
Ciò che succede al nostro corpo, e il modo in cui questo ci limita o ci apre nuovi orizzonti, è un motore narrativo potente. Pensate al Gregor Samsa protagonista de La metamorfosi di Kafka, che si ritrova la vita sconvolta nel ritrovarsi dalla sera alla mattina trasformato in un enorme insetto, o alla fortunata fase body horror di un regista come David Cronenberg, che ci ha regalato perle come Videodrome e La mosca. Ci sarebbero esempi anche meno inquietanti da fare, ma questi mi sembravano azzeccati per introdurre due raccolte di racconti che, seppur in maniera diversa, fanno dei corpi dei propri personaggi i veicoli per parlarci di altro, sì, ma anche per inquietarci un po’. I due libri in questione sono Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa di Francesca Mattei, appena uscito per la casa editrice napoletana Pidgin, e Lingua nera di Rita Bullwinkel, edito nel 2019 dalla casa editrice fiorentina Black Coffee.
Ferite, ossessioni e autodistruzione

La raccolta di racconti di Francesca Mattei rappresenta il suo esordio letterario e, allo stesso tempo, il primo libro italiano ad uscire per Pidgin (realtà molto interessante di cui avevamo parlato a proposito della raccolta Viscere di Amelia Gray). Caratterizzato da vicende a tratti morbose e da una scrittura asciutta e senza fronzoli, i diciassette racconti de Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa non potevano trovare approdo migliore, visto l’occhio attento dell’editore Stefano Pirone per narrazioni al di fuori del consueto.
Come ha detto la stessa autrice in una presentazione (purtroppo online, sa signora coi tempi che corrono…) i protagonisti abitano corpi votati all’autodistruzione, feriti dall’esterno o automutilati, portati al picco della fatica o allo stremo delle forze. Già il racconto iniziale, Muta, lascia presto i confini dello sballo privato di due amiche in un parco per mostrarci una metamorfosi, reale o allucinatoria non ci è dato saperlo, che sembra rappresentare un’ansia di fuga dalla propria condizione.
Ma lei insisteva, voleva mettere in evidenza quanto fossi fortunata ad avere tutte quelle energie, come le chiama lei. Avrei potuto spiegarle che le mie energie derivano dall’insonnia, dall’adrenalina e dall’ansia che mi crea la sensazione di non aver fatto abbastanza. Per chi, non si sa. Invece le ho sorriso, le ho servito le patate al forno e ho bevuto con moderazione, fintanto che ho avuto ospiti in casa. Ho capito subito cosa stava cercando di fare: stava cercando di competere su chi avesse meno vantaggi e più problemi. Non ho accettato la sfida, però. Mi sta bene sembrare qualsiasi cosa, pur di non sembrare me stessa.
My only sunshine
Le protagoniste (e più raramente i protagonisti) dei racconti sfogano le proprie frustrazioni su sé stesse, ingurgitando croste (Croste) o lasciandosi dimagrire fino a rischiare la morte (Smalto), ossessionate dal proprio cranio (Struttura ossea) o dalle voci che vi abitano dentro (Ma tu non la senti), e quando non sono loro a farsi del male c’è qualcun altro che ci pensa (come il padre del racconto Nata per questo, uno dei migliori del lotto nel suo delineare una storia irreale eppure tremendamente verosimile).
I personaggi di Francesca cercano di sfuggire a una realtà senza prospettive, un mondo di provincia dove l’alternativa a un’esistenza vuota è data dalle dipendenze, siano esse alcool, droga o sesso. La volontà di andarsene e fuggire, magari anche solo di compiere un atto catartico di rivalsa (come quello che compie la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta), è ostacolata dalla paura di non essere all’altezza delle aspettative, di non riuscire a trovare altrove niente di più di quel poco che hanno.
Al bancone ci sono Muffa, Dado e la Maga, tuffati nei rispettivi bicchieri di birra. E poi Zorro, Tonto, Spalla, la Gemma e non ce n’è uno che abbia un nome vero qui, sono tutti personaggi o elementi o sagome o tipi, sono tutti qualcosa di breve e finto e anche io, che gioco con la cerniera, che mi annoio come sempre, a vederli tutti così, morti dentro e fuori e magari pieni di brillantina in faccia, ma non cambia nulla; anche io ho un nome che non è il mio nome, ho un nome che è quello che mi hanno dato queste persone qui, che mi incontrano in un bar e poi in un altro, mentre pizzico la zip e poi la barba, mentre bevo birre birre e birre e ascolto le storie di gente che beve birre birre e birre e racconto le mie storie di birre e birre perché non si può fare nient’altro qua, forse al massimo ogni tanto pippare o fumare qualcosa. O forse tormentarsi la cerniera.
Salvo
Guardando i loro errori e i loro tentativi di riscatto, che raramente hanno un lieto fine, viene spesso voglia di abbracciarli, anche se sono gli stessi che per strada eviteremmo o con cui non vorremmo avere niente a che fare nella vita reale. La magia della penna di Mattei è anche questa, farci vedere dall’interno la vita degli sconfitti, dei balordi, farci capire che dietro quei corpi martoriati ci sono delle persone che soffrono e che è così triste non riuscire a colmare il divario che ci divide, anche nei rari casi in cui dovremmo avere tutto per essere felici.
Corpi come oggetti, oggetti come corpi

Anche quello di Rita Bullwinkel è un esordio, pescato nel calderone infinito della narrativa nordamericana dall’occhio sempre attento della casa editrice Black Coffee (dal cui catalogo vi consiglio di recuperare anche Happy hour di Mary Miller, ne abbiamo parlato qui). Lingua nera parla di corpi già nel titolo, ma rispetto alle realtà allucinata dei racconti di Mattei qui il velo del reale viene spesso divelto del tutto, mostrandoci squarci di mondi perturbanti ma sottilmente simili al nostro.
«Che problema c’è?» domandò Frank. «Cos’hai di tanto grave?»
«Una cosa dentro» risposi.
«Sei giovanissima».
«Esiste forse un’età precisa in cui il corpo è autorizzato a iniziare a odiarti?»
«Ti sembra che il mio corpo non mi odi?»
«No, però guardati». Ero furibonda. «Il mio corpo non ne ha alcun diritto».
Pesce in bocca
Nei diciassette racconti della raccolta Bullwinkel sfora a volte apertamente nel fantastico, illustrandoci una Florida abitata da soli morti e in cui la nascita di un bambino vivo è un evento innaturale (I veri zombi di Dio), la vita quotidiana di un uomo che allontana i fantasmi dei mariti morti dalle vedove (Bruciato) o quella di un serpente che crede di essere una pera (Umani preoccupati). Uno dei principali fili conduttori fra i racconti è il legame fra corpi e oggetti, labile confine che i personaggi superano, affascinati dalle arpe tanto da volersi circondare dei loro suoni per sempre (Arpa), costretti dalla crisi a diventare reggiseni umani (Ingobbirsi), pronti a confondersi con i mobili del negozio di lusso in cui lavorano (Arredamento). Con una fantasia che a volte ricorda i futuri inquietanti dipinti con sarcasmo da George Saunders l’autrice ci racconta storie in cui gli esseri umani sono sostituibili, come pezzi di ricambio, e non ci trovano niente di strano.
Per quanto il mondo sia un posto di cui non comprendono più le dinamiche, i personaggi di Bullwinkel non sono persi dentro di esso. Non gli interessa l’opinione altrui, sanno cosa vogliono (come le ragazzine protagoniste di Le braccia sopra la testa, che si identificano con delle rose e discorrono amabilmente sul mangiare ed essere mangiate) e non hanno paura di andare incontro alle conseguenze delle loro scelte. Ne è un esempio perfetto la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, pronta a leccare un filo elettrico solo per sperimentare l’effetto che fa, sperando forse di uscirne in grado di ripartire da zero.
Mio fratello non ha mai sopportato la vista del sangue. Quando la moglie ha dato alla luce la loro bambina, è svenuto non appena l’ha visto sgorgare fuori. Con gli uomini è così, dicono, non è insolito che anche qualcosa di meno sanguinoso del parto gli dia fastidio. Sarà perché le donne sono talmente abituate a sanguinare che reagiscono meglio, sono più brave a intuire di cosa si tratta di fronte a una fuoriuscita di fluidi corporei. Non credo sia questo il punto per mio fratello. Credo solo che non pensi mai a tutto quello che potrebbe andare storto. Ci sono persone che per esempio si immaginano in continuazione come sarebbe essere decapitati, e altre no. Mio fratello fa parte di queste ultime. È molto soddisfatto delle proprie vene e del compito che svolgono per mantenere il sangue al loro interno. Non pensa mai a cosa succederebbe se un giorno esplodessero e la situazione precipitasse.
Lingua nera
Preparati al crollo di ogni certezza, capaci di reinventarsi di fronte alle tragedie (come fa la protagonista di Che cosa sarei se non fossi ciò che sono alla morte del marito), l’unica cosa che sfugge ai personaggi dei racconti di Bullwinkel è la sensazione di far parte di qualcosa. L’identificazione con gli oggetti forse riguarda proprio quello, l’entrare a far parte di una realtà fissa e immutabile, un’esperienza che a volte fa paura (in Navata un bambino teme di essere ingoiato dalla chiesa che ha amorevolmente nutrito) ma che può rappresentare anche la fine di un percorso.
La prosa dell’autrice è varia, si adegua alla storia e non teme di sperimentare soluzioni diverse. Afferma Andrés Neuman, in uno dei suoi dodecaloghi di uno scrittore di racconti, che “l’estrema libertà di un libro di racconti risiede nella possibilità di cominciare da zero ogni volta. Pretenderne l’unità, sarebbe come chiudere con un lucchetto il laboratorio”: Rita Bullwinkel ha fatto sua questa massima, consapevolmente o meno, e ogni storia della sua raccolta è una scoperta.
Uniti da un tema comune (e dallo stesso numero di racconti), ma caratterizzati da una sensibilità diversa nell’affrontarlo, Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa e Lingua nera sono due ottime raccolte che ogni amante della forma breve dovrebbe avere nella propria libreria. Se questo consiglio spassionato dovesse convincervi ad aprire il portafoglio (non sono pagato per parlarne, sappiatelo) ricordatevi di comprarli nella vostra libreria di quartiere, o alla peggio da Bookdealer: sosteniamo le piccole realtà!
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3 pensieri riguardo “Narrazione attraverso i corpi: le raccolte di racconti di Francesca Mattei e Rita Bullwinkel”