Fair play = fair movie, ovvero un film sulla disparità di genere libero dagli stereotipi

Esiste un mondo in cui i contenuti originali di Netflix sono tutti del calibro di Roma di Alfonso Cuarón o The irishman di Martin Scorsese, ma non è questo. Non voglio strapparmi le vesti in nome del cinema d’autore, io i due film appena menzionati non li ho onestamente visti, ma sarebbe sicuramente preferibile un mondo come quello rispetto a uno dove La casa di carta è l’apice della produzione della grande N (metteteci pure Stranger things come alternativa) e molto del resto naviga in un mare di mediocrità ancora peggiore (non sono un grande fan de La casa di carta). Quando esce un film o una serie originale Netflix sono ormai portato a pensare, e non penso di essere l’unico, “quanto sarà sciatto/banale/scritto col pilota automatico? Più o meno di Spiderhead?”, e la risposta di solito è “di più o uguale”. Se poi i contenuti in questione vogliono affrontare qualche tematica sociale il rischio “lezione morale svogliata” aumenta a dismisura: immaginate Barbie (che per inciso mi è piaciuto) composto solo dallo spiegone anti-patriarcato prolungato per due ore, l’effetto rischia di essere quello. Quando la mia compagna mi ha proposto di vedere Fair play, film Netflix su una coppia in cui i legami di potere sono ribaltati pur in un’ambiente a livello di testosterone altissimo, il campanello di allarme è scattato a tutto volume: allo stesso tempo però abbiamo entramb* pensato che avremmo avuto qualcosa di cui (s)parlare, perciò ci siamo buttat* senza rete incrociando le dita.

Fino a qui tutto male

Emily (Phoebe Dynevor) e Luke (Alden Ehrenreich) sono giovani, carini e ben occupati. Non vivono ancora in una villa con giardino, anzi il loro appartamento è nella media e non nella zona più lussuosa della città, ma lavorano entrambi per un fondo fiduciario e le opportunità di crescita e guadagno sono alte, soprattutto contando che gira voce che a un loro superiore sta per essere dato il benservito. Neanche il tempo di dirlo e voilà, con tipico sfogo distruttivo di chi ha dato tutto per l’azienda e ne riceve un calcio nel culo il superiore saluta i colleghi (usare l’asterisco per la sola Emily vi darebbe la falsa impressione che ci siano altre donne nell’azienda), e le voci che iniziano a girare sono sul sostituto: che possa essere Luke? La coppia fantastica sull’avvenire, ma rigorosamente lontano dall’ufficio, perché le regole aziendali vietano i rapporti interpersonali fra dipendenti: un bel problema contando che Luke ha dato ad Emily l’anello di fidanzamento e la mamma di lei non vede l’ora di dirlo a tutto il mondo, ma niente di insormontabile finché ci si ama e si fa fronte comune. O fino a quando non è Emily a essere promossa.

“Mi prendi per il culo?”

Che il lento logorio del rapporto di coppia sia il fulcro del film è chiaro già solo guardando il trailer, ma una produzione stanca e svogliata avrebbe mostrato tutto ciò che ci aspettiamo da un contesto in cui anche i muri urlano W IL PATRIARCATO e niente di più. Chloe Domont, regista e sceneggiatrice al suo esordio cinematografico dopo aver lavorato a svariate serie tv, riesce invece a lavorare di sottigliezze, sfumature di grigio (non le cinquanta che potete aspettarvi, anche se in giro vedo articoli che evidenziano il lato erotico della pellicola che sì, c’è, ma non è affatto preponderante) che rendono più credibili le vicende. L’insoddisfazione di Luke assume così i contorni, a seconda del momento, dell’invidia, della gelosia, della violenza e della megalomania, il tutto malamente trattenuto a esaltare le sue mancanze tanto di fidanzato quanto di maschio alpha; Emily non è la classica eroina in pericolo, nell’ambiente che si è scelta ci sguazza con maestria e solo qualche timido dubbio di non essere all’altezza (alimentato dai pessimi consigli di Luke), mostrando più volte comportamenti che fanno apparire lei come l’alpha della coppia e che risultano altrettanto discutibili; persino l’ufficio, un luogo dove quando appare un’altra dipendente mi sono ritrovato a esclamare “oh, ora c’è un team tutto al femminile” (prontamente redarguito dalla mia compagna), contiene dosi altissime di mascolinità tossica ma un’inaspettata equità di giudizio (se si esclude che nessun uomo verrebbe apostrofato per un errore enorme con la frase “brutta troia imbecille”), passando al tritacarne del capitalismo chiunque senza distinzioni di genere.

“Come mi hai appena chiamata?”

Se il film funziona, oltre che per l’abilità nell’evitare quasi tutti i cliché, è anche per le interpretazioni. Un cast trainato dalla protagonista di Bridgerton e da colui che ha sconfitto Cocainorso (ok, ha fatto anche tante altre cose il povero Ehrenreich, ma in che altro modo potevo citare una pellicola su un orso strafatto di cocaina?) non dava gradi speranze, invece Dynevor e Ehrenreich funzionano bene, hanno una buona alchimia quando si amano e ne hanno una ancora migliore quando si detestano. Ad accompagnare il loro campionario di rivalse e crudeltà gratuite c’è un gruppo di colleghi splendidamente detestabile, dal capoclan Campbell interpretato da Eddie Marsan (uno che ho scoperto con quel gioiellino di delicatezza che risponde al nome di Still life e che invece si dimostra perfetto nel ruolo di cattivo, come dimostrato anche dalla serie Ragazze elettriche) al giovincello rampante interpretato da Sebastian De Souza, il cui sorrisetto beffardo perennemente stampato in volto ti fa venire voglia di entrare nello schermo per prenderlo a schiaffi (ma anche questa è mascolinità tossica). Mentre la trama si dipana verso un finale meno scontato del previsto (che non è quello scritto in questo articolo, pubblicato da qualcun* che ha guardato il film con mezzo occhio SE l’ha guardato) la tensione rimane alta, con la possibilità che la relazione con Luke possa venire allo scoperto a pendere come una spada di Damocle sulla testa già abbastanza piena di pensieri di Emily: in tutto questo Domont può permettersi pure di buttare lì la classica pistola checoviana (sotto forma di assegno) senza sentire la necessità di farla sparare.

“Come posso essere ancora più stronzo nel prossimo film?”

Per quanto abbia evidenziato più in alto che il lato erotico di Fair play è tutt’altro che preponderante, quel lato c’è e si sente: Domont cerca e trova il modo di spogliare Dynevor spesso e volentieri (senza però mai far vedere troppo), ma le scene di sesso finiscono per portare avanti la narrazione efficacemente invece di risultare semplici momenti pruriginosi obbligati. In questi momenti la regista riesce a mostrare il desiderio sessuale in maniera non stereotipata, sia dal lato maschile che da quello femminile, ma il sesso in sé è filmato con il solito immaginario da film porno: il corpo di Emily reagisce agli stimoli secondo i dettami del male gaze, pronto all’uso immediatamente in qualsiasi situazione, e per quanto voglia evitare l’errore di definirmi esperto di ciclo mestruale (da maschio bianco va da sé che non me lo posso permettere) l’aver partecipato alla presentazione del libro Questo è il ciclo di Anna Buzzoni mi rende poco credibile una donna che non si accorge dell’arrivo delle mestruazioni, ritrovandosi inconsapevolmente nel pieno di quello che la protagonista di Crazy ex girlfriend chiamerebbe “period sex” (anche se va applaudito il coraggio di inserire questa scena subito all’inizio). Assieme alla censura del pene (cui ho dedicato questo articolo) è un altro dei modi di rappresentare il sesso che andrebbe superato, ma anche al netto di questi difetti Fair play resta non certo un capolavoro, ma un ottimo film che riesce a sviluppare le premesse in maniera credibile e con dei buoni lampi d’inventiva.

Netflix sta migliorando la qualità dei suoi prodotti originali quindi? Vorrei tanto dirvi di sì, ma dopo aver iniziato a scrivere questo articolo ho scoperto che in realtà il film era stato presentato al Sundance a gennaio e solo in un secondo momento la grande N ne ha acquisito i diritti di distribuzione: accontentiamoci del fatto che se non altro i dirigenti questa volta hanno scommesso sul cavallo giusto, e perdonatemi se potete per lo sfogo iniziale che, a conti fatti, risulta totalmente ingiustificato. O no?

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Racconto in musica 150: Luce opaca (Tommaso Tanzini – Attorno al fuoco)

Volevo iniziare questo articolo parlando delle band che si sciolgono, di dove finiscono l* componenti una volta che termina il loro percorso perché, fortunat* mortali che ascoltano gruppi strafamosi che magari lasciano una traccia del loro percorso a parte, se sei appassionato della musica di una misconosciuta band della Val Brembana (zona scelta a caso) e quest* smettono di fare musica ci sono ottime probabilità che non ne sentirai mai più parlare. Poi certo, capitano casi come i Drink To Me da cui esce un certo Cosmo, o come i Criminal Jokers, band che non ho onestamente mai ascoltato ma che è diventata un nome famigliare dopo il disco d’esordio di Motta, ma quante volte capita? E quante volte capita, cosa ancora più rara, che da una band continuino a fare musica più componenti, riuscendo a portarla all’attenzione di un pubblico maggiore di quello di un oratorio di Bergamo (questo è successo a me)? Rarissimo, ma approfondendo la storia di Tommaso Tanzini (che, come avrete intuito se siete habitué di questo blog, o anche solo se avete letto il titolo in alto che io faccio tanto il misterioso anche se è totalmente inutile, è l’ispiratore del racconto della settimana), fondatore dei Criminal Jokers quando ancora erano una band busker, ho scoperto un sacco di connessioni inaspettate con concerti a cui sono stato e band su cui ho pensato di scrivere… e alla fine questa introduzione è diventata effettivamente una riflessione sulle band che si sciolgono e su dove finiscono l* membr* quando capita.

Ma partiamo dalle basi, ovvero presentarvi Lorenzo Del Corso, che ha scritto il racconto che trovate più in basso e ha pensato di donarlo alla causa della musica bella che fa la fame (ma a volte meno). Nato a Pisa nel 1994, la passione giovanile per l’economia e l’informatica lo portano nel 2020 a diventare… professore di italiano (qualcosa dev’essere andato storto, come ammette lui stesso). Di certo anche quella per la lingua e la letteratura è una passione, altrimenti non avrebbe pubblicato su tante riviste come Rivista Blam, Il mondo o niente, Malgrado le mosche, birò, Clean (che ha appena ripreso vita, mandatele dei racconti!), Lettera zero, Bomarscé e L’appeso, mentre prossimamente lo troverete sulle pagine (o schermate) di L’equivoco, Limen pastiche e Quaerere. Ha anche frequentato la poesia, partecipando alla raccolta #ManifestAmi di Dazebao e pubblicandone una sua con l’editore Aletti, Dannato vivere (2014): dal 2019 è membro del collettivo di scrittura Lo scisma, di cui vi consiglio di andare a visitare il sito a questo link.

Anche Tanzini è pisano, e la sua carriera di musicista è piena di svolte almeno quanto quella di chi finisce a insegnare italiano dopo essersi appassionato a economia e informatica. Classe 1986, inizia a suonare la chitarra da autodidatta ma, a differenza di me che ho continuato così (migliorando ben poco), lui si specializza all’Accademia musicale Lizard di Fiesole, nello stesso periodo in cui fonda con Francesco Motta e Simone Bettin i già stranominati Criminal Jokers che, chissà per quale motivo, non includono il suo nome fra l* membr* nella pagina wikipedia della band. Forse preconizzando questo pasticciaccio brutto (tanto per citare un libro che non ho letto) Tanzini lascia la band e anche l’accademia, dedicandosi alla sua musica e ad altri progetti, come l’album Community (2013) con l’orchestra afrobeat Sonalastrana e il lavoro da dj con il moniker Stop Making Sensible, in omaggio ai Talking Heads e alla settima nota della scala come spiegato in questo interessante reportage pubblicato sul sito di Soundreef. Proprio a Soundreef e non alla SIAE (come affermato da lui stesso perché agli uffici del MALE gli hanno detto “se non sei iscritto chi ti viene a vedere ai concerti?” E lui ha trovato l’alternativa, tiè) si affida quando comincia a portare in giro le canzoni del suo esordio Piena (2014, prodotto da lui e da Davide Barbafiera in uno studio che rischia di essere invaso da un momento all’altro dalla piena dell’Arno, e che potete scaricare in free download dal suo profilo Bandcamp), un disco di cantautorato scarno che si fa forza principalmente della chitarra fingerpicking e della voce di Tanzini, sghemba e onesta come lo sono i testi, colmi di disillusione e ironia. Nel frattempo il mondo della musica cosiddetta indie cambia, si mischia sempre più col mainstream e questa cosa influenza e allo stesso tempo spaventa Tanzini, come si evince chiaramente da questa intervista sempre per Soundreef: da queste contraddizioni nasce Giganti (2016), il suo secondo disco, prodotto ancora una volta da Barbafiera per la sua etichetta Aloch Dischi (esclamazione pisana per dire “ah però!”), musicalmente più pop ma pieno di quell’ironia un po’ arresa che rende la voce autoriale di Tanzini riconoscibile. Da qui in avanti, avessi smesso di scavare, avrei potuto pensare che la sua carriera era finita in un buco nero: invece sono stato proiettato direttamente nei miei ricordi.

Lago Sirio, 2017. Per motivi vari giravo come una trottola per festival musicali e non solo, e di tutti quelli a cui ho partecipato A Night Like This rimane uno dei ricordi più intensi (e dei rimpianti maggiori, visto che è tuttora in stato vegetativo dopo la pandemia): ne ho parlato più volte su queste schermate, il campeggio comodo vicino all’area feste e pure un palchettino sul molo, ho parlato di varie band che ci hanno suonato (tipo loro) ma non avevo ancora parlato dei Campos, gruppo di cui mi innamorai ascoltandoli suonare su uno dei tre palchi del festival. Attivi dal 2011, della band fanno parte inizialmente Dahri Vij (basso), Davide Barbafiera (elettronica e percussioni), già apparso poche righe sopra in qualità di produttore dei dischi di Tanzini, e Simone Bettin (voce e chitarra), già apparso qualche righe ancora più su in qualità di membro fondatore dei Criminal Jokers. I Campos (nome scelto in omaggio al mitologico portiere messicano Jorge Campos) iniziano a fare musica a distanza, visto che Bettin si è trasferito a Berlino, poi la città tedesca (che vuole un sacco bene a Tremila Battute, visto che l’enclave berlinese sta per aumentare ulteriormente) diventa terreno di conquista con i primi concerti nei locali della capitale. Nel 2015 i Campos iniziano a registrare il primo disco, Viva (2017, Aloch Dischi), poi lo portano in giro per tutta Italia (MiAmi compreso) ma con una novità al basso: Vij esce dal gruppo e a sostituirla arriva un altro pisano, che è proprio Tommaso Tanzini. Il resto è una storia fatta di altri due dischi, il passaggio dall’inglese all’italiano, la partecipazione a un film, un bando della SIAE vinto (guarda i casi della vita…) e varie altre vicende che magari vi racconteremo in futuro, associando alla band un racconto ad hoc: continuate a seguirci quindi!

Attorno al fuoco è la decima traccia di Piena, una ballata malinconica sulla difficoltà di lasciare la casa in cui si è cresciuti. Su questa immagine Lorenzo ha creato un racconto che si mantiene sul confine fra reale e fantastico, proiettandoci in una casa nel bosco da cui fuggire e a cui ritornare, facendo i conti con le aspettative tradite e consci che nel frattempo la vita, e la morte, faranno il loro corso: potete leggerlo subito dopo il link alla canzone che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Luce opaca, di Lorenzo Del Corso

Dopo il funerale torno verso casa dei miei. Anche io, come loro, credevo che non avrei mai abbandonato il bosco. Crescendo ho incontrato la miseria emotiva delle famiglie. Io non ho vissuto questo. Ho avuto il privilegio della serenità. Generazioni della mia famiglia sono vissute dei prodotti del bosco, della legna, dei funghi, della frutta. Sono state generazioni austere, prive di qualsivoglia consolazione. In questa dignitosa povertà, i miei genitori hanno costruito la casa. Sicura, nascosta all’ombra dei rami, protetta dal mondo. Io sono nato nell’incanto bucolico, ma con me avevo l’inquieta idea che il bosco era poco. Loro adesso non ci sono più.

Insieme costruimmo la chitarra, modellando i legni come avevano fatto i nostri predecessori. Iniziai a suonare e a cantare la mia idiosincrasia. Loro non capivano il senso della mia musica, volevano solo i suoni del bosco. La sera ci riunivamo intorno al fuoco del camino, e io suonavo per loro; sorridevano e applaudivano, senza capire. Me ne andai prima di un’alba. Mi salutarono sulla porta: nessuno era più soddisfatto.

Non posso dire di aver avuto fortuna. La mia musica non mi ha portato ricchezza, il mio talento si è rivelato mediocre, la mia vena povera. Fra un ingaggio e l’altro tornavo sempre al bosco. Raccontavo i miei lunghi viaggi, i numerosi concerti. In casa il rito era sempre il solito: la sera dopo cena intorno al camino a parlare, senza capirsi. Col tempo iniziarono ad avere bisogno di me. Tornavo spesso per occuparmi di questioni mediche, per accompagnarli a fare le visite, mi prendevo cura del bosco e della casa. I miei erano sempre più stanchi. A distanza di pochi giorni l’uno dall’altra se ne sono andati. E ora, dopo il funerale, torno a casa, per sistemare le ultime cose.

Risalgo il lungo vialetto schiacciando aghi di pino e foglie. Di fronte a me la casa. Il riflesso della luna illumina le finestre del salotto. Non è un riflesso. C’è qualcuno dentro. Mi fermo. Sembra che qualcuno sia entrato e abbia acceso il camino. Mi avvicino di soppiatto. Il vetro delle finestre è appannato. Mi accorgo solo ora del gelo intorno a me, l’aria ferma e fredda, il bosco muto. C’è qualcuno in casa? Non vedo movimenti, solo il riverbero del fuoco nel braciere. Ma non c’è nessuno. I miei hanno lasciato il fuoco acceso prima di morire? Corro ad aprire la porta, ma la chiave non gira. Non è quella giusta. Provo le altre, niente. Strattono la porta, la prendo a spallate. La casa non ha neanche un sussulto. Torno alla finestra. Raccolgo una pietra e la scaglio sul vetro: resta intatto. Continuo, senza risultato. Cerco di arrampicarmi, ma non riesco ad appigliarmi, torno sempre a terra. Il fuoco fa agitare le ombre indolenti sul soffitto, non si sono accorte di me. Non posso entrare in casa. Vedo sbiadire il salotto, il corridoio, le pareti, gli odori. La luce opaca indebolisce la mia vista. Sono stanco. Il fuoco rimane acceso ad aspettare, per sempre. Loro non ci sono più.

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Racconti fantastici e dove trovarli: Speciale Firenze RiVista 2023

Dal 22 al 24 settembre 2023 si è svolta la settima edizione di Firenze RiVista, e Tremila Battute può dire “io c’ero”. L’emozione di trovarsi nel campionato dei grandi, per quella che continuiamo a definire un’aspirante rivista letteraria, è stata enorme, e nell’arco dei tre giorni del festival abbiamo avuto modo di parlare con tante persone, partecipare al torneo di bocce ufficiale della rassegna (la partership con piédimosca edizioni ha portato ad un’eliminazione al primo turno, ma abbiamo dato filo da torcere a quelli che si sarebbero poi rivelati i finalisti del torneo ovvero i ragazzi di Amianto Comics), bere in ottima compagnia durante e dopo gli orari di apertura e, soprattutto, approfondire la conoscenza delle altre riviste presenti. Alcune le conoscevamo già, altre le abbiamo scoperte in loco, molte altre sono rimaste fuori da questa selezione ma chissà, ora che abbiamo ripreso questo format dopo una lunghissima pausa (qui il primo articolo dedicato alle riviste, qui il secondo dedicato a quelle che si occupano di flash fiction) può essere benissimo che finiremo a parlare anche di loro molto presto.

Ma ora bando alle ciance e partiamo con

Super Tramps Club (Benedetta Marinelli – Perché Desiré)

Super Tramps Club nasce nel 2018 a Torino, ma fedele all’idea che la narrativa sia vagabonda per natura la redazione (di cui fa parte anche Stefano Tarquini, vecchia conoscenza di Tremila Battute e in procinto di tornare su queste schermate) si sposta ora qua, ora là, facendo crescere nel frattempo il progetto in qualità e quantità di contenuti. Oltre al sito, in cui viene pubblicato un racconto o silloge poetica a settimana, l* membr* della redazione hanno messo in piedi anche Turchese, una rivista cartacea curatissima (che potete acquistare qui), e stanno per varare una casa editrice, dimostrando grande professionalità, ambizione e amore per la letteratura. Ogni testo viene poi corredato da fotografie splendide, frutto di collaborazioni con professionist* di ogni angolo del globo.

I racconti presenti in Super Tramps Club (e Turchese), pur notevolmente diversi fra loro, sono uniti da un ritmo trascinante e dell’originalità della prosa, segno evidente di una ricerca stilistica precisa da parte della redazione. Se avete nel cassetto (o più probabilmente nell’hard disk) un racconto che sa riscoprire la meraviglia e l’abisso del quotidiano, mostrare il lato nascosto di ciò che abbiamo davanti ogni giorno, la pagina a cui connettervi per ulteriori indicazioni è questa: la redazione vi darà in ogni caso la sua opinione, sicuramente ponderata e rispettosa visto che, avendo conosciuto alcuni dei membri, posso testimoniare che sono persone splendide tanto per parlarci di letteratura quanto per berci qualcosa insieme.

Succede in bagno: tiri giù i pantaloni e le dita inciampano su quel poro. Ti dici che no, non può essere, e, mentre il pavimento pelvico si irrigidisce a tal punto da interrompere il flusso di pipì, busserai alla porta della tana dove si è nascosto tutto questo tempo: lui, il pelo.

Bastardo disertore, quel pelo ha lasciato morire tutti gli altri fratelli e invece di cadere con loro… si è nascosto sottopelle, come i topi di fogna.  A quel punto non puoi più negare che tu lo sapevi, eccome se lo sapevi, sin da quando ti strappavano il vello, che quello stronzo era già lì, a covare nel buio il pus, il rosso, il dolore.

Benedetta Marinelli, Perché Desiré

È stata ardua la scelta del racconto da citare a corollario della presentazione di Super Tramps Club. Avrei potuto scegliere questo, questo o uno di quelli pubblicati nel numero 5 di Turchese (tenete d’occhio il nome di Giuseppe Nanfitò: se al primo racconto apparso su una rivista tira fuori una bomba come Il Nettuno chissà cosa potrà fare in futuro), ma alla fine l’ha spuntata uno degli ultimi racconti pubblicati sul sito. Il racconto di Marinelli è infatti appassionante, originale, sociologicamente interessante, il tutto parlando dell’epopea di… un pelo sopravvissuto alla ceretta. Eh sì, quando si sa scrivere è possibile creare magia parlando di qualsiasi cosa: potete rendervene conto leggendo il racconto qui.

Neutopia (Adriano Giotti – Sputare nella neve)

Neutopia non l’ho scoperta a Firenze bensì due anni prima, in occasione della presentazione milanese del numero otto della loro rivista cartacea, ma vedere il loro banchetto alla rassegna fiorentina mi ha convinto subito a dedicare loro uno spazio in questo articolo. Vera e propria piattaforma culturale, Neutopia si articola in varie sezioni, dai racconti alla poesia passando per approfondimenti sociali, recensioni musicali, reportage e, in generale, una viva attenzione per tutte le forme dell’arte e quelle che può assumere in futuro. Nata a Torino nel 2016, dal 2017 Neutopia è un’associazione culturale che organizza nel capoluogo piemontese eventi, esposizioni artistiche e presentazioni, oltre ad organizzare dal 2019 nel quartiere Barriera di Milano il festival di poesia contemporanea e street art Poetrification e ad indire, dal 2020, il Premio Roberto Sanesi di poesia in musica. Ogni articolo, racconto o poesia pubblicato sul blog, aggiornato ogni due settimane, testimonia di una spinta alla sperimentazione e alla ricerca di nuove forme di espressione, caratteristiche che si ritrovano anche nel magazine che l* membr* della redazione pubblicano con cadenza quadrimestrale (la mia riscoperta di Iosonouncane la devo anche a un loro articolo dedicato all’album Ira): se volete collaborare a una qualsiasi delle sezioni qui trovate maggiori informazioni.

Hanno già sgomberato i primi due padiglioni dai senzatetto e dai migranti.
Entrano in quello degli zingari, la gerarchia della società viene rispecchiata anche qua nel caos, la prima fila dello squadrone scatta a picchiare. Gli zingari vengono aggrediti da dietro, mentre provano a scappare, manganellate e spinte, calci, alcuni provano a reagire ma non hanno speranza, gli antisommossa si accaniscono per spingerli fuori approfittandone per sferrare colpi violenti ai reni e nelle costole dove fanno più male. Roma la capitale dev’essere mantenuta pulita, il loro compito all’interno della società è sacro. Giorgio è tra quelli che picchia con maggior ferocia. Il sudore gli impregna la maglia sotto le ascelle, sulla schiena, se la sente appiccicata addosso. La persona è solo un bersaglio. Un corpo può subire un numero indefinito di colpi. Solo alla testa bisogna prestare attenzione. Giorgio picchia ovunque fuorché alla testa.
Così può colpire forte.

Adriano Giotti, Sputare nella neve

Adriano Giotti è un’artista a tutto tondo. Autore di vari corti e di un lungometraggio, Sex cowboys (2016), che ha ottenuto ottimi riscontri dalla critica italiana ed europea (e che ha vinto il premio come miglior film italiano al RIFF – Rome Indipendent Film Festival), quando non ha una videocamera in mano scrive e dimostra un’abilità fuori dal comune anche con la penna. I suoi racconti sono pubblicati su svariate riviste e su Neutopia è possibile trovare numerosi suoi testi, sia sul blog che sui numeri del magazine (compreso l’ultimo, Comunismo acido, uscito da poco più di una settimana). Sputare nella neve è uno dei suoi primi contributi pubblicati sul blog, un’analisi insolitamente sfaccettata di un celerino fra la sua vita privata e lo sgombero di un edificio occupato da effettuare senza andare troppo per il sottile: potete immergervi fra le pieghe di questa figura scomoda andando a questo link.

Birò (Valentina Falcioni – Camille)

Anche birò (che per una bizzarra casualità aveva lo stand di fronte a quello di Biro, rivista per genitori alla ricerca di contenuti originali) è una riscoperta, ma se due anni fa proprio a Firenze ne avevo scoperto l’esistenza è solo negli ultimi mesi che mi sono piacevolmente perso nei racconti pubblicati sul loro sito. Nata nel 2020, birò incentra la propria ricerca narrativa sulla prima persona singolare: che siano a tema libero o frutto di una delle call a tema lanciate saltuariamente i testi sono sempre narrati dalla viva voce dell* protagonist*, e ognuno è accompagnato da un’illustrazione originale. Schema che vince non si cambia, così la stessa formula è stata replicata anche per A4, la rivista di cui a Firenze è stato presentato il secondo numero nonché il primo cartaceo: se volete apparire sul sito e chissà, avere la possibilità di entrare a far parte del prossimo A4, potete cominciare a rispondere alla prossima call attiva fino al 15 ottobre (maggiori dettagli qui).

Ombra. Provo ad allungare le dita per imitare Claude, ma qualcosa le trattiene. Tento di nuovo, invano. Per un attimo sono Clotho, i capelli lunghi e avviluppati mi oscurano il viso, strusciano contro i seni emaciati e mi annodano i polsi. Poi rammento che sono stata io a plasmare la figura della moira scarna e decadente, mentre ora sono ricoverata, non riesco a dire da quanto, però so che sono legata come una bestia da macello. Ripetono che devo smetterla di agitarmi, mi stanno trasportando in fondo al corridoio, verso un posto sicuro.

Valentina Falcioni, Camille

Di tutti i racconti che ho letto sul sito di Birò quello di Falcioni mi si è impresso in testa, complice il fatto che tratta di una storia vera. Con una capacità di sintesi che non tralascia nessun dettaglio importante l’autrice narra infatti la storia di Camille Claudel, talentuosa scultrice ingiustamente considerata a lungo solo la musa di Auguste Rodin e ancora più ingiustamente segregata in un manicomio per gli ultimi trent’anni di vita dalla madre. Falcioni riesce a rendere con le sue parole tutte le sfaccettature della figura di Claudel, la sua passione per l’arte e per la vita così come la sofferenza dovuta a una prigionia da cui si rifiuterà di salvarla anche il fratello Paul, che non partecipò nemmeno alle esequie e lasciò che il corpo della sorella venisse sepolto in una fossa comune. Potete leggere il racconto, e rabbrividire per la sorte avversa della scultrice francese, andando prima di subito a questo link.

Quarere (Mariana Branca – Angelina no)

Di Quaerere avevo già sentito parlare, ma l’occasione di approfondire un po’ si è concretizzata solo nei giorni di Firenze RiVista. Come evidenziato dal nome stesso della rivista, che significa “ricerca”, Quaerere ha nel proprio spirito dialogo, discussione e confronto, veicolati attraverso contributi della redazione o di altr* collaborator* in quattro sezioni distinte (Filosofia, Lettere e dintorni, Recensioni e Poesie). E i racconti? Ci sono anche quelli ovviamente, e anche loro non sfuggono alla missione della rivista: in essi l* membr* della redazione cercano una visione, una tensione verso un senso, qualsiasi esso sia. Per trovarli si affidano a delle call tematiche (l’ultima, incentrata sul conflitto, è terminata il 30 giugno), per poi pubblicarli dal 2022 in una rivista scaricabile gratuitamente o acquistabile in forma cartacea, giunta ormai al quarto numero e con un quinto in fase di produzione. Vi servono ulteriori delucidazioni su come fare a collaborare, con un racconto o magari con un articolo? Qui trovate tutte le informazioni del caso.

Angelina no, tu Angelina hai le palpebre gonfie e gli occhi schiacciati neri dentro come due spicchi d’aglio bruciati o due carboni o due pezzi rotti di lavagna. Angelina ci guardi fisso e noi ti cerchiamo gli occhi tra le palpebre ammassate, ti scorgiamo i pistilli neri e ti ascoltiamo dire frasi senza senso e tu ridi, quando ci incontri, i tuoi spicchi d’aglio bruciati ti sorridono belluini sulla faccia, Angelina che te ne stai all’angolo della strada del quartiere che va verso il ponte di R. con la tua bambola di pezza, in estate vestita di uno smanicato, in inverno di un cappotto che era stato bianco, che indossi quasi per tutto l’anno, perché nel quartiere Pozzo di S. fa freddo sempre, un freddo che è forse come il freddo dentro al pozzo, quello di centinaia di anni al centro del quartiere, che quando eravamo piccoli Matteo ci cadde dentro e, non fosse stato per le edere e le gramigne, torte e ritorte su loro stesse e intorno al pozzo fino a renderlo un’escrescenza, un nocchio, una tumescenza dell’edera e della gramigna, dure e forti più della pietra del pozzo stesso, non l’avremmo mai più rivisto, Matteo. Che una volta fuori dal pozzo di edera e gramigna, disse faceva freddissimo, là dentro.

Mariana Branca, Angelina no

Il modo migliore per introdurre ai racconti di Quaerere mi è sembrato quello di utilizzare il testo di Mariana Branca. Perché? Perché è frutto di una richiesta specifica della redazione, la ricerca dello stile di Branca per inaugurare il numero quattro della rivista. E che stile! L’autrice, che nel 2022 ha esordito con il libro Non nella Enne non nella A ma nella Esse per la casa editrice Wojtek, traccia il ritratto di una outsider totale attraverso le parole di un “noi” indefinito, un gruppo di ragazzi del quartiere Pozzo di S. che sminuisce la povera Angelina mentre magnifica le altre ragazze in età da marito, il tutto con una fluidità di linguaggio che irretisce il lettore: per provare l’esperienza andate qui e, già che ci siete, leggetevi anche gli altri splendidi racconti del numero.

Bonus track: L’inquieto

Ok, de L’inquieto abbiamo già parlato in un vecchio articolo, ma dieci anni si compiono una sola volta e loro hanno deciso di farlo in maniera speciale. A Firenze Martin Hofer ha infatti portato la prima versione cartacea della rivista, con l’intenzione esplicita di capire chi sono e quanti sono, al di fuori delle fredde statistiche del sito, i lettori de L’inquieto: sette racconti inediti di autor* che già vi avevano pubblicato in passato (qualche nome? Mattia Grigolo, Claudia Grande e Simone Lisi, quest’ultimo protagonista di una splendida lettura con live painting durante l’evento che ha chiuso Firenze RiVista), sette illustratori ad accompagnare con la loro arte le parole, un compendio fisico imperdibile per ogni amante della lit-web che potete acquistare qui. Se invece siete di Milano e la rivista volete comprarla di persona, eccovi accontentati: fatevi trovare alla libreria Noi alle ore 19 di giovedì 26 ottobre, qui trovate maggiori dettagli.

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Racconto in musica 149: Pinocchio (Luigi Frassetto – Viale degli oleandri)

In uno dei primi articoli del blog, quando “grazie” alla pandemia e alla conseguente cassa integrazione potevo scrivere gli articoli di pomeriggio invece di sacrificare ore di sonno (e potevo anche completare la mia prima raccolta di racconti, ancora inedita: editori fantasma che leggete Tremila Battute, fate tesoro di questa informazione e fate a gara per coprirmi di soldi), mi vantai di aver riconosciuto al volo la mano di Carter Burwell nella colonna sonora di The morning show. Mi accorgo, a distanza di anni, che quell’articolo poteva dare adito a un disguido, ovvero far pensare che io sia un esperto di colonne sonore: non è così. Appassionato di cinema sì, attento al lato sonoro certamente, ma la mia conoscenza dell* autor* di colonne sonore inizia e finisce con Burwell. Sono anche piuttosto ignorante sul panorama italiano di compositori, visto che saprei citare a memoria solo il nome di Ennio Morricone e mi si fermano sulla punta della lingua una manciata di altri nomi: a coprire parzialmente questa lacuna arriva Christina Nike Gagliardi, gradita new entry fra l* collaborator* del blog, che ha deciso di ispirarsi per il suo racconto alle note del musicista e compositore di colonne sonore Luigi Frassetto.

Christina nasce a Cagliari nel 1983. Laureatasi in Lettere, negli anni collabora con diverse riviste culturali (Critica letteraria, L’indiependente, Succede oggi, S&H e varie fanzine sarde) scrivendo articoli, recensioni letterarie e musicali e ritrovandosi anche a intervistare un certo Jacopo Incani aka Iosonouncane (di cui vi avevamo parlato qui) durante la lavorazione di Die. Nel 2014 vince il premio Sinergie Creative con il racconto Prima persona singolare, mentre Una convivenza difficile le viene pubblicato sul secondo numero della rivista internazionale Interpret Magazine (tradotto anche in francese e inglese). Quest’ultimo racconto entra a far parte della sua prima raccolta Qui e altrove, pubblicata quest’anno dalla casa editrice Dialoghi, in cui Christina unisce ad uno spiccato gusto per il fantastico nelle sue derive più perturbanti una vena di critica sociale. Attualmente vive e lavora a Sassari, e possiamo già annunciarvi che questo non sarà l’unico suo racconto che leggerete su queste schermate.

Molte delle informazioni su Frassetto invece mi arrivano direttamente da lui, grazie al tramite della stessa Christina. Nato nel 1980 a Sassari, consegue il diploma di Bachelor of Recording Arts presso il SAE Institute di Londra e successivamente frequenta i corsi di composizione di musica per film presso il Conservatorio di Cagliari (corsi tenuti dal maestro Franco Piersanti, storico collaboratore fin dagli anni 70/80 di registi come Nanni Moretti e Gianni Amelio e vincitore di ben tre David di Donatello) e presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Chitarrista e membro fondatore della punk/rock/surf band sassarese Rodeo Clown, attiva fin dal 1996, Frassetto ne fuoriesce nel 2013 dopo dieci album e svariati tour in tutta Europa per concentrarsi sulle colonne sonore: lavora, oltre che a numerosi cortometraggi, nel film Luci a mare (2014) di Stefania Muresu, cui fanno seguito il documentario Ananda di Stefano Deffenu (2020, ma uscito nei cinema nel 2022), il film I giganti di Bonifacio Angius (2021) e il docufilm Ignazio: storia di lotta, d’amore e di lavoro di Marco Antonio Pani (2022). Per un certo periodo si trasferisce a Londra, dove oltre a lavorare come musicista e ingegnere del suono nel 2013 registra, con la collaborazione del produttore Rob Jones (one man band nel progetto The Voluntary Butler Scheme) e del polistrumentista Marco Testoni, l’Ep The R.J. Sessions, cinque brani dalla grande varietà in cui emerge l’amore (come afferma lui stesso in questo video) per gli anni 50 e 60, dalle colonne sonore di film come Scandalo al sole ad artisti come Umberto Bindi e Sergio Endrigo, anche se nel brano Super tele le influenze si fanno più seventies. Nel 2019 raccoglie alcuni dei brani scritti per corti e film nell’album 33 1/3.

Dal 2017 Frassetto, ritornato in Sardegna, cura il Club del Disco (serie di incontri dedicata all’ascolto musicale condiviso) e dal 2022 è direttore artistico del Billèllera – Sorso Music Festival, giunto quest’anno alla seconda edizione (comprendente nel programma una vecchia conoscenza di Tremila Battute, Gold Mass): nel frattempo continua ad approfondire la conoscenza musicale, essendo in procinto di completare gli studi di composizione presso il Conservatorio Luigi Canepa di Sassari.

Viale degli oleandri è la penultima traccia di 33 1/3, un breve brano malinconico affidato unicamente alle rade note della chitarra: su questa ossatura Christina costruisce la figura di una donna sconfitta, una Pinocchio al femminile per cui la vita non è altro che un’esistenza da burattina senza scopo. L’unica pace che riesce a trovare è temporanea e illusoria, ma per scoprire quale non vi resta che leggere il racconto più in basso, subito dopo la canzone che l’ha ispirato: a me invece non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Pinocchio, di Christina Nike Gagliardi

Passo la lingua sulla gengiva nuda tra i due incisivi. Sento il sapore del sangue miscelarsi a quello del fumo mentre aspiro dalla cicca.

Piove. Piove su di me, sui capelli unti che mi si incollano alla faccia. Sul tavolino dimenticato sulla pedana all’aperto del bar, su di me dimenticata al tavolino. Piove sul posacenere dove galleggiano palline di carta e filtri di sigarette, gialli e gonfi come corpi in sfacelo. Piove nella mia birra calda, sulle mie ciglia. Minuscole gocce mi penetrano negli occhi, che sono grigi com’è grigia la città quando piove.

Non sono mai stata un bel tipo. Non posso nemmeno dire che sia stata la vita a rovinarmi, anzi. È come se un demiurgo crudele si sia divertito con me, prendendo la peggiore tra le sue marionette — quella con le gambe storte e le braccia troppo lunghe — e tracciandovi sul volto i lineamenti in maniera rozza. Come preso da malefica foga l’ha sfregiato con un pennarello a punta grossa, abbozzandovi due gocce di piombo orientate all’ingiù, per poi con altrettanta sciatteria disegnare al posto della bocca una linea sottile e incerta, gli angoli rivolti verso il basso, le labbra inesistenti.

Mi frugo in tasca. Conto gli spicci, assieme alle monete esce anche il portachiavi a forma di Pinocchio.

Ce l’ho da quando ero ragazzina e mia madre mi diceva Sei magra come un Pinocchio.

Sei un mucchio d’ossa.

Da quando mi diceva Non troverai mai nessuno.

Almeno mettiti addosso qualcosa di femminile.

Poi un giorno lei è morta e in un cassetto ho trovato questo. Mi è sembrato un segno, così l’ho tenuto e ci ho messo le due chiavi – una del cancello e una del portone – che dicono che da qualche parte ho una casa.

Mi alzo e mi aggiusto i pantaloni, sono diventati larghi. Bevo ciò che è rimasto del mio bicchiere di pioggia e Ichnusa, sa di bettola e campi brumosi. Mi è sempre piaciuto l’odore della strada dopo la pioggia. Anche se le persone al mio passaggio si scostano, sono di buonumore.

Mauretto è ai giardini come al solito. Mi dice Ma che cazzo, sei in ritardo, mica posso starmene qui ad aspettare sua maestà. Scambiamo ciò che dobbiamo scambiare e me ne vado. All’angolo tra Via dei Gremi e la stazione scende dall’autobus una che ha l’aria da professorina. Mi scorge da lontano e quando è vicina abbassa lo sguardo, ma nel momento in cui ci incrociamo non può fare a meno di sbirciare.

Almeno adesso saprà. Si ricorderà che, seppure qualcosa nella sua vita è andato storto, non è diventata come me. Persino la mia esistenza da burattino può svolgere un servizio.

Trattengo questo pensiero, mi fa sentire infinitamente generosa. Mi ci trastullo anche a casa, sul letto che galleggia come il dorso di una balena tra le cementine della stanza vuota. È un serpente caldo che infiamma le viscere e mi fa venire le lacrime agli occhi, un’onda che mi avvolge e mi sputa nuda sulla risacca mentre la Lenta sale e naviga attraverso linfa e giunture, mentre le membra si posano disciplinate e immobili accanto al corpo ligneo, il capo che si piega quieto sul petto di tiglio.

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Il giusto ordine: Ventre dei Palmer Generator

A 44 anni forse è il caso di ammettere che sto cominciando a invecchiare. Uno dei primi sintomi, che io sappia, è la refrattarietà ai cambiamenti tecnologici, ma se vado indietro con la memoria mi accorgo che, quando c’era qualche problema ai primi PC che abbiamo comprato io e mio fratello, lui era quello che si sbatteva per risolverli e io invece speravo in un intervento divino e mi adattavo (motivo per il quale il portatile su cui scrivo va alla stessa velocità dei bradipi appesi a testa in giù su un ramo). Che io stia invecchiando o meno è sicuro che la tecnologia è qualcosa che sfrutto senza farmi troppi patemi d’animo, faccio finta di capire come funziona e continuo a sperare in dio: ecco perché, quando mi arriva qualche link di dischi in anteprima su Soundcloud dai promoter, io li ascolto in ordine rigorosamente casuale, ignorando se esista un’app di Soundcloud che permetta di ascoltarli come sono stati pensati. Mi è capitato anche coi Palmer Generator, ascoltati in macchina (madre perdoname por mi ascolti lochi) con ben poca possibilità di decidere l’ordine salvo rischiare una multa da Salvini in persona, ma quando ho sentito nell’ordine giusto Ventre, il loro quarto disco coprodotto con l’etichetta Bloody Sound Fucktory, mi si è palesata alle orecchie un’esperienza completamente diversa.

I Palmer Generator sono quella che potremmo definire una “azienda famigliare”: Michele Palmieri (basso), Mattia Palmieri (batteria) e Tommaso Palmieri (chitarra) sono infatti rispettivamente padre, figlio e zio, una configurazione che porta solitamente a formare una cover band con cui divertirsi in sala prove e magari in qualche pub di fronte agli amici, ma che nel loro caso vira invece verso un incrocio di post-hardcore, psichedelia e attitudine math appena accennata. Nel comunicato stampa si fa un accenno agli Slint fra le influenze, e proprio la band dal successo più improbabile della storia sembra essere una stella polare verso cui tendere per la famiglia Palmieri, parzialmente a livello sonoro ma soprattutto a livello atmosferico.

Diversamente (anche se fino a un certo punto) dalla formazione di Louisville i Palmer Generator non hanno una voce. Tutto ciò che intendono esprimere arriva attraverso il basso sferragliante di Michele, la batteria minimale e fantasiosa di Mattia e la chitarra ossessiva di Tommaso, un power trio atipico che nella traccia d’apertura, Ventre I, fa una breve introduzione delle atmosfere in cui ci si ritroverà immersi di lì in avanti: un sound fatto di ripetizioni ossessive, pause oniriche, tutto avvolto da una cappa di rabbia soffocata, energico nella sua impossibilità costitutiva a sfogarsi fino in fondo. Ventre I è la traccia più concisa e tirata del disco, eppure mette già in chiaro che il mondo sonoro dei Palmer Generator è intriso di disillusione, la stessa che rendeva Spiderland degli Slint un ascolto così straniante e immersivo.

Basta ascoltare i primi minuti di Ventre II per ritrovarsi immersi in questo magma di staticità oppressiva, il basso fattosi più rotondo a tirare le fila del discorso fino a che un’improvvisa apertura solare non ci fa intravedere una speranza che il riff ossessivo della chitarra spegne subito dopo, riportando il sound in territori più cupi. La seconda traccia del disco è un saliscendi fra nebbie brumose, capace di avventurarsi in territori onirici con le note delayate della chitarra a tracciare una strada desolata eppure ancora percorribile, quasi che quel trattenersi dallo sfogare completamente l’energia voglia testimoniare di un’energia che comunque c’è: se non può esplodere è perché nel mondo ricreato dai Palmer Generator questo non è possibile.

«Il titolo, “Ventre”, va inteso in senso simbolico. Il ventre come luogo uterino diviene metafora di vitalità e crescita, di generazione; è fulcro delle cose, centro nevralgico della terra e dei viventi; elemento di metamorfosi e nucleo di somatizzazione, centro di agentività e spiritualità. Il dualismo mente-corpo viene superato nell’immagine del ventre, lo stomaco considerato come un “secondo cervello”, come il luogo in cui avviene la sintesi tra spirito e materia. Così, allo stesso modo del ventre che raccoglie in sé due realtà opposte e complementari, il nuovo album vorrebbe essere un’immersione nell’estremo delle due profondità terrene e cosmiche».

Il ventre come luogo uterino in cui avviene la sintesi tra spirito e materia, questo affermano i Palmer Generator con le parole e lo ribadiscono attraverso la musica. Ventre III si apre con un incedere arioso e calmo, culla l’ascoltatore in un liquido amniotico da cui si eleva con l’aumentare delle distorsioni finché all’improvviso non ci si ritrova a svoltare completamente, la parte ritmica a ribadire ossessivamente un canovaccio che gli arpeggi riverberati della chitarra rendono ancora più melodrammatico. La canzone, fra momenti psichedelici e giochi di sottrazione volti a lasciare il solo basso al centro della scena, è come un lungo parto sonoro (il brano dura quindici minuti) che esprime tutta la pena e la meraviglia dell’atto generativo, una venuta al mondo che attraverso l’ultima nota ascendente delle quattro corde lascia aperta la speranza che un’equilibrio sia effettivamente possibile, che la sofferenza della nascita si mitighi nella meraviglia del mondo e non diventi nostalgia di un luogo a cui non si può ritornare.

L’incedere di Ventre è ciclico, lo afferma la partenza di Ventre IIII, così simile a quella della traccia iniziale da rendere evidente la parentela. La quarta e ultima traccia del disco non si lascia però ingabbiare, la tensione fra l’energia potenziale e la sua impossibilità a sfogarsi viene risolta da un lungo outro, un lento spegnersi nella rarefazione del suono che sembra la direzione naturale verso cui concludere e lascia comunque l’amaro in bocca, come se ci fosse qualcosa di non detto che non riusciamo ad evitare di voler conoscere.

Non è un disco perfetto quello dei Palmer Generator, ma è un disco con una visione e che quella visione riesce a trasmettere. I tre Palmieri creano un’opera complessa di non immediata fruizione, soprattutto per chi non è avvezzo ai tempi dilatati del post-rock (tre tracce su quattro sforano i nove minuti di durata), ma l’atmosfera che permea tutto l’album rende Ventre un’esperienza che lascia il segno, a patto di seguirne la logica strutturale: quindi mi raccomando, niente shuffle!

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Racconto in musica 148: Schiantarsi (Downtown Boys – Wave of history)

Normalmente la stesura di questi articoli avviene di sabato o domenica mattina, ma in questo caso sto scrivendo di giovedì sera. Perché? Perché mentre leggerete queste righe io sarò al banchetto di pièdimosca Edizioni a Firenze RiVista, dove Tremila Battute si paleserà in carne, ossa e rivista cartacea. Eh sì, abbiamo un numero uno dopo il numero zero! Però ve lo allego digitalmente da settimana prossima, mentre se siete di Firenze e volete passare dalla Piazza delle Murate (potete passare anche se non siete di Firenze, ma potrebbe essere un po’ tardi per organizzarvi se venite, che so, da Palermo) potreste avere anche una copia fisica, sempre che ne siano avanzate visto che le regaliamo e di solito le cose gratis attirano l’attenzione. Essere a Firenze RiVista è una cosa bellissima (lo dico ancora prima di esserci fisicamente, perché me la sono già goduta da osservatore), ma avere molte passioni porta a recriminare anche quando succede una cosa bella: la recriminazione, nel caso specifico, è che mentre sarò sul treno del ritorno staranno suonando al Circolo Gagarin di Busto Arsizio i Downtown Boys, e non potendo essere fisicamente lì ho perlomeno deciso di dedicare loro questo articolo.

Ve la farò breve per una volta, perché è tardi e devo ancora preparare lo zaino: i Downtown Boys vengono da Providence nel Rhode Island, si sono formati nel 2012 e fanno punk. Troppo breve? Ok sì, posso dire effettivamente di più, tipo che la band si forma grazie al fortuito incontro fra Joey La Neve DeFrancesco, che suona la tuba (quindi non proprio il primo strumento a cui pensi quando pensi al punk), e la cantante Victoria Ruiz, entramb* impiegat* al Renaissance Hotel di Providence prima che DeFrancesco si porti dietro l’altro suo gruppo, la brass band What Cheer? Brigade, per licenziarsi nella maniera più spettacolare che possa venirvi in mente. Davvero, guardate il video: non avete mai sognato di licenziarvi così? Ok, probabilmente comincerete a sognarlo ora. L’uomo che suona uno degli strumenti meno punk del mondo (anche se nei Downtown Boys si butta sul sax) si licenzia quindi nella maniera più punk che possa venirvi in mente, e la sua musica non può che seguire quella linea: il primo disco arriva già nel 2012 ed è una grezzata di un’energia infinita in cui Ruiz urla come una dannata e tutti vanno a mille all’ora. Attirano con quel disco l’attenzione della Sister Polygon Records, che nel 2014 pubblica un Ep che, giusto per incasinare le idee, è pure quello omonimo (e contiene una seconda versione, lievemente ripulita, della canzone Slumlord Sal), mentre l’anno dopo pubblicano per la Don Giovanni Records il disco Full communism, dove la band si ripulisce il minimo indispensabile senza pensarci minimamente a rallentare. Il titolo del disco è anche una dichiarazione d’intenti, perché i Downtown Boys sono ultrapoliticizzati e si schierano senza troppi giri di parole (in spagnolo e inglese) al fianco di tutte le minoranze e contro ogni oppressione.

Il casino che fanno live fa rumore, ma davvero tanto, perché si accorgono di loro Rolling Stone e il New Yorker, mica due giornaletti del cazzo, e il loro nome comincia a girare pure per i festival che contano, tipo il Coachella e il SXSW. E qui dimostrano ancora di più il loro impegno politico, perché sputtanano il modello di business del Coachella con una lettera aperta in cui si impegnano a donare parte del loro cachet alle organizzazioni LGBTQIA+ Prysm e FIERCE, mentre sono fra i più attivi per far togliere una clausola di collaborazione con l’agenzia di immigrazione nel contratto dell’SXSW (riuscendoci). Vendersi mai insomma, neanche alle major, ma per la maggiore delle minor si può fare un’eccezione: ad agosto 2017 esce per Sub Pop il terzo disco, Cost of living, e il passaggio a una realtà più importante non lede minimamente all’energia della loro musica o all’impegno politico nei testi. A tutt’oggi questo resta il loro ultimo disco, ma c’è anche un po’ d’Italia nel proseguio della loro carriera: nel 2020 la regista italiana Susanna Nicchiarelli (di cui vidi anni fa il meritevole Nico, 1988) fa uscire il suo quarto film Miss Marx, basato sulla storia della figlia più giovane di Karl Marx, Eleanor, e a firmare la colonna sonora ci sono proprio i Downtown Boys, che per l’occasione scrivono il brano L’internationale. Ci sono abbastanza motivi perché andiate al posto mio a pogare in quel di Busto?

Wave of history, brano di apertura di Full communism, è una delle loro migliori rasoiate belle dritte e senza fronzoli. Mentre la ascoltavo pensavo al disilluso Hunter S. Thompson, che in un passaggio amaro del suo Paura e disgusto a Las Vegas ricorda la fine dell’illusione di pace e amore degli anni sessanta: all* protagonist* del racconto di questa settimana faccio immaginare un’onda diversa, destinata non a schiantarsi ma a trascinare con sé altre persone disposte a lottare per i loro ideali. Potete beccarvi sta infusione di positività subito dopo il link al brano, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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Schiantarsi

Slalomiamo fra i vicoli ancora cupi e io mi cago sotto a ogni angolo da cui potrebbero schizzar fuori gli sbirri che ci fanno ancora la posta. Mi fa male respirare per le tranvate al costato ma devo stare muto, ci mordiamo la lingua e camminiamo, e se non la maledico cento volte mentre mi tocca sucarmi una salita assassina che in cima ci sta pure l’obitorio (e giù a toccarsi le palle) allora saran centouno.

C’ho qualcosa da farti vedere, mi ha detto la sera prima mentre fasciava la testa di uno dei nostri che piagnucolava che la benda è troppo stretta e oh, stai attenta. Lei gli ha tirato uno schiaffetto sul braccio e mi ha detto sveglia presto, non dirmi di no.

E non puoi farmela vedere adesso sta cosa? le ho chiesto, ma lei mi fa che no, sarà tutto pronto domani mattina. Pronto che, le ho chiesto, ma lei m’ha detto solo di non rompere i coglioni e di dormire, che per domani dobbiamo tenere le energie.

Le energie le sto spalmando tutte qua, vorrei dirle mentre sudo anche se è ancora buio per il caldo velenoso che fa in sti giorni, ma lei mi sta sempre avanti un passo e se sussurro mi sentono solo le mie scarpe. A un certo punto scompare dietro un angolo e io penso ecco, l’hanno acchiappata, ma quando svolto con gli avambracci a protezione lei sta seduta su un muretto e guarda in basso. Non fosse che me ne frega zero della figa la troverei anche carina, con la luce del sole che le sale sulla fronte.

Sai che diceva quello? mi fa.

Quello chi? chiedo.

Uno che scriveva, dice lei. Un giornalista sballone. Un giorno va su una collina nel deserto e guarda in basso e dice che da lì, se l’aria è pulita, si riesce a vedere dove s’è schiantata l’onda di tutti gli ideali che c’avevano lui e la sua generazione.

E te m’hai portato qua per una lezione di lettere, le dico con la voce un po’ troppo forte che poi mi vien da azzannarmi la lingua. Però siam lontani, sbirri manco l’ombra, così mi fermo prima di fare la fine dei ninja catturati dal nemico.

No, mi dice, volevo risollevarti un po’ il morale. Vieni qua che ora si vede.

Mi avvicino a lei e sotto di noi abbiamo tutta la città, si vede bene pure il capannone che occupiamo e tutti gli striscioni sui palazzi intorno, sbirri infami e non ci avrete mai come volete voi e supporto alla lotta e forse potevamo trovarci slogan migliori, alleati più furbi, ma un po’ scalda il cuore vedere che non siamo proprio soli come degli stronzi.

Che dici? mi chiede lei.

Che gli sbirri oggi ci meneranno più forte, le dico.

Sì, mi fa lei, ma quando gli si stancheranno le braccia noi saremo ancora lì.

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Il giusto ritmo: Città tropicale di Luca Bernardi

Mi è capitato, avendo una moderata passione per la scrittura, di conoscere persone che scrivono e, in certi casi, pubblicano pure. A volte l* ho conosciut* prima di leggere qualcosa di loro, altre volte ho conosciuto prima l’opera di chi l’ha prodotta: nel caso di Luca Bernardi si è concretizzata la bizzarra situazione in cui ho conosciuto prima l’opera E prima chi l’ha scritta.

Mi spiego meglio. Una decina d’anni fa, quando di editoria indipendente ne capivo ancora meno di adesso, andai per la prima volta al Salone del libro di Torino, vagando a caso fra gli stand senza sapere cosa fosse meritevole di attenzione, cosa fosse fuffa e cosa stesse al livello intermedio. Incappai così per puro caso, con la malcelata intenzione (beata ignoranza) di piazzare qualche pessimo racconto, nello stand di Tunuè, casa editrice che proprio in quegli anni, attraverso la sua unica collana di narrativa, si faceva fucina di giovani talenti attraverso la guida di un per me ancora misconosciuto Vanni Santoni: non so cosa mi attrasse in particolare, se il progetto grafico o qualcosa nello stand, sta di fatto che me ne tornai a casa con Medusa, il libro d’esordio di Bernardi, che mi piacque più come idee e intenzioni che nella costruzione generale.

Stacco a qualche anno dopo. È il 2018, frequento un corso di scrittura a Milano e non so ancora che di lì a un anno e mezzo mi trasferirò in città: incappo (oggi il verbo incappare mi garba particolarmente) in una serie di eventi sul grande romanzo americano in un piccolo circolo in zona Porta Genova, mi entusiasmo perché si parla pure di Foster Wallace e porto a un paio di incontri alcun* compagn* di corso. A quello su American psycho di Bret Easton Ellis c’è un certo Luca a parlarne, mi piace come presenta e ben presto divento un semi-habituè del locale, che fa un sacco di cose fighe fra cui concerti, aperitivi filosofici, cineforum e jam session: il posto si chiama Corte dei miracoli, è sopravvissuto alla pandemia, continua a ospitare eventi interessanti e io ci ho messo tipo tre anni a scoprire che quel Luca era proprio il Bernardi di cui avevo letto l’opera prima. Passa un altro po’ di tempo e Alessandro Polidoro Editore, attraverso la selezione dell’ex compagno di collana Orazio Labbate, pubblica il nuovo libro di Bernardi, Città tropicale: tutta sta premessa inutile per dire che l’ho letto, e ora comincio finalmente a parlarvene.

Non prima della copertina però!

Zoe non se la passa bene. La canicola estiva si abbatte sulla sua città fino a far pregare la gente affinché piova, per lavoro si prende cura della figlia di una modella, abita con un aspirante rapper dalle posizioni un po’ troppo integraliste e, per finire, l’ansiolitico che prende ormai da anni viene messo fuorilegge. C’è di che lamentarsi, ma presto le cose peggiorano ulteriormente: fra misteriose religioni, delinquenti dai modi spicci, bizzarri incontri e una dipendenza da tenere sotto controllo la ragazza si troverà a vagare per una città opprimente e claustrofobica, mantenendo sempre più a fatica il legame con la realtà. Per somme linee la trama del libro di Bernardi può essere descritta in questo modo, ma è difficile riuscire a rendere in poche righe il caleidoscopio di eventi che costellano le 260 pagine del romanzo. Nella quarta di copertina viene fatto un paragone, per “schizofrenica forza cosmopolita”, con l’album Californication dei Red Hot Chili Peppers, ma troverei più calzante associare Città tropicale all’anime Cyberpunk: Edgerunners (realizzato dallo Studio Trigger, di cui vi avevo già parlato qui) e per un motivo ben specifico: il ritmo indiavolato.

Il Cieco che parcheggia la Lambo sul carrabile e si filma che brucia la multa. Che registra i dischi a Cuba e Los Angeles, braccato dal fisco patteggia un milione. Il Cieco con la fashion blogger, con la diciannovenne cantautrice canadese, con la modella ivoriana sullo yatch, al golf con il figlio di… il Cieco alla sfilata accanto al sindaco mostra il medio ai fotografi, il sindaco si dissocia, filmato su un divano tra due bionde botox che gli strusciano selfie come fosse un cartonato sbaffo bianco sulla narice occhiali azzurri biascica il sindaco e tutti gli sbirri in camicia e i benzinai incravattati di sta terra gli sucano il sashimi lui si misura solo con Sinatra e Gesù. Poi smunto in live sorseggiando Gatorade, raga buon lunedì l’altra sera ho un po’ esagerato con gli spritz non sono mica un santo mi hanno decontestualizzato ringrazio tutti i benzinai a cui lascio sempre mance immonde chiedete in giro mezzo pil solo le mie mance… il Cieco in tivù a ripetere la pappardella scrittagli dalla manager, le dooonne le tratti come dici nei testi? È vero che sei andato a Londra a ripulirti il sangue? Cosa pensi di chi sostiene che le tue canzoni lancino messaggi pericolosi? L’hai vista l’inchiesta sulla collusione tra rapper e criminalità organizzata? Il Cieco ripreso all’alba a barcollare nei viali, un gigante in canotta che lancia uramaki ai piccioni. Il Cieco megafono dell’imperativo al consumo, diceva il Genio, simbolo dello sverginamento del rap italiano figlio dei centri sociali e delle posse antagoniste poi spolpato dalle major, adescato a dompe e coca nei privé glitterati e nei balletti delle influencer fino a diventare, da pentecoste dislessica di vandali in bandana, sottofondo da sfilata e coda del tiggì.

È la vita, diceva Zoe.

No è il mercato, diceva il Genio.

Città tropicale è una sinfonia di frasi che si affastellano senza soluzione di continuità, descrizioni che si mischiano a dialoghi che si mischiano a versi di canzoni, un miscuglio ritmico che se ne frega delle regole perché troppo impegnato a seguire le sue. A Bernardi non interessa accompagnare chi legge nel suo mondo, ti ci butta senza rete fin dalle prime righe introducendo i personaggi col minimo delle presentazioni possibile e lasciando che siano le loro parole e le loro azioni a definirli: amen se questo comporta che certi riferimenti riuscirai a capirli solo dopo svariate pagine, quando gli eventi ti daranno i mezzi per coglierli e il tuo cervello avrà trovato il modo di star dietro al flusso. Sembra la descrizione di un libro che fa dell’anarchia la sua cifra stilistica, eppure non lo è: ciò che permette al romanzo di avere questo ritmo è infatti un perfetto controllo della lingua utilizzata.

Fra slang e invenzioni Bernardi crea dei codici linguistici a cui riesce a rimanere perfettamente aderente, creando con la sola imposizione della lingua un mondo in cui i personaggi e gli eventi più improbabili risultano coerenti e credibili. Anche nel precedente Medusa la lingua era centrale, ma l’impegno nel trovare un proprio modo di dire le cose finiva per offuscare le cose che l’autore aveva da dire: in Città tropicale invece l’equilibrio viene raggiunto, adottando una forma fintamente rozza che è perfetta per l’ambiente in cui si muovono l* protagonist*, una metropoli senza nome che trasuda angoli dimenticati e squallidi, una Milano non Milano che si trasforma nei momenti più concitati della trama in qualcosa di simile alla Los Angeles degli action movie più pulp.

Adora l’abyssooo, disse la soprano. Guarda e impara sorella.

La barbona si girò verso Zoe inarcando il sopracciglio.

Adora che? Cos’è sta cosa?

Allora, disse la ragazza, te la faccio straeasy. Oltre ventooo terraaa acquaaa e fuocooo c’è l’abyssooo che li contieneee… e siccome gli opposti si attragono… per la legge dei contrari no? Se vuoi far piovere ti conviene partire dal fuoco ok? Per quello la fiammella funziona come porta… porta più chiave uguale abysso claro?

Non ho capito amore, disse la barbona.

Scaracchiando il vecchio riaprì gli occhi e intascò lo zippo.

In principio è l’abysso, disse, e l’abysso è la dea che canta la luce.

Sull’altare di questo incastro perfetto fra lingua, personaggi e ambientazione finisce per essere sacrificata la trama. In Città tropicale gli eventi si susseguono velocemente, le pause servono più come digressioni (le pagine in cui il Genio, ex aspirante rapper, e il Cieco, star ormai venduta al mercato, parlano senza fronzoli di integrità e successo sono una lucidissima analisi di ciò che probabilmente non va nel panorama rap odierno – e dico “probabilmente” perché è un genere che guardo troppo da lontano per arrogarmi il diritto di aver capito tutto) e le stranezze sono all’ordine del giorno, tra pseudoinfluencer fissate con la magia (Adoro è il personaggio con il nome più azzeccato di tutto il libro), biker inquietanti e scambi di droga parecchio complicati. Non ho suggerito il paragone con Cyberpunk: Edgerunners a caso, e nemmeno utilizzato il termine pulp a sproposito, perché le vicende narrate da Bernardi assumono toni sempre più esagerati e lisergici man mano che ci si avvicina al finale, al ritmo delle sniffate del Cieco e delle crisi d’astinenza di Zoe: nella presentazione del libro a cui ho partecipato l’autore ha affermato di essere partito dall’idea, suggerita dalla situazione pandemica, di una persona costretta per motivi indipendenti dalla sua volontà a sospendere la propria cura farmacologica per la salute mentale, e mi resta il dubbio su quanto certi eventi del libro accadano per magia, misticismo o allucinazione.

La strada ondeggia. Cammina remando contro il tram che rallenta stridendo, si getta di lato, una moto inchioda e il tipo massiccio in casco integrale e gilè aperto sul petto nudo si volta, sfiorandolo gli gira attorno e riparte. Casca e corre tra le siepi e si siede in un tunnel di fango e si trova in mano un biscotto della fortuna, scarta e spezza, spiega il biglietto ma non riesce a leggere. Con la mano spiaccica la baida contro un sasso e arrotola la banconota nella busta finché la narice sanguina, passa all’altra narice che zampilla pure finché è troppo ingessato per sapere se il setto è esploso o la tensione inibisce i movimenti volontari. Tutte in bianco le sei ragazze alate volteggiano rapidissime e la reginetta con il septum e un vestito corto verdino lo chiama con l’indice. Lui accosta il contagocce ma la mascella resta chiusa impietrita. Arpeggiandolo dall’occipite all’alluce si accavallano nervi che non sapeva di avere e lo sbudellano come un petardo in un rospo.

Ci sono libri che privilegiano lo stile, altri che privilegiano la trama. Città tropicale pende sicuramente verso la prima categoria, ma ha abbastanza energia nelle parole da trascinarti avanti qualunque cosa succeda: se l’esperienza è così intensa, in fondo, che non rimangano impressi tutti i passaggi della trama è l’ultimo dei problemi.

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Racconto in musica 147: Nel paese di Moria (Mount Eerie – Crow)

Mi scappa spesso la parola “originalità” quando parlo di qualche artista, ma negli ultimi tempi cerco di contenermi sempre di più. Non perché Signora mia, non si può più dire niente (anche se poi gente come Pio e Amedeo nomina la N word in diretta televisiva di sabato sera su Canale 5), ma perché mi accorgo che ciò che definisco originale spesso non lo è. Bello si, personale anche, ma originale magari no. Ho avuto svariate prove negli anni di questo, tipo accorgermi che molto del post-hardcore/post-punk/post-tutto che ho ascoltato negli anni era debitore in maniera apocalittica della pazzia di un per me irriconoscibile Nick Cave (io l’ho conosciuto col duetto con Kyle Minogue su Mtv e sì, ho dovuto googolare “Kylie Minogue” per ricordarmi come si scriveva esattamente: ho dei grossi limiti) coi suoi The Birthday Party fra fine anni settanta e inizia anni ottanta, e non significa che ognuno che ha fatto quel genere non sia riuscito a innovarlo o a renderlo una cosa sua o che qualcuno non si sia inventato qualcosa che effettivamente non c’era nel frattempo, ma che la parola originalità andrebbe sempre usata con una certa cognizione di causa.

Bonus track: Nick Cave pazzo a inizi anni 80

Anni fa recensii un paio di dischi di Urali, un progetto di cui vi avevo parlato anche qui, e rimasi folgorato dal modo in cui univa bucoliche suggestioni acustiche a improvvise sferragliate doom. Mi sembrava personalissimo e originale, e personalissimo lo rimane anche se meno originale di quel che credevo. O meglio, magari è anche originale nella mente di Ivan Tonelli, l’uomo dietro al progetto Urali, ma c’è qualcuno che nel lontano 1996 aveva già iniziato a esplorare quel connubio (e che probabilmente Tonelli conosce e rispetta) in quel di Anacortes, nello stato di Washington: il suo nome è Phil Elverum, altrimenti conosciuto col moniker Mount Eerie.

A permetterci di parlare di lui è un gradito ritorno, quello di Danilo Di Prinzio. Collaboratore di lunga data (potete leggere i suoi racconti qui, qui e qui), avrà l’onore di veder pubblicato il suo racconto L’albero della conoscenza assieme ad altri di svariat* autor* sul Numero Uno della rivista cartacea di Tremila Battute, che potrete trovare al banchetto che condivideremo con pièdimosca Edizioni in quel di Firenze RiVista. Eh sì, dal 22 al 24 settembre potrete venire a trovarci nel capoluogo toscano e probabilmente anche Danilo passerà di lì, per qui non vi diciamo più nulla su di lui (potete comunque recuperare informazioni dai link più in alto, fatelo che dà un sacco di soddisfazioni cliccare sui link, molta più che cliccare su “accetta tutto” quando vi chiedono se volete che i cookies profilino la vostra esistenza) a parte consigliarvi di leggere questo suo racconto uscito su Pastrengo e che, chissà perché, ci era sfuggito.

Ripercorrere l’intera carriera di Elverum è un’impresa titanica, costellata di più di venti album (che trovate tutti nel suo profilo Bandcamp) fra The Microphones, primo nome del progetto che comunque aveva lui come unico componente, e Mount Eerie, un nome quanto mai azzeccato vista la sottile vena perturbante che percorre tutta la sua musica, dai brani più incentrati sul binomio voce/chitarra acustica degli ultimi lavori agli esperimenti sonori più rumorosi e orgogliosamente lo/fi dei primi anni di carriera. I suoi primi vagiti musicali glieli pubblica su cassetta la misconosciuta etichetta KNW-YR-OWN di tal Bret Lunsford, con cui Elverum suona la batteria nei D+, ma il primo disco ufficiale esce nel 1998 per la Elsinore Records: Tests è l’unione dei precedenti lavori, una sorta di sgangherato best of del giovane Elverum che va dove vuole, si disinteressa completamente della forma canzone e lascia come unico filo conduttore con ciò che verrà dopo la sua voce esile e sognante, anche se ciò che sogna non è esattamente bucolico come certe sue produzioni potrebbero far pensare. Non vi farò una lista di tutti i suoi album dal peggiore al migliore (anche se un sacco di articoli acchiappalike usano questa formula, forse dovrei imparare a vendermi meglio), ma saltabeccando di qua e di là posso dirvi, per fare un esempio della poetica Elverumiana, che il disco di The Microphones del 2003 Mount Eerie, pubblicato dalla K Records che lo aveva affiancato dal secondo album, rappresenta il punto di passaggio da un moniker all’altro attraverso cinque lunghi brani che, fra rumorismi, intermezzi acustici, passaggi elettronici e aperture armoniose di synth paradisiaci, raccontano di come (wikipedia docet) Elverum muore, viene mangiato dagli avvoltoi e scopre il volto dell’universo. Non male, eh? E fate conto che con queste canzoni ci è arrivato in Giappone, come testimonia un live del 2003 registrato in terra nipponica.

Da qui in avanti Elverum inizia a firmare i dischi come Mount Eerie (monte sull’isola di Fidalgo in cui ha passato l’adolescenza), e pur rimanendo ancorato al suo luogo di origine e alle sue tecniche di registrazione minimali ma non dozzinali inizia a viaggiare per tutto il Nord America e l’Europa con la sua musica, sempre bizzarra (in Singers, uno dei tre album che sforna nel 2005 e realizzato registrando al volo brani nuovi con un tot di gente e un microfono piazzato in mezzo alla stanza, fa abbastanza specie il modo in cui tutti cantano allegramente I can’t believe you actually died nell’omonima e ultima traccia) ed estremamente personale. Nel 2008 si associa alla cantautrice Julie Doiron e al musicista Fred Squire per dare alle stampe Lost Wisdom, album in cui viene fuori pienamente l’animo folk di Elverum che diventerà una cifra stilistica ricorrente come l’autoproduzione, avventura iniziata tre anni prima attraverso la propria etichetta P.W. Elverum & Sun Ltd. Si fa suggestionare anche dalla musica ambient Elverum, come dimostrano dischi quali Wind’s poem (2009) e soprattutto l’accoppiata Clear moon e Ocean roar del 2012, che chiamo accoppiata non a caso visto che, in un esperimento che potrei anche smettere di definire bizzarro dopo tutto quello che ho scritto, l’artista condensa in unico album composto da due tracce di sei muniti l’una tutti i brani che compongono le due opere. E il risultato non è inascoltabile come si potrebbe pensare, anzi!

Se l’artista adora sperimentare sia musicalmente che in altri ambiti (è del 2007 una raccolta fotografica con tanto di 10 pollici allegato, mentre i packaging dei suoi dischi sono finemente curati da lui stesso), la sua vita privata rimane tranquilla almeno fino al 2015: sposatosi nel 2003 con l’artista e musicista canadese Geneviève Castrée, con cui collabora solo occasionalmente per evitare che l’ingerenza artistica nell’altrui carriera potesse avere contraccolpi sul matrimonio, a seguito della nascita della loro prima figlia a Castrée viene diagnosticato un cancro al pancreas non operabile, che nonostante gli sforzi (i due aprirono una pagina su GoFundMe per richiedere sostegno economico dopo aver esaurito i fondi per pagare le cure) la portano alla morte un anno più tardi. Gli ultimi dischi di Mount Eerie risentono di questo evento, soprattutto A crow looked at me del 2017, un lancinante e allo stesso tempo minimale atto d’amore verso la moglie che, attraverso l’esplorazione della morte e della vita che continua (uno dei brani si intitola When I take out the garbage at night), è uno dei modi di elaborare il lutto più sentiti in cui sia mai incappato. L’ultimo disco di Mount Eerie, Lost wisdom Part.2 (2019), lo vede di nuovo al fianco di Julie Doiron, mentre l’ultimo album edito è di nuovo a nome The Microphones: Microphones in 2020 è un’unica lunga traccia di quarantaquattro minuti, intensa e scarna, la rarefazione musicale in un progetto che ha portato Elverum a giocare con folk, ambient, noise finanche col black metal, tanto che Kerrang! lo ha inserito fra l* dieci artist* non metal più apprezzati dai fans del metal e i Wolves In The Throne Room, band black metal attiva dal 2003 che vive nelle stesse zone di Elverum, hanno remixato due suoi brani nel 2018.

Crow è l’ultima traccia di A crow looked at me, una ballata voce/chitarra acustica in cui la figura del corvo che dà il titolo alla canzone assume le sembianze di Castrée, ancora in essenza nel mondo attorno ad Elverum e alla loro figlia. Il racconto di Danilo è molto meno rassicurante ma l’ambientazione rurale e raccolta, così come la presenza di un padre ed un figlio che vivono in un’ambiente solitario, mi hanno fatto subito pensare alle atmosfere di cui è ammantata la musica di Mount Eerie: fatevi avvolgere e sconvolgere dalla vicenda subito dopo aver ascoltato il brano (o perché no, durante), a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Nel paese di Moria, di Danilo Di Prinzio

Il rifugio giace nella luce bruna del tramonto. All’interno un padre e un figlio. Poco dopo irrompe solitaria un’escursionista con indosso, a parte lo zaino, un involto nero e lungo che le cade parallelo alla gamba.

Durante la cena la donna si ritira per un istante nella camera adiacente per andare a prendere il fucile, quindi esce e lo centra alla testa del ragazzo. Con gli occhi simili a due buchi neri in pieno universo, stretti nella forma di un corpo, pone una questione all’uomo, che prima del pasto ha ringraziato il signore nel gesto della preghiera.

Tu pensi che Dio fermerà il mio dito?

Ti prego non farlo, è solo un bambino.

Rispondi alla domanda, o altrimenti premo il grilletto.

Io non lo so, io, io non lo so, io non lo so…

Allora perché preghi? Di cosa lo ringrazi?

È soltanto un’abitudine, preghiamo sempre prima di mangiare.

È solo un’abitudine.

Sì, solo un’abitudine, te lo giuro.

Ma Dio potrebbe esserci anche se tu preghi per abitudine.

Potrebbe esserci, sì, potrebbe esserci, ma ti prego di lasciarlo stare.

Ora preghi me? E tu credi che ti ascolti? Che sia in mio potere esaudire la tua preghiera, più di quanto lo sia in lui?

Lo credo… lo credo, io credo che tu sia una persona buona, io credo che tu sia una persona buona… lo credo.

Ma non hai risposto.

A cosa devo rispondere?

Dio fermerà il mio dito?

Sì.

La donna si volta verso il ragazzo.

Sì, lo fermerà, ripete quest’ultimo.

Vedi, mio caro papà, tuo figlio ha più coraggio di te. Ecco cosa significa essere ancora ragazzi, vivere ancora dentro quello scrigno di pura magia. Uno di voi due ha dato la risposta giusta, e l’altro ovviamente quella sbagliata. Ora, ditemi, chi di voi due ha dato la risposta giusta?

Ti prego di non farlo.

Adesso smettila di pregare, per favore. Abbi il coraggio di affrontare l’ineluttabilità del destino. Allora ragazzo, tu che dici? Hai dato la risposta giusta?

Sì.

Dio ti ringrazio…

E no, mio caro papà.

Lo sparo riecheggiò lungo il massiccio della montagna, fin sopra l’ultima vetta, dove la parete si ergeva spaccata e dritta contro il cielo, come la mano nodosa e ferma dell’Altissimo.

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Racconto in musica 146: Pezzi di te (Albedo – Stomaco)

La prima volta che mi si è palesato il legame fra racconti brevi e musica è stato tramite mio fratello. Il primo ad appassionarsi alla scrittura in famiglia è stato lui, e uno dei primi modi in cui ha deciso di “mettersi alla prova” è stato attraverso un concorso che, guarda un po’, metteva insieme parole e musica. Non ricordo il nome di quel concorso, ricordo invece quale artista gli fece da ispirazione: Ligabue. La sua carriera letteraria purtroppo si è fermata dopo solo un paio di miniraccolte di racconti (qui se vi può interessare trovate traccia delle sue pubblicazioni), i miei gusti musicali invece, molto influenzati da lui durante l’adolescenza, si sono (posso dire per fortuna?) lentamente distaccati.

Quando il legame fra racconti e musica mi si è definitivamente saldato addosso è stato fra il 2013 e il 2014, anni in cui ho prima scoperto e poi partecipato ad un concorso letterario che, in anni successivi, avrei anche contribuito ad organizzare: Provincia Cronica (il nome arrivava dritto da una canzone dei Baustelle), creato dall’associazione Asap – As Simple As Passion, l’associazione di cui entrai a far parte e con cui provai il piacere di smontare il salotto di casa ogni tanto per ospitare artist* nazionali ed internazionali. Nel 2013 la premiazione del concorso, che aveva come ragione d’essere la scrittura di un racconto basato su una canzone specifica (negli anni il tema furono, fra gli altri, brani di Fabrizio De Andrè, Lucio Dalla e Moltheni), fu organizzata a Cerano, il mio (ex) ridente paesello che normalmente ospita nella piazza principale nel giorno della festa Mal o la temutissima Shary Band (ma ci sono passati – incredibile – anche i Perturbazione), mentre nelle feste dei cantoni ci può scappare l’ennesima tribute band di Vasco (lo hanno fatto proprio ieri): Asap portò invece Moltheni (nel periodo in cui preferiva farsi chiamare col nome di battesimo, Umberto Maria Giardini), Daniele Celona e una band che io, per motivi che spiegherò più avanti, considerai per anni abruzzese anche se invece veniva da Milano. Quella band erano gli Albedo, e oggi vi parlo di loro.

Siamo intorno alla metà degli anni 2000 quando Raniero Federico Neri (voce, chitarra, piano e synth), Gabriele Sainaghi (basso, voce e percussioni), Luca Padalino (chitarra lapsteel) e Ruggiero Murray (batteria e percussioni) mettono insieme le loro forze per unire influenze musicali comuni, contenute in un ampio spettro che va dal post-rock al cantautorato passando per il pop, e riesce magicamente a farle convivere. Il primo risultato della loro passione, alimentata (come si legge direttamente dalla loro pagina Facebook) a botte di prove tre volte a settimana fino alle 5 del mattino “nelle orribili sale di Via Lombroso”, è il disco Il male, registrato a Torino e uscito in autoproduzione nel 2010. I quattro hanno le idee chiare su cosa dire e come farlo, non per niente partono con un concept album in cui il tema del male, come da titolo, si mischia con l’esperienza della realtà milanese, fra “parchi naturali di cemento e gelosia” e un sentimento di frustrazione che contamina anche la musica, arrabbiata, distorta e solo di rado ammorbidita da qualche brano più calmo. Sono i testi a colpire particolarmente più che la musica in questo primo atto della loro carriera, perché se dal lato sonoro gli Albedo devono ancora trovare una loro strada personale (il nome dei Ministri è quello più speso come paragone nelle recensioni, forse anche per provenienza geografica) sul fronte delle parole riescono già ad essere efficaci e dirompenti, senza peli sulla lingua quando si tratta di denunciare ciò che non va nella società (ascoltate A farmi intervistare e provate a non trovarci rimandi all’attualità, poi rimuginate sul fatto che è stata scritta più di dieci anni fa. Che cazzo abbiamo combinato in tutto questo tempo?) o nel mondo della musica stesso, come faranno solo due anni dopo con un brano in particolare. Quel brano è La musica è una merda e sta nel disco A casa, ancora un concept album che esce nel 2012 per Inconsapevole Records, una canzone che grida forte il proprio schifo per tutto ciò che fa moda nel circuito indie partendo in maniera semicitazionista di Up patriot to arms (il “pubblico di stupidi” con cui la band non vuole nemmeno parlare evoca nella mia mente il dissociarsi di Battiato dalle “pedane piene di scemi che si muovono”) per poi alzare la posta, fare i conti con le aspettative tradite “non di certo per gli stadi ma almeno per dormire non per strada tra i bidoni” accontentandosi dell’insuccesso altrui guardandoli “soffocare nella stessa merda che volevano suonare”. A casa non è però un disco arrabbiato come quello precedente, smussa i toni o meglio diversifica, mostra l’ampiezza del campionario artistico della band e apre a quello che è il primo album per l’etichetta V4V-Records di Michele Montagano, che è poi il motivo per cui io continuo a pensare che gli Albedo siano abruzzesi.

Abruzzese è infatti Mike, il creatore insieme a Giovanni Amoroso del blog StorDisco di cui vi ho parlato spesso e volentieri: non contento di scrivere di musica lì e da svariate altre parti (lo conobbi su Indie-Zone, l’ho scovato oggi con una recensione proprio di A casa su RockIt) dieci anni fa esatti mette in piedi un’etichetta, la V4V appunto, label definita “indie-perdente” la cui missione è produrre “solo ciò che ci piace”. Forse Michele conosce gli Albedo proprio attraverso la recensione citata in precedenza, forse li seguiva già da parecchio, sta di fatto che la prima uscita dell’etichetta nel 2013 è Lezioni di anatomia, l’ennesimo concept album (avrete capito che fanno sempre questo) in cui protagonista diventa il corpo, o meglio le sue parti. Ognuno dei nove brani si concentra su arti e organi specifici, abbraccia il loro punto di vista mostrandoci le ragioni del Cuore da un punto di vista originale (“questa gabbia d’ossa mi protegge ma mi esclude da tutti voi” sussurra tramite la voce di Neri, mentre è più deciso quando afferma “se tutti facessimo cosa dice quello là sopra […] tanto varrebbe mettersi tutti in croce e marciare come nazisti”) come quelle del Fegato, delle Gambe, di Dita immaginate in fuga di modo che “nessuno le userebbe per sparare”, ma se i testi si mantengono di alto livello anche la musica cresce, affianca ruvida le lamentele dello Stomaco ma accumula riverberi, sfodera in Schiena un binomio piano-voce da brividi e giustifica sempre più, con arrangiamenti ariosi e una spiccata varietà, l’influenza dichiarata del post-rock (e Marracash gli copia pure il concept nel 2019, senza riuscire ad esserne aderente alla stessa maniera). La band già gira per tutto il paese (ho questo ricordo di una data alla Cooperativa Portalupi di Vigevano, alimentata dall’immagine di una locandina appesa alle parte del locale), lo fa ancora di più (con alterne soddisfazioni, perché come dice Neri in questa intervista “nessuno vuole 600 birre in camerino o quali assurde pretese, ma che ci siano due spie funzionanti e non suonare di fronte a gente che mangia in un pub e che non gliene può fregare niente di te”) e, dopo la prima apparizione al MiAmi nel 2012, fa ritorno al MiAmi Ancora del 2014, oltre a dividere il palco con gente tipo Niccolò Fabi, Paolo Benvegnù, Zen Circus e sua maestà (per noi) Giorgio Canali. Partecipano anche a una compilation tributo ai Nirvana di Inconsapevole Records, When I was an alien, donando intensità e distorsioni a Something in the way.

Non riposano sugli allori però gli Albedo, e già nel 2015 arriva sempre per V4V Metropolis, in free download come il precedente e come quasi tutta la loro discografia all’uscita. Influenza dichiarata stavolta è il film di Fritz Lang, sfondo su cui costruire un viaggio in cui si sommano i temi della dicotomia fede/scienza, della solitudine, dell’ansia di successo, dell’amore e dell’odio. Ancora più libero del precedente nell’inseguire una forma canzone staccata da regole prefissate mantenendosi comunque orecchiabile, rock nell’essenza ma integrando i synth sempre più nella formula sonora, Metropolis alza ancora di più l’asticella e crea coi testi un racconto quasi circolare, coerente nel suo andamento e pieno di frasi che ti si stampano in testa nella loro cruda poeticità (memorabile I miei nemici, descritti come persone che “si aspettano qualcuno che li sappia odiare per bene, e chi li sappia far cadere giù per terra, così che qualcuno li possa raccogliere dallo loro stessa merda e farli sentire importanti”). Dopo questo ennesimo successo la band fa le cose un poco più con calma visto il fuoco di fila di tre album in quattro anni, e ce ne mette tre prima di tornare nel 2018 con l’Ep Paura (registrato dal batterista della band Murray), sempre con la V4V, sempre con l’intenzione di dire qualcosa di importante, illustrando con sonorità inaspettatamente più morbide ma sempre di estrema eleganza il “continuo interrogarsi fra un padre e un figlio”, per usare e loro parole. Da allora purtroppo il silenzio, una versione live di Cuore eseguita piano e voce da Neri ad aprile 2020 e qualche raro messaggio su Facebook: “Ode quindi alle piccole band ormai scomparse all’ombra dei tik toker, delle guerre ingiuste e di una pandemia che ci ha portato via così tanto” scrivono nell’ultimo post, noi incrociamo le dita nella speranza che fra quelle band non compaia ancora per anni il loro nome.

Stomaco è la terza traccia di Lezioni di anatomia, una canzone viscerale (di cui nel booklet interno dicono che “deve fare i conti con A day in the life“) in cui è l’organo stesso a esplicitare una fame d’amore mai saziata. Quindi per la seconda settimana consecutiva si parla di cibo, e anche questa volta in maniera molto laterale: cos’avrà combinato con la sua fame l* protagonist* della vicenda per arrivare ad appendere una lettera-confessione alla porta di casa? Potete scoprirlo subito dopo la canzone che fa da colonna sonora al racconto, Tremila Battute va in vacanza fino a settembre ma torneremo con delle novità e molto probabilmente anche un’occasione per vederci dal vivo: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Pezzi di te

Amore,

ti lascio questa lettera attaccata alla porta di casa perché entrando tu sia consapevole che ciò che ho fatto non l’ho fatto per vendetta. So che darai la colpa ai miei scatti di rabbia, ma non farne una questione di equilibrio mentale: la mia era solo una ricerca.

Ho iniziato dai libri, perché dicevi sempre che la cultura appaga. Ti lamentavi del fatto che leggessi poco e male, ma ricordo ancora la sensazione che mi aveva lasciato quella poesia che mi avevi letto anni fa. Mi pare fosse Keats, ma poteva pure essere King, così ho deciso di assaggiare a caso e ti dirò, il sapore della carta non è neanche così male: ma la cultura non ha placato la mia fame.

Ti chiedo scusa in anticipo per la sbroffata di vomito sulla parete vicino al divano. Volevo sentire quello che senti tu, così ho preso le tue medicine invece delle mie. Ne ho prese tante, per annullare i pensieri, per capire cos’avresti potuto dirmi nei momenti migliori invece di gridare che sono un fallimento, che sono inutile, che dovrei segarmi le vene con una lama arrugginita che almeno se non mi dissanguo mi ammazza la setticemia. Volevo capire come potevamo essere senza tutta la cattiveria gratuita ma non preoccuparti, il sangue non c’entra con quello che ho appena scritto.

Ora di sicuro avrai aperto la porta e mi starai cercando, e non trovandomi ti renderai conto del casino che ho lasciato. Ricomincerai a leggere e mi maledirai perché procrastino sempre le spiegazioni (hai notato che so come usare la parola “procrastino” anche se leggo poco?): ti chiedo scusa anche per questo, sai che mi piace mettere le cose in fila alla mia maniera. Forse sono davvero nello spettro dell’autismo come sostenevi anche se, diciamocelo, fosse per te sarebbero tutti autistici. Comunque sto bene, davvero, non fare caso al sangue.

Ho mangiato un po’ di soldi. Niente di che, dieci euro e una moneta da cinque centesimi, ma se li rivuoi trovo il modo di farteli avere. L’ho fatto perché mi dicevi sempre che i soldi la felicità la fanno eccome, e ho mangiato anche una boccetta di vitamine perché dicevi che se c’è la salute c’è tutto (le schegge mi si sono infilate fra i denti, un po’ del sangue arriva da lì. E anche il vomito mi sa che è colpa del cocktail tranquillanti-vitamine, o forse sono solo i tranquillanti). Quello che voglio farti capire è che ho cercato di trovare qualcosa di noi in quello che avevamo, ma non sono riuscito a trovarlo da nessuna parte. Ho sperato fosse rimasto attaccato alle lenzuola, ma ho solo rischiato di soffocare (la carta ha decisamente un sapore migliore della stoffa).

Mi sa che non potremo capire insieme dove s’è perso il nostro amore, così ho deciso di assaggiarmi. Giusto un morso al polso, per cominciare a farci l’abitudine: d’ora in avanti dovrò bastarmi da me. Ecco spiegato il casino, ecco spiegato il sangue. Perdonami, non potevo andarmene senza capire: spero che riuscirai a farlo, io sono sicuro che rimarrai sempre con me, almeno in una parte del mio stomaco.

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Il pacco dietro al pacco: lavorare ad Amazon ne Il magazzino di Alessandro Delfanti

Foto di Joshua Brown: https://www.pexels.com/it-it/foto/luci-scuro-alberi-sera-12820603/

Ho più volte esplicitato che il tempismo non è il mio forte, infatti questo articolo avrebbe avuto ancora più senso se fosse stato pubblicato settimana scorsa. Perché? Per il semplice motivo che l’11 e 12 luglio c’è stato il Prime Day (che poi, essendo due giorni, non avrebbe più senso chiamarli Prime Days?), il periodo in cui Amazon dedica all* affezionat* clienti sconti sbalorditivi. Ne avete approfittato? Anche voi vi siete sentit* come se aveste ricevuto un premio, alla stregua della protagonista dello spot (che avrei voluto linkarvi, ma una ricerca su YouTube rimanda solo a risultati di consigli su qualsiasi cosa da acquistare da parte di utenti affamati di views)? Se avete risposto in maniera affermativa alle due domande spero che, oltre a ringraziare gli altri utenti e il gatto (ma chi li scrive sti spot? Meno male che hanno incluso anche il corriere), vi siate ricordati di ringraziare anche l* magazzinier*.

La vita nei magazzini di Amazon è infatti tutt’altro che rose e fiori. Lo illustra bene Alessandro Delfanti nel suo Il magazzino, pubblicato nel 2021 dalla Pluto Press di Londra e arrivato in Italia da pochi mesi grazie a Codice Edizioni: basato su interviste condotte fra il 2017 e il 2021, il libro si concentra sulla realtà lavorativa negli enormi capannoni dove la merce viene stoccata e smistata, mostrando una realtà a tratti distopica che converrebbe conoscere prima di acquistare qualcosa sull’onda dell’entusiasmo per uno sconto.

Il sottotitolo del libro, Lavoro e macchine ad Amazon, è efficace nell’evidenziare subito i due ambiti su cui si è concentrata la ricerca di Delfanti: le condizioni lavorative all’interno dei magazzini, indagate attraverso interviste a dipendenti ed ex dipendenti e tramite visite di persona in strutture italiane e internazionali; il modo in cui le macchine influenzano queste condizioni e, soprattutto, come potranno influenzarlo ulteriormente. Che l’azienda di Jeff Bezos non sia in cima alle liste delle aziende più magnanime verso i propri dipendenti è già stato estrapolato da svariate inchieste giornalistiche, ma addentrarsi fra i corridoi dei capannoni, pagina dopo pagina, rende più palese e chiaro il modo in cui il fondatore di Amazon si stia arricchendo sulle spalle della forza lavoro e come sia urgente e necessario trovare delle contromisure.

Work hard. Have fun?

Il libro di Delfanti si articola in sei capitoli che prendono spunto da alcuni dei motti più celebri dell’azienda. Il primo, Relentless – Implacabile, funge un po’ da introduzione, mostrandoci i meccanismi sui quali è stato costruito il successo dell’azienda di Seattle e che ha permesso a Bezos di accantonare un patrimonio enorme, talmente ingente che il fondatore dell’azienda con i guadagni del solo 2020 avrebbe potuto donare a ogni singolo dipendente centomila dollari mantenendo il proprio conto in banca a livelli pre-Covid… ma ovviamente non lo ha fatto, per cui l’unica maniera per spendere i suoi soldi in maniera equa è affidarsi a questo gioco. Una delle cose più inquietanti che si scopre già da queste prime pagine è che la maggior fonte di guadagni per Amazon non è il settore della vendita di prodotti, bensì di servizi digitali: Amazon Web Service è infatti la vera gallina dalle uova d’oro, capace di affittare i propri spazi web e cloud a giganti come Uber, Airbnb e Netflix (tenetelo a mente quando vorrete ribellarvi pagando la grande N per boicottare Prime Video) come di vendere tecnologie di sorveglianza ai governi. Se vi state chiedendo “che bisogno c’è di sfruttare i propri dipendenti se bastano dei server a farti diventare ricco?” evidentemente non siete nella testa di Bezos, e non siete implacabili tanto quanto lui e l’azienda che ne rispecchia il credo.

La realtà sul campo, a Piacenza come altrove, ha indotto molti a dubitare delle promesse di emancipazione e modernizzazione fatte dall’azienda di Seattle. Prendiamo l’Inland Empire, in California. Oggi Amazon dà lavoro a circa 20000 persone che vivono in quella zona, e anche se dopo il suo arrivo la disoccupazione è diminuita, il numero di persone che vivono in povertà è aumentato. Negli Stati Uniti, da alcune inchieste di giornalisti e studiosi è emerso che molti dipendenti Amazon devono affidarsi ai buoni alimentari (food stamps) per arrivare a fine mese, e che dopo l’apertura di un nuovo FC il reddito famigliare nell’area limitrofa tende a calare.

Nel 2018 un rapporto dell’Economic Policy Institute intitolato Unfulfilled Promises ha dimostrato che la maggior parte dei fulfillment center di Amazon, pur creando posti di lavoro nei magazzini, non porta a una crescita complessiva nell’occupazione nel settore privato, perché molti altri posti di lavoro vanno persi.

Il magazzino, pag. 37

Il marcio però viene fuori principalmente nella parte centrale del libro. I capitoli Work hard – Lavora sodo e Have fun – Divertiti illustrano due facce della stessa medaglia, ovvero la continua imposizione di un ritmo a lungo termine massacrante (secondo rapporti aziendali interni ai magazzini statunitensi nel solo 2019 Amazon ha registrato un tasso di infortuni gravi di 7,7 ogni 100 dipendenti, quasi il doppio della media nel settore logistico) e il modo in cui questo viene fatto illudendoti che il posto di lavoro sia un ambiente divertente e stimolante. Immaginate di camminare velocemente per recuperare oggetti da una parte all’altra di un capannone enorme per otto ore, seguendo tempistiche scandite da uno scanner di codici a barre (che ogni tanto vi pone domande sul vostro livello di soddisfazione lavorativa, lasciandovi col dubbio se le risposte potrebbero o meno essere usate contro di voi), il tutto mentre l* cap* reparto vi sfidano a dare di più per raggiungere gli obbiettivi della “squadra” (ma non vi avviseranno mai se li raggiungerete) e, se sarete l’elemento più performante, vi regaleranno una borraccia o una maglietta: questo è un esempio ultrasemplificato di come può svolgersi la giornata lavorativa tipo di un picker, uno degli addetti alla raccolta degli oggetti da spedire, senza mettere in conto gli straordinari richiesti senza preavviso. Delfanti va ovviamente molto più nel profondo, analizzando anche come l’algoritmo che gestisce gli spazi di stoccaggio toglie professionalità all* dipendenti, rendendol* superflui anche dopo anni di lavoro in azienda.

Gli associate di MXP5 che hanno avuto modo di lavorare anche in magazzini tradizionali avvertono chiaramente questa differenza. Là venivano trattati come detentori di un sapere prezioso – letteralmente, sapevano dove stavano le cose – e fondamentale per il buon funzionamento del magazzino. Alla luce di questo, il loro valore si preservava nel tempo. Detenere questa conoscenza era una forma di potere, che poteva essere usata come leva e tutela. Amazon ha rimpiazzato questa organizzazione con una procedura complessa che coinvolge centinaia di stower per generare una forma di inventario caotica, gestita per via algoritmica e che nessun umano potrebbe mai dominare interamente.

Il magazzino, pag. 66

Tutto questo per alimentare la Consumer obsession, la passione per il cliente analizzata nel capitolo specifico e a cui si sacrifica qualunque cosa, che sia il tempo per le preghiere della forza lavoro musulmana o, in periodo di pandemia, la distanza minima da mantenere (difficile rispettarla se questo comporta un rallentamento del ritmo di lavoro, soprattutto se questo ti verrà contestato in ogni caso). Dove le cose si fanno distopiche è invece nel capitolo Reimagine now – Reimmagina adesso, dove Delfanti scandaglia le possibili future innovazioni all’interno dei magazzini estrapolate dai brevetti già acquisiti dall’azienda: molti di questi sono accumulati per trarne profitto sotto forma di concessione della licenza d’uso (il brevetto per il sistema di pagamento 1-Click è uno dei più lucrosi in possesso di Amazon), altri immaginano una sempre più stretta collaborazione tra robot forza lavoro in modo che quest’ultima possa sostenere ritmi più alti (come già accade nei fulfillment center robotizzati, dove alla minor fatica fisica fanno da contraltare un lavoro ancor più alienante nella sua ripetitività e un tasso di infortuni che supera del 50% quello degli FC non robotizzati). Non esiste invece il pericolo di venire sostituiti dalle macchine, diversamente da quanto affermavo in questo articolo sul saggio di Mark O’Connell Essere una macchina, perché

Amazon però non sta pianificando l’eliminazione dei dipendenti dai suoi magazzini. Nonostante l’hype che genera attorno a questo tema, anche grazie ai suoi futurologi, l’azienda non ha alcun problema ad ammettere che ci sarà comunque bisogno di lavoro umano: la manodopera resterà, perché costa meno ed è più facile da controllare e scartare rispetto ai robot. Ciò che Amazon sogna in realtà sono nuovi modi di spremere valore dalle lavoratrici e dai lavoratori. Quello che sogna è di trattarli come robot.

Il magazzino. pag. 177

Make history, magari un’altra storia

Per quanto il libro di Delfanti analizzi Amazon nella sua globalità, mostrando come diverse realtà e, soprattutto, diverse leggi che regolano il lavoro limitano o accentuano le possibilità di sfruttamento del “capitale umano” su cui l’azienda lucra, un occhio particolare viene mantenuto sull’hub di Piacenza, l’MXP5, dove si sono concentrati i primi movimenti sindacali e le prime proteste sul territorio italiano. Molte delle voci attraverso cui è possibile farsi un’idea della realtà all’interno dei magazzini provengono da qui, voci di ex dipendenti, di dipendenti insoddisfatt* e anche di dipendenti che hanno preso parte alle serrate attraverso cui, ad esempio, nel 2021 è stato possibile bloccare la consegna di 250000 ordini. Le contestazioni si stanno facendo sempre più organizzate, i sindacati sono riusciti a entrare anche in altri magazzini e gli obiettivi si stanno facendo più ambiziosi (alla riunione degli azionisti 2019 il collettivo Amazon Employees for Climate Justice ha chiesto all’azienda di fare i conti col suo impatto ambientale), segno che non tutto è perduto.

Nonostante quanto scritto finora, però, c’è anche chi è contento di lavorare nei magazzini di Amazon. Non lo nasconde nemmeno Delfanti, anche se com’è ovvio si concentra principalmente sui malumori e le storture del sistema, e nel mio piccolo ho anche io delle testimonianze di prima e seconda mano di persone assunte nell’hub di Novara, l’MXP6, inaugurato a settembre 2021: d’altronde non è così improbabile trovare soddisfacente un luogo di lavoro quando le alternative sono dello stesso livello, se non peggiore. È forse meglio lavorare sei mesi per una piccola azienda che alla fine te ne pagherà solo tre, com’è capitato a un mio amico? Non è preferibile una camminata veloce di otto ore in un magazzino quando nel tuo precedente lavoro venivi sottopagata e contattata ben oltre l’orario di lavoro, come capitato per anni a un’amica che vedeva nel lavoro in MXP6 quasi una vacanza (per fortuna non ha avuto tempo di ricredersi, visto che ora gestisce un rifugio in montagna)? È così diversa da quella di un dipendente Amazon, a livello di permessi retribuiti e ferie concesse, l’esperienza di un dipendente Barilla che a colpi di contratti a tempo determinato per tre anni non ha potuto organizzare le ferie con la sua famiglia? L* stess* dipendenti del piacentino rischiano di licenziarsi solo per finire a lavorare in uno degli altri magazzini della zona, cementificata oltre ogni limite ambientale da altre aziende come Ikea, TNT e Zalando, e chissà se lì avranno l’aria condizionata. Amazon sta sicuramente facendo scuola ma è il mondo del lavoro tutto che dovrebbe porsi delle domande, perché se un colosso della vigilanza privata come Mondialpol si permette di pagare la propria forza lavoro con retribuzioni orarie al di sotto della soglia di povertà (ma ringraziamo il ministro Tajani, che sulla questione del salario minimo pare abbia affermato “Noi vogliamo un paese in cui tutti possano guadagnare di più, non un paese come l’Unione Sovietica in cui tutti guadagnano la stessa cifra”, il tutto prima di fermare eroicamente un comunista che stava per mangiare un bambino) e nelle agenzie pubblicitarie milanesi scoppia con estremo ritardo una bufera sulle molestie sessuali perpetrate sul luogo di lavoro (speriamo che scoppi presto anche quello relativo agli orari assurdi che l* dipendent* sono costrett* a sopportare per creare contenuti che ci convincano a comprare cazzate che non ci servono) possiamo facilmente renderci conto di quante storture esistono e vanno combattute. Proprio per questo motivo la lettura di Il magazzino è importante: aiuta a tenere gli occhi aperti, ci mantiene allerta per capire dove e come arriverà il prossimo attacco alla nostra libertà, che si lavori alle dipendenze di Bezos o meno.

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