Racconto in musica 81: Due amiche (Boards of Canada – Julie e Candy)

Cosa vi fa stare bene? Ci saranno un sacco di cose che vi fanno sentire in pace coi sensi e non tutte così importanti, piccole cazzate su cui Amélie Poulain intesserebbe discorsi infiniti ma che guarda caso poi non bastano nemmeno a lei quando il suo amore non è corrisposto: però un po’ la vita la fanno sembrare più lieve. Per me una di quelle piccole cazzate è un video musicale, intercettato sul da tempo defunto canale televisivo Flux: si apre con l’ascesa al cielo di quello che sembra una specie di astronauta con un pallone aerostatico, impegnato in un’impresa che ricorda quella di Felix Baumgartner (e in effetti anche alla Red Bull devono aver pensato che era la colonna sonora ideale), ma dopo il lancio e l’atterraggio l’ambientazione cambia e ci vengono mostrate persone che fanno surf, pure dei delfini che saltano fra le onde a un certo punto. Il risultato, che così descritto non è minimamente paragonabile alla visione, è di una poesia incredibile e non sarebbe potuto esserlo senza la splendida Dayvan Cowboy dei Boards of Canada ad accompagnare le immagini.

Duo elettronico scozzese formato dai fratelli Mike Sandison e Marcus Eoin, i Boards of Canada si formano sul finire degli anni ottanta come collettivo di musicisti, presto assestatosi nella sua forma attuale. Esordiscono solo nel 1995 con Twoism, una sorta di demo che i fratelli Sandison volevano far girare unicamente fra artisti ed etichette di cui apprezzavano i lavori e che invece gli frutta un contratto con la casa discografica Skam, con cui l’anno dopo pubblicano anche l’Ep Hi Scores. In un panorama musicale dove erano esplosi generi come jungle e drum’n’bass, riecheggianti del frenetico cambio culturale in corso d’opera in Inghilterra e di cui il movimento rave rappresentava un riflesso distorto, la musica dei Boards of Canada si distinse per essere quasi all’opposto: calda, rilassata, a tratti psichedelica, ispirata principalmente a una serie di documentari che hanno ispirato il nome della band (i National Film Board of Canada) e di cui sono presenti svariati campionamenti nei loro brani.

Dopo un cambio d’etichetta e l’approdo alla Warp Records, vera e propria nume tutelare del movimento IDM (Intelligent Dance Music), il duo pubblica il primo album Music has the right to children nel 1998. È un periodo molto produttivo per i fratelli, che nell’arco di quattro anni pubblicano due Ep (Peel Session, registrazione in nuova veste di tre brani editi durante l’omonimo programma radio della BBC, e In a beautiful place out in the country, dove si esplicita con riferimenti ai Davidiani una delle suggestioni che, assieme alla numerologia e alla natura, influenzano la loro musica: la religione) e il secondo disco, Geogaddi. Da qui in avanti le uscite, le interviste e le apparizioni live (pare abbiano rifiutato centomila dollari per un concerto) si faranno più sporadiche, e se per The campfire headphase bisognerà aspettare solo fino al 2005 saranno ben otto gli anni di attesa prima di ascoltare, nel 2013, quello che è a tutt’oggi l’ultimo disco dei Boards of Canada, Tomorrow’s harvest, in cui il duo riflette a modo suo sulla sovrappopolazione del pianeta lasciandosi andare a suoni più cupi (curioso il modo in cui annunciarono l’uscita, attraverso una serie di messaggi criptici che ricalcano i messaggi delle numbers station e che a me, quando ne ho letto, ha ricordato non so perché Lost). Se volete godervi qualcosa di più recente prodotto dai fratelli Sandison (che il giornalista musicale Simon Reynolds ha inserito nel movimento hauntology, novero di musicisti le cui composizioni, ripescando suoni e suggestioni dal passato, evocano la nostalgia per un futuro che non si è mai realizzato) andate qui per ascoltare il remix uscito a luglio 2021 della canzone Treat em right dei Neverman, supergruppo formato da Mike Patton (Faith No More, Mr. Bungle, Fantômas, Tomahawk…se avete altre due ore elenco tutti i suoi progetti) Tunde Adebimpe (Tv on the Radio) e Doseone con cui i Boards of Canada avevano già collaborato nel 2016.

Julie and Candy è inserita nell’album Geogaddi, ed è un brano in cui quel caldo abbraccio nostalgico che spesso i sintetizzatori del duo evocano mi ha ricondotto al ricordo delle giostre durante la festa del paese, in particolare a quel calcinculo dove io, così a sensazione, penso di non essere mai riuscito a prendere il codino e a guadagnarmi un giro gratis. Ci riescono le due amiche del racconto (che poi il giro gratis nemmeno lo fanno), il cui rapporto ho cercato di scandagliare nel limite concessomi dalle tremila battute consuete: se ci sia riuscito o meno sta a voi dirlo, leggendo il racconto subito dopo aver ascoltato (o, ancora meglio, mentre ascoltate) la canzone a cui è ispirato. Buon ascolto e buona lettura!

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Due amiche

Ci conoscemmo sul calcinculo, alla festa del paese, trovandoci al termine di una corsa forsennata una alle spalle dell’altra sui seggiolini, senza che nessuna delle nostre amiche fosse riuscita a salire insieme a noi. Volevamo quel ciuffo di pelo che calava dall’alto, lo volevamo così tanto da fare squadra all’istante – non ricordo chi di noi lo prese, chi spinse l’altra per farla volare incontro al premio: in quel momento non importava. Quando tornammo coi piedi per terra le nostre amiche ci parvero terribilmente noiose, eppure erano stati solo due minuti, probabilmente anche meno perché il giorno della festa i giri sul calcinculo durano meno.

Cominciammo a passare i pomeriggi l’una in casa dell’altra, anche se non eravamo in classe insieme. I nostri gruppi – quelle masse oscure di cui già sentivamo di non voler fare parte – ci guardavano con sospetto, noi non facevamo nulla per non apparire strane e pericolose ai loro occhi. Mamma mi chiedeva cosa ci trovassi in lei, e so che anche sua madre se lo chiedeva. Mio padre non era capace di preoccuparsi, chissà il suo.

Non c’era niente di così definitivo a legarci. Erano più le cose che ci dividevano che quelle che ci univano – la pioggia, la musica soul che ascoltava mio padre, le feste comandate e, più in là con gli anni, la vodka e la discoteca: tutte cose che lei disprezzava. Avevamo in comune i sogni – uno in realtà, fuggire lontano – ma non la destinazione dove realizzarli: lei sognava un bosco o una giungla dove vivere di ciò che la terra donava, io una grande città dove ammazzarmi di lavoro per togliermi ogni sfizio che la modernità potesse garantire.

Restammo in contatto all’università, anche se frequentavamo facoltà diverse e lei, per seguire la sua strada, dovette trasferirsi. Quando ci vedevamo occupavamo il tempo passando di locale in locale, tornavamo a notte fonda con lei che, stoica, mi trascinava a letto con quel poco di forze che le rimanevano. Ci chiedevano Ma non ti manca, i nostri nuovi amici in città diverse, perché ci vedevano così unite che per loro era inconcepibile pensare che potessimo sopravvivere alla lontananza. Eppure lo facevamo, e non soffrivamo per questo.

Abbiamo iniziato a lavorare, io ho avuto anche un figlio. Lei ha viaggiato per il mondo – mai abitando in un bosco, che io sappia -, io sono rimasta qui e ho ottenuto una parte di quello che volevo. Quando tornava in città si sprigionava sempre quella scintilla, qualcosa a cui non abbiamo mai cercato di dare una risposta: tornavamo due bambine sul calcinculo, che si trovano di fronte o alle spalle una sconosciuta con cui sai subito che legherai.

Nessuno avrebbe scommesso sulla nostra amicizia, ci ridevamo sopra persino noi. Dicevamo che ci saremmo mandate affanculo, prima o poi, che sarebbe potuta finire in qualsiasi momento finché, in effetti, è finita.

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Cosa dicono di noi i Vintage Violence nel nuovo album Mono

Chi è che diceva “sarà pronto quando sarà pronto”? Un regista? Uno scrittore? Un musicista? È forse un modo di dire generico che non ha una vera e propria paternità? Quante domande senza risposta, e tutte inutili ai fini del discorso, mentre ciò che mi chiedo veramente è se questa frase sia risuonata nella testa dei Vintage Violence come possibile risposta a chi chiedeva informazioni su un nuovo album, visto che il precedente Senza paura delle rovine è uscito ben sette anni fa (l’attesa è stata per fortuna mitigata dall’uscita nel 2018 del disco acustico Senza barrè, in anticipo sui tempi visto quanto abbiamo dovuto penare durante la pandemia per sentire delle cazzo di distorsioni). Ora quell’album è finalmente qui, e una risposta a quella domanda aleggiante arriva direttamente nell’ultimo brano, La chiave: “tutti mi chiedono se ho idea di quando il disco possa uscire/ nel 3000 dopo Cristo, e ti servirà un badile”.

Per fortuna per ascoltare Mono, uscito il 19 novembre per l’etichetta Maninalto!, non dobbiamo metterci a scavare, anche se io l’avrei pure fatto. Questa proto-recensione cercherà di essere obiettiva ma non ci provo neanche a nascondere che sono un fan della band lecchese, scoperta nel 2011 col disco Piccoli intrattenimenti musicali e poi conosciuta di persona negli anni successivi (qui trovate un po’ di motivi per cui li adoro, oltre a un racconto ispirato a una loro canzone), per cui se dico che la nuova fatica di Rocco Arienti (chitarra), Nico Caldirola (voce), Roberto Galli (basso) e Beniamino Cefalù (batteria) è una delle cose migliori uscite quest’anno siete liberissimi di credermi o meno: nelle prossime righe cercherò di motivare questa affermazione e di far ricredere i più scettici.

I Vintage Violence fanno punk, ma lo fanno in maniera personale. C’è un filo rosso che lega tutti i loro album, un modo di fare musica che si appoggia sugli incroci delle chitarre, su una sezione ritmica martellante ed eclettica e su una voce che urla in faccia senza troppi fronzoli ciò che non va a questo mondo: la cosa sensazionale è che nelle dieci canzoni di Mono, pur ritrovando tutti gli stilemi a cui la band ci ha abituato negli anni, si avverte chiaramente la capacità di ruotare gli elementi in maniera da creare brani freschi e originali, diretti ma capaci di finezze ritmiche tutt’altro che immediate. C’è un anima viscerale nella loro musica, l’energia primigenea che Pierpaolo Capovilla considerava persa nel primo disco dei suoi Il Teatro Degli Orrori, oltre a un’onestà di fondo che permea i testi e che rappresenta uno degli elementi che più li caratterizza.

Nel libro Finché non ci ammazzano di Hanif Abdurraqib (di cui ho parlato settimana scorsa) è presente un’interessante analisi sui Fall Out Boy, in cui lo scrittore mostra quanto il timido cantante Patrick Stump si sia ritrovato sempre più inadeguato a fare da “cassa di risonanza” dei testi del bassista, il narcisista e nevrotico Pete Wentz. Nei Vintage Violence accade l’esatto contrario, perché le parole di Rocco sembrano scritte apposta per la voce di Nico, un felice connubio che può nascere solo quando il pensiero delle due persone trova un punto d’incontro che, nel caso specifico, è un’aspra critica della società odierna e delle sue storture. Sia chiaro, non sono i primi a farlo e forse non esprimono neanche concetti così originali, ma se le canzoni di un Fabrizio De André resistono al logorio del tempo è perché sono intrise di una poetica che le rende uniche, una capacità di esprimere concetti che già conosci come se li sentissi per la prima volta e che oggi penso abbiano in pochi (Giorgio Canali ad esempio). Per capire che quella qualità in Mono c’è basta ascoltare Zoloft (scritta con Enrico Maria Sighinolfi, da anni fidato collaboratore della band), farsi colpire al cuore dalle sue strofe e provare in pochi minuti le stesse sensazioni che dà leggere Mark Fisher quando parla dell’inscindibile connubio fra malattia mentale e società moderna: “non guarisci perché non ti sei ammalato affatto” è una frase che riassume quel concetto, perché per la paura e l’inadeguatezza la soluzione più semplice proposta è un farmaco che annulla i tuoi pensieri e sentenzia che sei tu il problema, e non il sistema.

Piccolo tramonto interiore/ perché anche l’operaio vuole il figlio dottore/ perché il grado di felicità noi lo misuriamo/ in chilometri, chilometri da Milano

Vogliono che cambi colore/ ti costringono a lottare per un mondo peggiore/ e aspettando un sole nuovo il nostro tempo scade/ siamo come neve nera ai lati delle strade

Piccolo tramonto interiore

Le canzoni dei Vintage Violence costringono a metterti in discussione e lo fanno nella maniera meno accomodante possibile, perché “se vuoi canzoni innocue e confortanti metti Radio Italia” (Dicono di noi). Se chi li ascolta mai si rispecchierà in “chi vuole indietro i soldi da chi arriva su un gommone” (Paura dell’Islam, la cui riga di testo successiva recita “chiederemo indietro i soldi spesi per la sua istruzione”) diventa più facile, ma è doloroso ammetterlo, identificarsi in chi spreca la propria vita senza farsi domande e pensando che basti lo stipendio a giustificare una vita passata a lavorare (“L’esistenza si riduce alla pressione nelle arterie/ se l’idea di libertà è quella di un impiegato in ferie”, Dio è un batterista). I testi di Mono sono criptici in molti punti, prendono vie che non sono quelle più ovvie e che possono portare anche a essere travisati (con conseguenze tipo ritrovarsi il video hackerato dai neo-nazifascisti, come capitato anni fa con la loro canzone Il processo di Benito Mussolini), tanto che la penultima traccia Dicono di noi ironizza proprio su ipotetiche accuse contraddittorie che possono venirgli mosse (“punkabbestia/ricchi di famiglia/militanti dei grillini/militanti del PD”, e cala un silenzio ancora più opprimente se al giorno d’oggi ci si deve vergognare della cosiddetta “sinistra”), soprattutto in un periodo in cui dalla prima serata delle principali emittenti televisive maschi bianchi si lamentano che “non si può più dire niente” (a causa di perfidi attivisti che sui loro profili social sono poi bersaglio di attacchi feroci da parte degli haters).

Quando l’uomo occidentale si erge a moralizzatore/ chi bombarda gli ospedali si lamenta del terrore/ che è da un paio di millenni la risposta naturale/ al terrore di un impero coloniale

Paura dell’Islam

Ciò che manca in Mono (e che manca, purtroppo, nella maggior parte della critica anticapitalistica) sono le soluzioni, tanto nelle schegge veloci come Have a Nietzsche day e Prato fiorito quanto in brani più lunghi e riflessivi come il primo singolo Piccolo tramonto interiore. Queste sono canzoni che puntano a distruggere le fondamenta per stimolare una presa di coscienza, anche se a volte il filo logico viene sacrificato per inseguire una rima tagliente o un’immagine forte e rivoluzionaria (condivisibile o meno, tipo le molotov sulla questura evocate in Zoloft), e il massimo che può e vuole fare la band per indorarci la pillola è illuminare ciò che ci rende ancora umani. L’amore mostrato in Capiscimi II ad esempio (sempre complicato e carnale, perché con buona pace di Cartesio qui mente e corpo non sono elementi scissi), oppure la forza vitale della musica e, infine, l’empatia, questa rara qualità che i Vintage Violence utilizzano con parsimonia in un mondo ostile: “non siate tristi” canta Nico in Dio è un batterista come perfetta chiusa a questa recensione, “e pensate all’occidente come a un bar per camionisti/ sì, sono tutti sbronzi/ ma è empatizzare con le cameriere a distinguere i buoni dagli stronzi”.

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Racconto in musica 80: Il centro della sfera (Yawning Man – Perpetual oyster)

Il bello dei festival musicali è che tu vai lì per ascoltare questo o quel gruppo e poi, quasi sempre, torni a casa che ne conosci almeno uno in più che non avevi mai sentito nominare. Mi è capitato spesso al Balla coi cinghiali, festival storico nato a Bardineto nel savonese e trasferitosi poi nel Forte Albertino di Vinadio, in provincia di Cuneo, uno di quei luoghi che da soli valgono già metà dell’esperienza: attività in ogni nicchia del forte, tre palchi, area tende e pure un laghetto dove rinfrescarsi. Al Balla puoi vederci Tricky e gli Zen Circus sull’enorme palco principale, per poi scoprire gli Eugenio In Via Di Gioia in tempi non sospetti o quella perla nascosta dei Ronny Taylor: puoi anche andare a goderti i concerti più intimi del palco gestito dal Raindogs House di Savona, una sorta di baretto ricostruito all’interno di una nicchia del forte solo per i giorni del festival, dove i volumi non per forza sono più bassi e può capitare di veder suonare vere e proprie leggende come gli Yawning Man.

Sapete cosa sono i generator party? Non farò finta di saperne vita, morte e miracoli, perché il nome l’ho scoperto solo mentre scrivevo questo articolo: sono delle feste in mezzo al deserto californiano, organizzate in maniera molto improvvisata da gruppi di persone che hanno un generatore a disposizione e tanta voglia di suonare e far suonare altra gente, e sono praticamente ciò che più si avvicina alla mia idea di paradiso. Volete un esempio? Guardatevi i Kyuss (ok, audio e video sono pessimi, ma era il cazzo di 1995), con Alfredo Hernández alla batteria, mentre suonano attorniati dal pubblico nel mezzo del nulla come avevano visto fare anni prima da band come gli Yawning Man già citati, di cui Hernández era stato uno dei fondatori. Attivi sin dal 1986, ispiratori della scena desert rock californiana che ha poi sparato verso il successo internazionale Josh Homme con i Queens Of The Stone Age (ed Hernández era pure qui, almeno nel primo album) oltre ad ispirare miriadi di band minori, gli Yawning Man sono rimasti la bellezza di diciannove anni senza registrare una nota se non all’interno di due demo, uscite solo nel 2009 in via ufficiale: la band fondata da Gary Arce (chitarra), Mario Lalli (basso), Larry Lalli (chitarra, basso) e il pluricitato Alfredo Hernández (batteria) si era barcamenata in quegli anni fra periodi di attività e momenti di pausa dovuti al contemporaneo impegno in uno o più gruppi, come i Fatso Jetson dei cugini Lalli, permettendosi anche il lusso di mutare forma e cambiare nome: i The Sort Of Quartet, band che pubblicò quattro album fra il jazz e la psichedelia nella seconda metà degli anni novanta, erano sempre loro.

Lisergici come pochi, lanciati verso gli stati più alterati della mente dai fraseggi infiniti di Arce, gli Yawning Man negli anni 2000 hanno passato più tempo in studio di registrazione, pubblicando cinque album fra il 2005 (Rock formations) e il 2019 (Macedonian lines), con minimi cambi nella formazione (Bill Stinson subentrò a Hernández poco dopo l’uscita del secondo disco, Nomadic pursuits) e la voglia inalterata di perdersi nella musica, magari in compagnia di band amiche (è del 2009 l’album Ceremony to the sunset, registrato con i britannici Sons Of Alpha Centauri sotto il nome di Yawning Sons). Ricordo il live del Balla coi cinghiali, nel 2018, come uno di quei concerti dove chiudi gli occhi e ti lasci trasportare, seguendo la chitarra per i suoi ipnotici percorsi punteggiati da un basso cavernoso e dalla batteria che, nel pieno stile stoner che hanno contribuito a creare, “tira indietro” e rallenta tutto mantenendo inalterata l’energia. Curioso il caso legato alla loro Catamaran: uscita nel 1995 all’interno dell’ultimo album dei Kyuss, …and the circus leaves town, la canzone non è mai apparsa in un disco degli Yawning Man prima del 2018, quando è stata finalmente inserita in The revolt against tired noises.

Perpetual oyster è la seconda traccia di Rock formations, ed è uno di quei brani per cui sembra essere stato creato il termine “ciclicità”. Tutto basato su tre movimenti che si ripetono con minime variazioni lungo i cinque minuti della sua durata, riesce a catturarti e portarti in un altrove luminoso dove sai che tutto andrà come deve andare: ho cercato un’idea che catturasse l’essenza della canzone per mesi, il risultato probabilmente non gli renderà giustizia ma è quanto di meglio mi sento di poter fare di fronte a un monumento della musica che amo e che mi ha influenzato nel corso degli anni. Potete valutare da voi se l’esperimento è riuscito ascoltando il brano e leggendo il racconto, magari cercando di accordare le due narrazioni: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Il centro della sfera

Ed eccolo, finalmente, l’approdo a lungo cercato, la spiaggia dei miei sogni bagnata dalle onde dell’oceano. Mi getto oltre il ponte, mi inzuppo nelle acque chiare dell’isola, arranco con gli abiti bagnati a farmi da zavorra fino alla sabbia fine, lascio che ogni singolo granello si stampi nella memoria tattile dei miei piedi ed elevi il mio spirito, rasserenato e non più piagato dalle innumerevoli lotte combattute per arrivare fino a qui, alla casa che mi aspettava e in cui non ero mai stato.

Guardo le palme svettare davanti ai miei occhi, sento il sole asciugare la mia pelle, annuso l’odore pungente della salsedine, odo lo scalpicciare di mille forme di vita con cui corro, nuoto, esploro ogni anfratto, le buche più oscure, le barriere coralline splendenti, le cime impervie dove l’aria si fa così rarefatta da mozzarmi il respiro per l’emozione.

Quanti anni ho passato alla ricerca? La sofferenza provata nel sentirmi fuori luogo ovunque è placata, il dolore che ho provocato non mi piega più l’anima, sento il concetto di tempo farsi lontano, indecifrabile, qualcosa che una volta aveva il potere di incatenarmi nei suoi ingranaggi e che ora sfugge alla comprensione. Sono sempre stato qui, nel profondo, non c’è una vita precedente che non sia sogno o forse il sogno è ora, ma non mi sveglierò. Le ferite sanguineranno e si rimargineranno in eterno, ma non faranno più male.

Odo il canto delle profondità chiamarmi per nome, sento l’acqua accogliermi nel suo abbraccio, scruto nel buio alla ricerca della mia meta e vedo le ostriche adagiate sul fondale che mi attirano, guidano le mie mani, si fanno sottrarre alla loro casa e intorno a me turbinano i pesci, sfilano le meduse mentre risalgo alla superficie con il fiato che non viene mai a mancarmi.

Dispongo i tesori che l’isola dona di fronte a me, rimirando la lucida armatura bianca che presto scassinerò. Non c’è bramosia nel gesto, il desiderio mi è diventato estraneo: i miei atti sono liberi eppure è destino che vengano compiuti, perché ciò che faccio e ciò che deve essere fatto coincidono. La lama di un coltello scintilla nella mia mano mentre mi appresto ad agire.

Il sole cala all’orizzonte, la luce rossa inonda la spiaggia, le ombre si allungano alle mie spalle, le foglie restano immote, gli animali siedono in attesa, mi brillano gli occhi mentre con forza scoperchio le ostriche, allungo le dita, tasto all’interno alla ricerca di una rotondità perfetta, dell’oggetto che con la sua conformazione mi sussurra l’ultimo segreto, la formula definitiva per la libertà.

Non sono giunto qui per caso. Non ci sono arrivato con un piano. Lascia andare, mi dice la perla, lascia andare, ripete. Mi troverai in ogni ostrica che aprirai, dice, ora che sei il centro della sfera e non vaghi all’infinito lungo i suoi bordi, ora che sei giunto qui, finalmente, all’approdo a lungo cercato…

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Musica e attivismo: la formula di Hanif Abdurraqib in Finché non ci ammazzano

Mi è tornato in mente di recente un breve racconto autobiografico di Chuck Palahniuk. Si intitola La mia vita da cane ed è contenuto in La scimmia pensa, la scimmia fa, anno di grazia 2006: il buon Palahniuk racconta di quando con un amica andò in giro per Seattle travestito da cane dalmata (lei da orso bruno), subendo di tutto da forze dell’ordine, guardie di sicurezza e semplici passanti, dall’essere buttati fuori da un museo (ma DOPO aver pagato il biglietto) all’essere presi a pugni, calci e sassate. Non è chiaro se lo scrittore avesse preventivato le reazioni della gente, di certo lo è il motivo che lo ha spinto a travestirsi in quella maniera: “da maschio bianco” dice Palahniuk, “puoi passare tutta la vita senza mai provare la sensazione di non essere integrato”.

Di certo quella sensazione la conosce bene Hanif Abdurraqib, cresciuto a Columbus, in Ohio, uno stato in cui “vi sono tutte le peculiarità del razzismo schietto, di quel genere abbastanza palese che viene espresso vistosamente e con insolenza”. Cresciuto in un quartiere dei sobborghi da cui i bianchi si tenevano alla larga, unico ragazzo nero e musulmano nel suo college, il tutto in una nazione in cui i corpi dei neri fanno paura e devono fare i conti con la violenza che viene riversata loro addosso per questa stessa paura, Abdurraqib ha reagito alla stessa maniera di molti altri ragazzi che si sentono fuori posto: si è gettato nella musica, quella rap ascoltata in casa e con gli amici (levando le etichette “explicit lyrics”, quando ancora erano appiccicate e non stampate sulle cover) e quella punk e emo vissuta ai concerti. Poi, crescendo, il ragazzo è diventato un giornalista musicale che ha preso il suo amore per la musica e ne ha fatto uno strumento per parlare di altro, per sensibilizzare il mondo su ciò che ancora facciamo fatica a vedere a proposito di razzismo.

Il problema è che tutti vogliono parlare di linguaggio slegandolo da qualsiasi forma di violenza si sia accumulata nel corso del tempo per via dell’esistenza stessa di quel linguaggio. Ad esempio, se una parola può essere urlata nel momento in cui uno scarpone colpisce un volto, allora va presa in considerazione anche questa parte della storia di quel termine. Qualsiasi linguaggio che sia il potenziale precursore di uno spargimento di sangue è provvisto di una storia da cui non può essere scisso.

ScHoolboy Q vuole che i bianchi lo dicano ad alta voce

Finché non ci ammazzano, pubblicato nel 2017 e portato in Italia quest’anno da Edizioni Black Coffee, prende il titolo da un biglietto appeso sopra la targa in memoria di Michael Brown Jr., una delle tante vittime nere della polizia statunitense ucciso il 9 agosto 2014: il biglietto recitava “non ci ammazzano finché non ci ammazzano”, e questa risolutezza emerge appieno dalle parole dell’autore, sia quando parla del lutto attraverso un album dei My Chemical Romance che quando analizza la decisione del rapper ScHoolboy Q di lasciar gridare ad alta voce la N word al pubblico bianco dei suoi concerti. C’è tanta morte che aleggia nei brevi saggi di cui è composto questo libro, quella di chi ha condiviso parte della vita con Abdurraqib e quella delle vittime della storia razzista del paese, ma c’è anche la vitalità di chi non si arrende e riesce a coniugare questi temi con il sincero amore per la musica, raccontata con una foga trascinante.

E così, in uno skate park al coperto di LaGrange, in Illinois, ecco che il gruppo conosciuto come Fall Out Boy viene assalito dai disturbatori mentre dalla cima di una rampa esegue una canzone più moscia dell’altra. Là dentro tutti stanno pressoché fermi nella tradizionale posa hardcore: braccia incrociate e testa che fa su e giù, aria impassibile. Da sotto il palco qualcuno grida, «Ma che cazzo? Suonate qualcosa per darci la carica!»

Pete lancia uno sguardo a Patrick, fa una smorfia al pubblico e, sicuro di sé, dice: «E va bene. Questa canzone è nuova. Si chiama “Dead on arrival”».

Dopo trenta secondi le braccia cominciano a sciogliersi. Qualcuno inizia a pogare e i corpi si scontrano, prima piano e poi con forza sempre maggiore.

Fall Out Boy forever

Diviso in cinque capitoli introdotti da frammenti riguardanti la figura di Marvin Gaye (il sesto capitolo contiene solo una chiusa finale sul musicista soul), la narrazione di Finché non ci ammazzano è politica fin dal pezzo su Chance The Rapper che apre la raccolta, e lo diventa sempre più con l’avanzare delle pagine. La musica fa da padrona nei primi capitoli, mettendo in luce in maniera originale la valenza universale delle canzoni di Carly Rae Jepsen (sì, quella che in Italia conosciamo solo per Call me maybe) o la pochezza delle sfuriate emo sui cuori spezzati perpetrate a un decennio di distanza dai misconosciuti (almeno da noi) Cute Is What We Aim For. Poi la coltre di oscurità causata dall’avvento di Donald Trump si fa sempre più pesante man mano che si prosegue nella lettura e investe articoli che indagano a fondo cosa voglia dire essere nero negli Stati Uniti, da sempre e soprattutto in un periodo in cui a un Presidente come Barack Obama, che porta i rapper alla Casa Bianca e ASCOLTA cosa hanno da dire (pur nella sua fallibilità, che Abdurraqib non nasconde), ne segue uno che è riuscito persino ad aizzare una folla di estremisti all’assalto del Congresso nel momento della sua uscita di scena.

Ci penso mentre il fumo si dirada, mentre vediamo fare ai giovani musulmani di oggi ciò che abbiamo visto fare sempre ai giovani musulmani in situazioni del genere: implorare di essere risparmiati. Lavorano senza sosta per dare sfoggio della propria umanità, per mostrare a tutti noi il bene che hanno fatto. Dicono al mondo che loro non sono come chi ha ucciso, come se il mondo, macchiato di sangue com’è, meritasse questa spiegazione da parte di un innocente.”

Su Parigi

Ecco allora che si fanno largo esperienze biografiche dell’autore ed eventi segnanti di cronaca recente, accanto ad articoli che mettono in luce altri protagonisti della storia nera statunitense come il campione NBA Allen Iverson o la tennista Serena Williams, di cui l’autore rivendica le origini e la libertà di esultare come vuole affermando, quasi in chiusura del pezzo, “stiamo dicendo a uno degli atleti più dominanti del pianeta che forse dovrebbe contenersi un po’, come se fosse possibile dominare uno sport avanzando in punta di piedi”. Abdurraqib mette sempre sé stesso anche in queste storie, la sua empatia, la sua rabbia, la sua disillusione momentanea che continua a combattere con fatica, arrancando, ma vedendo sempre quella flebile luce in fondo al tunnel.

Uno degli articoli forse più spassosi e allo stesso tempo forieri di spunti di riflessione è Lo scherzo del rapper bianco, in cui l’autore analizza la storia di quello che, soprattutto negli Stati Uniti, è ancora visto come una sorta di “scippo culturale” alle radici dei neri. Partendo dai nomi che tutti conoscono, dal precursore Vanilla Ice al successo di Eminem, Abdurraqib crea una vera e propria mappa della musica rap degli ultimi trent’anni, pescando nomi perlopiù sconosciuti da noi (qualcuno ha mai ascoltato il rap/bluegrass di Bubba?) e seguendo un filo logico che porta fino a Macklemore, uno che “ha fatto quello che nessun altro rapper bianco è stato in grado di fare prima di lui”…”intenzionalmente o meno, ha deciso di usare il proprio privilegio per cannibalizzare il fatto di essere bianco, intaccando così la sua stessa mitologia”. La chiusa, una battuta che prometteva fin dalle prime righe dell’articolo, è perfetta:

In un paese che voleva con tutte le forze che diventasse colui che avrebbe dato al rap un futuro migliore, Macklemore ha invece scelto di diventare un uomo senza un Paese. Non è divertente?”

Lo scherzo del rapper bianco

Ho ripensato al racconto La mia vita da cane leggendo questo articolo, a giorni di distanza dalla prima volta, e rileggendola quella storiella vagamente edificante ha assunto una nuova luce. Palahniuk alla fine sembra soddisfatto dell’esperimento, nonostante le botte e le umiliazioni subite, tanto da affermare di provare “il genere di distacco, quella sensazione di autocontrollo, che un bianco può non provare mai per una vita intera”. Palahniuk (spiace dirlo perché sono sicuro che era in buona fede quel patatone) dà l’idea di aver fatto turismo nell’esclusione sociale ed esserne uscito con la convinzione che potrebbe sopravvivere a quella pressione ogni giorno del resto della sua vita: chissà cosa penserebbe Abdurraqib di questo scherzo dello scrittore bianco.

“No, Chuck, non la prendere così!”

Leggere Finché non ci ammazzano mi ha dato tanto su cui riflettere, mi ha trascinato in un vortice sonoro da cui sono emerso più consapevole, anche solo della mia ignoranza su certe situazioni e, per quanto faccia vergognare, è importante ricordarsene ogni tanto (e, certo, non fermarsi lì). Perciò grazie, Hanif, per avermi evitato la figuraccia di emulare Palahniuk andando in giro per Milano vestito da gatto: ora so che non avrei capito niente di più di quel che penso di sapere su cosa voglia dire sentirsi esclusi e minacciati costantemente.

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Racconto in musica 79: Campionato falsato, grida il presidente (Sex Pizzul – The Fearless Vampires F.C.)

Non è che mi arrivino montagne di dischi da recensire, ma un bel po’ ne arrivano. Bene o male ci sono alcuni uffici stampa ed etichette con cui si è stabilito un contatto (in molti casi non so neanche io come) che mi mandano le loro uscite (e io, scusate l’ingratitudine, rispondo solo una volta ogni morte di Papa: a proposito, come sta Bergoglio?), io ascolto il più possibile e decido di cosa parlare senza risultare banale. Da amante dei paradossi ce n’è uno pure qua: vorrei me ne mandassero di più, perché chissà quanta musica bella mi perdo, ma vedo che non sto dietro neanche a questi quindi di cosa mi lamento? Fra i vari dischi di cui non ho parlato c’è un Ep di soli tre brani uscito un paio di mesi fa, perché ho preferito aspettare l’occasione di parlare più approfonditamente di quella band dedicandogli un racconto: il gruppo in questione sono i Sex Pizzul, e state per entrare nel loro mondo.

Si definiscono un trio “mundial disco punk” Irene Bavecchi (basso e voce), Francesco D’Elia (synth e voce) e Simone Vassallo (batteria e voce), musicisti incontratisi nel 2015 ma già da parecchio attivi in altri progetti (Vassallo e D’Elia con i King of the Opera di Samuel Katarro ad esempio), e mai un’etichetta fu più azzeccata: di modi semplici per inquadrare il potpourri musicale proposto dai Sex Pizzul in fondo non ce ne sono, anche se già il nome fissa almeno due coordinate (il Sex arriva dai Sex Pistols, il Pizzul dalla celeberrima voce della nazionale di calcio Bruno Pizzul). Il loro esordio Pedate, uscito nel 2016 per l’etichetta Chic Paguro, è un mix trascinante di influenze, talmente denso di stili diversi da crearne per forza di cose uno a sé: c’è attitudine punk (e pure post punk) nel fare un po’ quel cazzo che gli pare, synth che sembrano usciti da rigurgiti mediorientali e cori come se si fosse in curva allo stadio, a tifare per il Leicester celebrato in Go Foxes! (subito dopo la conquista dello storico campionato con Claudio Ranieri in panchina) o per il St. Pauli, la seconda squadra di Amburgo fieramente anarchica, senza dimenticare per strada inni a campioni del passato come il Gabriel Omar Batistuta di Irina te amo o il bizzarro portiere colombiano René Higuita, rimasto indelebile nella memoria degli appassionati per il suo Flying Scorpio.

Passano tre anni prima che la band torni a calcare il camp…a pubblicare un disco, ma Anticalcio (uscito per Annibale Records) dimostra subito come il trio non si sia dimenticato come si fa a far ballare le persone (provate a stare fermi su Mounir, col suo delirante testo che mischia metà delle lingue conosciute) oltre ad aver allargato il proprio spettro musicale, ampliando una componente psichedelica che emerge chiara in brani come Knight move: l’omaggio calcistico più evidente qui è la riproposizione più che personale della sigla del programma Dribbling, che con i Sex Pizzul diventa un’esperienza lisergica sdraiati su una spiaggia esotica (e fa il paio con quanto fatto, con l’album precedente, per la sigla di un altro programma calcistico storico, La domenica sportiva).

Il resto è storia recente, ed è rappresentato dall’Ep (uscito sempre per Annibale Records) di cui parlavo nel cappello introduttivo. Tutt’altro che stufi di pescare temi dal mondo calcistico i Sex Pizzul omaggiano un calciatore che forse più di ogni altro ha rappresentato un esempio anche fuori dal campo: Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, detto più semplicemente Sócrates, campione fieramente di sinistra e anticapitalista che negli anni 80 vinse due campionati consecutivi instaurando nel suo Corinthians la celeberrima “Democrazia Corinthiana”, un metodo unico di compartecipazione alle decisioni (dalla formazione in campo agli acquisti di mercato) che includeva tutti, dai giocatori più talentuosi ai magazzinieri. Nei tre brani che compongono SuperSocrates il trio sfoggia una propensione danzereccia quasi da club, proiettandoci con la title track in uno stadio brasiliano provvisto di luci stroboscopiche e immancabile commentatore dalle O infinite, facendoci prendere un po’ di respiro con le atmosfere vagamente trash-eighties di Dr. Socrates (che c’entri il fatto che Oronzo Canà, nel tentativo di portarsi a casa un campione dal Brasile ne L’allenatore nel pallone, finisse sotto i ferri di un Sócrates chirurgo, giocando sul fatto che il fuoriclasse fosse laureato in medicina?) per poi riproiettarci con la conclusiva Socrates'(S) Kills nel loro allucinato mondo fatto di psichedelia, rumori da stadio e ritmi tribaleggianti. Evoluzione delle musiche realizzate per uno spettacolo teatrale dedicato al campione brasiliano dalla compagnia Teatro Elettrodomestico, SuperSocrates è l’ennesimo passo azzeccato di una band fuori da ogni schema, di cui spero presto di poter apprezzare le gesta dal vivo.

The Fearless Vampires F.C. arriva dal primo album della band, ed è un brano in cui si incontrano influenze calcistiche e cinematografiche (il titolo della canzone, così come la su atmosfera musicale, trae spunto dal titolo statunitense di uno dei film più famosi di Roman Polanski, Per favore non mordermi sul collo): proprio da questi due spunti sono partito per immaginare una brevissima biografia orale, attraverso la voce di alcuni addetti ai lavori, della storia altrettanto fugace di una squadra di calcio molto particolare, ficcandoci dentro qualche accenno a temi di integrazione che viviamo costantemente nella nostra realtà priva di giocatori assetati di sangue (o forse no, vero Luis Suarez?). Potete leggerlo subito dopo il brano che lo ha ispirato, poco sotto, per cui come al solito non mi rimane che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Campionato falsato, grida il presidente

D (commentatore televisivo) – Il sogno è durato poco, ma fintanto che è durato… Dio, che spettacolo! Giocate del genere ce le sogneremo per gli anni a venire, non sono il primo a dirlo e non sarò l’ultimo. Quello che è successo nell’ultimo posticipo della Lega è stato riprovevole, eppure non riesco a non pensare che la vittima più importante sia stata lo sport.

G (Presidente di lega, da una dichiarazione resa in conferenza stampa) – Sono già stati presi provvedimenti, possiamo quindi comunicare liberamente che la Fearless Vampires F.C. verrà squalificata dal campionato in corso. Stiamo vagliando come rimodulare i calendari a fronte di questa decisione, che è insindacabile: gli stessi dirigenti della società hanno affermato di non voler fare ricorso.

R (Presidente di club) – Io mi ero schierato contro fin dall’inizio, chiunque mi è testimone. Stiamo parlando di incassi che ora andranno in fumo per il danno d’immagine, solo perché nessuno voleva ascoltarmi. E per cosa poi? Questo è calcio, le questioni di integrazione dovrebbero entrare fino a un certo punto nello sport.

V (giocatore aggredito) – Io ricordo poco di quei momenti, e non ci tengo nemmeno rivedere le immagini. Già vedere i due buchi sulla gamba mi fa abbastanza impressione. Non voglio che le mie dichiarazioni siano strumentalizzate ma tutti avevamo paura scendendo in campo, e questo va a pregiudicare la prestazione sportiva. Quando ti vedi arrivare di fronte un giocatore coi canini di fuori a cosa pensi, a fargli un tackle o a lasciarlo passare? Io ho scelto la prima opzione, e guardate cos’è successo.

M (avvocato dell’aggressore) – Il mio assistito è pentito di ciò che ha fatto, si rende conto di quanto questo vada a discapito dell’integrazione fra umani e vampiri. Voglio però ricordare a tutti che l’intervento del difensore gli ha fratturato il perone, e per quanto un vampiro guarisca più in fretta questo significa due mesi di riabilitazione. Non è il primo giocatore che reagisce mordendo l’avversario, c’è chi lo ha fatto per molto meno: le conseguenze sono diverse, ma dovremmo renderci conto che c’è anche una sistematica campagna anti vampiri che ha condizionato il mio assistito per tutte le cinque giornate di campionato in cui la Fearless Vampires F.C. è scesa in campo. Questo è indegno di un paese moderno.

D – Dicono che gli avversari avessero paura, che li lasciassero giocare come volevano per evitare incidenti, ma io ho visto più di un campione giocare e nessuno di loro toccava il pallone come i giocatori della Fearless Vampires F.C.: avrebbero vinto comunque, altro che lasciarli passare.

R – Ci rendiamo conto che abbiamo dovuto giocare la domenica notte con al martedì seguente la coppa? Capisco che di giorno prendano fuoco, ma se devo vendere un giocatore per far fronte al mancato passaggio del turno tocca a me dirlo ai tifosi.

G – Una cosa è sicura, fintanto che sarò presidente nessun vampiro metterà più piede in campo. Che giochino a baseball.

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Ossessioni gotiche in Neroconfetto, l’esordio letterario di Giulia Sara Miori

Conoscete la fiaba Le scarpette rosse? Scritta da Hans Christian Andersen, racconta la parabola di perdizione della piccola Karen che, salvata da una vita di povertà da una ricca benefattrice, finisce per crescere nel culto della vanità, rappresentato dall’ossessione per le proprie scarpette dal colore del fuoco. Distratta dalla fede e dagli obblighi verso la madre adottiva da quelle calzature che sfoggia persino in chiesa, viene condannata da un angelo a danzare in eterno di città in città, come monito vivente per i giovani: Karen arriverà a farsi tagliare i piedi da un boia per sfuggire alla maledizione, ma sarà solo una vita di pentimento passata a fare da domestica al pastore della propria chiesa a permetterle di ricevere il perdono, dando la possibilità alla sua anima di volare in paradiso. Non vi viene voglia di raccontarla ai vostri figli, questa edificante storiella in cui moncherini danzanti vietano l’ingresso alla chiesa e il perdono viene concesso solo quando il cuore della protagonista si spezza, nel senso letterale del termine?

Questa fiaba è stata raccontata da Sara Giulia Miori al Salone del Libro di Torino, in occasione di una presentazione del suo libro Neroconfetto, uscito a Giugno 2021 per Racconti Edizioni (casa editrice che l’ha scoperta grazie al concorso letterario 8×8, di cui Miori è stata finalista nel 2020). Nel definirla la sua fiaba preferita l’autrice voleva esplicitare il legame della sua raccolta sia col territorio della favola che con quello dell’orrore, due temi che spesso si coniugano nelle storie mortalmente moralistiche di Andersen (a noi spesso giunte in forma edulcorata, più di una volta grazie a/per colpa di Walt Disney), ma c’è un altro elemento che emerge prepotente in questi ventuno racconti e che sta alla base anche della storia della povera (maledetta peccatrice) Karen: l’ossessione.

Il mondo di Miori è un territorio di ombre in cui il mistero può entrare nelle vite dei personaggi in qualsiasi momento, all’atto di comprare un cappotto o rispondendo a un annuncio per il ruolo di babysitter, ed è anche un mondo dove le ossessioni divorano i personaggi: spesso è quella per una persona ad agire come motore delle vicende, ma le donne dipinte dall’autrice (e in maniera minore gli uomini, protagonisti di soli due racconti) sono prigioniere anche nel quotidiano di atti ripetuti ciclicamente, costrette in vite senza prospettive da cui non sanno come evadere. L’autrice mette sapientemente in luce con la sua scrittura questi gesti, concentrandosi sui dettagli e facendo così emergere le piccole e grandi manie dei suoi personaggi: c’è chi continua a pulire la propria casa, nel vano tentativo di riportare ordine nella sua vita sconvolta da un caso di pedofilia (Candeggina), chi profonde tutta la propria meticolosità nel preparare una cena perfetta per l’uomo fedifrago di cui si è innamorata (Occhiali) e chi ricorda la moglie morta attraverso determinati particolari che tornano lentamente a perseguitarlo (Notturno).

Da quando era successa la tragedia, l’ordine e la pulizia erano le uniche attività che le davano soddisfazione. I vetri, i lampadari, l’interno dei cassetti: ogni cosa doveva essere disinfettata con la candeggina finché non era perfettamente pulita. Valerio non amava questo suo nuovo passatempo, e tuttavia per un po’ l’aveva tollerato: aveva chiuso un occhio, ma un giorno le aveva detto basta, basta Nora, ti stai ammalando. Le aveva detto così, e allora lei aveva cominciato a pulire quando lui era al lavoro, e piano piano, giorno dopo giorno, mese dopo mese, avevano iniziato a fare finta di niente, e per fortuna i discorsi su Sofia si erano diradati fino a scomparire.

Candeggina

Miori spalanca le porte sull’ossessione particolarmente nei racconti scritti in prima persona, mostrando i meccanismi mentali che operano nella mente dei personaggi. Qui la ripetitività diventa stile, nomi e particolari evocati in continuazione da protagonist* fissati su un unico obiettivo, che sia una compagna di classe vittima di bullismo (Alice), la persona amata (Camilla, Isabel), lo stato dei propri capelli (Capelli) o il tempo (L’aereo): è un escamotage che l’autrice dosa con sapienza, piazzando i vari racconti in punti strategici della raccolta, ma che non evita l’insorgere di una sensazione di deja vu.

E mi dispiace se hai sofferto, Lucille, ma tutto quello che ho fatto era necessario per cercare di guarirti, e anche se sapevo che non sarebbe servito a nulla, io l’ho fatto lo stesso: le iniezioni erano necessarie, lo sciroppo era necessario, la minestra era necessaria, e lo sai anche tu, Lucille, lo sai anche tu che quando obbedivi allora andavamo d’accordo, lo sai anche tu che io lo facevo solo per starti vicina, solo per aiutarti a stare meglio, solo per prendermi cura di te.

Lucille

Neroconfetto è denso di storie in cui un elemento di rottura porta il cambiamento nella vita dei personaggi, spesso in negativo e a volte, esasperando il modello fornito da Andersen, quasi come un monito a chi dalla vita cerca qualcosa in più. Spint* a fare attenzione ai dettagli, calat* in atmosfere inquietanti da cui si viene portati a immaginare il peggio, diventa automatico per chi legge cercare di prefigurare il destino che attende l* malcapitat* di turno: quando ci si azzecca, e succede in più di un’occasione (a me è capitato in particolare con La babysitter e Occhiali), si esce dalla lettura con una certa delusione, sensazione che rimane addosso fintanto che non ci si imbatte in una risoluzione a sorpresa o in uno svolgimento che esce dagli schemi prestabiliti. La raccolta di Miori mi ha fatto spesso ondeggiare fra l’entusiasmo e il ridimensionamento delle aspettative, non tanto per la qualità intrinseca dei racconti quanto per la presenza di vicende che, al netto del cambio di personaggi (con nomi che tornano ciclicamente, quasi a costringere il lettore in una realtà chiusa e claustrofobica), finiscono per presentare dinamiche troppo simili.

Quando Miori si permette di uscire dal seminato, però, arrivano grosse sorprese. È il caso de La clinica, un racconto in cui il mistero che ammanta la struttura dove la protagonista (identificata solo col numero della sua divisa, Trenta) si reca volontariamente per dimagrire non viene mai svelato, solo suggerito, mantenendo alta la tensione per tutte le diciassette pagine della sua lunghezza; del già nominato Capelli, che in uno spazio brevissimo riesce a spiazzare con un twist che, attraverso le sensazioni della protagonista e la sua percezione dello sguardo altrui, lascia raggelati; de Il colloquio, in cui l’arco narrativo di Mara porta in territori inaspettati da cui si esce (o forse no?) spaesati e senza punti di riferimento. Sono questi i momenti in cui Miori dà il meglio di sé, tracciando nuove rotte creative che lasciano emergere un male diverso, più perturbante, in cui la morte è solo uno degli elementi in gioco e non per forza quello più inquietante.

Anche quando era nato, le avevano detto che andava tutto bene, ma lei si era accorta subito che il bambino non aveva pianto. «Perché non piange?» aveva chiesto. Va tutto bene, signora, aveva detto l’ostetrica. Va tutto bene, avevano detto le infermiere. Ma non era normale che il bambino non piangesse. Lei lo sapeva. Non è normale che il mio bambino non pianga. L’ostetrica aveva riso di gusto, come se un’idea del genere fosse assurda. Aspetti un attimo e si calmi, le aveva risposto con una lieve irritazione. Poi Greta aveva sentito quel verso. L’aveva sentito per la prima volta in sala parto, e la verità è che aveva avuto paura.

La culla

Che sia fra le strade di una città reale (Milano, Trento e Amsterdam fanno da sfondo ad alcuni specifici racconti che, secondo quanto raccontato dall’autrice, non avrebbero potuto essere ambientati altrove) o in un non luogo dai contorni evanescenti, le storie narrate da Miori hanno il sapore di novelle gotiche aggiornate alla nostra epoca. L’autrice mostra con efficacia quanto i fantasmi possano spaventare anche al giorno d’oggi, nascondendosi fra gli oggetti di un negozio di abbigliamento vintage come in un soprammobile, ma è solo discostandosi da quel tipo di narrazione che riesce a dare nuova linfa vitale alla raccolta: Neroconfetto è il parto creativo di una voce sicuramente personale, i cui margini di crescita sono tanto ampi quanto più si darà modo di uscire dalle strette gabbie in cui rinchiude, aguzzina ammiccante, i propri personaggi.

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Racconto in musica 78: Spavaldo (Moltheni – Spavaldo)

Quand’è che ci si può definire esperti di qualcosa? In questo blog finora ho parlato, solo negli articoli domenicali di presentazione del racconto settimanale, di settantacinque artist* divers*, e non è che li conoscessi tutti così bene. In un paio di occasioni ho ricevuto l’aiuto di chi si è occupato del racconto, ma sono molte di più le occasioni in cui mi sono improvvisato ottimo conoscitore di un argomento che ho approfondito perlopiù tramite wikipedia e controlli incrociati fra vari siti, consapevole che per un vero appassionato le mie parole sarebbero risultate lacunose. Ecco perché questa settimana ho preferito delegare tutto, trovandomi di fronte a un ottimo racconto altrui cui si coniuga una presentazione scritta da qualcuno che conosce molto meglio di me Moltheni, l’artista ospite di questa settimana.

Il racconto è di una nuova/vecchia conoscenza di Tremila Battute ovvero Alessio Barettini, che solo un mesetto fa esordiva su queste pagine con un racconto dedicato a una canzone dei Guignol. In quell’occasione parlai brevemente della sua venerazione per David Bowie, un amore di cui mi sono potuto rendere conto leggendo un suo articolo relativo all’album 1. Outside su Critica Impura: prima di apprezzarlo come narratore, qualche riga più in basso, stupitevi di fronte alla sua conoscenza enciclopedica e al modo in cui la snocciola con una scorrevolezza che posso solo invidiare.

Ma siamo qui per parlare di Moltheni, cantautore dallo stile riconoscibilissimo e musicista poliedrico, e il caso vuole che conosca personalmente qualcuno che ne conosce vita, morte e miracoli. Roberto Conti è già apparso su questo blog con un racconto dedicato ai Baustelle, è un grande amico con cui ho condiviso per anni l’esperienza di portare in case private i concerti con Asap – As Simple As Passion (solo una delle tante iniziative organizzate dall’associazione da lui creata) e per fedeltà artistica fa impallidire i miei 68 concerti visti dei P.A.Y., la mia band preferita: Roberto veleggia ampiamente oltre i 100, non potevo quindi che chiedere a lui una breve introduzione più personale e sentita dell’elenco di dati che avrei potuto fornirvi io.

“Era il 1999 quando Umberto Giardini, misconosciuto cantautore che aveva scelto lo pseudonimo Moltheni (nome attinto da una farmacia milanese), esordiva lanciato da Francesco Virlinzi, che con la sua Cyclope Records aveva contribuito a portare in Italia, e a Catania in particolare, nomi pesantissimi del rock internazionale. Erano anni luminosi per Moltheni che condivideva il palco con Verdena, Carmen Consoli, Afterhours e Massimo Volume, partecipava a Sanremo (nel 2000), passava in radio e in tv sui canali musicali. Poi, dopo la morte di Virlinzi e un periodo di stop, Moltheni torna con una label indipendente, La Tempesta, e rinasce artisticamente affermandosi come riferimento della scena indie di quegli anni. All’apice del successo decide però di dire basta e di mettere nel cassetto il progetto dopo la pubblicazione della raccolta Ingrediente Novus, nel 2009.

Qualche anno più tardi il nostro torna con il suo nome di battesimo, Umberto Maria Giardini, scegliendo una direzione musicale più elettrica e sperimentale rispetto al folk dell’ultimo periodo Moltheni. UMG si allontana dai territori indie, ormai diventati troppo battuti e musicalmente sterili. In tutta la sua carriera Giardini coltiva anche progetti musicali collaterali (Stella Maris, Pineda, Formosa, solo per citare i principali) e si dedica alla produzione e alla scoperta di nuovi talenti musicali.

Nel 2020, in piena pandemia Covid, ecco un ultimo colpo di coda di Moltheni: Senza eredità è un disco di brani inediti del passato, riadattati e risuonati con molti dei musicisti che accompagnarono la sua carriera. Giardini in tanti anni ci ha abituati a frequenti colpi di scena: suicidi artistici e improvvise rinascite, sempre all’insegna della libertà artistica e di un metodo di lavoro rigoroso e prolifico.”

Spavaldo è proprio una canzone che arriva da quest’ultima raccolta, un brano di cui mi sono innamorato ascoltandolo live in un concerto milanese di questo strano 2021 in cui la musica, piano piano, sta tornando protagonista anche in presenza. Alessio ha raccolto al volo la sfida di trarne un racconto, una storia di movimenti interiori intrisa di poesia che si dipana lungo i corridoi di un centro commerciale: a voi non resta che leggerla, subito dopo l’ascolto del brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi come al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Spavaldo, di Alessio Barettini

Entro. Le porte automatiche lasciano passare me ma rifiutano alcune domande. I centri commerciali non sono posti per le domande. Per quelle ci sono le vacanze, i resort, la guide che spiegano le grotte e si lasciano andare a raccontare le trasformazioni che hanno visto negli ultimi vent’anni. La felicità ha sempre due facce.

Cammino, le mani in tasca, la testa ciondolante a supportare una curiosità senza seguito, gli occhi che saltellano tra i riflessi delle vetrine e l’interno dei negozi. Mi interrogo su quello che potrei acquistare se ci entrassi. In alcuni casi il dubbio galleggia nel mio campo visivo e svanisce tra le luci dei fari disposte secondo criteri ragionati dagli arredatori, tra le superofferte dei menù scritte col gesso sulle lavagne e quelle di soggiorni e camerette fino a 10% di sconto.

Proseguo, fino all’ingresso del supermercato, tra i negozi, chiedendomi costantemente cosa sia tutto questo, come mai sia così stridente il confronto tra me e lui, o tra me e la mia camminata, tutta diversa dai miei reali intenti, persino assorta, sbrigativa, già desiderosa di uscire per una sigaretta meritata, per una telefonata inattesa, per un’idea nuova che non so di possedere ancora.

Regalo, un ultimo sguardo trasversale alla profumeria davanti all’entrata, mentre con le mani scavo nelle tasche in cerca della lista della spesa. La mia anima sospesa non uscirà da questo solco, dalla routine cremosa che ci lega le viscere e fa brillare tutto, cancellando ogni grano di polvere e imponendo un programma scomposto, impossibile, furtivo, lo racchiude dentro il nostro segno che non hai mai saputo leggere, il gioco di te e di me che mi incide con precisione artigianale, anima in edizione limitata.

Esco. Nella linea blu del cielo che si alza sopra le costruzioni e i magazzini ringrazio me stesso ad alta voce, in modo che tutto il mio io mi senta. Con me escono tutte le vette dei miei pensieri e tutti i loro bassifondi. Io, in mezzo, a testa alta, verso quell’orizzonte che non ho, lanciando il mio cuore verso l’immagine ignota che mi aspetta. Il telefono suona, è il tuo numero. Non rispondo, non avrei parole. Quel che ho fatto e quel che non ho fatto non ne hanno mai avute, né ne avranno. Ma tu questo non lo sai. Il tuo centro è fuori di me.

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Ballare e pensare, ma non troppo: Sale rosa, il nuovo album di dellacasa maldive

Qualche anno fa, quando ascoltai Alors on danse di Stromae, pensai di trovarmi di fronte all’ennesima canzone da dancefloor con dei fiati nel ritornello (sì, è una descrizione un po’ del cazzo: non sono un grande esperto di musica da discoteca). Soltanto in seguito, grazie al tam tam mediatico, scoprii che dietro a quelle parole in francese che i miei ricordi delle scuole medie non riuscivano a decifrare c’era del senso: il giovane artista belga aveva provato a unire due mondi, quello dell’impegno e quello del divertimento, un connubio che funzionò e lo proiettò in breve tempo in cima alle classifiche.

Quell’episodio, lontano ormai undici anni, mi è tornato in mente ascoltando Sale rosa, secondo album di dellacasa maldive fresco d’uscita per l’etichetta La Valigetta. Riccardo Dellacasa, polistrumentista lombardo (ma ora di stanza a Venezia) che si cela dietro al moniker, non fa musica da dancefloor ma ci tiene comunque a far ballare in questi dieci brani, un mix personale che unisce synth pop, suggestioni caraibiche, ritmiche funky e qualche distorsione qua e là. A fare da apripista dell’album, dopo la breve Intro, è però un brano che lascia trasparire molte ombre: Sto perdendo me stesso, canzone multiforme che si fregia della collaborazione con Max Collini, racconta attraverso alcuni episodi biografici una mancanza di orizzonti che è endemica nella società odierna soprattutto fra i giovani, schiacciati da un mondo del lavoro che non offre garanzie e la necessità di essere sempre al top (scusate per la sintesi banale di un problema reale e molto piùcomplesso di così). Dellacasa maldive come Stromae quindi? Be’ non proprio.

“Mi rimane il desiderio di farti cantare e ballare”, questo afferma Dellacasa in Pedalini, ed è quanto cerca di fare per la maggior parte della durata dell’album: se Voglio solo stare fuori all’aria aperta insiste sulla noia non è per farne una questione esistenziale ma solo per rimarcare la necessità di contatto umano e il New awakening, new beginning dell’omonima canzone, incedere tropicale su suoni elettronici, sembra una necessità cui manca una direzione specifica. La voglia di fuggire, evocata in Passages, si scontra nello stesso brano con la comodità data dal rifugiarsi nel passato (un passato che emerge, musicalmente, dai suoni elettronici spesso filtranti con gli anni 80), quasi a confermare quanto affermava Mark Fisher sull’impossibilità di immaginare un futuro che non sia una riproposizione di ciò che già conosciamo. Sale rosa lascia intuire una profondità che non viene esplorata, abbozza temi interessanti ma se ne dimentica per strada: farebbe incazzare se non fosse suonato dannatamente bene.

Gli arrangiamenti sono il fiore all’occhiello di questo disco, elaborati senza risultare pesanti, e questo nonostante una durata media dei brani che si attesta nella maggior parte dei casi oltre i quattro minuti. La musica è l’ancora di salvezza di Dellacasa, lo afferma lui stesso nei sei minuti abbondanti (comprensivi di qualche momento meno riuscito) di Sto perdendo me stesso, e allora amen se il testo di Nora lascia indifferenti perché è la melodia ciò che conta, contagiosa nella sua semplicità tanto quanto lo è la chitarra che anima i ritornelli di Voglio solo stare fuori all’aria aperta. È un album allo stesso tempo furbo e anarchico Sale rosa, azzecca le giuste note per lasciarti “stanco ma felice” (citando ancora Pedalini, probabilmente il brano migliore del lotto nonostante alcune righe di testo che sembrano messe lì giusto per fare rima) ma si permette anche di fare un po’ quello che gli pare, tipo piazzare esattamente a metà disco un divertissement come Rio moog che è un’azzeccato omaggio a certe colonne sonore anni 80 (John Carpenter, cita la cartella stampa, ma a me ha fatto venire in mente I guerrieri della notte). Domani cerca di riproporre sul filo di lana un minimo di analisi sociologica su un futuro incerto, ma le parole si perdono fra un riff di basso trascinante, la chitarra fuzzatissima e synth acidi a fare da tappeto sonoro: un ottimo modo di chiudere il discorso.

Può un disco essere bello e apparire allo stesso tempo come un’occasione sprecata? Sale rosa ci riesce, azzeccando musicalmente (quasi) tutto ma lasciando quella punta d’insoddisfazione nel vedere le parole utilizzate al minimo sindacale dell’impegno. Non si chiedeva certo a dellacasa maldive di coprire il buco lasciato dagli Offlaga Disco Pax solo perché appare Max Collini in un featuring, ma quell’insofferenza che aleggia sull’intero album avrebbe potuto essere approfondita invece che rimanere ignorata e lasciata lì, ad ammantare con un sottile velo di tristezza una festa da cui usciremo pieni di adrenalina ma uguali a prima. E allora danziamo, orsù, penseremo dopo a cosa fare della nostra vita.

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Racconto in musica 77: Prima visione assoluta (Future of the Left – Singing of the bonesaws)

Avete presente quelle barzellette che iniziano con “ci sono un italiano, un francese e un inglese…”? Quando ero piccolo io erano il non plus ultra della comicità (ok, magari non proprio, ma stateci), ora per quel che ne so potrebbero essersi estinte perché, signora mia, non si può più dire niente, o magari perché la gente si è rotta il cazzo di sentire storielle che girano attorno a quei quattro stereotipi culturali in croce. Se vanno ancora di moda (“di moda” magari è un termine un po’ esagerato) sapete di cosa parlo, altrimenti andate qui e ripassate con Elio e le Storie Tese (special guest Claudio Bisio).

Qualche anno fa sono stato protagonista di una storia che potrebbe essere l’incipit di quel tipo di barzelletta, per la precisione “c’è un italiano che va in Belgio per vedere un gruppo gallese”: tutto questo perché, nella mia insana passione per la musica che non s’incula nessuno al di fuori di me, sono dovuto volare fino a Bruxelles per vedermi dal vivo la suddetta band gallese, in giro già da parecchi anni ma che in Europa continentale già suona poco, figuriamoci se arriva in Italia. Così me ne sono andato nella capitale belga solo soletto (già mi riusciva difficile trascinare la gente ai concerti in Italia, figuriamoci portare qualcuno in Belgio), con un clima infame (sono stato in Belgio due volte per un totale di tredici giorni, nei quali non ha piovuto solo in tre occasioni: due di quelle ha nevicato, ed erano i giorni in cui sono andato a vedere il concerto) a occupare il tempo a disposizione bevendo perlomeno buona birra. Ne è valsa la pena? Cazzo sì, e per i Future of the Left lo rifarei anche domani.

Nati sulle ceneri dei Mclusky, seminale band post-hardcore che sinceramente non ho mai sentito ma che ancora oggi (scioltisi nel 2005, dal 2014 si sono riuniti solo per suonare dal vivo) suona in festival britannici grossi e non come gli ultimi degli stronzi, i Future of the Left si formano nel 2005 attorno a due terzi del gruppo appena disciolto, cioè al cantante, chitarrista, tastierista (e occasionalmente bassista) Andrew “Falco” Falkous e al batterista Jack Egglestone. Coinvolti nel nuovo progetto il polistrumentista Kelson Mathias e il chitarrista Hywel Evans (che mollerà abbastanza velocemente la band), provenienti dall’altrettanto disciolta band Jarcrew, ci vogliono due anni prima di sfornare l’esordio discografico, Curses, uscito nel 2007 per l’etichetta Too Pure che, in continuità col passato, è la stessa etichetta per cui uscivano i Mclusky. È proprio con questo disco che vengo in contatto con i Future of the Left, in maniera totalmente casuale (e illegale) condiviso con me da un amico a scopo recensione assieme a un sacco di altra roba scaricata chissà come chissà da dove (do not try this at home!): fu amore a primo ascolto grazie ai suoni grezzi e distorti degli strumenti, la voce isterica e una sorta di strafottenza sarcastica che aleggiava su tutti i quattordici brani, caratteristica fondante dei testi che ancora oggi sono intrisi di un’ironia talmente pervasiva da rendere difficile (anche per riferimenti culturali specifici) capire contro chi, cosa e come se la stia prendendo Andy (probabilmente contro tutto, anche contro sé stesso). Già l’anno dopo se ne escono con un live, Last night I saved her from vampires, poi nel 2009, dopo aver cancellato un tour in Regno Unito, Cina e Australia pur di concentrarsi sulle registrazioni, vede la luce Travelling with myself and another (uscito, anche a causa del fallimento della Too Pure, per l’etichetta 4AD): i synth, già presenti in molti brani del primo disco, prendono più spazio ma questo non toglie energia alla band, come dimostra il primo singolo Arming Eritrea. Ai tempi me lo perdo perché le mie conoscenze (di pirateria) sono limitate, non quelle di chi riesce a buttarlo su internet un mese prima dell’uscita ufficiale, facendo incazzare Falkous come neanche i Metallica con Napster (ah, la preistoria del download illegale! E quello, ragazzi, è lo scheletro di eMule).

Il 2010 inizia con l’uscita dalla band di Mathias, annunciata attraverso il profilo MySpace della band (giusto in tema di cadaveri digitali), e si conclude con l’uscita dell’Ep Polymers are forever, piccola anticipazione di quello che sarà il nuovo disco The plot against common sense (2011, in uscita questa volta per Xtra Mile Recordings). Ora sulla barca c’è anche Julia Ruzicka, una presenza che stabilizza definitivamente la formazione (ci saranno al massimo saltuari ingressi di quarti membri di cui il più importante è il chitarrista Jimmy Watkins, al fianco del trio fra il 2010 e il 2015) e porta con sé linee di basso distorte sulle cui fondamenta si edificano alcuni dei brani migliori del disco: ascoltatevi Beneath the waves an ocean per farvi un’idea. In questo momento la band decide di rendersi totalmente indipendente da etichette e cose simili lanciando una campagna di crowdfunding per il quarto disco, How to stop your brain in an accident, che raggiunge l’obiettivo minimo in cinque ore: l’album esce nel 2013 e contrariamente ai timori che avevo ai tempi su queste operazioni (se è il fan che paga preventivamente per la tua musica, quanto conterà la sua soddisfazione nel processo di scrittura?) risulta ancora oggi il mio preferito, capace di far brillare anche la prima e unica “ballad” della band, French lessons. Il gioco dell’autofinanziamento esce così bene che i Future of the Left replicano, lanciando a fine 2015 una nuova campagna di crowdfunding (fra le cui ricompense c’è anche la possibilità di portarsi a casa un pedale fuzz realizzato appositamente per la band) che stavolta raggiunge l’obiettivo in sole tre ore (e a cui sono orgoglioso di aver contribuito, sentendomi moralmente a posto dopo gli iniziali download illegali): pochi mesi dopo vede la luce The peace and truce of Future of the Left, un episodio caratterizzato da minor varietà musicale e brani più grezzi e ossessivi che rappresenta a tutt’oggi l’ultima uscita discografica del trio. Nel 2017 viene annunciato un tour europeo di poche date, al termine del quale la band si prenderà una pausa per permettere a Ruzicka di partorire e a lei e Falkous, coppia nella vita oltre che sul palco, di prendere confidenza col loro ruolo di neogenitori: per questo motivo un italiano vola in Belgio a vedere un gruppo gallese, per godersi una performance piena di energia e sudore che si conclude con Egglestone indiavolato che continua a suonare quel che rimane della batteria mentre Falkous e Ruzicka la smembrano pezzo per pezzo. A presto, gallesi pazz*, attendo il vostro ritorno con ansia.

Singing of the bonesaws viene dritta dritta da How to stop your brain in an accident, ed è un brano atipico nella discografia della band. Tutta costruita su una linea di basso ossessiva e su uno spoken word che sembra provenire da programmi radiofonici d’epoca, la canzone è un lunghissimo discorso sulla cultura dell’intrattenimento (bersaglio di altre canzoni della band, ad esempio l’invettiva contro i sequel Robocop 4: fuck off Robocop) che parte dalla differenza fra eccitazione e FOMO (Fear Of Missing Out, ovvero la paura di essere esclusi se non ci si adegua alla moda imperante) e passa per orsi che si lamentano della mancanza di azione nel film con Daniel Day Lewis There will be blood: un lucido delirio che ho cercato di mettere in scena immaginandomi una riunione di sceneggiatori che finisce in mattanza. Come? Perché? Potrete scoprirlo leggendo il racconto, che trovate as usual subito dopo il brano che lo ha ispirato: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Prima visione assoluta

La scena del crimine è un macello, il che appare ironico all’Ispettore perché quante volte la moglie, adagiata sul divano senza neanche la forza di cambiare canale, gli ha detto Quelli che scrivono questa roba sono dei porci. Eccoli lì, scannati vivi, a una prima occhiata pare con nient’altro che penne, fogli di carta e vetri degli schermi rotti dei portatili in dotazione dal network.

Qui ne abbiamo un altro, dice un agente, indicando sotto il tavolo una figura col cranio fratturato in più punti. L’agente chiede scusa e va verso il bagno, lui tira fuori il taccuino e, dopo una rapida occhiata, aggiunge “sedia” fra le armi del delitto. Toccherà poi al medico legale confermare o meno la sua ipotesi.

Un altro agente, pure lui bianco come un cencio (Perché sceglierti un lavoro del genere se non riesci a sopportarlo, si chiede l’Ispettore, con così tanta necessità di vigili per le strade), lo avvisa che fuori il Direttore del network aspetta di vederlo. Cammina con tutta calma verso l’ingresso, una doppia porta in legno di mogano stranamente intonsa. Da quel che ha potuto determinare delle dinamiche del delitto nessuno ha cercato di scappare, al massimo cercarsi un posto nascosto dove morire come fanno a volte gli animali.

Il Direttore non se lo aspetta sconvolto, e non lo è. Chiede Com’è possibile che i miei migliori dipendenti (E uno stuolo di stagisti sottopagati, pensa l’Ispettore, ma non lo dice) siano morti tutti insieme, pretende una pista buona per trovare il colpevole quando loro ancora stanno contando i cadaveri per capire se qualcuno è scampato alla mattanza. L’Ispettore scuote la testa con aria istituzionalmente contrita, poi si gira quando sente un terzo agente chiamarlo a gran voce.

Ispettore, dice quello, abbiamo trovato qualcosa che dovrebbe vedere. Una delle vittime aveva in mano una videocamera, pare abbia filmato tutto.

Alla fine della visione l’Ispettore è un po’ scosso. Pensava che niente avrebbe potuto scalfire la corazza che si era creato negli anni, ma questo va oltre.

Buon dio, dice, mentre il Direttore fa un cenno con la testa che non si capisce se sia d’assenso o cosa.

Quindi davvero fate lavorare la gente a queste cose?, chiede l’Ispettore. Forse dopo anni anche io avrei reagito così.

Erano ben stipendiati per questo, dice il Direttore. Avrebbero potuto lamentarsi, invece non hanno mai detto niente.

Forse per questo si sono scannati a vicenda, dice l’Ispettore, poi si alza e passeggia sul posto. Kim Kardashian e un orso con la maschera di un regista morto? Ma davvero c’è gente disposta a guardarlo?

Se c’è gente disposta a scriverlo, dice il Direttore, troveremo gente pronta a guardarlo.

Buon dio, dice l’Ispettore, scuotendo la testa. E non le pare che questo sia il segnale che stiate andando troppo in là?

Affatto, dice il Direttore, anzi. Si alza e si affianca all’Ispettore, gli parla piano nell’orecchio come a confidargli un segreto.

Una volta finite le indagini, chiede il Direttore, pensa che potremmo mandarlo in onda questo video?

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Quando la cornice vale quanto il dipinto: Tenebre di Elia Gonella

Chi segue la pagina Facebook di Tremila Battute avrà magari notato che fra le mie letture sono presenti parecchie raccolte di racconti. Questa scelta anacronistica (si sa che i racconti non vendono, e si sa da tanto di quel tempo che forse una scelta anacronistica non è: hanno mai venduto? È una tendenza che si autoalimenta? La gente vuole Forum o si abitua a quella merda?) deriva dal fatto che a) mi piace la forma breve b) scrivo racconti, e sapere come lo fanno gli altri è continua fonte d’ispirazione (o vergogna se lo fanno clamorosamente meglio di me) c) sono un bastian contrario culturale per natura e quindi, se una cosa non vende (per diceria o realtà dei fatti, come si è detto poco sopra), io cazzo mi ci affeziono ancora di più. Siamo su un blog dedicato principalmente alla musica che vive fuori dai principali media, no?

L’escamotage più facile, quando una cosa non vende, è quello di camuffarla per renderla più digeribile: coi racconti questo si traduce nel classico “tema portante della raccolta”, che se proprio non te la trasforma in un romanzo (cosa che, e non penso di scoperchiare un uovo di colombo, NNE ha fatto sia con A misura d’uomo di Roberto Camurri che con La parola magica di Anna Siccardi, libri che a parer mio sarebbero stati in piedi da soli anche senza forzare le connessioni fra i singoli racconti/capitoli) almeno ti dà l’idea che affronterai una lettura il più omogenea possibile. Da grande amante di David Foster Wallace (e chi frequenta questo blog da un po’ di tempo lo avrà di sicuro notato) e della sua raccolta La ragazza dai capelli strani mi chiedo sempre perché questo debba essere un valore aggiunto, visto che la varietà è proprio ciò che la rende grande; o anche perché si debba forzare sotto un cappello unico racconti che poi vanno dove pare e piace a chi li ha scritti, rischiando di ridurre (solo all’apparenza) la portata tematica ad esempio di un libro come Lingua nera di Rita Bullwinkel.

Se una regola assoluta non dovrebbe esistere per l’omologazione, allo stesso tempo non si deve richiedere varietà eccessiva a chi ha uno stile riconoscibile e sa già su quale tema e/o ambientazione vuole andare a incentrare le sue storie. Io non so se l’immagine delle sette torri destinate alla demolizione del quartiere Futura, simboli opprimenti del cielo cittadino, fosse già nella mente di Elia Gonella quando ha iniziato a scrivere i racconti che compongono Tenebre, edito nel 2018 da Las Vegas Edizioni, casa editrice che ha pubblicato anche i suoi romanzi (sotto lo psudonimo di Hector Luis Belial) Saxophone Street Blues, Making movies e Alla corte del Re Cremisi: di certo posso dire che la loro presenza, trait d’union fra le dieci storie che compongono la raccolta assieme all’ambientazione notturna, aiuta a rendere anche la città un personaggio, a calarci in un mondo nascosto dove ciò che accade sembra terribile e al tempo stesso ineluttabile.

Cercai qualcosa di cui parlare, ma cosa si può dire a uno sconosciuto? Cosa si può dire a qualcuno che ti conosce? La nostra stretta di mano si sciolse, e io seppi per certo che sarebbe stata l’ultima.

Lo scambio

La scrittura di Gonella è in completa simbiosi con l’ambientazione, una città da noir che potrebbe essere una novella Sin City se l’autore non la lasciasse sullo sfondo, concentrandosi prevalentemente su ciò che accade dentro ai suoi personaggi tormentati, esplorando gli angoli bui del loro animo e di ciò che di irrisolto si portano dentro. Passano fra le pagine una donna decisa a mettere ordine fra le cose del padre morto, un reduce di guerra a cui un’innovativa protesi permette di recuperare parzialmente la vista, un ragazzino cresciuto nel mito di un campione di boxe e altri personaggi costretti a confrontarsi con il loro passato, a farci i conti rendendosi conto che spesso quel conto è in perdita.

Sono misteri che non vogliono essere risolti queste dieci storie, pieni di enigmi di fronte ai quali i personaggi spesso si arrendono. Chi è Lara Segre, la donna che si esibisce dietro saracinesche chiuse in luoghi sempre diversi, autrice della misteriosa performance definita dai giornali “teatro dell’oscurità”? Chi spinge il protagonista di Come tutti gli altri a cancellare ogni traccia del suo passato, per l’ennesima volta, e perché? Anche il lettore viene avviluppato in questa coltre claustrofobica di oscurità e informazioni mancanti, vagando fra appartamenti fatiscenti in “un quartiere brutale che ospitava terroristi e pittori folli”, usando le parole dell’autore, angoli su cui si allunga sempre l’ombra di quelle sette torri di cemento, monoliti capaci di permeare l’atmosfera tanto da provocare un senso di vertigine anche quando, come succede in Fortunato al gioco, vengono tolte di mezzo da cariche di tritolo solo per ritornare di nuovo nel racconto successivo, facendo smarrire anche il legame con la temporalità degli eventi.

Pietro non avanzò di un altro passo, ma si piantò sulle gambe. Gli incontri di pugilato che aveva combattuto da giovane gli avevano insegnato almeno due cose. La prima: come incassare un colpo. Alla sua età non era rapido, ma aveva tempra; sul lungo termine avrebbe avuto ragione su qualunque ragazzo. C’erano però avversari – questa era la seconda lezione – contro cui combattere era impossibile, perché appartenevano ad altre categorie. Non c’è modo di abbattere un fantasma.

Gelo

La scrittura di Gonella riesce a creare mondi attraverso pochi dettagli, è essenziale nel definire gli spazi entro cui agiscono i suoi personaggi per poi concentrarsi sugli eventi e le angosce che vengono alla luce. Per le vie della città (e anche per le case in cui si svolgono gli unici due racconti “esterni”, Gelo e il conclusivo Dono di Natale) aleggia un velo soprannaturale, capace di legare due sconosciuti che si sentono solamente per scambi di vestiti usati (Lo scambio) o ammantare le opere di un pittore (L’ospite), un ulteriore tocco caratteristico che rende i racconti contenuti in Tenebre un’esperienza capace di risucchiare completamente il lettore. Andrés Neuman, in uno dei suoi dodecaloghi di uno scrittore di racconti, afferma che “l’estrema libertà di un libro di racconti risiede nella possibilità di ricominciare da zero ogni volta. Pretenderne l’unità, sarebbe come chiudere con un lucchetto il laboratorio”: concordo in pieno con lui ma è altrettanto bello vedere come, quando quell’unità è un tratto autoriale, la varietà ne esce rafforzata anziché limitata.

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