Ci sono autori capaci di dividere completamente il pubblico, e penso che il compianto David Foster Wallace faccia parte della categoria. Il monumentale Infinite Jest, con le sue centinaia di pagine di note e la struttura schizofrenica, può rappresentare uno scoglio insormontabile o una specie di Nirvana letterario: io faccio parte della schiera di quelli per cui il suo romanzo più famoso è stato un’esperienza illuminante, e da allora pian piano, centellinandolo come un buon vino (va da sé che libri non ne scriverà più), recupero i suoi scritti in rigoroso ordine casuale.

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso fa parte di quel periodo in cui Foster Wallace era ancora un promettente scrittore e non il guru che sarebbe diventato di lì a qualche anno. Reduce dal successo del romanzo d’esordio del 1987 La scopa del sistema, ispirato dalla sua seconda tesi di laurea sulle teorie logico-linguistiche di Ludwig Wittgenstein, a due anni di distanza lo scrittore dell’Ohio uscì con una accolta di racconti che mostrava in maniera splendente la sua versatilità, La ragazza dai capelli strani. Il racconto che dava il titolo al libro era una sorta di presa in giro di un altro scrittore fuori dalle regole che in quel periodo andava per la maggiore, quel Bret Easton Ellis che di lì a poco avrebbe pubblicato American Psycho, episodio che gettò ulteriore benzina sul fuoco di una rivalità che non si è placata nemmeno alla morte di DFW (è storia nota la serie di tweet che Ellis gli ha scagliato contro nel 2012): non pago di questo all’interno della raccolta era presente anche una stoccata ad uno dei suoi mentori ai tempi dell’università, lo scrittore e insegnante di scrittura creativa John Barth, attraverso il racconto lungo che Minimum Fax ha estrapolato dalla raccolta e reso un romanzo a sé, cioè il Verso Occidente di qui sopra.

La storia segue due studenti universitari, un aspirante attore, un pubblicitario, il di lui figlio e una hostess nel loro percorso per giungere (forse) alla riunione di tutti coloro che sono apparsi all’interno di uno spot Mc Donald, dove si dovranno svolgere le riprese dello spot definitivo della catena e l’inaugurazione della prima discoteca di un futuro business a tema casa stregata. Questo ultimo particolare, che può apparire secondario, è in realtà centrale all’interno del libro: la casa stregata da cui le discoteche prendono ispirazione arriva dritta dritta dal racconto Perso nella casa stregata di Barth, uno dei più influenti racconti del postmoderno e in particolare della cosiddetta metafiction, in cui il narratore fa continue incursioni per smascherare l’artificio dietro alla creazione letteraria. Come spiega Martina Testa nella fantastica introduzione al libro, Foster Wallace prende i personaggi, gli eventi, persino dettagli minuscoli dal racconto di Barth per costruirci sopra un racconto che è metafiction al quadrato se non al cubo, tanto che Barth stesso è un personaggio, celato dietro al nome del personaggio principale di Perso nella casa stregata Ambrose, e che due dei protagonisti sono studenti del suo corso di scrittura creativa: Mark Nechtr, che scrive pochissimo, e la sua neomoglie Drew-Lynn Eberhardt, ultraprolifica ma affetta da ciò che Foster Wallace battezza, con evidente ironia, come sindrome del “guarda, mamma, senza mani”, cioè la tendenza a voler essere originali a tutti i costi rendendosi invece ridicoli e autoreferenziali.
“…il suo non-razzismo deriva, come lui stesso ammetterebbe, da ragioni totalmente egoistiche. Se tutti i neri sono grandi atleti e ballerini provetti, e tutti gli orientali sono intelligenti e identici e laboriosi, e tutti gli ebrei sono bravi a fare soldi e scrivere libri, e a maneggiare un potere nato dalla coesione, e tutti i latini sono bravi a letto, e a maneggiare coltelli e a passare clandestinamente i confini, be’, allora cavolo, tutti i semplici WASP americani che cosa sono? Quale grande singola caratteristica, agli occhi dei razzisti, riunisce tutti noi borghesi bianchi sotto il solido tetto dello stereotipo? Nessuna. Un Grande Maschio Bianco senza nome e senza volto.”
Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso
Nella già citata prefazione Martina Testa illustra quanto sia interessante questa analisi filologica, ma se tutto il libro si limitasse a essere un gioco di specchi autoreferenziale Foster Wallace non farebbe altro che replicare una formula già utilizzata. Invece, sebbene in alcuni passaggi utilizzi la metafiction in maniera frustrante e con quella sindrome da “guarda, mamma, senza mani” che condanna, il fine ultimo dell’autore è di raccontare qualcosa che vi dia una fitta al petto, un desiderio condiviso col personaggio di Mark, i cui pensieri sulla metafiction sono essenzialmente
“…la metafiction non è una vera amante. Non può tradire. Può solo rivelare. Ha come unico oggetto se stessa. È l’atto d’amore per se stesso di un solipsista solitario, la luce di un abat-jour proiettata su quella quinta parete nera che è l’essere un soggetto, un volto nella folla. La metafiction è come una coppia di innamorati che non fanno l’amore. Che baciano ciascuno la propria spina dorsale. Che si scopano da soli.”
Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso
In un interessante articolo su William T. Wollmann, altro autore eclettico e pubblicato da Minimum Fax, si fa notare come Foster Wallace volesse fare della propria scrittura un antidoto contro la solitudine, titolo con cui è uscita non per niente una raccolta di interviste e conversazioni con l’autore. E la sua grande abilità in questo e negli altri suoi libri, in mezzo a tantissima tecnica narrativa e contorcimenti psicologici vari, è proprio quello di far emergere la natura umana di ogni personaggio, anche di quelli che sembrano apparentemente odiosi, e di farlo senza tristezza ma anzi condendo il libro con abbondanti dosi di ironia. Di parlare di solitudine, dipendenza, ansia, di mostrare persino i pregi sotto punti di vista che li fanno apparire difetti ma senza perdere il sorriso e la speranza che un giorno impareremo ad andare oltre queste nostre lacune, e potremo farlo insieme. Non è un caso che, per tornare alla diatriba Ellis-Wallace, quest’ultimo abbia dichiarato in un’intervista del 1993:
“Se i lettori credono semplicemente che il mondo sia stupido, superficiale e cattivo, allora uno come Brett Easton Ellis può scrivere un romanzo cattivo, stupido e superficiale che diventa un ironico e tagliente ritratto della bruttura del mondo che ci circonda. Siamo d’accordo un po’ tutti che questi sono tempi bui, e stupidi, ma abbiamo davvero bisogno di opere letterarie che non facciano altro che mettere in scena il fatto che sia tutto buio e stupido? Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi.”
David Foster Wallace
“Il silenzio per cui la gente gli vuole così bene deriva come un pianto dalla sua principale convinzione errata, da un suo difetto che è tipico dell’epoca contemporanea. Se i suoi giovani compagni hanno ciascuno le proprie false convinzioni – D.L. che il cinismo e l’ingenuità si escludano a vicenda, Sternberg che il corpo sia una prigione e non un rifugio – quella di Mark è di essere la sola persona al mondo che si sente la sola persona al mondo. È un’illusione solipsistica.”
Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso
Al di là dei riferimenti, della trama, dei concetti, è proprio il modo unico che ha Foster Wallace di empatizzare coi propri personaggi a rendere questo Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso una lettura consigliatissima, soprattutto a chi vorrebbe approcciarsi alla sua opera più famosa e voluminosa e non ne ha mai trovato il coraggio. È interessante notare anche come il personaggio di Mark sia in qualche maniera una versione alpha dell’Hal Incandenza presente proprio in Infinite Jest, con il quale condivide parecchi disturbi emotivi, tanto che una frase che li riguarda viene trascritta quasi letteralmente da un libro all’altro.
“È convinto che ci sia in lui un certo elemento di differenza, semplice e radicale; spera che sia genialità, teme che sia follia.”
Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso
“C’era in lui un certo elemento di differenza, semplice e radicale; sperava che fosse genialità, temeva che fosse follia, si dedicava all’affabilità e cercava di passare inosservato.”
Infinite Jest
Particolare curioso che interessa solo me: il personaggio di De Haven Steelritter, figlio del pubblicitario J.D. Steelritter e da lui costretto, in quanto sotto contratto come Ronald McDonald ufficiale dell’azienda, a rimanere continuamente vestito con la sua assurda divisa, rappresenta con la sua passione per la marijuana e per le auto costruite artigianalmente una visione distorta del clown simbolo del fast food seconda solo a quella, violentata da un gruppo di madri durante una festa in maschera, che Douglas Coupland fa ideare ai personaggi del suo Jpod come easter egg in un videogioco.
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