L’ho rifatto, ho deciso di farmi del male una seconda volta. Dopo aver preso come ispirazione un pezzo dei Massimo Volume, con tutte le difficoltà di scrivere qualcosa su un brano che già diceva il necessario, stavolta la canzone su cui ho scritto un racconto è di Giovanni Succi.
Leader dei Madrigali Magri prima e dei Bachi da Pietra tuttora (con questi ultimi, giusto per chiudere il cerchio, ha anche registrato uno split assieme ai Masimo Volume), Succi è uno che ha dimostrato lungo tutta la carriera di saperci fare con le parole. Anni fa ho avuto la fortuna di intervistarlo, dopo un suo reading su Gozzano (qui un assaggio) ad Arona, scoprendo di quanti diversi progetti legati alla letteratura è stato protagonista. Negli anni l’ho visto incentrare spettacoli su Dante e Caproni, mi ha fatto scoprire Giorgio Manganelli (cosa per cui non smetterò mai di ringraziarlo) col suo progetto di “reading elettronico” La morte e ha trovato il tempo di registrare anche un album tributo a Paolo Conte, Lampi per macachi.
Di recente è uscito l’ultimo suo album da solista, Carne cruda a colazione, dove in veste cantautorale continua a fare ciò che gli esce meglio: giocare con le parole e creare mondi coi suoi testi. Avevo l’imbarazzo della scelta fra le canzoni da cui prendere ispirazione, ma in questo caso è stata più lei a scegliere me che il contrario. Sipario, contenuta nel precedente disco Con ghiaccio, ha evocato subito nella mia testa le immagini di un motel e di un ritorno: il difficile è stato dare una forma alle suggestioni, creare una storia (ne ho fatte almeno tre versioni, di cui una è diventata un racconto a sé stante) e cercare di adottare una prosa che fungesse da mio personale tributo al modo di scrivere dell’autore. Ecco perché dico che ho voluto farmi del male, da un confronto simile si parte già sconfitti.
Al solito qui sotto trovate il brano, seguito dal racconto. Sempre come al solito il consiglio è di andare ad approfondire, ascoltare tutto ciò che ha da offrire lo sterminato mondo musicale e letterario in cui è immerso Giovanni Succi e, quando si potrà, andare sotto a un palco ad ascoltarlo live. Buon ascolto, e buona lettura.
Se poi te ne vai
La camera è proprio come me l’aspetto, una topaia da dimenticare presto, da lasciare sull’asfalto col ricordo dei clienti, dei chilometri e degli astanti, peregrini tutti quanti, pronti a brindare in trattorie malconce che recano immancabile sulle porte la scritta “menu fisso dieci euro”, o forse nove se la fortuna gira per il giusto verso.
Abbandono per terra il mio fardello di scope aspiranti ultimo modello, sciccherie per signora ma anche per l’uomo moderno, sia mai che si discrimini, sia mai. La moquette è consunta, bruciature di sigarette qua e là, anche vicino al frigobar, su una cassapanca un televisore che definire vintage è un favore. Tubo catodico, immagine sgranata, l’antenna non prende che qualche televendita urlata che magari a notte fonda lascerà il posto a un po’ di porno, censurato ovvio ma ci si accontenta. O almeno l’idea è quella.
Nel bagno la muffa corrompe le pareti, del letto non voglio sapere dai pareri di qualche sito quali malattie potrei contrarre toccando lenzuola e cuscino. Mi faccio una doccia, di asciugamano ho il mio, abituato come sono alle sorprese preferisco evitarne di maligne per dio, ma mentre mi pettino e mi osservo allo specchio vedo un particolare che mi porta indietro nel tempo.
Poche parole, in una tremolante grafia. La riconosco, è la mia.
E ritorno ad anni fa, con una lei di cui ho scordato il nome ma che faceva rima con viole, in fuga con la macchina di papà e un foglio rosa inutile in caso di controllo, ma eravamo giovani e folli e li avremmo fatti l’indomani i conti, o forse non li avremmo fatti proprio, chissà. Indossava una maglietta fucsia con scritto “Bob Marley è morto da cretino”, perché per lei era anarchico andare contro ogni pensiero precostituito, ma come manifesto lo trovo lacunoso anche dopo aver letto da sbronzo un saggio su Bakunin troppo verboso.
Ai miei dissi che dormivo da un amico, mi sentivo un po’ cretino, non so se lei ebbe bisogno di dare un motivo. Ci fermammo in un motel ridicolmente vicino a casa, con l’eccitazione dei miei vent’anni scarsi e per lei la maggiore età ancora lontana, ci spogliammo, ci toccammo, poi fermi, per andare più in là avremmo avuto giorni, mesi, forse anni. Andando in bagno con le chiavi dell’auto lasciai un segno, per ricordarmi di quel luogo magico dove tutto stava acquistando un senso, la vita l’universo e tutto il resto.
Scrissi “sono stato qui”, niente di che, e la fuga finì il giorno dopo quando capii che non l’avevo mica io, il coraggio, per rubare la macchina dei miei e andare verso dove, non ci avevamo nemmeno pensato. Lei mi diede del codardo, aveva ragione, chissà se è ancora ribelle o come me tira a campare senza una buona motivazione.
Ma qualcosa posso farlo ora, per tenermi il ricordo di un bel posto e non di una camera sporca e vuota. Al mattino scrivo “anch’io”, sul soffitto ammuffito, e lascio a chi verrà il mio bagaglio da venditore intristito. Me ne vado leggero, felice, verso cosa si vedrà.
Certi posti son più belli, se poi te ne vai.
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3 pensieri riguardo “Racconto in musica 7: Se poi te ne vai (Giovanni Succi – Sipario)”