parallele in altre band (Guido e Silvano fanno parte del gruppo folk-punk Uncle Bard & The Dirty Bastards, Matteo e Davide hanno suonato nei Kingfisher e quest’ultimo è tuttora chitarrista dei Bushi) e di una sana voglia di sfogare con urla e rasoiate sonore tutta l’energia che hanno in corpo. Appena prima che tutta la musica live si fermasse causa pandemia si sono esibiti al Circolo Gagarin di Busto Arsizio con Fatty Fatty Bombo e gli indescrivibili OvO (la foto che trovate in testa all’articolo l’ho rubata dal loro profilo Facebook e riguarda proprio quell’esibizione), non vedo l’ora che ricapiti per andare a vederli e, santiddio, magari pogare pure.
Stefano col suo racconto ha creato uno spin-off del brano Glamour suicide, settima traccia di Lo zen e l’arte del rigetto, una canzone in cui l’insofferenza per una relazione sbagliata si sfoga su entrambi i componenti della coppia perché in fondo “l’unico sbaglio è stato insistere”. Il racconto esplora il dopo, quel che rimane alla fine di un cambiamento lento e inevitabile: vi lascio il piacere di scoprire da soli le immagini evocate dalla penna (tastiera?) di Stefano, a me non resta che augurarvi as usual buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Mappamondo, di Stefano Tarquini
Tu e il tuo cielo perfettamente diviso in due, maledettamente colma di nuvole una parte e sfacciatamente vuota l’altra. Tu e la tua mania di organizzare le cose secondo uno stupido codice binario, che non è zero e uno, ma è maniacale, è possedere, possedere e mettere in ordine, come volevi fare con me. Con i miei ricordi che volevi fossero i tuoi, con il mio passato con cui hai organizzato il tuo futuro, la tua persona mancante, la donna che non eri.
Svegliati finalmente nella mia parte di letto e rotola nella tua, dove se allunghi la mano puoi accendere una luce a caso, puoi alzare la serranda elettrica spingendo il tasto, puoi ricaricare il telefono e le tue ossa magre. Puoi pensare ad alta voce perché io non ci sono, puoi parlare da sola e preparare i tuoi bei discorsi spacca cuore, prevedendo ogni risposta, ogni reazione, così da essere pronta, così da sentirti meno sola, meno in colpa.
Ti alzi solo per rimettere le sedie al loro posto, sotto il tavolino che ho montato io, che mi hai fatto spostare quindici volte, sotto la finestra, meglio sotto il quadro, accanto il piccolo armadietto con i pacchi di caffè e le scatole di ceci. Le forchette al loro posto. I ricordi al loro posto.
Dove ti poggiavi quando volevi fare l’amore, muovendo il culo per farmi eccitare. Quando mimavi passi di un tango improbabile per farmi ridere, mettendo la s alla fine di ogni parola. Quando apparecchiavi con uno straccio pulito al posto della tovaglia e cenavamo con mezzo chilo di variegato all’amarena, immortalandoci dentro polaroid da attaccare alla vetrata della cucina.
Dove hai scordato i mie occhi. Le mie attenzioni sotto il cuscino a scacchi del divano letto. I miei baci tra i libri di Baricco e Camilleri che non ho mai voluto leggere. Le mie carezze tra le bottiglie di Amarone che stanno prendendo polvere, come i nostri modi di dire che sono solo nostri. Le poesie che ho scritto per te tra i flyer di vecchi film in bianco e nero di cui ho scordato i titoli e gli attori che li hanno interpretati.
E le trecento bottiglie vuote di Campari, con cui volevi fare un lampadario a forma di mondo, il mondo che è sempre un po’ più vuoto, sistemate per bene dentro scatole di cartone dell’azienda in cui lavori. Un giorno mi chiamerai per aiutarti a metterle in macchina o a portarle alle campane per il vetro e buttarle via.
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