Racconto in musica 21: Le parole giuste (Pollio – Il figlio malpensante)

Ci sono due modi principalmente in cui sono venuto a conoscenza delle band e degli artisti che occupano queste pagine, recensendo loro dischi o vedendoli dal vivo. Nel caso di Pollio l’incontro è avvenuto tramite il file che conteneva i brani del secondo album degli Io? Drama, Da consumarsi entro la fine, di cui quest’anno si festeggia il decennale. Mi innamorai di quell’album, a cui diedi il massimo dei voti in una recensione ormai persa nel grande vortice dove finiscono i contenuti dei siti di cui non è stato rinnovato il dominio, ma ci misi molto tempo prima di riuscire a vedere dal vivo la band e a fare mia una copia fisica del disco (se potete comprare dischi dal banchetto del gruppo, perché farlo su Amazon?). Qualche tempo dopo con l’associazione novarese Asap riuscimmo a organizzare un suo concerto solista, nel periodo di mezzo in cui gli Io? Drama non erano ancora in pausa e doveva ancora arrivare il primo album solista di Fabrizio, Humus: gli feci una bellissima intervista quella sera, ovviamente grazie alle sue risposte che mi misero di fronte a un artista che crede nel suo lavoro e in ciò che scrive, e vi invito a leggervela tutta a questo link.

Humus si diceva, un album arrivato alla fine del 2016 dopo tre dischi (Nient’altro che madrigali nel 2007, Da consumarsi entro la fine nel 2010 e Non resta che perdersi nel 2014) e due Ep (Viscerale nel 2005 e Mortepolitana nel 2012) come voce degli Io? Drama, svariati tributi a artisti come De Andrè, Battiato, Battisti e Radiohead e la collaborazione coi Rezophonic. Ad accompagnarlo nel progetto, così come dal vivo, c’è il chitarrista Giuseppe Magnelli, entrato nella formazione degli Io? Drama con l’ultimo disco e da allora suo fido sodale alla chitarra elettrica. Humus, uscito per Maciste Dischi, è un disco musicalmente vario, capace di avvolgere con atmosfere intime e di graffiare, di unire pop e rock creando qualcosa di personale e non banale o annacquato, condito inoltre da testi degni del miglior cantautorato: non a caso si è accorta del suo talento anche la giuria del concorso Musicultura, vinto nel 2018.

Il figlio malpensante è la sesta traccia dell’album, una canzone che ha subito calamitato la mia attenzione quando ho pensato di creare un racconto partendo da un testo di Fabrizio. L’immagine che mi si è stampata in testa è stata quella di un funerale, non perché la canzone sia triste ma perché parla in maniera originale di rapporti famigliari, e non c’è nulla come il momento dell’estremo addio a un parente per innescare riflessioni, confronti e prese di coscienza. Contando che la musica dal vivo è ricominciata vale la pena che facciate un salto qui per godervi un suo concerto, come ho fatto io in settimana nella splendida cornice di Villa Tittoni a Desio: nel frattempo qui sotto trovate il link al brano e più in basso il mio tentativo di rendergli giustizia con le parole. Buon ascolto, e buona lettura.

Novità! Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Le giuste parole

Papà è morto e io non sento niente.

Sono seduto fra mamma e una zia lontana che avrò visto due volte in vita mia, cerco di concentrarmi su una delle svariate lettere scritte da San Paolo ai romani ma il pianto della fidanzata di mio fratello continua a distrarmi. Mi fa sentire in colpa, dovrei essere io quello che soffre, avere perlomeno lo sguardo trasfigurato come quello di mamma, che ormai le lacrime le ha esaurite da un pezzo.

La fidanzata di mio fratello emette un gemito. Aveva già gli occhi annacquati ancora prima che iniziasse la cerimonia, quando stava al suo fianco mentre lui con posa impeccabile ringraziava per le condoglianze, abbracciava i convenuti, mostrava afflizione mista a decoro.

Passavano prima da lui, parenti e amici. Io ero la seconda scelta, obbligata, se non altro per questioni di etichetta. Sapevano tutti che io e papà non andavamo d’accordo.

Quando il prete si avvicina con l’incensiere alla bara ci alziamo in piedi, con mamma che si appoggia stancamente al mio braccio. Sono sicuro che devo a lei se sono stato incluso nel testamento, ma se non si affida alla fidanzata di mio fratello è solo perché teme che scomparirà in fretta come le altre.

L’unica cosa che può rimproverare al suo secondo figlio, quello che la rende davvero orgogliosa, è di non averle ancora dato un nipotino.

I portantini arrivano a prendere la bara. Avevo proposto di farlo fare a qualche amico di papà, ma mio fratello ha detto che era uno sforzo troppo grande per degli anziani. È stato il mio unico contributo all’organizzazione, e non è servito a niente. Si è occupato di tutto lui, dalle questioni burocratiche al contattare i parenti, e lo ha fatto sicuramente meglio di come lo avrei fatto io.

Non posso dire che lo odio, ma di sicuro non lo amo. È più giovane di me di due anni, ma sembra aver capito della vita qualcosa che io ancora oggi ignoro. Emana sicurezza, calamita con naturalezza il corpo di mamma dal mio braccio al suo mentre seguiamo la bara lungo la navata e io, ancora con gli occhi asciutti, per non sentirmi meschino nel recriminare questo gesto penso ancora una volta a quanto sono false la sua posa, i suoi traguardi esposti come trofei, i suoi sorrisi perfetti. Ho basato la mia vita su un solo punto cardine: non essere mai come lui.

Potrei aver sbagliato tutto. Me ne accorgo all’improvviso sul sagrato della chiesa, mentre caricano il corpo di papà sul carro funebre, e mi ritrovo impreparato con le sue braccia strette attorno, le sue lacrime sul collo. Con voce rotta dall’emozione mi dice Oh Dio, è così dura, io non so cosa fare.

Forse ora uscirà qualche lacrima anche a me. Ora che so che anche mio fratello ha dei sentimenti reali posso lasciarmi andare, provare qualcosa. Invece continuo a pensare che se lui non è la persona orribile che ho dipinto nella mia testa, io che cosa ho fatto della mia vita? Rimango muto, col carro funebre che si avvia, a cercare parole per me, per lui, ma quelle continuano a non arrivare.

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Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, o la lezione sul postmoderno di David Foster Wallace

Ci sono autori capaci di dividere completamente il pubblico, e penso che il compianto David Foster Wallace faccia parte della categoria. Il monumentale Infinite Jest, con le sue centinaia di pagine di note e la struttura schizofrenica, può rappresentare uno scoglio insormontabile o una specie di Nirvana letterario: io faccio parte della schiera di quelli per cui il suo romanzo più famoso è stato un’esperienza illuminante, e da allora pian piano, centellinandolo come un buon vino (va da sé che libri non ne scriverà più), recupero i suoi scritti in rigoroso ordine casuale.

Và, e continua a insegnare agli angeli come torcersi il cervello

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso fa parte di quel periodo in cui Foster Wallace era ancora un promettente scrittore e non il guru che sarebbe diventato di lì a qualche anno. Reduce dal successo del romanzo d’esordio del 1987 La scopa del sistema, ispirato dalla sua seconda tesi di laurea sulle teorie logico-linguistiche di Ludwig Wittgenstein, a due anni di distanza lo scrittore dell’Ohio uscì con una accolta di racconti che mostrava in maniera splendente la sua versatilità, La ragazza dai capelli strani. Il racconto che dava il titolo al libro era una sorta di presa in giro di un altro scrittore fuori dalle regole che in quel periodo andava per la maggiore, quel Bret Easton Ellis che di lì a poco avrebbe pubblicato American Psycho, episodio che gettò ulteriore benzina sul fuoco di una rivalità che non si è placata nemmeno alla morte di DFW (è storia nota la serie di tweet che Ellis gli ha scagliato contro nel 2012): non pago di questo all’interno della raccolta era presente anche una stoccata ad uno dei suoi mentori ai tempi dell’università, lo scrittore e insegnante di scrittura creativa John Barth, attraverso il racconto lungo che Minimum Fax ha estrapolato dalla raccolta e reso un romanzo a sé, cioè il Verso Occidente di qui sopra.

La storia segue due studenti universitari, un aspirante attore, un pubblicitario, il di lui figlio e una hostess nel loro percorso per giungere (forse) alla riunione di tutti coloro che sono apparsi all’interno di uno spot Mc Donald, dove si dovranno svolgere le riprese dello spot definitivo della catena e l’inaugurazione della prima discoteca di un futuro business a tema casa stregata. Questo ultimo particolare, che può apparire secondario, è in realtà centrale all’interno del libro: la casa stregata da cui le discoteche prendono ispirazione arriva dritta dritta dal racconto Perso nella casa stregata di Barth, uno dei più influenti racconti del postmoderno e in particolare della cosiddetta metafiction, in cui il narratore fa continue incursioni per smascherare l’artificio dietro alla creazione letteraria. Come spiega Martina Testa nella fantastica introduzione al libro, Foster Wallace prende i personaggi, gli eventi, persino dettagli minuscoli dal racconto di Barth per costruirci sopra un racconto che è metafiction al quadrato se non al cubo, tanto che Barth stesso è un personaggio, celato dietro al nome del personaggio principale di Perso nella casa stregata Ambrose, e che due dei protagonisti sono studenti del suo corso di scrittura creativa: Mark Nechtr, che scrive pochissimo, e la sua neomoglie Drew-Lynn Eberhardt, ultraprolifica ma affetta da ciò che Foster Wallace battezza, con evidente ironia, come sindrome del “guarda, mamma, senza mani”, cioè la tendenza a voler essere originali a tutti i costi rendendosi invece ridicoli e autoreferenziali.

“…il suo non-razzismo deriva, come lui stesso ammetterebbe, da ragioni totalmente egoistiche. Se tutti i neri sono grandi atleti e ballerini provetti, e tutti gli orientali sono intelligenti e identici e laboriosi, e tutti gli ebrei sono bravi a fare soldi e scrivere libri, e a maneggiare un potere nato dalla coesione, e tutti i latini sono bravi a letto, e a maneggiare coltelli e a passare clandestinamente i confini, be’, allora cavolo, tutti i semplici WASP americani che cosa sono? Quale grande singola caratteristica, agli occhi dei razzisti, riunisce tutti noi borghesi bianchi sotto il solido tetto dello stereotipo? Nessuna. Un Grande Maschio Bianco senza nome e senza volto.”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso

Nella già citata prefazione Martina Testa illustra quanto sia interessante questa analisi filologica, ma se tutto il libro si limitasse a essere un gioco di specchi autoreferenziale Foster Wallace non farebbe altro che replicare una formula già utilizzata. Invece, sebbene in alcuni passaggi utilizzi la metafiction in maniera frustrante e con quella sindrome da “guarda, mamma, senza mani” che condanna, il fine ultimo dell’autore è di raccontare qualcosa che vi dia una fitta al petto, un desiderio condiviso col personaggio di Mark, i cui pensieri sulla metafiction sono essenzialmente

“…la metafiction non è una vera amante. Non può tradire. Può solo rivelare. Ha come unico oggetto se stessa. È l’atto d’amore per se stesso di un solipsista solitario, la luce di un abat-jour proiettata su quella quinta parete nera che è l’essere un soggetto, un volto nella folla. La metafiction è come una coppia di innamorati che non fanno l’amore. Che baciano ciascuno la propria spina dorsale. Che si scopano da soli.”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso

In un interessante articolo su William T. Wollmann, altro autore eclettico e pubblicato da Minimum Fax, si fa notare come Foster Wallace volesse fare della propria scrittura un antidoto contro la solitudine, titolo con cui è uscita non per niente una raccolta di interviste e conversazioni con l’autore. E la sua grande abilità in questo e negli altri suoi libri, in mezzo a tantissima tecnica narrativa e contorcimenti psicologici vari, è proprio quello di far emergere la natura umana di ogni personaggio, anche di quelli che sembrano apparentemente odiosi, e di farlo senza tristezza ma anzi condendo il libro con abbondanti dosi di ironia. Di parlare di solitudine, dipendenza, ansia, di mostrare persino i pregi sotto punti di vista che li fanno apparire difetti ma senza perdere il sorriso e la speranza che un giorno impareremo ad andare oltre queste nostre lacune, e potremo farlo insieme. Non è un caso che, per tornare alla diatriba Ellis-Wallace, quest’ultimo abbia dichiarato in un’intervista del 1993:

“Se i lettori credono semplicemente che il mondo sia stupido, superficiale e cattivo, allora uno come Brett Easton Ellis può scrivere un romanzo cattivo, stupido e superficiale che diventa un ironico e tagliente ritratto della bruttura del mondo che ci circonda. Siamo d’accordo un po’ tutti che questi sono tempi bui, e stupidi, ma abbiamo davvero bisogno di opere letterarie che non facciano altro che mettere in scena il fatto che sia tutto buio e stupido? Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi.”

David Foster Wallace

“Il silenzio per cui la gente gli vuole così bene deriva come un pianto dalla sua principale convinzione errata, da un suo difetto che è tipico dell’epoca contemporanea. Se i suoi giovani compagni hanno ciascuno le proprie false convinzioni – D.L. che il cinismo e l’ingenuità si escludano a vicenda, Sternberg che il corpo sia una prigione e non un rifugio – quella di Mark è di essere la sola persona al mondo che si sente la sola persona al mondo. È un’illusione solipsistica.”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso

Al di là dei riferimenti, della trama, dei concetti, è proprio il modo unico che ha Foster Wallace di empatizzare coi propri personaggi a rendere questo Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso una lettura consigliatissima, soprattutto a chi vorrebbe approcciarsi alla sua opera più famosa e voluminosa e non ne ha mai trovato il coraggio. È interessante notare anche come il personaggio di Mark sia in qualche maniera una versione alpha dell’Hal Incandenza presente proprio in Infinite Jest, con il quale condivide parecchi disturbi emotivi, tanto che una frase che li riguarda viene trascritta quasi letteralmente da un libro all’altro.

“È convinto che ci sia in lui un certo elemento di differenza, semplice e radicale; spera che sia genialità, teme che sia follia.”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso

“C’era in lui un certo elemento di differenza, semplice e radicale; sperava che fosse genialità, temeva che fosse follia, si dedicava all’affabilità e cercava di passare inosservato.”

Infinite Jest

Particolare curioso che interessa solo me: il personaggio di De Haven Steelritter, figlio del pubblicitario J.D. Steelritter e da lui costretto, in quanto sotto contratto come Ronald McDonald ufficiale dell’azienda, a rimanere continuamente vestito con la sua assurda divisa, rappresenta con la sua passione per la marijuana e per le auto costruite artigianalmente una visione distorta del clown simbolo del fast food seconda solo a quella, violentata da un gruppo di madri durante una festa in maschera, che Douglas Coupland fa ideare ai personaggi del suo Jpod come easter egg in un videogioco.

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Racconto in musica 20: Ingranaggi (dTHEd – ªcçr_mщ)

C’è un aneddoto lunghissimo e magari non così divertente che mi piace raccontare. Anni fa con la mia band Duranoia scrivemmo una canzone strumentale, soprannominata F.P.I. (Fanoste Private Investigation), che eseguimmo solo una volta dal vivo senza mai registrarla: l’idea di partenza, mia (non capita così spesso), era di far seguire alla musica l’andamento di una storia noir stereotipata, del tipo ingaggio dell’investigatore-dramma che coglie la sua vecchia fiamma-indagine-la donna si rivela una doppiogiochista-risoluzione finale (la uccide?). Da quello scheletro di idea anni dopo mi ritrovai a ricavare una recensione piuttosto folle, ovvero quella dell’album Il de’ blues dei Vonneumann, la quale a sua volta mi ispirò un racconto lungo (romanzo breve?) con quegli stessi elementi e l’aggiunta di un protagonista che man mano che la storia avanza diventa sempre più consapevole di essere il protagonista di una storia di finzione. Lo girai alla band, trovando nell’allora bassista e oggi batterista e manipolatore di suoni tout court Fabio Ricci un attento lettore, e da lì partì il mio contributo al loro progetto collaborativo sull’album tl;dl: un racconto a quattro mani scritto da me e lui, allegato al disco, e un piccolo contributo sonoro sull’ultimo brano dell’album, che come ogni miglior cerchio che si chiude veniva direttamente da quella F.P.I. di cui ho parlato a inizio articolo.

Perché raccontare tutta questa storia, che magari vi ha anche annoiato? Perché Fabio, assieme a Isobel Blank e Simone Lanari degli Ask the white, ha realizzato un nuovo progetto chiamato dTHEd, e il racconto di questa settimana è ispirato proprio ad un loro brano.

Descrivere la musica di dTHEd è davvero complicato. La base di partenza viene da un libro, Iperoggetti di Timothy Morton, in cui si teorizza fra speculazione filosofica e riflessione ecologista la presenza di entità di una tale dimensione spaziale e temporale da incrinare la nostra stessa idea di cosa un oggetto sia, ad esempio il riscaldamento globale: i dTHEd hanno fatto tesoro di queste nozioni, particolarmente del capitolo riguardante le musiche che a parere dell’autore possono essere considerate iperoggetti, e ragionando su questi concetti e su quello di neurodiversità hanno cercato di creare una musica diversa, una hyper music che andasse in qualche maniera al di là dell’umano, o almeno è l’impressione che ha fatto a me quando ci sono entrato in contatto. Nel 2019 è uscito il loro primo disco per Boring Machines, hyperbeatz vol.1, e il mio consiglio è di ascoltare con la mente il più aperta possibile l’incastro di suoni elettronici che formano i brani, per lasciarvi trasportare in un mondo altro che potrebbe essere il nostro visto con occhi diversi.

Il mio racconto è molto meno sperimentale, ma ragionando sulla percezione diversa delle cose, sui collegamenti fra esse e lasciandomi cullare da certe suggestioni sonore da parco giochi che ho trovato nel loro brano ªcçr_mщ ho partorito la storia che trovate più in basso, subito dopo il link al brano. Vi auguro come al solito buon ascolto, e buona lettura.



Ingranaggi

La giostra girava, i bambini urlavano, i genitori ridevano, la musica si ripeteva come un mantra e solo lui restava fermo in quel quadro idilliaco. Nemmeno la madre, intenta a fissarlo, riusciva a votarsi all’immobilità: la tradivano un lieve tremolio del labbro, il torcersi delle mani, segnali malcelati di una preoccupazione che era diventata sua compagna perenne.

Da principio le era parso un dono quel bambino così silenzioso, perché non la svegliava mai di notte ed era incapace di qualsiasi lamento. La invidiavano tutte le altre mamme, con le borse sotto gli occhi e piene di lamentele per i mariti assenti: lei poteva ostentare indifferenza verso quel distacco tipicamente maschile, era quasi come se loro figlio sapesse gestirsi da sé.

Cominciò a preoccuparsi quando, con la crescita, rimase fisso nel suo mutismo assorto. Le avevano detto già alla nascita che era speciale, ma a lei ora sembrava solo diverso. Il padre, peggio, lo considerava un ritardato. «Tanto valeva prenderci un gatto» disse una volta, guardandolo osservare il castagno di fronte alla finestra della cucina: lui non aveva tempo per capire.

Ma di fronte alla giostra, ai bambini felici, ai genitori che incoraggiavano i figli a prendere il codino, anche la madre veniva presa dallo sconforto. Vai a divertirti, gli aveva detto, sali sul cavallo bianco, ma lui non si era mosso di un passo. Restava fisso a guardare, chissà cosa, chissà perché, quando lei avrebbe voluto solo che fosse come tutti gli altri, che prendesse parte ai divertimenti di un giorno di festa.

La madre non poteva sapere che la giostra che girava era solo un ingranaggio, che i bambini e i genitori ne facevano parte, che loro stessi ne facevano parte. Assorto in contemplazione il figlio osservava i dettagli, cercava di capire gli incastri, metteva in relazione quel movimento circolare con quello della terra, degli astri, di tutte quelle cose che sentiva girare attorno a sé ma che ancora non capiva pienamente. Per questo non parlava, non voleva pronunciare una parola che non fosse esatta, che contenesse l’universo e non solo una parte di esso: percepiva il tutto, e non aveva fretta di metabolizzarlo.

Ignari delle loro intrinseche relazioni il padre lo ignorava, la madre si struggeva, la giostra girava e nel suo meccanismo il figlio cercava risposte più grandi di tutti loro. Un giorno le avrebbe trovate: chissà se per allora ci sarebbe stato qualcuno pronto ad ascoltarle.

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Apocalypse Lounge, come affrontare la fine con un sorriso amaro sulle labbra

Chissà come hanno reagito tutti i musicisti coinvolti nel progetto Apocalypse Lounge quando all’improvviso ci siamo ritrovati (e in parte ci troviamo ancora) in una situazione che ha fatto pensare a molti di essere di fronte alla fine del mondo. Certo quando Riccardo Orlandi, fondatore della Tannen Records e motore iniziale del progetto, ha deciso di campionare estratti di vecchie colonne sonore italiane degli anni 60 e 70 per ricavarne brani inediti non si poteva aspettare che la colonna sonora di un’ipotetica apocalisse potesse diventarlo di una vera, ma seguendo le note e le parole di queste undici tracce è facile capire che in fondo il covid-19 non ha fatto altro che esasperare problemi che già esistevano: se davvero è la fine del mondo, insomma, c’eravamo dentro da prima.

Anche tralasciando le riflessioni politiche è impossibile non trovare nel disco una critica verso i tempi moderni, soprattutto se a scrivere i testi è Giovanni Succi. Abilissimo a captare le contraddizioni dell’individuo moderno, Succi dà il meglio di sé quando sotto l’amabilissimo sottofondo musicale di Happy 1942 ci illustra quanto il fascismo sia stato un processo sottile e strisciante che è sempre pronto ad autoreplicarsi, sotto forma di occhi chiusi davanti ai soprusi che toccano agli altri e di slogan alla “Mussolini ha fatto anche cose buone”, a cui risponde con una frase che chiude ogni discorso: “Giusto qualche milioncino di italiani morti per un suo giochetto da fantocci/ e le paludi Pontine? Son costate un po’ care alla fine”.

Succi ci mette testi e voce, coadiuvato a quest’ultima da Francesca Amati dei Comaneci e, nell’ultimo brano I’m going under, dal duo hip hop di Minneapolis Kill The Vultures, la musica invece è frutto di un ensemble di collaboratori che fa impressione: il violino di Nicola Manzan (Bologna Violenta e Ronin fra le sue svariate avventure musicali, questi ultimi al fianco di quel Bruno Dorella con cui Succi da anni condivide il progetto Bachi da Pietra), il synth di Massimo Martellotta dei Calibro 35, il sax di Antonio Gallucci, la tromba di Giordano Sartoretti e gli scratch di Dj Argento. Il risultato finale di questo lavoro a molteplici mani è un disco che spazia fra i generi con libertà e vitalità, partendo dal funk per addentrarsi man mano in territori sempre più affini al trip-hop, come un percorso verso l’abisso che ti intrattiene in maniera sempre meno allegra man mano che capisci che non c’è un cazzo da ridere.

È tanto affascinante farsi cullare dai ritmi vagamente tribaleggianti della title track quanto dalle atmosfere scure e dilatate di Time out, godersi il viaggio quasi esclusivamente strumentale fra scratch e assoli di sax di Funky doom e farsi trasportare dalla voce di Succi nel mantra caffeinico di Moka please (a cui il violino di Manzan dona reminescenze degli Air, come anche nella splendida Mandinga). Le influenze si sposano alla perfezione, lo scivolamento verso atmosfere sempre più noir avviene in maniera naturale e trova degna conclusione nell’opprimente I’m going under, che libera tutta la carica hip-hop già latente nella strumentale Apocalypse beat ma lo fa memore della lezione sonora dei Massive Attack.

Oltre che un progetto musicale di tutto punto Apocalypse Lounge si fa notare anche dal lato visivo: dalle fotografie di Giulia Mazza (ne trovate una qui sopra e una in cima, scelta come copertina del disco) agli artwork dei singoli realizzati dall’artista portoghese Bràulio Amado, fino ai video d’animazione realizzati da Stefano Buro e di cui potete avere un assaggio qui sotto. Se proprio fine del mondo deve essere la Tannen Records ci ha fornito una splendida colonna sonora, ma non aspettate fuoco, fiamme o pandemie per ascoltarla: fatelo subito, domani potrebbe essere troppo tardi.

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Racconto in musica 19: Di labbra schiuse e destini in comune (Valentina Dorme – Waterloo)

Non so quante volte in questa rubrica ho parlato di gruppi che ho scoperto vedendoli suonare dal vivo. Nel caso dei Valentina Dorme non è andata esattamente così: erano un nome conosciuto, qualche suono sentito distrattamente, uno dei gruppi di cui avevo sempre sentito parlare e di cui per motivi imperscrutabili (o per semplice mancanza di stimoli) non avevo mai approfondito la conoscenza. Nemmeno la sera che li vidi effettivamente dal vivo ero lì per loro bensì per il gruppo che apriva la serata, i meritevolissimi Intercity di cui avevo da poco recensito l’album Amur (qui uno dei video estratti, per darvi un’idea), ma appena partì A colpi d’ascia capii che non avrei finito la serata senza portarmi a casa un disco anche dei Valentina Dorme.

Formatisi a Treviso nel 1992 i Valentina Dorme passano per la pubblicazione di alcuni album autoprodotti e l’apparizione di un paio di loro brani all’interno di una compilation promossa dallo storico settimanale Il mucchio selvaggio prima di far uscire il primo disco “ufficiale”, Capelli rame. A credere in loro è la Fosbury Records, etichetta con cui dal 2002 al 2009 pubblicano altri due album (Il coraggio dei piuma nel 2005 e La carne nel 2009) prima di rilasciare per Lavorarestanca il loro, al momento, ultimo disco, La estinzione naturale di tutte le cose del 2015. I Valentina Dorme riescono a essere allo stesso tempo poetici e sfacciati, sognanti e tenebrosi, merito dei testi intrisi di letteratura (ho letto Thomas Bernhard grazie a loro) di Mario Pigozzo Favero e di musiche che passano in poco tempo dalla calma apparente all’assalto distorto, mai con violenza ma sempre con la consapevolezza di chi sa che quella è la via giusta da percorrere per scuotere gli animi. La estinzione naturale di tutte le cose lo considero fra i migliori dischi italiani di sempre, conosco a memoria i suoi brani e quando sono partito con questo blog avevo fisso in mente che Waterloo, la penultima traccia, avrebbe dovuto avere un suo racconto dedicato: ci ho messo più di tre mesi, ma finalmente l’idea giusta è arrivata.

C’era solo l’imbarazzo della scelta in realtà fra i loro brani da cui trarre ispirazione per una storia, ma la difficoltà di creare racconti basati su canzoni è che spesso ti ritrovi ad avere a che fare con artisti che hanno già detto tutto quel che c’era da dire (difficoltà già riscontrata prima coi Massimo Volume e con Giovanni Succi). Waterloo mi ha lasciato abbastanza spazio per potermi infilare e immaginare una stanza d’albergo, una coppia persa nei suoi rituali erotici e le conseguenze impreviste delle loro evoluzioni, e spero davvero di avergli reso giustizia. Qui sotto trovate il brano, più in basso il racconto, tutto come al solito: a me non resta che augurarvi buon ascolto, e buona lettura.

Di labbra schiuse e destini in comune

Ti riconosco, nell’inquadratura, come nessun altro potrebbe fare. Percepisco il ritmo del tuo respiro, osservo la curva del tuo seno, sorrido di fronte all’ingenua oscenità con cui apri le cosce all’occhio della telecamera e a me, poco più in là, che già fremo.

Entro anche io nel quadro, trovandomi più vecchio e molle di quanto rammentassi: forse l’effetto di quella serata d’eccessi, portate esotiche, birra annacquata e luci rosse soffuse, forse solo il contrasto delle nostre età e delle nostre membra giunte. Mi vedo inginocchiarmi, come un devoto all’altare dei nostri venti anni di distanza, sfiorare col palmo il tuo neo sottopelle lungo la coscia, un marchio segreto che persino a occhi chiusi troverei ancora. Il tuo volto mi è escluso alla vista, altre le labbra che attendono la mia lingua.

Iniziai a scrivere, allora, parole irripetibili sulla figa aperta, i tuoi sospiri a far da eco ai miei peccati svelati senza vergogna. Oggi, sprofondato in poltrona, vedo solo una schiena pallida agitarsi e sento un suono, un ansimare frenetico, sempre più profondo. All’apice dell’estasi le tue gambe si stringono attorno alla testa che ti concede il piacere, la mia, che osservo distratto e non riconosco.

Sospendo la visione, deluso. Quei video maliziosi, riprese lascive in fine settimana erotici, eccitavano al pensiero più di quanto non facciano allo sguardo: immortalati in eterno siamo meno di quel che eravamo. Quella notte, prima del sonno, dicesti di amarmi, o forse lo sognai: ma da quel sogno non avrei voluto svegliarmi mai.

Lo feci, maldestramente, come ogni cosa da allora in poi. Accadde in un motel a est, l’ennesima fuga sensuale, durante la quale mi inginocchiai in una maniera molto più formale. Lì, sotto un quadro di Napoleone ritratto all’Isola d’Elba, ignaro come me delle sconfitte future, travisando ciò che avevamo ti paventai un futuro di vestiti bianchi e promesse durature.

Attesi, per quella che mi parve un’eternità, di fronte al tuo sguardo indecifrabile. Non mi servono immagini per ricordare i tuoi occhi, fissi nei miei tanto da spaventare, gelidi come quelli di chi è abituato a ponderare. Schiudesti con calma le labbra, bagnandole con la lingua, e senza che la risposta giusta ti potesse esser suggerita ti uscì di bocca la sillaba sbagliata: la nostra storia moriva, quasi prima d’esser nata.

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Viscere esposte e contorte: i racconti surreali di Amelia Gray

Il nome di Amelia Gray potrebbe non dire niente alla maggior parte delle persone, ma quasi sicuramente avrete sentito parlare delle serie televisive a cui ha lavorato: magari non Maniac, passata abbastanza sotto silenzio su Netflix nonostante Emma Stone e Jonah Hill nel cast, più probabilmente Mr. Robot, serie che ha lanciato Rami Malek e che si era creata un assiduo seguito. In realtà Gray ha una carriera come scrittrice abbastanza prolifica, con due romanzi e tre raccolte di racconti uscite dal 2009 a oggi, ma fino a qualche mese fa nessuno aveva pensato di portare le sue opere in Italia. Lo ha fatto la neonata casa editrice Pidgin, nel quadro di una linea editoriale che intende pubblicare libri “sopra le righe” (per farvi un’idea più chiara del concetto vi invito a visitare il loro sito, dove fra l’altro troverete anche le traduzioni di racconti di un paio di riviste estere e di una curata dalla stessa casa editrice, Split), e questo Viscere rientra pienamente nella categoria.

I racconti che compongono il libro fanno parte della cosiddetta flash fiction, storie brevi quando non brevissime (si va dalle quattordici pagine di Passaggio a occidente alle due di Quel che sentiva, Il cigno come metafora dell’amore, Un concorso e Viscere), e hanno tutte qualche elemento surreale e/o vagamente inquietante che le contraddistingue. Un piccolo elenco delle situazioni in cui vi troverete invischiati addentrandovi nelle trentasette storie partorite dalla mente di Gray comprendono: una donna costretta a vivere nei condotti di aerazione della casa di una coppia, una folla che distrugge il cimitero di cui si stava prendendo cura, una donna intrappolata in casa del vicino serial killer, un’evirazione durante l’atto sessuale, una coppia sconquassata che parla della gravidanza di lei mentre un Dunkin’ Donuts va a fuoco…e siamo solo a metà libro.

“Un tempo, la mia mente era infetta dalla strana e inebriante ambizione che avrei potuto in qualche modo migliorare il mondo vivendo in esso. La realtà del mondo rovinò questo ideale; o, piuttosto, la fantasia dell’ideale rovinò la sua realtà. Mi ci volle del tempo a riprendermi da questa verità. Alla fine scoprii che restare vicina a casa e seguire un programma di esercizio giornaliero era utile a ridurre lo stress. Fare i conti con la mia mancanza di reale utilità richiese una sorta di fisioterapia, come se stessi curando una caviglia slogata.”

Cuore della casa

In una interessante intervista apparsa su minima&moralia la narrativa di Amelia Gray viene paragonata fra gli altri a quella di Robert Coover, uno dei padri del postmoderno di cui avevo parlato in questo approfondimento sulla raccolta dei suoi racconti curata da NNE. Dei punti in comune sono ravvisabili, particolarmente nello stile vagamente fiabesco di racconti come La gente della baia, L’anno del serpente, Monumento e nell’ispirazione epica di Labirinto, ma penso che il paragone più spendibile riguardo alla prosa di Gray sia quello con Amy Hempel. Adorata da Chuck Palahniuk (che in effetti ha dei grossi debiti nei suoi confronti, stilistici più che strutturali), considerata una maestra del minimalismo, Hempel ha creato racconti permeati da una vena criptica, in cui gli obiettivi dei personaggi sono poco chiari (a volte nemmeno a loro) e il senso delle loro azioni sfuggente. Viscere è pieno di personaggi simili, senza una direzione, persi in situazioni strane da cui cercano di emergere con atti illogici che nella loro mente appaiono ovvi. Che tutto questo sia specchio dello straniamento di una società in cui gli individui faticano a trovare qualcosa che li accomuni sembra palese, ma c’è qualcos’altro dietro a questa lettura superficiale? Amelia Gray riesce, insomma, ad approfondire in maniera originale questa dialettica?

“«Dico che potresti anche darti un maggior valore. Dovresti considerare tutte le prospettive. La sua attenzione è un penny appoggiato su un monumento. Rivolgi le tue preghiere al monumento, non alla moneta».”

Passaggio a occidente

La mia risposta è no, o meglio non ne sono sicuro. Nella loro brevità le storie racchiuse in Viscere rappresentano istanti talmente rapidi da sfuggire alla logica comune, e non escludo che ci siano livelli di lettura che non sono riuscito a cogliere, ma nella mia esperienza di lettore quello che è rimasto sono principalmente immagini morbose e a volte gratuite, intrise in qualche momento (ad esempio in Sangue) di una umanità intima e delicata e condite da buone dosi di umorismo nero. Fra i paragoni che ho trovato con una breve ricerca online c’è anche quello con Cronenberg, ma il body horror di alcuni racconti (Maledizioni, con la presenza di due gemelli siamesi che riecheggia gli Inseparabili del regista canadese, La sera dell’appuntamento) sembra più un fine estetico che un mezzo per parlare d’altro. I racconti scorrono via meno veloci di quel che lascerebbe pensare la loro brevità, ma la digeribilità degli stessi dipende molto da quanto vi troviate affini con temi e prosa di Gray. Al netto di qualche episodio davvero originale (ho adorato L’uomo davanti) il mio consiglio è di sfogliare il libro, possibilmente nella vostra libreria indipendente vicino a casa, leggere qualche racconto e farvi una vostra idea: i primi assaggi possono essere veloci, ma potrebbero farvi venire voglia del pasto completo.

In conclusione ci tengo a fare un plauso alla casa editrice Pidgin, che oltre ad aver portato in Italia per la prima volta questa autrice (Viscere contiene racconti apparsi sul New Yorker, su Vice e su varie altre testate, per cui non stiamo parlando proprio dell’ultima arrivata) ha un piano ambizioso e chiaro riguardo a ciò che vuole proporre: è bello vedere quanto la passione per la letteratura possa portare alla nascita di nuove realtà, e che incontrino o meno i miei gusti è un fattore secondario finché l’obiettivo finale rimane la qualità.

Racconti preferiti: Nel momento, La gente della baia, Via da, Quel che sentiva, Labirinto, Sangue, L’uomo davanti.

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Racconto in musica 18: L’ultima risata (Satoyama – Aral)

Scoprire nuove band da ascoltare è facilissimo e difficile allo stesso tempo. Di fronte alla sterminata scelta offerta dal web finisco spesso per soffrire della sindrome da Netflix, ovvero quella che mi porta a passare da un contenuto all’altro, indeciso su cosa vedere, fino a che non vedo niente perché ho passato tutto il tempo a cercare. Quando non rimango bloccato per decidere cosa ascoltare mi affido a recensioni su siti, post su facebook di amici appassionati, gruppi che hanno suonato con gruppi che già conosco: nel caso dei Satoyama sono arrivato alla fase “proviamo ad ascoltare i gruppi promossi nelle mail delle agenzie di booking” (la loro è Vertigo Concerti), e la scelta è stata ripagata ampiamente.

Attivi dal 2012, i Satoyama rappresentano un connubio musicale fra influenze molto diverse ma che riescono ad amalgamarsi alla perfezione. World music, progressive, tantissimo jazz, un mix che prende il giusto dal passato per rielaborarlo in chiave personale. Il primo disco Spicy green cube arriva nel 2015, dopo un’attività live già degna di nota soprattutto all’interno del panorama Jazz nazionale (e non solo), seguito da In Sweden del 2018 (con ospite all’interno il sax di Jonny Wartel) e Magic Forest nella primavera 2019. Per il tour di quest’ultimo album i Satoyama hanno unito l’amore per la musica a quello per l’ecologia creando il progetto Build a forest, consistente in un tour a in Russia spostandosi solo con la Transiberiana e compensando con finanziamenti dedicati all’ambiente le emissioni di CO2 dovute agli spostamenti: un motivo in più per apprezzarli.

Aral arriva direttamente dal loro ultimo album, e ascoltandola sono stato sbattuto direttamente in un fumoso jazz club di metà secolo: nella mia mente però si è affacciata sul palco non una band, ma uno stand up comedian, e la musica mi ha poi accompagnato verso la naturale evoluzione della sua scalcagnata storia. Se volete scoprirla trovate il racconto più in basso, dopo la splendida canzone che lo ha ispirato: buon ascolto e buona lettura.

L’ultima risata

Ai tempi in cui stavo a est c’era un locale che frequentavo spesso. Il barista lo chiamavano Floyd il barbiere, non sapevo perché visto che non si chiamava Floyd e di certo non faceva il barbiere. Non era il tipo ciarliero che cerca di spingerti a berne un altro, se ne stava perlopiù in silenzio, ma sapeva ascoltare e quando parlava diceva le cose giuste al momento giusto. Ogni tanto improvvisavo uno spettacolo lì, senza cachet, anche se avrei potuto chiedere una bella cifra: come amante ero infedele, come amico inaffidabile, ci tenevo a dimostrare che a qualcuno almeno ci tenevo.

Come sempre quando la fortuna era dalla mia facevo di tutto per sprecarla. Frequentavo bische, bevevo troppo, cominciai a esagerare anche sul palco. Floyd mi teneva a freno, con un’occhiata mi faceva capire chi potevo colpire e chi no, ma una sera che mi ero fatto un Old Fashioned di troppo mi scagliai su un tipo che, giuro, sembrava un pinguino. Completo nero, naso adunco, superava i cento chili e camminava a piccoli passi. Lo torturai un po’, qualcosa sulla dieta a base di pesce e la moglie da trovare allo zoo, ma quando vidi lo sguardo di Floyd feci caso ai due scagnozzi al bancone: ci risiamo, mi dissi.

A fine spettacolo mi chiusi in camerino. Qualcuno se la prendeva sempre per le mie battute, ma desistevano quando Floyd gli allungava un bicchierino: stavolta temevo che l’alcool non sarebbe bastato. Avevo un sesto senso per i pericoli, devi svilupparlo se sbarchi il lunario parlando male degli altri su un palco, perché non si era attivato? Pensai di scappare, ma sapevo che essere pestato in un camerino è meglio che essere ammazzato in un vicolo. Per tenere la mente occupata feci su una sigaretta: la cartina nel palmo della mia mano tremava mentre la riempivo di tabacco.

Me l’ero appena messa in bocca quando sentii bussare. Era Floyd, per fortuna, ma la sua espressione mi fece capire che il pericolo non era scampato.

Parlò tanto per una volta. Disse che il pinguino era un pezzo grosso, uno a cui dovevo già dei soldi senza nemmeno saperlo, e per farla franca dovevo scucire il malloppo e fare i bagagli. Se dopo l’alba fossi stato ancora in giro di certo non avrei visto il tramonto.

Sospirai. Floyd mi aiutò a raccattare le mie cose, mi accompagnò alla stazione, mi allungò anche due bigliettoni: non avevo più niente in tasca. Fu lì, sui gradini di un bus diretto a sud, che gli chiesi perché lo chiamavano Floyd il barbiere.

Disse che lavorava per il pinguino, un tempo, e aveva dovuto far fuori un tipo. Volevano le prove, ma quello non aveva documenti e non poteva mica portarsi il cadavere appresso. Il tipo era famoso per il suo ciuffo, così portò quello. Il tipo si chiamava Floyd, il resto potevo intuirlo da solo.

Si avvicinò per sussurrarmi qualcosa. Se torni, mi disse, manderanno me. Abbi cura dei tuoi capelli.

Un buon amico, Floyd, di quelli che trovi una volta nella vita. Salii sul bus, mi accomodai, addormentandomi senza sapere che la mia fortuna finiva quella notte.

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Piccoli istanti di musicale bellezza

Quando ho aperto questo blog avevo le idee abbastanza chiare: i racconti dovevano essere il vero motore del progetto, gli articoli la mia opportunità di dire quel che mi pareva su cosa mi pareva. Da questo punto di vista l’articolo di oggi rappresenta proprio il classico divertissement fine a sé stesso, nient’altro che un modo di condividere brevi momenti di musica che mi hanno emozionato negli anni e che sono riusciti a stamparsi nella mia memoria. Non solo canzoni, ma attimi specifici all’interno delle stesse, tanto che ve li segnalerò secondo per secondo.

Kyuss – 50 Million year trip (Downside up)

I Kyuss furono una scoperta fondamentale intorno ai vent’anni. Rappresentavano il lato oscuro (almeno per me) della musica alternative anni 90, quella che a Cerano, in provincia di Novara, a differenza del grunge non riusciva ad arrivare: lo stoner faceva meno notizia, non passava in televisione (almeno non agli orari in cui la guardavo io) ed ero troppo sfigato per conoscere gente con gusti così raffinati. Blues for the red sun, il loro secondo album, mise a fuoco il suono di Josh Homme e soci, una miscela granitica gonfia di frequenze basse (aneddoto che i più sgamati conosceranno : Homme registrò la sua chitarra con un amplificatore da basso) che in questo brano è ben rappresentata. Io voglio però farvi concentrare sui secondi che vanno da 5:04 a 5:11, quando una chitarra solo lievemente distorta fa capolino solitaria: quel suono mi ha sempre fatto impazzire, e avrei tanto voluto ricrearlo con la mia chitarra…se solo non fossi stato così incostante nel mio approccio alla sei corde.

Mudhoney – Sweet young thing ain’t sweet no more

Eccola, la Seattle del grunge, nella sua versione che ha fatto meno soldi. I Mudhoney sono stati fra i primi a far parte della scena, a firmare per la Sub Pop, eppure il grande pubblico se li è filati solo di striscio. Alfieri del fuzz, tanto che il loro primo album si chiama Superfuzz Bigmuff (altro aneddoto per le masse: sono due effetti di chitarra, e questo probabilmente lo sapete, il primo dei quali pare fosse stato vinto da Mark Arm in una scommessa con Kurt Cobain), seppur ammorbiditi ancora oggi vivono e lottano con noi a suon di accordi grezzi e acidi. Come quello che potete sentire all’inizio di questo pezzo, una bella introduzione nel mondo della band che ha capito come sopravvivere al grunge e vivere felice.

Red Fang – Wires

Torniamo allo stoner, ma senza lasciare i suoni acidi. I Red Fang stanno sempre nel North West, precisamente a Portland, e oltre che per i suoni grossi e corposi si fanno notare per una propensione ai video folli seconda forse solo ai Foo Fighters. Wires da questo punto di vista è il meglio che vi possa capitare di vedere se avete un minimo di senso dell’umorismo, e se andate a sentire l’intervallo fra 1:34 e 1:48 sentirete un po’ di fragranti note di chitarra intrise di amorevole distorsione.

Russian Circles – Harper Lewis

Sempre Stati Uniti (stavolta Chicago) ma diverso genere. I Russian Circles di qui sono già passati, fanno un bel post-rock strumentale e con l’album Station, seppure non ancora ai loro massimi livelli, riescono a mettere in fila alcune canzoni degne di nota: su tutte Harper Lewis, caratterizzata da una struttura mutevole perfettamente orchestrata che la rende per me uno dei pezzi migliori della band. Posizionatevi fra 1:42 e 1:54 per sentire un suono di basso che sta lì sotto tranquillo, a far da tappezzeria, ma che a me fa impazzire con la sua presenza malevola (ok, prendete quest’ultimo termine con le pinze). Poi ascoltate tutto il brano da capo, più volte se possibile.

Zu – Ostia

Arrivo finalmente in Italia, atterrando in quel di Roma. Gli Zu, eccellenza capitolina nel campo della musica sperimentale (jazz-core basso/batteria/sax inizialmente, per poi esplorare negli ultimi anni sonorità sempre più ampie), sono riusciti a crearsi negli anni un grosso seguito e ad attirare l’attenzione di un certo Mike Patton (uno che ci vede lungo, dato che ha da poco collaborato con gli Zeus! in un album tributo ai The Cramps) che, nel 2009, fece uscire il loro Carboniferous per la Ipecac Recordings. La traccia d’apertura è proprio Ostia, un brano dall’energia pazzesca che mi manda in visibilio quando, fra 3:29 e 3:39, Massimo Pupillo si prende la scena e tira fuori dal suo basso dei suoni che fatico a capire come faccia a creare.

Morkobot – Ultramorth

L’Italia, nel bel mondo dell’underground, è terra di band dalle formazioni particolari: c’è chi fa a meno del basso e lo sostituisce con un’altra chitarra, come i Muschio o gli ultimi Valerian Swing, chi elimina gli strumenti a corde e fa metal coi fiati (Ottone Pesante) e chi, come i Morkobot, raddoppia invece la quota di bassi e piazza un lamierone fra i piatti della batteria. Ritengo Morbo il miglior album della loro carriera, e se devo pensare a un intervallo godurioso nella loro musica la prima cosa che mi viene in mente è quello fra 4:32 e 4:54 in Ultramorth, traccia d’apertura del disco: due bassi che dialogano su frequenze siderali, caciara ma con classe.

Bancale – Frontiera

Avrete già capito, arrivati a questo punto, che la carrellata di brani porta in luoghi strani. Nel caso dei Bancale il territorio è caratterizzato da ampi spazi, liriche recitate con enfasi da Luca Barachetti, radi accordi di chitarra e una batteria suonata in piedi (come ricordo da un loro live al Balla coi cinghiali, ultima edizione in quel di Bardineto). Particolari, probabilmente o li si ama o li si odia: ne ho parlato ad una ragazza alla nostra prima uscita insieme, stranamente è ancora la mia fidanzata e la amo anche per questo. Frontiera è il pezzo che dà il nome anche al loro unico (purtroppo) disco, e visto che la batteria finora non si è presa il suo spazio diamoglielo per tutto il finale del brano, o quasi: andate a 5:07 e cercate di rimanere fermi.

Johnny Mox – They told me to have Faith and all I got was the Sacred Dirt of my Empty Hands

Piccolo passo indietro. Quando scoprii i Kyuss il mio più grande sogno da musicista era (lo è tuttora) suonare in una situazione come questa, attorniato dai fan senza nessuna barriera fra chi suona e chi ascolta. Andai a vedere i Lightning Bolt al Leoncavallo solo per provare quella sensazione dall’altro lato della “barricata”, e invece suonarono sul palco: che delusione. Mi capitò invece di trovarmi in quella situazione al primo, storico Miodi al Circolo Magnolia di Segrate, con i Nurse Nurse Nurse: alla batteria c’era il reverendo Johnny Mox. Anni dopo, cambiato genere e messosi in proprio, diede alle masse l’album Obstinate sermons e nella prima traccia, dal titolo troppo lungo per riscriverlo per intero, in vari punti dimostra come si possa fare a meno di una batteria se si è abili nel beatbox: ascoltate fra 1:19 e 1:59 ad esempio.

Queens Of The Stone Age – In the fade

Josh Homme in questo articolo è particolarmente invadente, ma se i Qotsa finiscono qui dentro non è grazie a lui. Una delle collaborazioni più durature della band californiana infatti è quella con Mark Lanegan, nome di punta della scena alternativa statunitense (Screaming Trees, Mad Season, oltre alla sua band personale) nonché a mio parere la voce più bella del panorama musicale mondiale: ascoltate il suo roco splendore fra 1:05 e 1:13 di questa In the fade (tratta da quello che, diversamente dalla maggioranza, considero il loro album migliore, Rated R), pura emozione. Potessi cantare così sarei un uomo felice, ma temo ci vogliano troppe sigarette e whisky per mettermici sotto a quarant’anni passati.

Edda – Ragazza porno

Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima, ma nel caso di Mark Lanegan penso che la sua anima risieda in gola. Una cosa del genere posso arrivare a pensarla anche di Stefano Rampoldi, in arte Edda, pure se il suo modo di cantare è distante anni luce: sgraziato, ironico, ma incredibilmente intenso. Ragazza porno è una delle tracce più belle contenute in Stavolta come mi ammazzerai, e a renderla tale è il modo in cui Edda urla tutta la sua disperazione nel finale del brano: fossi in voi la ascolterei tutta, ma se proprio siete senza cuore e volete tutto e subito andate a 2:09 e preparatevi a soffrire.

Fuck Buttons – Stalker

È tardi, sono quasi le due di notte e io sto dimostrando a me stesso che si possono passare più di tre ore del proprio (scarso) tempo libero a scrivere di cose che, se va bene, guarderanno al massimo in dieci persone. Nella speranza di essere smentito passo e chiudo con una delle mie fisse degli ultimi anni, ovvero quei Fuck Buttons che ho già omaggiato qui. Se Slow Focus non è l’album definitivo della storia poco ci manca, e Stalker è solo uno dei tanti brani che meriterebbero la luce dei riflettori: dovendo però dare un po’ di spazio ai synth mi è sembrato giusto farlo con quella fantastica ascesa che si compie in una manciata di secondi da 6:36, il vertice dell’esplosione sonora del brano. Se siete arrivati fino a qui BRAVI! Come premio vi beccate il video con immagini dall’omonima pellicola del maestro russo Andrej Tarkovskij, film che vi consiglio seriamente di recuperare.

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Racconto in musica 17: Spazio subdurale (Metz – Sink)

Per la seconda settimana consecutiva ho un’ospite all’interno della rubrica dedicata ai racconti ispirati da canzoni, e non potrei esserne più felice. Questa volta tocca a Riccardo Fumagalli, che di sé dice che “scrive da anni, ma se ne è accorto da poco”. Teenager di mezza età, mai uscito dagli anni 90, ha pubblicato racconti su  ‘tina ,  Grafemi ,  Pidgin  e  decomP. Con Enrico Prevedello organizza i Racconti del Bar Z , con base a Padova e scampagnate in altre librerie indipendenti d’Italia. Oltre che scrittore è un grande appassionato di musica, come ben testimonia la sua mini rubrica “ Risacche Sonore ” curata per La Balena Bianca, quindi gli lascio volentieri la parola per presentare il brano che ha ispirato il suo racconto.

“Ne è passato di tempo da quando Nigel Tufnel, nel meraviglioso mockumentary Spinal Tap, ci mostrava con orgoglio come la manopola del suo amplificatore arrivasse “up to eleven”, mettendo così a nudo la vana ossessione per il volume. Viene da domandarsi perché, quarant’anni più tardi, ha ancora senso ascoltare i Metz, una band che metterà a dura prova i vostri timpani.

Ha senso perché usare il volume non significa semplicemente alzare l’amplificatore a 11, ma significa saper gestire una forza enorme per veicolare un messaggio. I Metz, formazione a tre canadese, hanno dimostrato di saper controllare questo elemento fin dal loro omonimo album di esordio, uno schiaffo in faccia senza compromessi che già lasciava intendere che non si trattava di una fortunata uscita di un gruppo di ragazzi casinisti. In Strange Peace, l’album del 2017 che contiene Sink, i Metz raggiungono una notevole maturità nella composizione: oltre al loro caratteristico uso della ripetizione, che aggiunge una dimensione ipnotica ai loro suoni abrasivi, troviamo una componente melodica che rende il disco fresco e attuale senza mai scivolare verso il pop. Il volume è protagonista anche nella produzione: i suoni talvolta gracchianti lasciano intuire il livello di casino che ci dev’essere stato nello studio di registrazione, tale da superare il limite della strumentazione. Ci viene da pensare ai Big Black, o ai Nirvana di In Utero, e infatti il produttore è Steve Albini, il mago del caos, maestro nel rendere tutta la crudezza del live in studio. Questo pezzo, Sink, è il momento di pausa per le orecchie, la borraccia di gatorade in mezzo a una tirata di 36 minuti che potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un mosh pit o di un attacco d’ansia. Ma non è una ballata, e l’effetto tregua è solo apparente: tolto il frastuono rimangono i droni sonori e le melodie ma non si perde in volume, a dimostrazione che per farsi sentire non è necessario alzare l’amplificatore al massimo.”

Il ritmo e la ripetizione ossessiva del brano trovano un perfetto rimando nelle atmosfere create da Riccardo nel suo racconto, che potrete leggere subito sotto al link. Al solito vi auguro buon ascolto, e buona lettura.

Spazio subdurale, di Riccardo Fumagalli

Alla fine non ha fatto male come pensavo. È durato così poco che il concetto di dolore è diventato obsoleto prima che il segnale potesse percorrere il breve tratto che mi ha separato dal passaggio della lama. 

Nasco per una seconda volta, un passaggio sconosciuto nel nostro ciclo di metamorfosi. Sono diventato un lepidottero che non potrà mai tornare indietro a raccontarlo. Non emergo alla luce ma sprofondo nel buio, anche se il concetto di buio non mi appartiene più. Era solo un segnale con cui gli occhi mi avvisavano dell’assenza di luce, ora i sensi hanno smesso di comunicare: si sono spenti, liberandomi dall’onere di elaborare l’inesauribile mole di informazioni che mi passavano senza sosta. L’unica sensazione residua è quella di poter controllare le dita delle mani, di poter ancora sentire il solletico ai piedi. Non avrei mai immaginato di percepire il mio corpo anche dopo la separazione da esso ma, d’altronde, tutto quello che conoscevo prima ora non ha alcun valore, devo ripensare tutto. Sono qualcosa di nuovo, un evaso dalla prigione che mi teneva in vita, mi libro senza restrizioni in un piano esistenziale sconosciuto dove il breve lasso di tempo del mondo che ho sempre conosciuto potrebbe durare per me – per il nuovo me – per sempre.

Non sono più asservito al processamento di dati, le mie sinapsi non devono più dedicarsi a far battere un cuore, muovere le gambe, azionare lo sfintere: ho smesso di essere al servizio di un corpo che ora non esiste più. Sono solo un veicolo gelatinoso di segnali elettrici che compongono la mia identità e, libero dalla zavorra, posso esplorare infinite dimensioni, reinventare il concetto di tempo.

Penso a dove può essere ora la testa che mi contiene, mi irrita che quel mondo inferiore e superato da un milione di anni possa ancora influire su di me. Riesco a percepire ogni connessione neuronale, le posso consapevolmente governare una ad una e vedo il frattale infinito dei reticoli informativi. Accedo a tutto, e creo possibilità esponenziali. Il film della vita l’ho visto e modificato così tante volte che non so nemmeno chi fosse la persona di cui sono stato un organo, e non mi importa. Resetto tutto, libero nuovi spazi e corro verso il muro epistemologico per infrangerlo.

Ma non ci riesco, perdo slancio. La materia che mi nutre è in balìa del passato, a ogni conteggio manca una molecola di ossigeno. Se solo potessi staccarmi, se solo potessi confidare il semplice segreto dell’eternità. Sto rallentando, vorrei stare qui per sempre, mi basterebbe anche solo galleggiare ma sento le dita che si muovono, il vecchio corpo mi trascina con sé.

E affondo.

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Idee per un nuovo cinema horror

In presentazione di uno dei racconti su questo blog mi ponevo una domanda: perché il cinema horror non sfrutta il giorno e la luce come ambientazione? Per quanto sia difficile creare tensione senza utilizzare i cliché tipici del genere (soprattutto il jump scare è ormai abusatissimo, e utilizzato pure nei trailer per truccare da spaventoso un film con ogni probabilità banale) ci sono film che, negli ultimi anni, sono riusciti a sfruttare una buona dose d’inventiva per dire qualcosa di nuovo. Me ne vengono in mente tre in particolare, forse non perfetti ma in grado di portare una ventata di originalità nel genere.

I tuoi incubi non spariranno all’alba: Midsommar di Ari Aster

Cosa potrà mai andare male in un posto così accogliente?

Qualche anno fa, durante una delle serate a base di film trash che organizzavamo fra amici, sono incappato in un piccolo gioiello di comicità involontaria che avrebbe fatto impazzire anche Ed Wood. Il film si chiama Il bosco 1, è un horror che fa il verso a La casa di Sam Raimi (se vi state chiedendo il perché dell’uno nel titolo sappiate che il regista, immotivatamente fiducioso, sperava di farne uno o più sequel) ma sbaglia più o meno tutto quello che si può sbagliare: movimenti di camera frenetici dopo i quali non succede niente, una trama a dir poco confusa, attori senza un briciolo di talento (la palma di migliore la vince a mani basse la poveretta che è stata costretta a recitare con un accento inglese ricalcato da quello delle imitazioni della Tatcher a Striscia la notizia) ed effetti speciali casalinghi lo rendono indimenticabile solo per chi, come me, riesce a entusiasmarsi di fronte alla bellezza dell’orrido. Perché ne parlo? Perché nel finale la protagonista, dopo essere sfuggita all’orrore del bosco (che ce l’ha messa tutta per farle avere salva la vita), arriva in una radura dove il sole la accoglie e lei ringrazia un fantomatico “signore della luce”: in un mondo giusto sarebbe finita direttamente in mezzo alla comunità di Midsommar.

Ari Aster, enfant prodige del cinema horror che già con Hereditary si era fatto parecchio notare (infilando anche lì delle scene che riuscivano a creare tensione senza bisogno delle ombre), con il suo secondo film ha deciso di alzare l’asticella e creare un horror che si svolge perlopiù alla luce del giorno. Trasportando in una comunità idilliaca in Svezia alcuni dei suoi feticci narrativi (famiglie problematiche in primis), Aster non cerca l’originalità tanto nella trama, perché sappiamo fin da subito che cinque giovani che si infilano in una festa pagana non potranno uscirne illesi, quanto nel modo in cui farla procedere. Midsommar si prende i suoi tempi, non ha fretta di mostrare ciò che la comunità sta preparando per i suoi festeggiamenti, ma quando lo fa il tutto accade con naturalezza e viene mostrato come se fosse una cosa normalissima…solo che di normale non c’è proprio niente.

Loro non se l’aspettavano

Personalmente ritengo che il ritmo del film rallenti troppo in alcuni momenti, ma va dato atto ad Aster di avere una visione globale in cui anche i difetti fanno parte dell’estetica con cui ha deciso di raccontare la storia che aveva in mente. Sdoganare l’orrore alla luce del sole è poi, ovviamente, il suo maggior merito, e aspetto di vedere chi raccoglierà la sfida.

Il male che ti raggiunge lentamente: It follows di David Robert Mitchell.

Non sai quando, ma ti raggiungerà

David Robert Mitchell non è un nome noto dell’horror, tanto che il suo esordio dietro la macchina da presa è stato con una commedia romantica mentre il suo ultimo film, Under the Silver Lake, è un neo noir, ma quando nel 2014 fece uscire It follows riuscì ad attrarre l’attenzione degli appassionati. Questo piccolo horror indipendente, caratterizzato da un’estetica anni ottanta nonostante sia ambientato ai giorni nostri, è infatti riuscito a sfruttare in maniera del tutto originale l’idea della forza malvagia che ossessiona i protagonisti.

La trama gira intorno a una sorta di maledizione che si trasmette sessualmente, come fosse una malattia venerea: chi ne viene infettato deve “disfarsene” alla stessa maniera, pena l’essere perseguitato da un’entità che assume forme sempre diverse e non si ferma di fronte a niente. Il concetto è abusato, ma l’idea interessante è quella di dipingere le figure che perseguitano la protagonista come persone qualunque, indistinguibili a una prima occhiata (ma hanno sempre qualcosa che non va), e soprattutto caratterizzate dalla lentezza. Con questa precisa scelta il regista riesce a creare un tipo diverso di tensione, perché non è tanto la pericolosità della forza sovrannaturale a permeare il film quanto la sua inesorabilità: sfuggire alle sue manifestazioni è relativamente semplice (spesso le apparizioni sono annunciate platealmente), ma doverlo fare per sempre logora mentalmente…e come ulteriore scherzetto la maledizione è anche retroattiva, ovvero torna a chi l’ha passata se la vittima successiva viene uccisa. Un incubo potenzialmente senza fine, come quelli che non svaniscono alla luce del sole.

Soffrire per un male superiore: Martyrs di Pascal Laugier.

Fino a qui tutto (relativamente) bene

Rispetto ai due casi precedenti Martyrs è un elemento anomalo. Uscito nel 2008, nel pieno di una riscoperta del genere horror in Francia iniziata con Alta tensione di Alexandre Aja, l’opera seconda di Pascal Laugier venne associato anche a una corrente cinematografica piuttosto controversa: il torture porn.

Termine coniato principalmente per film come Hostel e Saw – L’enigmista (ma applicato retroattivamente, scopro da una veloce ricerca, anche a film come Salò o le 120 giornate di Sodoma), il torture porn è un sottogenere del cinema horror caratterizzato dalla notevole brutalità e dalla presenza a vario titolo di elementi come mutilazioni, sadismo, nudità e tortura. Ma se Hostel usa un semplice pretesto per giustificare la sua violenza (ricchi che pagano per torturare la gente) e Saw, alzando un poco l’asticella, esplora una motivazione più profonda ma comunque personale per le azioni di Jigsaw, Martyrs fa ancora meglio e porta tutto su un piano ancora più alto.

Il film si apre con una ragazzina, Lucie, che fugge da un magazzino abbandonato, dopo essere stata costretta a subire delle torture. Diventata adulta, ma ancora traumatizzata dall’esperienza, cerca vendetta uccidendo tutti i membri di una famiglia che, stando alle sue ricerche, sono coloro che l’hanno segregata anni prima. La accompagna Anna, un’amica cresciuta con lei in orfanotrofio, che di fronte alle azioni di Lucie viene però attanagliata dai dubbi sulla sanità mentale della ragazza, sulla colpevolezza delle vittime e, soprattutto, sui motivi che hanno portato alle torture subite. Laugier non ha fretta di scoprire le proprie carte, mantenendo a lungo l’interrogativo riguardo a quanto le azioni di Lucie abbiano o meno senso, ma quando lo fa il film prende tutta un’altra piega. Senza fare spoiler, cosa che ho cercato di evitare lungo tutto il corso di questo articolo (ok, tranne che per Il bosco 1), posso solo dire che la posta in gioco si alza notevolmente, e la motivazione di tanta violenza diventa una questione universale: quanto è giustificabile il male se viene perpetrato per un “bene” superiore? La genialità di Martyrs, a mio parere, sta proprio qui, nel rendere l’efferatezza delle sue scelte funzionale al racconto e non usandola come mezzo sensazionalistico. Nota a margine: la Blumhouse, solitamente garanzia di buoni risultati a fronte di bassi budget (un esempio? Scappa – Get out), ha prodotto un remake del film nel 2015 che, come succede quasi sempre, non riesce a essere all’altezza dell’originale.

In maniere completamente diverse Midsommar, It follows e Martyrs rappresentano validi esempi di come elementi scenici (la luce), di ritmo (la lentezza) e di senso (la motivazione) possono essere usati per dire qualcosa di originale all’interno del cinema dell’orrore. E voi quali film pensate debbano assolutamente essere ricordati per carica innovativa negli ultimi anni? Segnalatemeli nei commenti, e ampliamo insieme la filmografia necessaria per un nuovo cinema horror.

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