Per la seconda settimana consecutiva ho un’ospite all’interno della rubrica dedicata ai racconti ispirati da canzoni, e non potrei esserne più felice. Questa volta tocca a Riccardo Fumagalli, che di sé dice che “scrive da anni, ma se ne è accorto da poco”. Teenager di mezza età, mai uscito dagli anni 90, ha pubblicato racconti su ‘tina , Grafemi , Pidgin e decomP. Con Enrico Prevedello organizza i Racconti del Bar Z , con base a Padova e scampagnate in altre librerie indipendenti d’Italia. Oltre che scrittore è un grande appassionato di musica, come ben testimonia la sua mini rubrica “ Risacche Sonore ” curata per La Balena Bianca, quindi gli lascio volentieri la parola per presentare il brano che ha ispirato il suo racconto.
“Ne è passato di tempo da quando Nigel Tufnel, nel meraviglioso mockumentary Spinal Tap, ci mostrava con orgoglio come la manopola del suo amplificatore arrivasse “up to eleven”, mettendo così a nudo la vana ossessione per il volume. Viene da domandarsi perché, quarant’anni più tardi, ha ancora senso ascoltare i Metz, una band che metterà a dura prova i vostri timpani.
Ha senso perché usare il volume non significa semplicemente alzare l’amplificatore a 11, ma significa saper gestire una forza enorme per veicolare un messaggio. I Metz, formazione a tre canadese, hanno dimostrato di saper controllare questo elemento fin dal loro omonimo album di esordio, uno schiaffo in faccia senza compromessi che già lasciava intendere che non si trattava di una fortunata uscita di un gruppo di ragazzi casinisti. In Strange Peace, l’album del 2017 che contiene Sink, i Metz raggiungono una notevole maturità nella composizione: oltre al loro caratteristico uso della ripetizione, che aggiunge una dimensione ipnotica ai loro suoni abrasivi, troviamo una componente melodica che rende il disco fresco e attuale senza mai scivolare verso il pop. Il volume è protagonista anche nella produzione: i suoni talvolta gracchianti lasciano intuire il livello di casino che ci dev’essere stato nello studio di registrazione, tale da superare il limite della strumentazione. Ci viene da pensare ai Big Black, o ai Nirvana di In Utero, e infatti il produttore è Steve Albini, il mago del caos, maestro nel rendere tutta la crudezza del live in studio. Questo pezzo, Sink, è il momento di pausa per le orecchie, la borraccia di gatorade in mezzo a una tirata di 36 minuti che potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un mosh pit o di un attacco d’ansia. Ma non è una ballata, e l’effetto tregua è solo apparente: tolto il frastuono rimangono i droni sonori e le melodie ma non si perde in volume, a dimostrazione che per farsi sentire non è necessario alzare l’amplificatore al massimo.”
Il ritmo e la ripetizione ossessiva del brano trovano un perfetto rimando nelle atmosfere create da Riccardo nel suo racconto, che potrete leggere subito sotto al link. Al solito vi auguro buon ascolto, e buona lettura.
Spazio subdurale, di Riccardo Fumagalli
Alla fine non ha fatto male come pensavo. È durato così poco che il concetto di dolore è diventato obsoleto prima che il segnale potesse percorrere il breve tratto che mi ha separato dal passaggio della lama.
Nasco per una seconda volta, un passaggio sconosciuto nel nostro ciclo di metamorfosi. Sono diventato un lepidottero che non potrà mai tornare indietro a raccontarlo. Non emergo alla luce ma sprofondo nel buio, anche se il concetto di buio non mi appartiene più. Era solo un segnale con cui gli occhi mi avvisavano dell’assenza di luce, ora i sensi hanno smesso di comunicare: si sono spenti, liberandomi dall’onere di elaborare l’inesauribile mole di informazioni che mi passavano senza sosta. L’unica sensazione residua è quella di poter controllare le dita delle mani, di poter ancora sentire il solletico ai piedi. Non avrei mai immaginato di percepire il mio corpo anche dopo la separazione da esso ma, d’altronde, tutto quello che conoscevo prima ora non ha alcun valore, devo ripensare tutto. Sono qualcosa di nuovo, un evaso dalla prigione che mi teneva in vita, mi libro senza restrizioni in un piano esistenziale sconosciuto dove il breve lasso di tempo del mondo che ho sempre conosciuto potrebbe durare per me – per il nuovo me – per sempre.
Non sono più asservito al processamento di dati, le mie sinapsi non devono più dedicarsi a far battere un cuore, muovere le gambe, azionare lo sfintere: ho smesso di essere al servizio di un corpo che ora non esiste più. Sono solo un veicolo gelatinoso di segnali elettrici che compongono la mia identità e, libero dalla zavorra, posso esplorare infinite dimensioni, reinventare il concetto di tempo.
Penso a dove può essere ora la testa che mi contiene, mi irrita che quel mondo inferiore e superato da un milione di anni possa ancora influire su di me. Riesco a percepire ogni connessione neuronale, le posso consapevolmente governare una ad una e vedo il frattale infinito dei reticoli informativi. Accedo a tutto, e creo possibilità esponenziali. Il film della vita l’ho visto e modificato così tante volte che non so nemmeno chi fosse la persona di cui sono stato un organo, e non mi importa. Resetto tutto, libero nuovi spazi e corro verso il muro epistemologico per infrangerlo.
Ma non ci riesco, perdo slancio. La materia che mi nutre è in balìa del passato, a ogni conteggio manca una molecola di ossigeno. Se solo potessi staccarmi, se solo potessi confidare il semplice segreto dell’eternità. Sto rallentando, vorrei stare qui per sempre, mi basterebbe anche solo galleggiare ma sento le dita che si muovono, il vecchio corpo mi trascina con sé.
E affondo.
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