Racconto in musica 71: Mala simenza (Cesare Basile – L’arvulu rossu)

Per quanto abbia ascoltato e continui ad ascoltare un sacco di musica sono consapevole (e probabilmente ho già espresso questo pensiero altre volte) di conoscerne meno di quanta vorrei. Tremila Battute è anche questo, un modo per fare scoperte che stupiscano me stesso oltre a cercare, umilmente, di suscitare curiosità per il mondo musicale indipendente. Col racconto di questa settimana si è così attivato uno strano corto circuito che mi ha portato a proporre a Marina Mongiovì, scrittrice di origine etnea, alcun* artist* da cui trarre ispirazione per un racconto: fra quegli ascolti c’era anche un cantautore, pure lui catanese, un nome che da anni è considerato fra i migliori a livello nazionale ma di cui ho sempre ascoltato troppo poco. Quel cantautore è Cesare Basile, e oggi ho un motivo in più per recuperare la sua discografia.

Ma presentiamo innanzitutto Marina Mongiovì, cui devo la mia gratitudine per aver accettato l’invito. Nata in provincia di Catania nel 1982 e vissuta lì fino a trent’anni, Marina ha una laurea in Scienze della Comunicazione ma ha sempre lavorato come contabile, oltre a collaborare con diverse testate giornalistiche locali. Oggi vive a Palermo e ha deciso di dividere il suo tempo fra la famiglia, la fotografia e la scrittura, passione recente ma che le sta già portando soddisfazioni. Nei suoi racconti aleggia un’atmosfera personale, densa di mistero, e se ne sono accorti già Pastrengo, Morel – Voci dall’Isola, Cariddi – Rivista vorace (edita da Rosso Malpelo Edizioni) e, ultima in ordine di tempo, Risme, che ha selezionato un suo racconto a seguito della call Sfocature indetta in collaborazione con Fiaf: vi invitiamo a tenere d’occhio l’uscita, in modo da poter leggere anche questo suo racconto.

Su Cesare Basile ci sarebbero da scrivere fiumi di parole, e qualcuno più esperto di me potrebbe sicuramente analizzarne la carriera in maniera più degna. Io mi limiterò a riassumere in ordine cronologico il suo percorso artistico, cominciato sul finire degli anni 80 con la militanza in diverse band fra Roma (Candida Lilith), la natia Sicilia (Kim Squad) e Berlino, dove con i Quartered Shadows registra nel 1993 il disco The last floor beach e arriva ad aprire i concerti di Nirvana e Primus. Tornato a Catania, nel 1994 inizia la sua carriera solista pubblicando per l’etichetta siciliana Lollypop l’album La pelle, seguito quattro anni più tardi da Stereoscope (uscito per Black Out/Mercury): in questi primi dischi il rock è ancora preponderante ma si affina la vena poetica dell’autore, che esploderà con il successivo album. Closet meraviglia esce nel 2001 per Extra Lable, prodotto da Hugo Race con collaboratori illustri come John Bonnair, Roy Paci e i Massimo Volume: la musica è apparentemente più scarna ma ricca di elementi che si associano alla perfezione con la nuova lirica di Basile, più cupa e autoriale. I successivi due album (Gran Calavera elettrica, 2003, e Hellequin Song, 2006) escono per Mescal, facendo entrare in contatto Basile (nel frattempo trasferitosi a Milano) con Manuel Agnelli, artista con cui collaborerà in vari progetti e che lo vorrà a bordo quando nel 2009, a seguito della partecipazione degli Afterhours al Festival di Sanremo, pubblicherà la compilation collettiva Il paese è reale. Nel frattempo Basile è passato sotto l’etichetta Urtovox Records, con cui dal 2008 fa uscire tutti i suoi dischi, a partire da Storia di Caino fino ad arrivare a Cummeddia del 2019. Nel 2011 torna a vivere in Sicilia, dedicandosi anche all’attività sociale: con l’Arsenale – Federazione Siciliana dell’arte e della musica, di cui è uno dei principali promotori, occupa e autogestisce il Teatro Coppola di Catania, una scelta che lo porterà anche a non ritirare la Targa Tenco per il miglior album in dialetto (l’omonimo Cesare Basile) del 2013, affiancandosi a una polemica con la SIAE sui diritti d’autore fatta partire dal Teatro Valle “Franca Valeri” di Roma. La sua carriera artistica procede anche in altri ambiti, dalla produzione di dischi (ad esempio di Dave Muldoon e Black Eyed Dog) alla realizzazione della colonna sonora per il film-documentario My world is upside down della regista slovena Petra Seliskar, dedicato al funambolo del palcoscenico Frane Milenski Jezek, passando per mille collaborazioni e per la scrittura di un libro, Nero immobile, edito da Habanero ed Erga Edizioni nel 2012 e al cui interno era presente un disco contenente la sonorizzazione live ad opera dei Calibro 35 di un reading dello stesso Basile: sempre con le parole gli ha reso tributo lo scrittore Raffaele M. Petrino, che per la casa editrice Arcana ha pubblicato il libro Amore alzati che passa la cummeddia di Cesare Basile.

Il racconto di Marina è ispirato alla canzone L’arvulu rossu, tratta dall’ultimo disco Cummeddia. Lascio alle parole dell’autrice la spiegazione della sua genesi, perché non potrei trovarne di migliori:

“Cesare Basile racconta una storia poco nota, risalente al periodo fascista, che vede il questore di Catania Alfonso Molina (citato nel pezzo: “Molina, dimmi quantu è russu u sangu do scacciatu”. In sottofondo, tra l’altro, sono letti i testi originali dell’epoca) che portò avanti una campagna di arresti, abusi e il confino per gli omosessuali siciliani. Nel racconto ho voluto narrare una storia diversa, per ambientazione storica e contenuti, anche se il tema del diverso e dello scacciato è centrale.

Il carnevale richiama ricordi d’infanzia; nel mio paese, che è in provincia di Catania, ha origine a fine Ottocento e fino agli anni Ottanta era un’istituzione. Dal racconto dei nonni e dei genitori, quei giorni erano una parentesi di libertà in una realtà di provincia abbastanza chiusa. Io purtroppo l’ho solo sfiorato perché con l’inizio della guerra di mafia, che interessò la provincia etnea, venne ucciso anche il carnevale; almeno com’era stato inteso fino a quel momento. “Mala simenza”, che ho ripreso dal pezzo di Basile, non è un termine dispregiativo riferito agli omosessuali, come “jarrusu” o “puppu”, ma più generalmente si riferisce a qualcuno nato storto, un seme che non produce frutti buoni.”

E dopo questa splendida introduzione non mi resta che augurarvi, al solito, buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Mala Simenza, di Marina Mongiovì

È piovuto sul martedì grasso e ora i coriandoli sono una fanghiglia incolore sulle basole come quando, dopo le mareggiate, la posidonia si prende metà della spiaggia al lido Jolly. Rosaria passa sul viso un abbondante ciuffo di ovatta umida che si colora di un fondotinta bruno. Stacca le lunghe ciglia, cola il nero del mascara, scivola via il blu brillante degli ombretti. Scioglie i capelli e guarda il suo volto riflesso che le lampadine della toletta illuminano di una luce anonima.

Poche ore prima, Rosaria era sotto i riflettori delle luminarie e al corso la taliavano tutti, maschi e femmine. Volteggiava dentro un abito di tulle e paillettes turchini. Sopra un tacco sottile, in equilibrio sulla pietra lavica del centro storico, si annacava tutta e mostrava le cosce dallo spacco laterale; baci generosi volavano verso i compaesani che ridevano e ammiccavano ai lati della strada. Sfilavano i gruppi in maschera e i carri allegorici, tra una musica brasiliana e una tarantella; Rosaria muoveva i fianchi, portava in processione due lunghe cosce e le labbra rosse e carnose. Maschi sussurravano parole oscene e si scambiavano sorrisi compiaciuti.

Rosaria è una cavadda di razza: alta, altissima, due occhi grandi come quelle della televisione e due minnazze rotonde e spudorate. Nessuno riusciva a non abbiare l’occhio sul corpo di Rosaria; pure le femmine la taliavano e, coi musi stretti, si voltavano a commentare.

In piazza, un fantoccio dal largo sorriso brucia avvolto da lingue di fuoco; scoppiettando pare deformarsi in un demone, poi in un santo martire. Domani, dalle sue ceneri, tutto tornerà come prima. Per strada non si ballerà più, i petali dei carri infiorati appassiranno; ci si spoglierà delle maschere per indossare le divise d’ordinanza. Per il corso si tornerà a passiare coi doppiopetti e le gonne al ginocchio, in un’interminabile quaresima di sorrisi garbati e gesti misurati. E Rosaria tornerà ad essere Saru ujarrusu. Agli sguardi voluttuosi seguiranno occhiate e lingue affilate. Perché Saru è puppu, perché Saru si talìa solo a carnevale, quando diventa Rosaria, quando sfila insieme ai pupi di cartapesta. I maschi si sfarderanno le orecchie a forza di toccarsi il lobo e le femmine, che avevano peccato di sdegno e invidia, avranno sguardi e sorrisi di commiserazione, per il mischino che è mala simenza, pianta nata storta e infeconda.

Dopo aver cancellato il trucco, Rosaria socchiude la porta e si accuccia a letto, ascolta il ticchettare della pioggia sui canali di terracotta e lo strisciare umido delle ruote sull’asfalto. È lungo il tempo fino al prossimo carnevale; chiude gli occhi, sogna uno sfarfallio di luci e un altro giro di gonna.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Sono stato a Firenze RiVista e provo a descrivervi l’esperienza

Quando devo descrivere Tremila Battute alle persone che me lo chiedono lo definisco un blog che aspira ad essere una rivista letteraria. A differenza di molte altre realtà qui non c’è una redazione e molti dei contenuti, anche narrativi, sono creati in totale autonomia onanistica: non ci fossero i contributi esterni (alcuni spontanei, altri offerti da autori che mi vado appositamente a cercare e che, parafrasando King, a volte ritornano pure) e la condivisione del mondo musicale indipendente, la differenza con un qualsiasi blog personale sarebbe risicatissima. Ma cos’è effettivamente una rivista, quali sono gli scopi e il senso di realizzarne una? Con queste domande in testa ho passato tre giorni a Firenze RiVista, manifestazione organizzata dalla rivista e associazione culturale L’Eco del Nulla in collaborazione con la casa editrice effequ, giunta quest’anno alla sua sesta edizione (dopo obbligatoria pausa pandemica).

Ho trovato una risposta? No, ma ho trovato mille realtà che si intersecano, scrittor*, editor* e riviste che dialogano e fanno rete, un qualcosa che probabilmente era già in corso ma di cui mi sono accorto grazie ai post entusiastici sui social network di chi ha partecipato al Flip – Festival della Letteratura Indipendente Pomigliano d’Arco. Non sono bravo a riassumere in un discorso sensato le emozioni vissute a Firenze, per cui proverò a dividere questo articolo in tre sezioni con cui spiegare ad aspiranti autor* e semplici appassionat* perché l’anno prossimo non dovrebbero mancare.

Gli stand

Foto rubata all’account Facebook di Firenze RiVista, perché sono stupido e non ho pensato di farne

Firenze RiVista è, come dice il nome stesso, il festival delle riviste, ma non solo. All’interno del magnifico complesso Le Murate di Firenze (un complesso che, ho scoperto in seguito, una volta ospitava delle carceri), in una piazzetta appositamente adibita allo scopo erano presenti più di venti stand ospitanti (spesso in condivisione) riviste cartacee, online e case editrici indipendenti. L’offerta è quanto di più variegato possibile fra case editrici che pubblicano anche riviste (piédimosca, che in collaborazione con lo studio editoriale Sette Piani pubblica due numeri all’anno di Settepagine, e Pidgin, che a Firenze ha presentato il primo numero cartaceo della sua rivista Split), case editrici specializzate in letteratura fantascientifica, fantasy e weird (Moscabianca Edizioni e Zona42) o in letteratura nordamericana (Edizioni Black Coffee, per cui ho un amore spassionato), realtà editoriali storiche (Minimum Fax, per cui non servono presentazioni), neonate (WoM, che si propone di rianimare la letteratura straniera e italiana inedita o dimenticata, contraddistinta dal comico e dallo humor nero ma non solo, contando che hanno a catalogo questo splendido volume su Hokusai che mi sono prontamente portato a casa) e poi riviste, cartacee e non, come se piovesse: tematiche (In allarmata radura, specializzata in saggistica narrativa, Birdmen Magazine e In Fuga dalla bocciofila, trasversalmente unite dall’amore per il cinema, Ossì, fanzine erotica nata nel 2018), dedicate a una specifica branca di racconti (L’Ircocervo, incentrata sui racconti lunghi dalle 20000 alle 40000 battute, birò, che pubblica solo racconti in prima persona) e realtà storiche come Altri Animali e La Nuova Verdə, una delle più attive nel dibattito sullo scopo del fare rivista e nel rifiutare il ruolo di “palestra” per autori in cerca di pubblicazione. Ho dimenticato qualche nome? A decine: andate qui e magari ci trovate pure la vostra rivista/casa editrice indipendente preferita.

Conferenze

Belli gli stand, ma uno fa quattro chiacchiere, fa acquisti (io sono tornato a casa con sette libri, di cui molto probabilmente vi parlerò man mano che troverò il tempo di leggerli, e cinque riviste) e poi finisce tutto lì, no? Se Firenze RiVista si limitasse a questo assentirei, ma la tre giorni fiorentina si è arricchita di un fitto programma di appuntamenti gestiti dalle realtà presenti al festival, al ritmo di anche quattro all’ora contemporaneamente dalle dieci di mattina alle sette di sera.

A presentazioni di libri e degli ultimi numeri delle riviste si sono affiancati eventi di più ampio respiro incentrati sul tema scelto per questa sesta edizione, il passaggio. Quello da una lingua all’altra ad esempio, approfondito nell’incontro fra Stefano Pirone di Pidgin (traduttore oltre che editore) e lo staff della rivista Menelique, incentrato sulla necessità di mantenere uno sguardo decoloniale nella traduzione e sulla rivalutazione dei dialetti come mezzi espressivi con una propria dignità; la creazione di un linguaggio ampio per abbattere le differenze, nell’interessante conversazione a distanza fra l’attivista e comunicatore digitale Iacopo Meli e la sociolinguista Vera Gheno (autrice di una decina di libri incentrati sul potere delle parole di definire la realtà in cui viviamo); l’importanza dell’editing all’interno delle riviste, in una conversazione aperta col pubblico fra Pirone (qui in veste di deus ex machina di Split), Modestina Cedola di ItaliansBookItBetter e Francesca Gentile di birò. Non solo letteratura, ma uno sguardo aperto sul mondo e le sue problematiche, come quella del lavoro: raggelante la situazione illustrata dalla ricercatrice Marta Fana nell’incontro su lavoro e sfruttamento attraverso la pandemia, con la relatrice arrivata direttamente dalla manifestazione organizzata in favore dei 422 lavoratori licenziati via sms dallo stabilimento di Campi Bisenzio della Gkn e a cui hanno partecipato fra le 20000 e le 40000 persone (meno male che almeno è arrivata, in questi giorni, la notizia che il tribunale di Firenze ha bloccato i licenziamenti giudicandoli antisindacali).

Questi sono solo alcuni degli incontri a cui ho partecipato, organizzati fra il cortile del Caffè Letterario Le Murate e le tre sale predisposte all’interno del complesso, molti altri me ne sono perso per concomitanza o riempimento della sala (tipo l’interessante conversazione sulla fantascienza italiana fra Moscabianca Edizioni e Zona 42). E se ancora non vi ho convinto a partecipare l’anno prossimo non mi rimane che tirare fuori il fattore umano.

Incontri

La bellezza di Firenze RiVista, per me che pure non è che sia così estroverso, è stata anche dare un volto reale (le immagini profilo su Facebook non contano) e interagire con un sacco di autor*, editor* e redattor* di riviste. Seguire quasi per caso Ferruccio Mazzanti di In fuga dalla bocciofila (autore fra l’altro per la casa editrice Wojtek di Timidi messaggi per ragazze cifrate, di cui vi avevo parlato qui, nonché una delle persone più belle che si possano incontrare) e ritrovarsi a cena con scrittor* come Graziano Gala e Francesca Mattei, le creatrici di In allarmata radura Livia Del Gaudio e Aurora Dell’Oro e l’editore Stefano Pirone (più altri, alla fine eravamo in tredici a tavola come nella migliori delle tradizioni…ed era pure venerdì 17) è una di quelle esperienze in cui normalmente mi sentirei fuori posto, ma il clima conviviale che si è creato è stato magnifico ed è proseguito fuori dal ristorante, dove in mezzo a una piazzetta mi sono ritrovato a bere e parlare di musica storta con lo scrittore Lorenzo Vargas. Per tre giorni ci si è salutati e si sono fatte quattro chiacchiere in libertà, uniti da una passione comune e dalla voglia di divertirsi insieme, e a questi incontri vanno sommate le veloci conversazioni intrattenute con chi teneva le varie conferenze (se aveste sentito parlare Carlo Sperduti prima e dopo la presentazione del suo Deriva andreste di corsa a comprarlo oggi stesso). Non so se questo è il clima abituale che si respira alla manifestazione fiorentina o se il mondo delle riviste è in fermento, quello che so è che ci tornerò di sicuro anche l’anno prossimo e voi dovreste fare lo stesso (se invece ci siete stat* e l’avete amata quanto me sappiate che qui potete contribuire con un’offerta, aiutiamo le cose belle che nascono dal basso!).

P.s. Ve l’ho detto che l’ingresso al festival è gratuito?

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 70: Di merda e morte (I Cani – San Lorenzo)

La nicchia artistica è stretta e spesso scomoda, ma quando ti ci abitui fai fatica a tornare nel grosso mondo delle cosechevannodimoda. E se non stai attento, più vai avanti e più le cosechevannodimoda diventano quelle di cui tutti parlano nella tua nicchia, e per reazione tu ti infili nella nicchia della nicchia. Per dire, io ho schifato per anni Titanic (tuttora l’unica scena che ho visto l’ho incrociata per sbaglio, c’erano delle onde) e ora finisco per perdermi un sacco di cose che dovrei ascoltare perché vengono ritenute necessarie da una massa che in realtà massa non è, ma solo una nicchia di estimatori che vedo come la massa perché la vera massa, quella che ascolta la musica che passa su Radio Deejay, la schifo a priori (e le poche esperienze radiofoniche estive mi convincono ancora di più che la mia scelta è giusta). Poi ogni tanto capita che una singola cosachevadimoda entri in contatto con le mie orecchie/ la mia vista/ i miei sensi in generale e capisca che ho fatto male a schifarla. I Cani sono una di quelle cose.

Quando ne ho sentito parlare la prima volta mi sembrava che fossero già famosi ancora prima di far uscire davvero qualcosa, un prodotto costruito per suscitare hype più che una band vera e propria. Il primo album, quando è arrivato, aveva un titolo fra l’ironico e l’altezzoso, Il sorprendente album d’esordio de I Cani, e io nella mia nicchia della nicchia nicchiavo e vedevo solo l’altezzosità. Aggiungiamoci poi che quel disco nella mia testa divenne il peccato originale da cui è scaturito tutto l’indie poptronico della scena romana, colpevole di aver contribuito a scagliarci nuovamente negli anni 80 a botte di tastiere e synth di merda e brani in cui Tommaso Paradiso coverizza le canzoni che Umberto Tozzi non ha ancora scritto. Poi qualcosa pian piano è cambiato: mi è capitato di vedere il video di Velleità e la canzone mi è piaciuta (e io, nato nel 79, avevo effettivamente due gruppi con cui facevo musica datata), ho scoperto che avevano fatto uno split con i Gazebo Penguins, la ex band del mio ex batterista e della ex fidanzata del mio ex ex batterista (questo articolo nasce solo per poter scrivere questa frase) aveva coverizzato la loro Lexotan, li ho visti dal vivo a un Balla coi Cinghiali e, infine, un’amica mi ha passato i loro primi due dischi. Lì è scattato l’amore, mi sono pentito della mia spocchia e ho cominciato ad ascoltarli in heavy rotation, scoprendo anche che dietro I Cani alla fin fine ci sta il solo Niccolò Contessa.

La carriera musicale di Niccolò è un percorso lungo tre album dall’estrospezione all’introspezione. Il sorprendente album d’esordio de I Cani (pubblicato dalla 42 Records)  potrà anche cavalcare l’onda hipster parodiandola, ma la lucidità dei testi di Niccolò, unita a un malessere esistenziale che serpeggia qua e là (vedi i divani dell’analista in Velleità o il co-protagonista di Post punk), rendono i brani del disco qualcosa di più dell’ironica occhiata al mondo che lo circonda: la realtà in cui è immerso Niccolò è quella, e lui ci fa i conti senza nascondere niente e mostrando una certa dose di tenerezza nel raccontarla. Nel 2012 cani e pinguini fanno comunella ed esce in collaborazione fra 42 Records e To Lose La Track l’Ep I cani non sono i pinguini i pinguini non sono i cani (un titolo così didascalico che avrei potuto scriverlo io): due brani a testa per I Cani e per i Gazebo Penguins, più una cover vicendevole, ma soprattutto un’intesa che sfocia anche nel secondo e atteso album del progetto di un Contessa che nel frattempo mantiene perlopiù l’anonimato, dimostrando una notevole chiarezza di idee sull’esposizione mediatica. Glamour, uscito nel 2013, avrebbe potuto essere un salto verso l’universo mainstream (ironico che alla produzione di un album che si chiama proprio Mainstream, il secondo di Calcutta, Contessa abbia partecipato) con le collaborazioni giuste, invece l’artista romano omaggia e fa salire in carrozza i Fine Before You Came (FBYC (s f o r t u n a)), duetta in Corso Trieste con gli ormai amiconi Gazebo Penguins e scrive un disco che indaga il successo e l’ansia di successo da un punto di vista personale e sincero. Non c’è un brano che non funziona nonostante sia l’esatto contrario di un album scritto a tavolino, è vario, cattivo, tenero e fa volere un sacco di bene all’uomo che lo ha scritto e che scrive frasi come “ho paura di tutto/ soprattutto dei cani/ e di restare solo/ e degli esseri umani”, tanto che viene voglia di abbracciarlo.

Il 2015 vede l’uscita, sempre per 42 Records, di Aurora, un disco influenzato dalle riflessioni sull’esistenza e sul cosmo in cui Contessa sembra scavare ancora di più anche in sé stesso. Ammetto che se avessi ascoltato questo album per primo sarei stato meno propenso a dare una chance a I Cani, perché accanto a brani morbidi ma interessanti come l’iniziale Questo nostro grande amore si palesa una Non finirà che, con tutto il bene che posso volergli, sembra una canzone di Neffa (e per tale l’ho scambiata sentendola in radio). A tutt’oggi questo è l’ultimo disco de I Cani, un silenzio discografico interrotto solo da un singolo nel 2018 (Nascosta in piena vista) e uno a luglio 2021 (Un altro Dio, tanto minimal musicalmente quanto stracolma di significato nel testo): se questo preluda ad un’altra uscita per l’artista romano è ancora presto per dirlo, nell’attesa andate a leggere il suo stupendo racconto (in cui traspare l’amore, mai celato nei testi, per sua maestà David Foster Wallace) Educazione sentimentale, uscito sulla rivista ‘Tina di Matteo B. Bianchi.

San Lorenzo è la nona traccia di Glamour, una canzone in cui il classico rituale dello sguardo puntato al cielo per intercettare stelle cadenti viene smontato scientificamente per mostrarci quanto “andare a chiedere favori alle stelle cadenti non è tanto di cattivo gusto quanto arrogante”. Ho inserito questa visione nel contesto di un atto di ribellione adolescenziale, età in cui certi argomenti possono anche sembrare una posa affascinante e l’amore può assumere forme strane e contorte (e forse lo può fare a ogni età, se non smettiamo di crederci). Trovate il racconto subito dopo il link al brano, come al solito, e come al solito non mi rimane che augurarvi buona lettura e buon ascolto.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Di merda e morte

Appoggiano le cesoie al loro fianco e si sdraiano sull’erba bagnata del rettangolo verde, ricavandone il minimo di refrigerio necessario in un dieci di agosto che sconfessa quanto dice il padre di lui, esperto di tutto, quando afferma che luglio è il mese più caldo da qualche anno a questa parte. Temperatura alta o meno l’estate in un paese di provincia è insopportabile sempre e comunque, soprattutto nei giorni in cui non c’è di meglio da fare che adeguarsi ai rituali sociali in voga fra le masse, tipo guardare le stelle cadenti sperando che qualcosa succeda, di bello o di brutto non importa poi molto.

Lei accende una canna mentre il culo già si fa fradicio, rovinandole il look ben costruito in vista di una serata speciale. Non si aspettava niente di illegale, ma con lui non si può mai sapere e così eccola lì, dentro al campo d’allenamento della scuola, dopo aver scavalcato il cancello e fatto un buco nella rete di recinzione grosso abbastanza da far bestemmiare il custode, si spera l’indomani e non stasera stessa.

Lui osserva il cielo, le mani dietro la testa e gli occhi come smorti. Si aspettava un minimo di entusiasmo da quell’avventura ma il suo volto è una maschera priva di emozioni, quasi non muove un muscolo nemmeno per respirare.

Gli lascia il primo tiro, sdraiandosi per rovinare per bene anche la camicetta. «A che pensi?»

Lui aspira e soffia via il fumo, tenendo la canna alta col braccio e tracciando piccoli cerchi come ad allontanare le onnipresenti zanzare.

«A una cosa che mi ha detto mio fratello. Che quando una stella muore la sua esplosione toglie di mezzo tutto quello che sta nel raggio del botto, persino a migliaia di anni luce di distanza. E noi possiamo accorgercene solo all’ultimo momento, senza che nessuno possa prevederlo».

«E dove l’ha sentita questa cosa?»

«A una conferenza». Fa ancora un tiro, soffia fuori con una smorfia e poi la passa a lei, senza guardare. «Dice anche che quelle che crediamo stelle cadenti molto spesso sono i sacchi di merda degli astronauti, sparati fuori sotto vuoto dalle stazioni orbitanti».

Lei fissa per un po’ il cielo, la brace della canna che sfiora l’erba. «Te non c’hai un cazzo di voglia di vedere le stelle cadenti, vero?»

«Sai, sembra tutto così una stronzata. Questa storia dei desideri. Le stelle diventano anche buchi neri quando muoiono, si mangiano tutto quello che c’è attorno. E noi qui ad esultare e a chiedere cazzate all’universo».

Restano un po’ in silenzio, lei fumando e lui con quegli occhi inespressivi volti al cielo, che si sta pure facendo nuvoloso.

«Però non mi fraintendere». Toglie le mani da dietro la testa, stendendole sui fianchi e sfiorando la sua. «Sono felice di essere qui. Davvero».

Lei fa ancora un tiro, poi si solleva per passargliela. «Be’, è pur sempre la cosa più romantica che mi abbiano mai detto».

Si sdraia di nuovo e rimangono lì, mano nella mano, a guardare cadere punti luminosi di merda e morte che qui risplendono solo per loro.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Immaginare un mondo nuovo, ieri: Atto di violenza di Manuel De Pedrolo

Nell’immaginare una società diversa dalla nostra la letteratura non è mai stata molto clemente. Esisteranno sicuramente narrazioni di utopie realizzate, ma hanno attecchito molto meno delle storie ambientate in mondi che ne sono l’antitesi: la fantascienza si è cibata di pessimismo, dalle megalopoli fredde e totalitarie del cyberpunk ai mondi alieni tristemente colonizzati di Philip K. Dick; la distopia non lascia spazio alla speranza, che si tratti di sfruttamento delle donne (Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood), regimi totalitari onnipresenti nella vita dei cittadini (1984 di George Orwell) o, quando va bene, un mondo futuro felice in cui la felicità è posticcia (Il mondo nuovo di Aldous Huxley); se scaviamo nel presente e immaginiamo eventi catastrofici che dovrebbero unirci (NE USCIREMO MIGLIORI) non facciamo comunque una gran figura, non durante La peste di Albert Camus, nemmeno a seguito dell’epidemia di Cecità raccontata da José Saramago, figuriamoci sull’isola deserta dove i giovani naufraghi di William Golding incontrano Il signore delle mosche.

È così difficile immaginare una società migliore, almeno quanto per Mark Fisher immaginare la fine del capitalismo? Non possiamo proprio uscire dalla formula dell’Homo Homini Lupus che Plutarco ha enunciato e Thomas Hobbes ha teorizzato? Probabilmente ci sono tanti motivi per cui la letteratura non se n’è occupata: si può rischiare di apparire ingenui, sentimentali, e forse tutti i mondi dove regna la pace si somigliano quanto le famiglie felici secondo Leone Tolstoj. E se fosse invece che in pochi hanno la fantasia necessaria ad accettare la sfida?

Manuel De Pedrolo ci ha provato, e lo ha fatto all’inizio degli anni 60. La sua società era quella stretta nella morsa della dittatura di Francisco Franco, un mondo in cui bisognava mantenere alta la speranza nel futuro per non soccombere ai mali del presente. Lo ha fatto con Atto di violenza, primo libro tradotto in italiano di un autore poco conosciuto in Spagna ma venerato in Catalogna, pubblicato nel 2020 dall’editore Paginaotto: lo ha fatto nonostante la censura che lo ha costretto a revisionare i propri libri per anni, allentando un po’ la morsa solo dopo gli anni 70 (come spiega bene nella postfazione lo scrittore e traduttore Alberto Prunetti).

“«…per anni e anni non abbiamo fatto altro che pensare, dire e ripetere che la nostra gioventù era incapace, che era una gioventù stanca, annoiata, senza stimoli e senza iniziativa…»

Finisce di strofinarsi energicamente le mani e chiude il rubinetto. «E adesso, oltre venti feriti e tre morti, presto quattro, dimostrano che eravamo pessimisti senza motivo. La gioventù continua a essere quello che è sempre stata: anticonformista, inquieta, disinteressata».”

La storia è di quelle perfette per i tempi che corrono. Un giorno l’intera popolazione di una città senza nome, oppressa dalla dittatura del giudice Domina, decide di chiudersi in casa e fermare tutto seguendo un semplice motto: “È molto semplice: restate tutti a casa”. Il pensiero corre veloce verso le nostre esperienze di lockdown, ma non è questa caratteristica a renderlo un libro immerso nella contemporaneità: c’è altro che risuona nelle pagine dell’autore catalano, un qualcosa che lo rende, più che attuale, una lettura necessaria per la nostra epoca.

La vicenda si svolge nell’arco di tre giorni, ed è raccontata attraverso molteplici punti di vista. Ogni capitolo è un frammento a sé stante i cui personaggi sono a volte legati fra di loro, vincoli personali che vengono esplicitati solo avanzando con la storia: seguiamo così un bambino che si trova di fronte il portone della scuola chiuso, un negoziante avido che si fa beffe della protesta, una pattuglia in servizio per sedare la protesta silenziosa e molte altre persone che vivono dal loro personale punto di vista la vicenda. Ciò che manca quasi totalmente è la sensazione di pericolo, il timore di una sconfitta: l’esito peggiore, cioè che la protesta venga sedata, è una conseguenza messa in conto con naturalezza e fatalità, non un ostacolo che blocca le iniziative.

Si può definire ingenuo chi costruisce un impianto narrativo sulla base di una sconfinata fiducia negli altri individui, sul supporto reciproco a una causa comune: De Pedrolo però non è uno sprovveduto, e la sua ricostruzione di una rivoluzione (quasi) senza violenza, a dispetto del titolo, risulta coinvolgente e mai stucchevole. È l’immagine di una società davvero avanzata, in cui il fine personale è perseguito solo da pochi individui conniventi al sistema che, in ogni caso, sembrano molto più spaventati dei cittadini chiusi fra le quattro mura delle proprie abitazioni. È, insomma, quel mondo in trasformazione che vorremmo abitare e che abbiamo sempre pensato non potesse esserci raccontato.

“Il rappresentante riflette: «Forse ci sono arrivato… Ma come parlate difficile! Volete dire, se non ho capito male, che ogni gruppo deve agire come se dal suo comportamento dipendesse questa vittoria o la sconfitta. Cioè in maniera esemplare».

L’idea di base è simile a quella di Saggio sulla lucidità, altro libro di Saramago in cui la maggior parte della popolazione della città senza nome (la stessa in cui era ambientato Cecità) vota scheda bianca, come di comune accordo. Ciò che differenzia i due libri è il focus, che nel libro dell’autore portoghese è incentrato sui tentativi del governo centrale di soffocare la rivolta dei “biancosi”, anche con mezzi immorali ma tristemente accaduti nella storia, mentre in Atto di violenza si concentra principalmente su chi resiste. Quella di De Pedrolo è una narrazione positiva, mostra cosa possono arrivare a fare gli uomini insieme e riesce a farlo creando dei personaggi a tutto tondo e non delle semplici macchiette: amano, odiano, dubitano, ma non perdono mai di vista qual è la cosa giusta da fare. Il finale porta con sé un po’ di amarezza, lasciando aperta una questione su cui ogni lettore è portato a interrogarsi: è possibile (e auspicabile) per una rivoluzione essere totalmente senza macchia?

Nel loro rinchiudersi in casa volontario i protagonisti di Atto di violenza crescono umanamente e collettivamente: possiamo dire lo stesso della nostra esperienza con il lockdown? Forse è ancora presto per tirare le somme, ma l’unica maniera che abbiamo per uscirne davvero migliori è imparare ad ascoltare, ragionare tutti insieme, per non far sì che restino profetiche per il nostro mondo le parole che uno dei personaggi, Tomàs, scaglia in faccia al burocrate Muri:

«E questa è la cosa più intollerabile: qualsiasi punto di vista che si allontana, anche minimamente, dall’ideologia ufficiale, viene definito sovversivo. In un clima del genere non è possibile costruire alcunché perché, senza il diritto di critica, le istituzioni si corrompono, gli uomini al potere vengono mitizzati e ogni decisione, persino la più sensata, finisce per diventare arbitraria».

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 69: Il premio in palio (Alessandro Grazian – Lasciarti scegliere)

Che belli i paradossi, come ti incasinano la mente in maniera gioiosa! Mentre sto scrivendo questo articolo devo ancora andare a vedere un concerto dell’artista da cui ho preso ispirazione per il racconto della settimana, eppure (MAGIA!) mentre voi leggerete io l’avrò già visto. Certo, significa solamente che mentre scrivo è sabato mattina, il concerto sarà (oppure È STATO! MAGIA!) il sabato sera e voi leggerete questo delirio la domenica (o anche qualche giorno più avanti), però mi sembrava divertente farlo notare. Probabilmente non lo è. Ma fa niente.

Un paradosso temporale (altrettanto falso) è anche quello che mi ha fatto pensare di aver ospitato l’artista in questione (perché mi sforzi di tenerlo nascosto quando è scritto in grassetto nel titolo è un altro mistero) per un secret concert prima della data in cui ricordavo di averlo visto per la prima volta live. Come poteva la prima volta essere dopo la seconda? Ero tornato indietro nel tempo? No, semplicemente ho una memoria di merda, e quel primo concerto al Carroponte di Milano risaliva al 2015 e non al 2017 come avevo inizialmente pensato: il buon vecchio Giorgio Canali coi suoi Rossofuoco sul palco, a fare da apripista e calamitarmi le orecchie Alessandro Grazian, di cui ora parlerò ampiamente per recuperare rispetto a questo orribile cappello introduttivo.

Grazian è uno per cui la definizione cantautore è limitante. È pittore (qui un articolo su una sua mostra del 2011) e illustratore (ad esempio in questo libro) oltre che musicista, e nella musica è quanto di più poliedrico ci sia: colonne sonore per il regista Pasquale Marino, musiche di scena a teatro, collaborazioni come se piovesse (Edda, Nada, Cesare Malfatti, Federico Fiumani e i mitici Esecutori di metallo su carta, ensemble di musica classica capace di omaggiare la miglior musica sperimentale e rumorosa italiana come di risonorizzare la saga di Ghost & Goblins) e progetti paralleli come Torso virile colossale, in cui Grazian compone brani attualizzando l’epica dei film peplum degli anni 50/60 con uno stuolo di collaboratori di prim’ordine al seguito. Tutto questo al fianco di una carriera solista che inizia nel 2005 con l’album Caduto, uscito per La famosa etichetta Trovarobato e Macaco Records, in cui, chitarra in mano e accompagnato alla produzione da Enrico Gabrielli, mostra tutta la sua abilità nel creare atmosfere intime ma dotate di notevole liricità, grazie anche al supporto di archi e fiati. Nel 2008 l’Ep Soffio di nero anticipa di poco il secondo album, Indossai, in cui gli arrangiamenti si fanno ancora più ariosi, una linea sonora mantenuta l’anno successivo nei cinque brani dell’Ep L’abito. Nel 2012 un cambio drastico, di etichetta col passaggio alla Ghost Records e di atmosfere con una virata verso sonorità maggiormente rock: Armi è un disco più ruvido, in cui a brani armoniosi come Estate si affiancano frecce distorte come la title track e l’ironica e disillusa Non devi essere poetico mai. Il 2015 vede l’uscita di L’età più forte, disco finanziato tramite una campagna di crowdfunding e uscito per Lavorarestanca: Grazian consolida l’impianto stilistico del precedente, concedendosi di passare con estrema libertà per tutte le variabili stilistiche che stanno fra i momenti riflessivi e aulici di Corso San Gottardo e stilettate velenose come Se fossi una band mi scioglierei, brano che me lo aveva fatto amare in quel lontano concerto del 2015. Il lungo silenzio (almeno da solista) succeduto a quell’uscita è stato interrotto a fine novembre 2020 dall’uscita di Incrociatore aurora, in cui i synth creano attorno alle parole di Grazian un effetto etereo e sognante: non è prevista l’uscita di un album a seguito del singolo, ma chissà che dopo la lavorazione del secondo album di Torso virile colossale non arrivi una sorpresa…

(Edit della domenica mattina: al concerto ha fatto brani nuovi, e sono una bomba)

Lasciarti scegliere è la terza traccia di L’età più forte, un brano che in poche righe di testo riesce a delineare con energia la storia di una figura incapace di reagire alla sua vita priva di emozioni. Ho giocato un po’ d’immaginazione nel racconto che ne ho tratto, lasciandomi suggestionare dalle ombre chine su un tavolo da gioco e da chi le osserva: la posta in palio. Potete leggerlo subito dopo il brano in questione, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Il premio in palio

Fiches allineate sul tavolo in piccole torri di colore diverso, carte trattenute da mani rigide che operano con lentezza, composte. Tutti gli occhi sono fissi sul tavolo, il respiro delle persone presenti è calmo come quello di maestri zen, anime sbiancate dal voto al dio segreto del gioco d’azzardo. Si compie il rituale della scommessa fine a sé stessa, dall’esito irrilevante, un gioco di sconfitte sopportabili e vittorie prive di pathos almeno per chi siede attorno al tavolo, ha chi ha troppo da perdere per poterlo perdere tutto in una volta.

E noi, dietro queste vetrine, a osservare a labbra serrate il confronto.

Noi, immobili in attesa del destino che qualcun altro sceglierà al nostro posto.

Planano sul tavolo re, regine e fanti, numeri fioriti e cuori palpitanti di fugace adrenalina. Facce come marmorei fasci di muscoli trattenuti, tensione che dilaga in un fermento di impassibili gesti. Movimenti da studiare, da analizzare a fondo per trovarvi un dubbio, una gioia, la solita stancante noia.

E noi, abituati ad osservare, che cogliamo piccoli guizzi di vitalità in un labbro o un sopracciglio.

Noi, davvero impassibili di fronte all’esito di questa sfida vuota d’entusiasmo.

Eccole calare, lente, le carte vincenti. Crollano le torri, si sfalda l’ordine. Le labbra s’increspano in sorrisi di circostanza. Chi vince non si distingue da chi perde, non ancora. L’ammasso multicolore di fronte a una sedia, solo moneta di scambio.

L’obolo per ottenere la posta in palio. Il premio siamo noi.

Occhi negli occhi, i nostri e i loro, ennesimo scontro fra la stanca abitudine al possesso e la vuota libertà di arrendersi. Saettano le lingue per un premio che stancherà presto, ci saggiano gli sguardi con lussuria dettata da stimoli meccanici. Manichini noi dietro la vetrina in cui siamo esposti, manichini loro che pensano di dettar legge.

Le dita indicano tremanti, la scelta è fatta. Una figura in meno al di qua del confine, una in più persa nel mondo. La vediamo andare via, non la piangiamo. L’emozione dell’addio l’abbiamo sacrificata sull’altare dell’immobilità.

Noi, che rimaniamo, attendendo una nuova sfida di cui essere il trofeo.

Noi, con un mondo fuori che ci aspetta, troppo frenetico da affrontare con le nostre energie.

Noi, schiavi delle nostre catene, che preferiamo esser vincita piuttosto che giocatori.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Podcast interessanti, ovvero cosa ho ascoltato girando qua e là per l’Italia

L’anno scorso ho sublimato il ritorno alla vita lavorativa di tutti i giorni (che, al momento in cui scrivo, la cassa integrazione sta procrastinando) con una coppia di articoli nei quali, ripercorrendo le tappe delle mie vacanze, approfondivo i legami con musica, arte, letteratura e cinema che vi avevo trovato. Quest’anno le mie vacanze sono state meno foriere di spunti, anche se mi sono trovato di fronte al libro Fontamara di Ignazio Silone scritto integralmente a mano sulla parete di una casa (ad Aielli, dove da qualche anno si svolge il Festival Borgo Universo con street artist italiani e non a creare opere d’arte in giro per il paese) e sono passato per il paese dove Brancaleone e i suoi incappano nella peste in L’armata Brancaleone di Mario Monicelli (si tratta di Vitorchiano, dove è presente anche l’unico Maui esistente al di fuori dell’Isola di Pasqua). Ho deciso per questo di parlarvi dei podcast ascoltati mentre attraversavo una fetta d’Italia con la mia compagna, rilassandoci le orecchie da tutto il peggio che le radio sembrano tenere in serbo per la stagione estiva.

Pilota, un podcast sulle serie tv

La mia passione per questo contenitore di chiacchiere in libertà sulle serie tv non è recente, tanto che qualche episodio ce lo siamo ascoltati addirittura nella vacanza precedente, ma non potevo escludere il podcast di Alice Alessandri, Alice Cucchetti (una delle colonne anche de I 400 Calci, sito con cui vi ammorbo appena posso nominarlo) e Andrea Di Lecce solo per questo. Descritto dai suoi autori come “la conversazione sulle serie tv che non volevate ma di cui avete bisogno”, Pilota esplora ogni anfratto della serialità televisiva, fra episodi incentrati sulle serie del momento, monografie di singoli showrunner come Aaron Sorkin o Ryan Murphy ed episodi tematici. La vera marcia in più del format sta nella squadra, perché bastano pochi ascolti per considerare Alice, Alice e Andrea come i vostri amici invasati con cui parlare liberamente e per ore di ciò che vi appassiona, tanto che alcuni episodi superano abbondantemente le due ore di durata (e i “pilotini”, brevi puntate extra in cui si concentrano sulle serie del momento con titoli come Ma quindi, Loki puzza?, a volte sforano dal concetto di breve), il tutto con tanta allegria e improvvisazione.

Pilota lo trovate su Querty, piattaforma che ospita svariati e interessanti podcast (per gli appassionati di Neon Genesis Evangelion è imprescindibile Dummy System, sempre con Andrea Di Lecce), e precisamente a questo indirizzo.

Limoni, il G8 di Genova vent’anni dopo

Per quanto ne abbia sentito parlare mille volte negli anni, per quanto abbia visto il film Diaz e sia sensibile al tema dell’abuso di potere da parte della polizia non ero comunque preparato all’ascolto di Limoni. Il podcast di Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale, è un resoconto lucido e crudo di ciò che è successo per le strade del capoluogo ligure durante la protesta dei No global al G8, la verità al di là delle notizie frammentarie sentite al telegiornale e dei facili commenti alla “Carlo Giuliani se l’è andata a cercare” (e pure io l’ho pensato, non voglio fare il santarellino). Inframmezzando la propria esperienza con interviste ad attivisti e semplici partecipanti Camilli analizza lo stato delle proteste No global prima di quei giorni di luglio 2001, ripercorre i giorni antecedenti il G8, ci porta all’interno della manifestazione fra cariche non autorizzate e vere e proprie cacce all’uomo fra le vie del centro per poi mostrarci, infine, cosa è rimasto di quel movimento che voleva cambiare il mondo e che fine hanno fatto protagonisti e antagonisti. Non viene omesso niente, dal ruolo del famigerato Black Bloc nelle proteste alle conversazioni telefoniche dei poliziotti con i cittadini o fra di loro, un viaggio inquietante ma necessario per capire un evento storico che ha segnato indelebilmente l’immagine delle istituzioni in Italia e, purtroppo, anche il modo in cui ci si ribella ai poteri dominanti.

Limoni (la cui sigla è stata realizzata da Adele Nigro, di cui vi avevo parlato qui) è prodotto da Internazionale e lo potete trovare sul loro sito a questo indirizzo.

Qui si fa l’Italia

Non so com’è stata per voi l’esperienza scolastica nella materia Storia, ma la mia è stata a dir poco deficitaria: in quinta superiore ho fatto un compito in classe in tutto l’anno (e non perché scappavo quando ce n’erano), nel secondo quadrimestre avrei dovuto farmi interrogare per avere qualcosa in più del sei politico (facevo un istituto tecnico, immaginate al me appena maggiorenne quanto poteva fregare di studiare da solo il programma di un anno) e in generale non sono mai andato più in là della seconda guerra mondiale. A colmare le lacune a cui non ho provveduto in prima persona sono arrivati Lorenzo Pregliasco e Lorenzo Baravalle, che in Qui si fa l’Italia parlano di quegli eventi che, usando le loro parole, “hanno segnato un prima e un dopo nella storia e nella politica italiana”. Partendo dalla formazione della Repubblica e passando per le battaglie sui diritti, gli anni di piombo, l’approfondimento di figure come Sandro Pertini ed Enrico Berlinguer, i due autori giungono fino alle stragi di mafia e all’elezione di Silvio Berlusconi, approfondendo in maniera semplice ed esaustiva una stagione della vita italiana per chi, come loro, non l’ha vissuta in prima persona.

Qui si fa l’Italia è un prodotto originale di Spotify, per cui probabilmente la piattaforma svedese vi ha già fatto venire la nausea a furia di pubblicizzarla: se le vostre conoscenze della storia recente sono pari alle mie dategli comunque una chance a questo indirizzo.

Popcorn, storie americane che hanno gusto e fanno rumore

Torniamo a qualcosa di più leggero( ma non per questo meno curato) con il podcast di Marta Ciccolari Micaldi (conosciuta anche come La McMusa) e Valeria Sesia, in cui le autrici approfondiscono la storia di personaggi, eventi e istituzioni statunitensi che, alla loro maniera, sono entrate nell’immaginario collettivo. A parte l’interesse personale, anche un po’ voyeuristico, di scoprire qualcosa di più della vita di Matthew McConaughey, Oprah Winfrey o Britney Spears, è molto interessante scoprire anche la storia di eventi ormai famosi in tutto il mondo come il Superbowl o di aziende come Walmart, analizzate a fondo in una narrazione godibile anche per chi non è appassionato di cultura USA. A fare da ulteriore fiore all’occhiello è la commistione, in quasi tutte le puntate, con la letteratura americana (non per niente la McMusa è autrice anche del podcast Black Coffee Sounds Good, approfondimento sulle uscite della casa editrice fiorentina Edizioni Black Coffee), utilizzata per meglio veicolare le storie narrate: scandagliare la vita di Kim Kardashan e famiglia assieme a estratti dei racconti di Aimee Bender è una scelta azzeccata, seconda sola al piacere di ascoltare la storia di Kanye West alternata a frammenti del magnifico Per sempre lassù di David Foster Wallace.

Le due stagioni di Popcorn lo trovate sul sito della McMusa a questo indirizzo.

Morning

Qui sto barando un po’, perché in realtà questo podcast è stato in standby per gran parte del periodo che ho passato in ferie (anche i giornalisti vanno in vacanza), ma i pochi minuti trascorsi in compagnia di Francesco Costa e della sua rassegna stampa sono stati comunque fonte di discussione mentre ci godevamo questo o quel paesaggio in auto. Vicedirettore de Il Post e autore anche di un altro podcast di successo (Da Costa a Costa, in cui approfondisce la politica americana con invidiabile competenza e leggerezza), Costa da maggio ha inaugurato questo supplemento d’informazione del proprio giornale online, esaustivo su quelle che sono le notizie principali del giorno e caratterizzato dal modo d’intendere il giornalismo serio e raramente fazioso che contraddistingue la testata che lo produce.

Morning lo trovate dal lunedì al venerdì sul sito de Il Post, ancora in ascolto gratuito fino alla centesima puntata (indicativamente fino al 15 ottobre): se vi convince fate un pensierino all’abbonamento al giornale per continuare l’ascolto, sarà anche un modo di supportare chi evita titoli clickbaiting e altri mezzucci pensando prima di tutto ai lettori. Andate a questo indirizzo per saggiarne la qualità.

Ci sarebbero tanti altri podcast da consigliare fra i miei ascolti stabili (Copertina di Matteo B. Bianchi e Pietra dello scandalo di Luca Fontò ad esempio), ma vi lascio intanto con le suggestioni che mi hanno salvato dall’abuso radiofonico di canzoni come quelle di Takagi & Ketra: fatemi sapere cosa ne pensate.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 68: La caccia (Julinko – The hunt)

C’è un modo di dire che recita “non bisognerebbe giudicare un libro dalla copertina”, spesso disatteso. Ovviamente è un detto che ha un valore più generale ma anche rimanendo sul letterale, non mi nascondo dietro a un dito, un giudizio così veloce e superficiale l’ho fatto pure io, e spesso (il marketing esiste per quello). Coi libri di Elena Ferrante ad esempio, che quando vedo quelle copertine che fanno sembrare la saga de L’amica geniale un gruppo di romanzi Harmony io proprio non ce la faccio ad avvicinarmi: mi dispiace Edizioni E/O, sarà un problema mio (o anche no). Dal 2011 c’è anche chi giudica i dischi dalla copertina, ma in questo caso non si tratta di superficialità: sono gli organizzatori del concorso Best Art Vynil Italia a occuparsi di selezionare e far votare, tanto dal pubblico (People’s Choice Award) che da una giuria critica (Critic’s Choice Award), le migliori cover di vinili italiani, scandagliando a fondo il panorama musicale e non facendo distinzioni né di genere né di fama. Andare a scandagliare le classifiche permette di godersi vere e proprie opere d’arte, così come di curiosare fra il repertorio di artisti validissimi del variegato panorama indipendente: ovviamente io ho occupato un sacco di tempo andandomi ad ascoltare questa o quella band che non conoscevo, ed è così che mi sono imbattuto nelle canzoni di Julinko (e nella splendida cover del suo disco, che potete ammirare in alto).

Il progetto musicale di Giulia Parin Zecchin è uno di quelli che riesce ad attrarre grazie all’equilibrio fra gli opposti: una voce angelica e riverberi come se piovesse alternati a distorsioni e ritmiche rallentate tipiche del doom, mix che funziona e che rende le canzoni di Julinko un’esperienza ipnotica. Il primo disco autoprodotto, Hidden omens, arriva nel 2015 e già presenta in maniera scarna ed essenziale quegli stessi elementi sonori caratteristici: sette brani di un oscuro folk cantate e accompagnate alla chitarra da Giulia, con la collaborazione del polistrumentista Carlo Veneziano (autore anche di registrazioni, mix e master) che rimarrà un elemento stabile della squadra. Già l’anno dopo esce Sweet demon, prodotto in collaborazione con l’etichetta Tiny Speaker, dove la durata media dei brani comincia ad allungarsi, le distorsioni si prendono più spazio e la batteria si affianca alle percussioni, mentre è del 2018 l’Ep Ask ark (distribuito dal Ghost City Collective), registrato dalla sola Parin Zecchin e caratterizzato da atmosfere più eteree e sperimentali. Un’ulteriore evoluzione, frutto di tutte le vie esplorate in precedenza, avviene in Nèktar (uscito per Toten Schwan Records e Stoned To Death Records), in cui alla rodata coppia Parin Zecchin/Veneziano si aggiunge il basso di Francesco Cescato: a composizioni ariose come Spirit e la quasi esclusivamente acustica Servo si affiancano momenti più concitati (Leonard in particolare), mostrando una varietà che aiuta ad imprigionare l’ascoltatore in un mondo sonoro sempre più personale. A gennaio 2021 arriva l’ultimo (per ora) episodio della carriera musicale di Parin Zecchin, l’Ep No destroyer (distribuito in cd da Ghost City Collective e in cassetta da Dio Drone e Dischi Devastanti Sulla Faccia), registrato in solitaria durante la primavera 2020 per motivi che purtroppo conosciamo tutti bene: vale la pena di guardare i video dei due singoli estratti, No destroyer e Oh maiden, opere visive che ben si sposano con le atmosfere musicali di Julinko.

La traccia che ho scelto come ispirazione è The hunt, quinta traccia del disco Nèktar, una canzone ipnotica dall’incedere lento e inesorabile. Ho cercato di mantenere questa progressione nel racconto, facendomi suggestionare dalle parole del testo per rendere reale la storia di una coppia arrivata all’estremo limite della propria relazione, un punto in cui non rimane che distruggersi a vicenda per chiudere i conti col passato. Trovate il racconto subito dopo il brano, come al solito: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

La caccia

Sto camminando fra i ruderi dei nostri sentimenti quando incontro le tue tracce. Sono chiare e nette, segni sull’erba pesanti più della leggerezza con cui hai detto basta: se chiudo gli occhi e mi concentro posso ancora sentire le tue ultime parole sfiorarmi le orecchie, portate dal vento come gli ululati della bestie che siamo diventati.

Il prato è in disordine. Ovunque io posi lo sguardo ci sono detriti, sembra un teatro di guerra dopo il bombardamento. Ce la siamo fatta, la guerra, ma l’ultima battaglia deve ancora finire. Continuo a seguirti per un moto d’orgoglio: a nessuno di noi è mai piaciuta la sconfitta.

Reciti il ruolo della preda con la noncuranza con cui hai sempre vissuto la tua vita. Come spiegare altrimenti il sangue che trovo colante dai fili d’erba? Piccole gocce che lasciano una scia evidente, come se non t’importasse della rabbia che posso scatenarti addosso e che sai benissimo essere pronta ad esplodere. Potevi evitare i cocci di porcellana, i vetri infranti, invece ci hai camminato sopra con gusto, calpestando anche le due piccole figure in abito nuziale che, così sformate, ci assomigliano ancora di più.

Non ti è mai importato niente dei dettagli, dei piccoli gesti con cui cercavo di far funzionare le cose. Il tuo modo di sfuggirmi senza ansia mi sminuisce come i silenzi che mi dedicavi, uno diverso dall’altro: non sei abbastanza, sei troppo, non sai distinguerti. Mi chiedo perché farti cambiare idea anche se non ti voglio più, ma è un pensiero fugace che mi lascio indietro con l’indifferenza che ho imparato da te: ora che la caccia è iniziata conta solo quella, l’istinto primario della sopraffazione.

Io sono migliore di te. Non frantumo il ricordo dei nostri momenti migliori mentre metto un piede avanti all’altro. Mantengo la concentrazione sul mio scopo, colpirti quando meno te lo aspetti, quando penserai che il passato è alle spalle: solo così farà più male. Potrebbero perfino eccitarti i miei movimenti sinuosi, ricordarti di un tempo in cui la nostra passione non si sprecava solo nell’odio. Sembrano passati millenni.

Eccoti, finalmente. Appari come un faro tra le ombre della notte, la concentrazione rivolta verso chissà cosa davanti a te. Non senti i miei passi, il mio respiro. Proverei pena nel vederti così inerme se non conoscessi tanto bene il veleno che ti scorre nelle vene: penetrerà nel terreno e lascerà morto tutto ciò che sta intorno, ma è un sacrificio che sono pronto a compiere.

Ti metto il coltello alla gola, mi metti il coltello alla gola, ma siamo troppo distratti per accorgerci della lama che preme contro la nostra pelle, troppo intenti a massacrarci per essere ancora capaci di provare pietà.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Se vuoi suicidarti fallo per bene, o come James Gunn è riuscito a fare il miglior film del DC Universe

Io voglio un sacco di bene a James Gunn. Ho scoperto l’esistenza del regista di St. Louis solo all’uscita del suo terzo film, quel Super – Attento crimine!!! che era riuscito ad avere nel cast gente del calibro di Kevin Bacon ed Ellen Page, ma ho presto recuperato anche Slither, horror divertente e splatteroso in cui dimostrava di avere un modo personale e vagamente trash (dopotutto viene dalla scuola Troma, per cui ha realizzato un classico della casa cinematografica come Tromeo and Juliet) di affrontare le narrazioni. Non so cos’abbia visto in quei film la dirigenza della Disney-Marvel, ma la loro scelta di scommettere su Gunn per la regia di Guardiani della Galassia ha decisamente fruttato: la sua follia si è ben sposata con la storia di un team di supereroi che comprendeva un procione geneticamente modificato (Rocket Racoon, “interpretato” dal fratello del regista Sean Gunn e doppiato in originale da Bradley Cooper) e un albero umanoide senziente (Groot, doppiato nelle sue poche e iconiche frasi da Vin Diesel), e io me lo sono goduto nonostante lo abbia visto in inglese sottotitolato in francese e fiammingo (lunga storia) e nonostante il Marvel Universe lo abbia seguito da lontano e con poca fiducia, soprattutto al cinema (l’unica altra eccezione è stata Ant-Man, e solo per la presenza alla regia, almeno fino a che non l’hanno fatto fuori per divergenze creative, di Edgar “Shaun of the Dead” Wright).

Con questo curriculum sarei dovuto andare ad occhi chiusi a vedere il suo The Suicide Squad, momentanea fuga nell’universo dei cinecomic DC a seguito del licenziamento da parte della Disney per alcuni tweet di una decina di anni prima (licenziamento poi revocato, anche grazie a una presa di posizione del cast che gli permetterà di essere al timone anche del terzo capitolo dei Guardiani della Galassia). Invece sono entrato in sala con mille dubbi, tutto per un errore che non avrei dovuto fare: pensare che guardare il Suicide Squad diretto da David Ayer fosse in qualche maniera necessario, nonostante tutte le recensioni che ne parlavano male quando non malissimo.

Suicidarsi male

Ayer ha una carriera da regista e sceneggiatore che non lo fa per forza rientrare fra i miei preferiti, ma aver scritto quella perla di Training Day gli dà perlomeno una certa credibilità, abbastanza da permettermi di pensare che il suo personale contributo al più che altalenante universo DC non potesse essere poi così brutto. Voglio dire, se hai un sacco di soldi a disposizione, un cast che comprende star del calibro di Will Smith e Margot Robbie e una trama che prevede la collaborazione forzata fra alcuni dei più sottovalutati (cinematograficamente parlando) nemici di Superman e Batman (più Joker, che fa storia a sé) la maggior parte del lavoro dovrebbe essere già fatta, no?

No.

Suicide Squad invece fa almeno un paio degli errori più grandi che si possano fare in un film del genere. Il primo è trasformare i cattivi in buoni, ma buoni buoni a tutto tondo tanto che ti chiedi “perché erano in prigione questi innocui e simpatici guasconi?” Il Deadshot di Will Smith, sulla carta un sicario senza scrupoli, passa tre quarti del film a salvare gente di cui non dovrebbe fregargliene niente e a mostrarci i suoi dilemmi morali da buon padre di famiglia (quale supercattivo, con Batman nel mirino, lo risparmierebbe solo perché se no SUA FIGLIA CI RIMANE MALE?), ma riesce a fare un figurone rispetto a personaggi scritti col minimo impegno possibile come “piangina” Diablo, “quota comica” Captain Boomerang, “bestione standard” Killer Croc e “buono costretto a fare il cattivo ma con in realtà un cuore d’oro” Rick Flag (che perlomeno non è un villain, ma un militare). Discorso a parte lo meritano la Harley Quinn di Margot Robbie e il Joker di Jared Leto, che risultano talmente eccessivi da essere quasi fuori contesto in un cast di attori impagliati, e soprattutto il secondo è risultato uno dei bersagli preferiti dai critici per il suo overacting dall’inizio alla fine, un’umiliazione unanime che non mi ha permesso di giudicarlo in maniera oggettiva: si potrebbe pensare anche a un accanimento per la differenza enorme che intercorre fra il suo modo di interpretare il personaggio e quella di Heath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro, ma contando che Joaquin Phoenix pochi anni dopo nello stesso ruolo si è portato anche lui a casa un Oscar viene il dubbio che no, l’ha proprio affrontato male.

L’altro enorme errore è stato quello di cercare l’empatia del pubblico verso i suoi protagonisti senza mettergli contro una sfida degna di questo nome. Al di là del fatto che non si capisce esattamente perché venga messa insieme la squadra (l’Amanda Waller di Viola Davis parla di una non precisata minaccia alla Terra, ma quella minaccia arriva concretamente da Incantatrice, uno degli “eroi” assoldati da lei) la loro missione rimane oscura fino a più di metà film, quando si scopre che era…boh, mettere in salvo da un palazzo Waller che non si sa né come né perché fosse finita lì? C’è una confusione totale, e quando finalmente Deadshot e compagni arrivano, arrancando, allo scontro finale il pathos sta a meno di zero. Davvero, raramente mi è capitato di avere così poco interesse nell’evolversi della battaglia finale: gli antagonisti non mi avevano dato abbastanza motivazioni per sperare in una loro sconfitta, i protagonisti sono arrivati a “fare la cosa giusta” in una maniera talmente didascalica e forzata da rendermeli ancora più antipatici, ci mancava solo un epilogo che portasse l’happy ending per tutti…che puntualmente arriva, tranne forse per “quota comica”.

Pioggia + espressioni assorte = epicità (magari)

Ho sentito parlare spesso ultimamente di una legge non scritta riguardante le canzoni famose nei film: più la pellicola è brutta, più ci saranno stacchi sonori a ricercare l’enfasi che le immagini e la sceneggiatura non sono riusciti a ricreare (un esempio magistrale è l’ultimo Cinquanta sfumature di…e non chiedetemi perché l’ho guardato). Suicide Squad segue questa regola aurea del nascondere sotto il tappeto (sonoro) le mancanze, riempiendo di musiche arcinote le scene madri ma senza riuscire a creare enfasi in nessun caso, perché il tono è quello di questa scena: esaltazione di personaggi che non fanno niente in tutto il film per cui entusiasmarsi.

Dopo aver visto il suicidio operato con quella pellicola le mie aspettative verso il film di Gunn (nonostante recensioni entusiastiche come questa) si erano notevolmente ridimensionate. Come si fa a fare un bel film con simili premesse? Probabilmente in una sola maniera: facendo tutto (o quasi) il contrario.

Suicidarsi bene

Per quanto Guardiani della Galassia fosse un gran bel film, godibile e pieno di ritmo, era ovvio che nel multiverso Marvel notoriamente privo di emoglobina (soprattutto dopo l’acquisizione da parte di Topolino) Gunn non avrebbe potuto sfoderare appieno la sua vena più trash, una propensione all’effettaccio sanguinolento che, vale la pena ribadirlo, non inficia minimamente il coinvolgimento emotivo verso le sue storie (tanto che considero il finale di Super uno dei più strazianti che mi sia capitato di vedere). Alla DC non è che siano mai stati di manica molto più larga con la violenza, ma contando che il film più acclamato del loro universo cinematografico è probabilmente Acquaman, personaggio su cui non avrebbe puntato nessuno prima che Jason Momoa gli donasse uno spessore (nel senso muscolare del termine) che non aveva mai avuto su carta, i vertici dell’azienda devono aver pensato che potevano anche provare qualcosa di diverso. E James Gunn era l’uomo giusto a cui chiedere un cambio di rotta.

I titoli di testa di The Suicide Squad partono dopo una decina di minuti scarsa, prima dei quali è già successo abbastanza da ripagare i soldi del biglietto. Gunn assolda gli amici Michael Rooker e Nathan Fillion, li piazza dentro la squadra suicida (che ci tiene a cambiare nome perché quello vecchio ha una brutta fama…e ogni riferimento al film di Ayer è puramente voluto) e li manda in missione dopo cinque minuti di film senza presentazioni inutili. Che bisogno hai di farle quando hai una donnola gigante fra gli “eroi”?

Eroe

La missione gioca con tutto l’immaginario da “esportatori di pace” degli Stati Uniti. Ci sono una piccola nazione sudamericana in cui un golpe ha fatto salire al potere generali ben poco amichevoli verso l’occidente tutto e una potenziale arma di distruzione di massa da distruggere prima di subito, nonché un ruolo oscuro dei servizi segreti che verrà approfondito col progredire della pellicola: niente di troppo elaborato, semplice da capire, così si può passare subito all’azione. E dopo il primo bagno di sangue Gunn ci fa vedere che ha barato un po’ con la premessa, perché ci sono altri eroi da presentare e sono quelli davvero importanti, ma comunque senza sbrodolamenti eccessivi. L’unico che si prende un minutaggio maggiore per essere inquadrato, in quanto leader involontario della banda, è il Bloodsport di Idris Elba, un sicario che non sbaglia un colpo al pari del personaggio di Will Smith nella pellicola del 2016, ma mille volte più credibile: le motivazioni che lo spingono ad accettare la proposta di Waller (fra i pochi ritorni dalla prima pellicola, assieme a Joel Kinnaman/Rick Flag, Jai Courtney/Captain Boomerang e l’immancabile Margot Robbie nei panni sempre più amati di Harley Quinn) sono le stesse di Deadshot (figlia da difendere), ma il rapporto padre-figlia dà luogo a un confronto acceso e spassoso che ti fa amare entrambi dopo pochi secondi. Poi arrivano l’altezzoso Peacemaker di John Cena, la narcolettica Ratcatcher 2 di Daniela Melchior, l’indecifrabile e depresso Polka-Dot Man di David Dastmalchian e…Nanaue, uno squalo antropomorfo e parlante (a cui nell’originale dà la voce nientemeno che Sylvester Stallone), che dà prova delle sue capacità intellettive presentandosi mentre legge un libro al contrario. Tempo zero e sono inviati anche loro a Corto Maltese, sull’altro lato dell’isola rispetto al primo plotone di supereroi, dove fra battibecchi e massacri puntano giusto con qualche minima deviazione verso il loro obiettivo.

Gunn ha l’incredibile abilità di farci affezionare ai personaggi lasciandoli semplicemente agire, mostrandoli non come dei cattivi in cerca di redenzione ma come una banda di psicopatici che trova motivazioni lungo il percorso. Non c’è una vera e propria spalla comica (anche se Nanaue è chiaramente pensato per quel ruolo) perché tutti nella Suicide Squad fanno divertire alla loro maniera scorretta ed esagerata, grazie a dialoghi costruiti su botta e risposta continui e interpretazioni riuscite: Cena ed Elba hanno la fisicità e la presenza scenica adatta a rendere credibile il loro scontro fra maschi alpha, Melchior è di un’innocenza adorabile, Dastmalchian ha negli occhi il giusto mix fra pazzia e stanchezza per rendere al meglio un personaggio a cui ne sono capitate davvero troppe nella vita (ibridato con un’entità aliena dalla madre scienziata, è costretto ad espellere due volte al giorno delle sottospecie di pois multicolori corrosivi per evitare di venirne distrutto) e Robbie, liberata dal peso di avere attorno un gruppo di malmostosi, vede finalmente integrata nel gruppo la sua follia anarchica. Persino l’odioso Rick Flag di Kinnaman qui diventa un personaggio per cui è piacevole fare il tifo, il che è un risultato incredibile vedendo il prequel.

A certe regole, però, non si sfugge

The Suicide Squad, sia chiaro, non evita di sottostare al dogma dei “personaggi cattivi che fanno la cosa giusta”, ma prepara il momento al meglio per fartelo pesare il meno possibile. Si prende il suo spazio durante tutta la pellicola per raccontare la storia di qualche personaggio, giusto di quelli che gli interessano per creare una motivazione credibile, poi torna a fare casino e riporta alla luce quegli intermezzi quando più gli serve. E il casino, al di là della violenza macchiettistica piacevolmente esibita e allo stesso tempo ridicolizzata (come nel caso della sfida all’omicidio più creativo fra Peacemaker e Bloodsport), è orchestrato con un’estetica di assoluto livello, fra sparatorie dove il sangue si mischia ai fiori e scazzottate filmate attraverso una superficie riflettente. Gunn diverte e si diverte, sembra non prendersi sul serio ma fa sul serio, cura ogni dettaglio e arrivati alla fine delle due ore abbondanti di pellicola sembra di essere appena entrati, vogliosi di averne ancora. Anche l’utilizzo delle musiche (di taglio mediamente più indie, vedi la presenza di Hey dei Pixies) è calibrato sull’ironia del film, sparate a mille in momenti che non servono per rendere epici i protagonisti ma a sottolineare la loro improbabilità come eroi: sono i più sacrificabili che hanno trovato per fare un lavoro sporco, e tant’è.

Ci sarebbero mille altre cose da dire ma preferisco non esagerare con le informazioni, per non incorrere in spoiler e per lasciarvi il piacere di scoprire tutte le chicche della pellicola da soli. Andare a vederlo al cinema, oltre che per l’esperienza visiva, sarà anche un modo per convincere i piani alti della DC a mollare i loro film “soffertoni” (termine rubato al mitico Leo Ortolani) e puntare su questo modo di fare i film di supereroi libero, anarchico e non meno coinvolgente. Al momento, sempre in tema di suicidio, il film di James Gunn lo è commercialmente, perché a fronte di una spesa di 185 milioni di dollari non si è ancora nemmeno andati in pari con gli introiti (Sucide Squad di Ayer, và com’è strano il mondo, è invece uno degli incassi maggiori del franchise). Non dico che dobbiamo fare una colletta con quel che succede nel mondo, ma se vi avanzano i soldi per il cinema andate nelle sale che lo proiettano e portateci anche i bambini: non può fargli male quanto il film dei Me contro te.

Nanaue, il migliore amico negli incubi dei vostri figli

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 67: Il poeta assassino (HO.BO. – Psalm)

Di solito in questo cappello introduttivo mi ritrovo a spiegare come ho scoperto l’artista di cui si parlerà (vi siete accorti che mantengo un sacco di suspence prima di svelare un nome che è scritto bello grosso nel titolo dell’articolo?) e/o presentare lo scrittore ospite. Ma che succede se ho già parlato della resident band della settimana, e ho pure già ospitato colui che mi ha donato il suo racconto? Succede che questo cappello introduttivo dura meno (qualcuno dirà Allelujah! e qualcuno dirà Nooooooo) e passo subito a ri-presentarvi Danilo Di Prinzio e il gruppo che ha ispirato la sua penna (tastiera), ovvero gli HO.BO.

Non sono passati nemmeno due mesi da quando Danilo è stato gradito ospite di queste pagine, associando il suo racconto Gemme ad una canzone dei Requiem for Paola P. Come Stefano Tarquini prima di lui ha deciso di tornare a supportare la causa della musica bella e indipendente, e io non posso che essergli grato e consigliarvi di andare a recuperare gli innumerevoli suoi racconti apparsi sul web (e che trovate comodamente elencati nel primo link poche righe sopra).

Gli HO.BO. da queste parti sono invece passati a novembre 2020, quando mi imbattei fortuitamente nel loro A man with a gun lives here. Formatisi a Biella nel 2017 dall’incontro di vari musicisti già attivi in altre band della zona (Samuel Manzoni – voce e chitarra, Andrea Bertoli – piano, farfisa e wurlitzer, Filippo Sperotto – chitarra elettrica, chitarra acustica e cigar-box guitar, Mattia Rodighiero – batteria, Edoardo Perona – chitarra elettrica, Marco Tommaso – basso, banjo, home-made double bass e armonica), gli HO.BO. si ispirano alle atmosfere folk-blues più oscure del panorama statunitense, e già nel nome omaggiano la libertà dolente degli hoboes, i vagabondi per scelta che ancora oggi si possono incontrare in viaggio per le sterminate strade degli States. Il loro esordio discografico arriva nel 2019, 2/10, licenziato da NOSTUDIOREC (il loro personale studio di registrazione), La Mansarda e Kono Dischi, etichetta quest’ultima che li affiancherà anche nel 2020 (assieme alla sempre meritevole I Dischi del Minollo) per l’uscita del secondo album a strettissimo giro di posta, il già citato A man with a gun lives here, il tutto inframezzato dall’uscita di una versione alternativa del brano Lord, please tell us the truth con la collaborazione del chitarrista irlandese Tom Portman. Due dischi in pochissimo tempo possono prosciugare la linfa creativa di una band, ma gli HO.BO. dimostrano di avere molte frecce al proprio arco: tracce come Muddle-headedness e The strange story of Jones McCarthy and Tom Burke già lasciano presagire il mood del secondo album, ma l’atmosfera unica e le storie senza lieto fine che compongono A man with a gun lives here arrivano a vette che in Italia sono state toccate probabilmente solo dai Dead Cat In A Bag, il cui vocalist Luca “Swanz the lonely cat” Andriolo non per niente è ospite nella parentesi bluegrass di A tiny man called Smith.

Psalm è la settima traccia di A man with a gun lives here, una sorta di spiritual crepuscolare con un testo scarno ma denso di suggestioni Proprio a questo brano si è ispirato Danilo per il suo racconto, allargando la prospettiva e rendendoci partecipi dello strazio interiore di un poeta assassino, una storia che affonda le sue radici nei concetti di colpa e perdono biblici e si fa forza di un’atmosfera eterea ed inquietante al tempo stesso, come lo è il delitto di cui si macchia il protagonista. Potete leggerlo subito dopo il link al brano, a me non resta che augurarvi come al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Il poeta assassino, di Danilo Di Prinzio

In una prigione lontana c’è un poeta assassino, uno che ha ucciso la moglie – in quanti modi si può uccidere? – mentre lei lo guardava dentro una luce mistica di follia e dolore, sentendosi come inchiostro di un tempo in cui intingere il nulla della memoria e forse del riscatto…

La sera si mette alla finestra e recita. Dopo cena un gruppo di discepoli si raduna lì sotto, lungo il muro di confine, macerati dall’esistenza, tute macchiate di sudore, e in coro con il poeta assassino cantano come antichi aedi accompagnati dal suono di una chitarra. Qualche passante indugia e si ferma nell’oscurità addensata che è oramai quasi estate, ascolta quelli che sarebbero morti, come morti lo sarebbero stati anche loro, li ascoltano cantare del cielo e di come sono stanchi e del barbaro silenzio dell’universo. E nell’intervallo fra canto e canto una voce profonda e triste, uscita dall’ombra frastagliata che dall’albero di Giuda si protende verso il lampione all’angolo, guaisce come bestia al macero.

«Pochi giorni ancora, e poi faranno fuori il più grande poeta del dolore!»

A volte durante il giorno il poeta assassino si mette a recitare solo ma di solito, dopo un po’, due o tre ragazzini straccioni o degli operai con dei cestini per il pranzo si fermano davanti al muro di confine. I vecchi nel bar di là della strada, a riposo sulle loro seggiole, lo odono sopra il rumore debole del loro masticare.

«Un altro giorno, poi non ci sarò più! Chi può aiutarmi se Tu mi hai abbandonato, se nemmeno Dio può farlo?», dice. «Il miracolo alle volte è non permettere che qualcosa accada, basterebbe soltanto questo… Basterebbe…», dice. «Invece di tingere marmi con la porpora, d’incastrare il cielo in macchie verginee, baluginanti messaggi d’allarme… Basterebbe alle volte non fare nulla», dice.

Sotto alla finestra centrale del carcere di cemento, dove è appoggiato il poeta assassino – soprannomi, perché la verità è luce accecante che costringe a volgere lo sguardo altrove – una fila di teste incassate fra le scapole, nude o col cappello, innalzano le loro voci in armonie, tristi e profonde nella notte insondabile, cantando di cielo e silenzio. Sul muro di confine, sbarrato e inciso, l’ombra a chiazze dell’albero di giuda rabbrividisce e pulsa, mostruosa, anche se non c’è quasi vento. Ricco e triste è il canto dei discepoli, che accompagna il suo lamento.

«Un altro giorno! Non c’è posto per te in paradiso! Dove vai? Dove vai ramingo su riarsi deserti?»

Ed è qui che lo sente, e tutti all’improvviso scompaiono, sente quella voce di sottile silenzio, lacerante il foglio randagio della legge, dell’odio, del fratello risentito dal ritorno, dalla festa inspiegabile del padre…

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Di tensioni insopportabili e patriarcato: Una donna promettente

C’è una fase di Una donna promettente in cui non succede nulla di rilevante. La storia prende la strada della rom-com, i personaggi flirtano, si fanno sorrisini e tutto sembra andare per il meglio. È un trucco vecchio come il mondo quello di mostrare la calma prima della tempesta, lo so io come lo sa la regista e sceneggiatrice Emerald Fennell, eppure mai come in quella porzione di film ho sperato che davvero le cose andassero lisce così fino al termine della pellicola, che il finale potesse essere qualcosa di inaspettato e probabilmente deludente ma almeno gioioso, vitale.

È un film che mette a dura prova Una donna promettente, raramente ti mette a tuo agio nonostante strappi più di una risata a denti stretti. È la storia di Cassie (Carey Mulligan), trentenne che, a dispetto del titolo, sembra avviata verso un futuro tutt’altro che promettente: ha un lavoro in una caffetteria malpagato e che svolge col minimo entusiasmo possibile, vive ancora in casa dei suoi genitori e all’orizzonte non c’è nessun uomo con cui convolare a nozze. Se il successo si basa su casa, lavoro e famiglia Cassie è decisamente in ritardo sulla tabella di marcia, ma per lei sono altre le cose importanti.

Cassie ha infatti una doppia vita, rimarcata anche dalla fotografia della pellicola: le sue giornate fatte di colori pastello, tanto sul luogo di lavoro quanto negli abiti che indossa, si alternano a notti in cui indossa vestiti provocanti, trucco abbondante e bazzica i locali barcollando in preda ai fumi dell’alcool… O almeno è ciò che pensano gli ignari che la abbordano, scoprendo loro malgrado che la principessa da salvare è ben più lucida di quanto pensavano, e che loro come principi azzurri lasciano decisamente a desiderare.

Il film di Fennell ha il pregio di avere un incipit decisamente originale ma di non limitarsi a quello. Le motivazioni che spingono Cassie a lasciare in pausa la sua vita pur di umiliare (e, se vogliamo, rieducare) una moltitudine di esemplari di “maschio tossico DOC” hanno radici profonde, e il caso (nella persona dell’ex compagno d’università Ryan, interpretato da Bo Burnham) ci mette lo zampino per darle modo di alzare la posta e cercare di fare i conti una volta per tutte col passato. Nel suo percorso ci si stupisce di quanto sia terribile il mondo che le ruota attorno, piegato alle regole del patriarcato tanto da avere anche donne a difenderlo strenuamente, eppure allo stesso tempo si è portati a pensare che con la lunghissima lista di notti passate ad adescare potenziali stupratori è un miracolo che Cassie sia ancora viva o, quantomeno, illesa.

Quella di Una donna promettente è una storia di violenza raccontata senza abusare della stessa. Lo stupro che porta Cassie a compiere la sua missione non è mai mostrato, e persino la vendetta compiuta dalla protagonista è sempre psicologica più che fisica, un particolare quest’ultimo che lo avvicina a un’altra pellicola indipendente degli ultimi anni, cioè Hard candy di David Slade. In entrambi c’è una protagonista meno inerme di quanto possa sembrare, un carnefice a cui far confessare i propri errori e in entrambe addirittura si prega la vittima di fermarsi per “il proprio bene” (bellissima la battuta con cui Ellen Page/Haley rimette al proprio posto Patrick Wilson/Jeff nel film di Slade: “Stai cercando di convincermi a non castrarti per il mio bene!”). In entrambi, purtroppo, chi vuole fare giustizia non la può ottenere per sé.

La parte degli spoiler

In Hard candy la protagonista è una quattordicenne che finge di farsi adescare da un pedofilo per trovare in casa sua le prove di un omicidio: si capisce ben presto che la sua innocenza, ciò di cui viene privata ogni vittima di pedofilia, è ormai persa anche se non sappiamo né come né quando. In Una donna promettente per ottenere giustizia Cassie è invece costretta a mettere in gioco la sua stessa vita perché, come spiega benissimo Xena Rowlands in questa recensione, quando si tratta di violenza sulle donne serve troppo spesso un cadavere perché la giustizia faccia il suo corso.

Lungo tutto il film Cassie cerca di far capire alle persone cosa stanno sbagliando o dove hanno sbagliato, con modi a volte inquietanti ma senza mai travalicare nella violenza fisica, e tutto quello che ottiene è scontrarsi contro un muro di deresponsabilizzazione. Nessuno ammette di avere sbagliato, ci sono sempre un ma o un però a limitare qualsiasi ammissione di colpa e alla fine, quando sente l’uomo che ha stuprato la sua migliore amica Nina lamentarsi della pressione che ha dovuto sopportare a causa di un’accusa reale, Cassie passa per l’unica volta alle vie di fatto, soccombendo nel tentativo di farsi giustizia da sé. Prima ho accennato al fatto che sembri strano vederla ancora incolume nonostante i suoi trascorsi notturni, e penso sia una scelta voluta: quando finisce la lunghissima scena dove Cassie viene soffocata a morte capiamo cosa ci aspettavamo le succedesse fin dall’inizio, e comprendiamo quanto è orribile un mondo dove cose del genere sono percepite come il normale andamento delle cose.

Una donna promettente è un film sul consenso in un ambito diverso da quello messo sotto ai riflettori dal movimento #metoo ovvero quello della vita di tutti i giorni, un ambiente in cui ancora nel 2020 un comune riesce a sbagliare totalmente comunicazione nel proporre una campagna anti-stupro e siamo tutti rinchiusi in bolle talmente strette che non ammetteremmo una colpa neanche sotto tortura, abituati come siamo a essere spalleggiati qualunque cosa facciamo. Il film mostra bene tutti questi processi mentali, dal “se l’è andata a cercare” al “succede continuamente, mica sarà sempre vero”, una frase quest’ultima mutuata dal discorso che la rettrice dell’università in cui Nina e Cassie studiavano pronuncia a mo’ di giustificazione, mostrando come i dieci anni passati dallo stupro non abbiano cambiato niente: il patriarcato fa rima con omertà, e nessuno vuole parlare di vicende scomode.

Alla fine Cassie giustizia la otterrà, una giustizia postuma pianificata con spirito quasi da martire, e se non fosse per le dichiarazioni della stessa regista verrebbe da pensare che è proprio un martirio quello che la protagonista si accinge a compiere quando decide di affrontare lo stupratore della sua migliore amica. Il finale è stato criticato per mille motivi, dalla troppa violenza (a mio avviso funzionale e non voyeuristica) alla risoluzione “ottimistica” con cui si chiude una vicenda basata sull’incapacità della protagonista di cambiare le cose: io penso che non sia nel termine della vicenda che bisogna ricercare un senso al film in toto, ma che la tesi che Fennell vuole esprimere sia già scritta a caratteri cubitali lungo tutta la trama e cioè che, al di là di come finisca la storia singola, c’è un sistema patriarcale che va assolutamente smantellato per il bene di tutt*.

Se il film funziona così bene è merito anche di un cast di assoluto rilievo. Mulligan è una Cassie eccezionale, sarcastica e cinica ma capace anche di mostrarsi fragile quando serve: attorno le si muovono attori e attrici di spessore in parti minori ma caratterizzate benissimo, dalla ex compagna d’università interpretata da Allison Brie (prima vittima della vendetta organizzata da Cassie) all’avvocato pentito di un sempre sontuoso Alfred Molina, passando per i camei di Adam Brody e Christopher Mintz-Plasse (per sempre McLovin) nei panni diversissimi ma egualmente sgradevoli di due potenziali stupratori. Una donna promettente non è un film perfetto, ma ha il coraggio di andare dritto per una strada scomoda e di scatenare riflessioni nello spettatore: andate a vederlo, anche se la poltrona vi sembrerà parecchio scomoda.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora