Racconto in musica 86: Om-Tre (Fugazi – I’m so tired)

Ci sono un paio di regole fondamentali che regolano i racconti che pubblico su questo blog: una è inscritta nel suo stesso nome (che detto così sembra stia parlando delle tavole della legge), massimo tremila battute, l’altra è che il testo sia associato a una canzone di musica indipendente (e su cosa voglia effettivamente dire indipendente potete leggere tutte le mia paranoie qui). Ci sono un sacco di regolette accessorie non scritte però a cui cerco di tenere fede (oggi la metafora religiosa va per la maggiore), di cui una delle principali è la contemporaneità: cerco di parlare, insomma, di artist* che siano vivi, vegeti e in attività, perché così metti caso che li ascoltate e vi piacciono, magari ci scappa anche che gli mollate dieci euro per il disco o andare a vederli dal vivo. Un morto se ne fa qualcosa dei soldi ottenuti vendendo dischi dopo la sua dipartita? Potete andare a vedere dal vivo una band che si è sciolta? Io non credo.

A quest’ultima regola, essendo non scritta, ho derogato più di una volta, sentendomi comunque un ladro in casa mia. Pensavo di dover derogare anche oggi, perché la band in questione non pubblica un disco dal 2001 e chissà se lo farà mai più, ma la mia pignoleria è stata attutita dal fatto che i Fugazi non si sono mai ufficialmente sciolti e soprattutto dal fatto che, in tema di musica indipendente, siano una delle band fondamentali (se non LA band fondamentale) di cui parlare.

Ringrazio quindi Filippo Nencioni (anagramma di Inno Polpi Fenici, ci tiene a precisare) per aver accolto il mio invito su queste schermate, dandomi modo di addentrarmi nella Storia. Nato a Massa Marittima in provincia di Grosseto nel 1992, sopravvissuto a Riotorto in Val di Cornia fino al conseguimento del diploma in lingua, Filippo è l’ospite perfetto di questo blog, in quanto scrive racconti e canzoni fin da quando era sedicenne. Dopo essere sopravvissuto qualche anno aggirandosi con aria cogitabonda per l’Italia e per l’Europa, facendo il cameriere, il poeta e il cantautore, la sua esplorazione di bassifondi urbani e birrerie si è momentaneamente interrotta in Maremma, dove continua a vagare ma in cerca di una fissa dimora nella quale arroccarsi per dar vita al capolavoro che lo renderà immortale. In attesa che il nascituro venga alla luce passa le estati facendo il barista al Congo Bar di Follonica, mentre gli inverni li dedica alla musica e alla parola scritta. Ha un progetto cantautorale a suo nome di cui sono usciti alcuni singoli e sta per arrivare il primo album, fa le veci del frontman (voce, chitarra e autore dei testi) nel power trio L’ultimo cittadino, ha pubblicato nel 2015 la prima e unica e ultima raccolta di componimenti (Autoliberazione, uscita con l’editore Parole Nuove) mentre suoi racconti surreali potete trovarli qua e là su riviste: leggetevi l’inquietante e distopico La clinica su Rivista Waste e il folle Dialogo tra un ricoverato impostore e un impostore ricoverato apparso su Rivista Blam.

Dei Fugazi ci sarebbe così tanto da dire che finirò per essere sintetico in maniera irrispettosa: come riuscire a far arrivare tramite le parole l’importanza di una band ritenuta fondamentale per la nascita del post-hardcore, un gruppo che partendo dal punk e dall’emocore (di cui già il cantante e chitarrista Ian MacKaye era stato punto di riferimento con Minor Threat ed Embrace) ha creato un proprio suono riconoscibile e capace di influenzare il suono degli anni 90 in toto? Come se non fosse già abbastanza questo MacKaye, Guy Picciotto (chitarra e voce), Joe Lally (basso) e Brendan Canty (batteria) hanno fieramente portato avanti per tutta la carriera una politica DIY (Do It Yourself) che prevedeva un prezzo dei biglietti il più basso possibile (solitamente fra i 5 e i 10 dollari) e l’assenza totale di merchandising (una scelta a cui risponde meglio di qualunque mia parola questa loro canzone, dovuta anche al fatto che avere qualcuno al banchetto avrebbe significato una bocca in più da sfamare e una levitazione dei costi), una scelta che non gli ha impedito di suonare ovunque nel mondo rimanendo fedeli alla propria scelta: pensateci quando vi sentirete fortunati perché avete pagato “solo” settanta euro per vedere Matthew Bellamy dei Muse che suona su una cazzo di piattaforma fra i fuochi d’artificio.

Formatisi nel 1986 a Washington, dopo un breve periodo di assestamento in cui Canty prende il posto di Colin Sears alla batteria e Picciotto imbraccia la seconda chitarra (inizialmente era previsto solo come cantante) la band inizia subito a macinare concerti e registrazioni. La loro produzione discografica parte nel 1988 con un Ep omonimo, seguito dagli Ep Margin walker nel 1989 (i primi due Ep vengono condensati nello stesso anno nella raccolta 13 songs) e 3 songs nel 1990, anno in cui arriva anche il primo album ufficiale della band, Repeater. Basta già questa manciata di dischi a far risaltare la freschezza del loro suono, asperità e velocità di derivazione punk che si mischiano con una ricerca sonora che spazia ovunque, brani caratterizzati da continui cambi di tempo e comunque permeati da un’urgenza sonora che li fa arrivare dritti alle orecchie e alle gambe dell’ascoltatore che non può rimanere fermo, le chitarre e le voci di MacKaye e Picciotto che si alternano e intersecano mentre la sezione ritmica fa muro alle loro spalle, il tutto unito a testi dai forti connotati sociali e politici. Il secondo disco, Steady diet of nothing esce già l’anno dopo e la loro popolarità cresce ulteriormente, poi nel 1993 l’album In on the kill taker li porta a confrontarsi con un altro guru dell’indipendenza come scelta di vita, Steve Albini: una prima registrazione del disco verrà infatti realizzata nello studio di quest’ultimo a Chicago, non soddisfacendo la band (un evento che li accomuna agli Slint) che registrerà poi tutto nuovamente nella propria casa base ma motivando i componenti ad approfondire la conoscenza delle tecniche di registrazione. Il 1995 vede l’uscita di Red medicine, la band continua a macinare chilometri in tour e continua a sperimentare coi suoni: sono gli anni del cosiddetto Alternative rock e i Fugazi vengono eletti a portabandiera di quell’etichetta in cui viene frullato un po’ tutto (un po’ come si fa oggi con l’indie) fino a non indicare più niente, ma che ancora oggi mi viene da utilizzare quando parlo di cosa andava in ambito rock all’epoca. Bisogna aspettare molto (almeno per i tempi della band) per il successivo End hits, uscito nel 1998, poi l’anno seguente i Fugazi fanno uscire un video documentario, Instrument, di cui realizzano anche la colonna sonora: Instrument Soundtrack presenta molte versioni demo dei loro brani storici degli inizi oltre a materiale inedito, una chicca per fan che di lì a poco rimarranno orfani del loro suono. The argument, uscito nel 2001, rappresenta a oggi con l’Ep Furniture + 2 il testamento musicale della band che continua a rimanere attiva nell’ambito musicale con svariati progetti (MacKaye e Picciotto anche nella produzione, il primo con la Dischord Records che ha fatto uscire tutti i dischi dei Fugazi e su cui bisognerebbe fare un articolo a parte: ci credete che ha vinto una causa contro la Nike?) e che magari un giorno vedremo riunirsi su un palco: possiamo esser certi che lo farebbero solo se hanno la carica per farlo e qualcosa da dire, non una di quelle reunion per far soldi che è quanto di più lontano dalla loro invidiabile etica.

Il racconto di Filippo si basa su una delle canzoni più particolari nella discografia dei Fugazi: I’m so tired, ballata dolente piano e voce in cui MacKaye mostra una vulnerabilità ben racchiusa nella strofa “I’m so tired / sheep are counting me”, un brano breve che si chiude in maniera improvvisa e perentoria senza lasciare nulla al pietismo. Allo stesso modo Filippo ci mostra con un lessico allo stesso tempo ricercato e lercio un protagonista lacerato ma vitale, lucido nella disamina della propria vita e consapevole di una cosa: “non è nell’autocommiserazione che voglio sparire”. Trovate il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Om-Tre, di Filippo Nencioni

I pensieri suicidi sono spesso raffazzonati e imprecisi, ti balenano in testa senza apparenti motivi mentre acciacchi una merda fumante con le ciabatte. Preferisco di gran lunga i ragionamenti che ne scaturiscono, hanno tutta l’aria di essere lineari e razionali: planano con eleganza dal punto A, che sta per “adesso vi faccio vedere io”, al punto B, che sta per “boh”. A volte esigono lo stesso inutile sforzo di quel povero diavolo che un giorno si arrampicò sulla cima di un vulcano giusto per cagare nel cratere.

Sto in piedi davanti allo specchio e col phon in mano mi immergo in luridi abissi di parole: «Fossi più coraggioso mi farei fuori adesso. Anche se devo ammettere che, se fossi più coraggioso, non avrei preso le decisioni che mi hanno portato fino a qui».

Stanotte tra un risveglio sudaticcio e l’altro ho messo in pratica un esercizio che ha più o meno l’effetto opposto della conta delle pecore: ho ripensato a tutte le situazioni imbarazzanti in cui mi sono cacciato nel corso degli anni. Rivedendomi nitidamente su quelle strade piene di vergogna, ho immaginato di pietrificare tutti i me del passato per poi deflagrare i loro gusci già vuoti con un raggio laser annichilente.

La mia anima si è palesata all’incirca quindici anni fa e da allora ha iniziato ad appesantirsi le tasche raccattando da terra sassolini e bulloni, rotolando lungo la linea del tempo si è ingrassata con tutto ciò che ha ingollato durante l’ingloriosa discesa. Ieri piangendo mi sono soffiato il naso e ho trovato dei bachi di sego nel fazzoletto, questo per dire quanto sia marcia.

Due sere fa sono uscito per bere una birra e sono tornato a casa alle otto del mattino con le fattezze di un gasteropode macilento, alle mie spalle un’itterica strisciata di vomito. È l’unica cosa che lascio sfuggire di me, perché fuori incontro soltanto una goffa gloria provinciale, terrificante come un gatto mammone che cuoce nel sugo di soddisfazioni demenziali. Una volta un tipo mi disse di non dimenticarmi mai chi sono e io, preso dall’insulso gioco delle battute a effetto, gli risposi che dev’essere una bella responsabilità quella di non dover dimenticare una cosa che non si sa.

Non è nell’autocommiserazione che voglio sparire.

Esiste un posto dove sono felice, si trova precisamente nell’intercapedine che divide il fuori e il dentro di me. Lo chiamo tre-om e vi accedo lasciandomi scivolare nello spazio che c’è tra il letto e il muro. Lì ci sono tre porte: dietro la prima c’è un postribolo nel quale posso scegliere chicchessia da portarmi a letto; attraverso la seconda posso accedere a tutti i libri scritti dall’alba dei tempi ai giorni nostri, compresi quelli bruciati nei vari roghi; nella terza mi hanno insegnato che non ci si deve mai entrare, per nessun motivo.

Ma dopo tutto questo ragionarmi addosso sono molto, troppo stanco, e credo che dimenticherò tutto ciò che ho imparato per attraversare l’ultima soglia.

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Le parole sono importanti: una conversazione con Carlo Sperduti riguardo al suo romanzo Deriva

Immaginate una storia: non è questa. Difficilmente avrete immaginato Gambino, un uomo apparso in una frase e intento al complicato corteggiamento di Filomena, donna-luogo con curiosi problemi di alcolismo, sullo sfondo di un villaggio turistico che ospita una sola persona alla volta; non penso avrete immaginato nemmeno un uomo senza nome afflitto da tre problemi: delle fastidiose paralisi temporali che lo costringono a ad assumere posizioni impensabili di cui non serba ricordo, il rapporto complicato con Sofia, essere mutevole difficile da decifrare e da contenere, il rapporto altrettanto complicato con una società che obbliga la gente a scendere in strada e incontrarsi; sicuramente non vi sarà venuta in mente la voce quasi documentaristica che, con linguaggio tecnico preso a prestito da uno qualsiasi degli ambiti dello scibile umano, spiega nel dettaglio come praticare tagli cesarei alle alture.

Benché in maniera non omogenea, la frequenza dei tagli cesarei è andata aumentando tra colline e montagne in ogni zona del pianeta, almeno negli ultimi nove cicli di secoli in multipli di tre, periodo in cui si sono registrati i primi casi – con numeri decisamente più modesti degli altri, s’intende – anche fra terreni pianeggianti – si tratta perlopiù di nascite premature – e subacquei, forieri questi ultimi di specifiche criticità tecniche e logistiche su cui ci diffonderemo in un apposito volume e le cui soluzioni, d’altronde, sono ancora oggetto di discussione per la comunità scientifica, lungi da formulazioni unanimemente accettate.

Queste sono, in sintesi, le storie narrate in Deriva, l’ultimo romanzo di Carlo Sperduti uscito a giugno del 2021 per pièdimosca edizioni, ma la sintesi è quando di più lontano ci possa essere da un libro che, pur nella sua lunghezza contenuta (147 pagine), dice molto e lo dice dilungandosi, ritorcendo i concetti su sé stessi e giocando con periodi lunghi e pieni di parentesi. Storie surreali di personaggi tremendamente umani, vicende indipendenti che si concatenano in ordine sempre diverso, fino a trovare punti di contatto o addirittura a dialogare fra loro: quanto detto finora non vi avrà chiarito le idee, per questo ho deciso di sottoporre qualche domanda all’autore per fare chiarezza, complicare ancora di più le cose o, semplicemente, incuriosirvi.

  • Le tre storie che compongono Deriva sembrano parlarsi l’un l’altra. Sono arrivate insieme o sono frutto di idee che maturavano nella tua testa da tempo?

Deriva si discosta sensibilmente da altri miei libri ma mantiene con essi una certa parentela, soprattutto nella fase precedente alla scrittura vera e propria: come accade spesso per i miei racconti e romanzi, esiste un lasso di tempo, molto variabile, in cui non scrivo una parola ma in cui un’idea o un’immagine inizia a circolarmi in testa con insistenza. A questa idea o immagine aggiungo via via dettagli, sempre mentalmente, finché non capisco che dal punto in cui mi trovo una migliore elaborazione si produrrà solo all’atto pratico della scrittura.

Con Deriva è andata così: l’immagine o idea che mi circolava in testa, più o meno dalla seconda metà del 2018 all’inizio del 2020, è quella con cui si apre il libro: un tale che arriva a piedi in un villaggio turistico, inserito in un contesto in cui raccontare una storia è impossibile o problematico per definizione.

Finché ci sarà una lingua, bisognerà sforzarsi di raccontare ogni storia possibile, comprese quelle impossibili. Perfino questa, che spinge per incominciare e finisce per irrompere nella frase sul quadrivio in cui Gambino, promotore di numeri pari e collezionista di capelli altrui in villeggiatura, si arresta passando in rassegna con lo sguardo i punti cardinali che non a caso, riflette, sono quattro, senza contare gli innesti della botanica cartografica che molto spesso disorientano, affliggendo i malcapitati.

Dall’incipit di Deriva

A maggio 2020 avevo preso alcuni appunti e scritto un paio di capoversi, quelli dell’incipit, continuando per il resto ad accumulare idee come ho detto, molte delle quali sono state poi spazzate via o sostanzialmente modificate o solamente accennate. Da maggio a luglio del 2020 ho scritto il libro.

Nel frattempo, avevo portato a termine una buona quantità di racconti, alcuni dei quali contenevano a loro volta immagini o idee che sono confluite in Deriva quando ne avevo già iniziato la stesura: è il caso, a mo’ di esempio, di uno dei motivi portanti del libro, il corpo diffuso di Filomena, che avevo sfruttato in altro modo in un un racconto che apparirà in primavera in una raccolta edita da pièdimosca edizioni, intitolata Le regole di questi mondi.

Altre idee sono nate con la scrittura: è il caso del contrappunto manualistico in cui si spiega nel dettaglio come funzionano i parti cesarei delle montagne.

In conclusione, le tre storie che compongono Deriva si parlano e si travasano l’una nell’altra, diegeticamente, (anche) perché il mio processo creativo ha seguito la stessa via fuori dal libro, prima del libro e durante il libro.”

Mi piacerebbe imparare a consultarmi, piuttosto che imbattermi in me stesso. Consultarmi: farebbe parte di una lista di buoni propositi, se una banalità del genere esistesse tra i miei giorni e se avessi una pur vaga idea di come affrontare la questione – se, prima ancora, avessi un’idea della questione stessa.

I personaggi attraverso le parole descrivono principalmente l’incapacità di spiegare a spiegarsi: l’uomo senza nome finisce sempre per parlare di qualcosa che non è ciò di cui vorrebbe parlare, chiuso in un’immobilità che coinvolge tutta la sua vita e non solo i momenti di paralisi, Filomena fatica a mettere a parte Gambino di ciò che succede a lei e al mondo che li circonda, esplosioni di personale del villaggio turistico comprese. Eppure ci provano, avanzano a tentativi, e noi con loro assistiamo allo spettacolo di questo ritorcersi del linguaggio, il vero protagonista del romanzo.

  • Il linguaggio è protagonista assoluto del romanzo, sia nella forma mutevole sia nel continuo arzigogolo intorno a concetti semplici, come le energie necessarie ad aprire una confezione di peperoncino o il modo in cui Filomena si pone domande mentre interroga Gambino. È quella del linguaggio la deriva che hai voluto raccontare?

“Sì, nella misura in cui la deriva del linguaggio comporta la deriva di tutto il resto, essendo il linguaggio la cosa di cui siamo fatti e la cosa attraverso la quale supponiamo di rapportarci al mondo, che nel libro si sospetta creato dal linguaggio stesso e dunque inesistente di per sé.

La deriva è quindi onnicomprensiva a partire dal linguaggio, che difatti arranca su se stesso e gira a vuoto perfino sulla più semplice delle azioni umane. Parlo qui di lingua, in particolare, ma anche di linguaggio non verbale, osservato nel libro da un’ottica straniata.

In Filomena questo aspetto arriva al parossismo proprio perché Filomena si autopercepisce come linguaggio stesso, dunque come mondo: nel momento in cui Gambino fa irruzione in questo mondo-corpo-linguaggio eludendo il controllo di Filomena, il linguaggio va in crisi e inizia a disperdersi in giri sintattici e catene di incisi in cui diventa difficile rintracciare un ordine razionale. Questa irruzione accade nella prima frase del libro, dunque tutto ciò che segue è madre e vittima di una lingua che tenta di essere assertiva benché sia consapevole di non poterlo essere.

Il risultato è la confusione, il processo è l’ordine. L’ordine non esiste.”

Ma si diserta davvero finché s’incontrano solo estranei, dico luoghi e persone: estranei: tutto estraneo, deve essere, perché finché s’incontrano solo estranei non esiste obbligo di mente, quella restrizione che chiameremo – futuro? – per comodità abitudine, o rituale, lei sa, ogni seconda volta è la prima – riconoscere un’esplosione vedendone un’altra, per esempio? – non esattamente ma l’esempio può aiutare a capire – , ogni seconda volta è la prima, dico, perché è quella in cui si riconosce e stabilisce un nesso per analogia o contrasto, che poi diviene un piccolo dogma e non ce ne accorgiamo neppure – un po’ come se questo fosse il mio primo negroni, e cioè il secondo, e ne potessi apprezzare il potenziamento alcolico per il semplice confronto – e l’esperienza passerà poi per confronti multipli e indefiniti e chissà quale negroni sarà mai questo per me: il millecentodue? il dodicimilaventotto? il settecentodieci?

A complicare le cose viene anche l’ordine con cui vengono narrate le storie, in continua mutazione sempre a catene di tre. In questo modo si crea una specie di dialogo, domande poste in una storia che trovano risposta in un’altra, mentre comincia ad aleggiare il dubbio che tutti i tecnicismi chirurgici, cantieristici, astronomici, agronomici (l’elenco potrebbe continuare a lungo) non siano presenti per caso ma per un motivo ben preciso. O forse è un’illusione della nostra necessità di relazioni e schemi rigidi?

  • La struttura del romanzo mischia continuamente l’ordine delle tre storie. C’è una motivazione precisa dietro questa sequenza?

“Sì, ed è una motivazione molto semplice: cambiando l’ordine degli addendi, il risultato è sempre il caos.

Come ho accennato prima, il tentativo tutto umano di ordinare il disordine subisce un continuo scacco poiché i concetti di ordine e disordine sono altrettanto umani e la possibilità che le cose funzionino con logiche o non logiche completamente al di fuori della piccola scacchiera del nostro pensiero – che comprende ad esempio i concetti di funzionamento, scacchiera, piccola, del, pensiero – è talmente ampia da sfiorare la certezza: ennesimo concetto, va da sé, tutto umano.”

Li chiamano negozi, bar, pub, discoteche, li indicano come esercizi commerciali in cui siamo tenuti a fare esercizi di ritrovo due volte a settimana, almeno in questa prima fase e andando incontro alla seconda e poi alla terza, coi nostri profili pubblici difficilmente hackerabili, difficilmente bugiardi: si dice prenderemo treni, saliremo su aeroplani, viaggeremo su navi, diventeremo i romanzi che amiamo. Intanto qui e ora, di notte, si accendono le basse luci sulle strade come occhi di gatti in agguato, pronti a fare un balzo e a inghiottire, a fare bolo di estranei masticati a gruppi.

Non si fatica a voler bene ai personaggi di Deriva, provare empatia per le loro (più o meno) umane vicende anche nel contesto bizzarro in cui sono inserite. Sperduti riesce a tratteggiarli con grande abilità, a renderne riconoscibili le voci nonostante la comune tendenza a dilungarsi, sbordare, faticare a tenere il punto. Con l’uomo senza nome, poi, abbiamo un collegamento diretto, l’ansia della prigionia che ci attanaglia dal lockdown del 2020 alle quarantene di questi giorni: ma se per noi la prigione è la casa, per lui l’incubo sta fuori dalla porta.

  • La società in cui vive l’uomo senza nome obbliga le persone a uscire di casa e incontrarsi, l’opposto di ciò che abbiamo vissuto durante il lockdown. È stata quella situazione a ispirarti o ci sono riferimenti meno immediati dietro quell’idea narrativa?

“L’idea di questo blocco narrativo è precedente al lockdown, ma il lockdown l’ha per così dire accompagnata alla sua forma definitiva.

Mi spiego: la categoria dell’inversione è tra quelle che più frequento nella scrittura. Mi piace pormi il problema di come sarebbero le cose – singoli atti o interi sistemi sociali – se fossero subordinati a una logica opposta a quella abituale. È un buon esercizio mentale e aiuta a non dare nulla per scontato, collocando il pensiero in altre identità.

Ora, la pandemia ha fatto sì che ci trovassimo improvvisamente a fare un esercizio del genere, per causa di forza maggiore, nella vita di tutti i giorni: incontrare persone, da animali sociali che siamo, è diventata la cosa da non fare.

Per me, ambientare una storia nella contingenza in cui ci trovavamo sarebbe stato ridondante: esattamente come in tutte le altre situazioni, quella che chiamiamo realtà condivisa – uso queste parole per intenderci, non credo che sia davvero condivisa –, narrativamente non m’interessa. Dunque ho fatto quel che faccio spesso: ribaltare. Mi sono però trovato a ribaltare una situazione già ribaltata, processo molto appagante per la mia misantropia che ha trovato uno sfogo, potendo indicare la norma sociale come distopia.

Se non ci fosse stato il lockdown avrei avuto due opzioni: immaginare una società in cui è vietato incontrarsi, contro la naturale predisposizione dei cittadini – più o meno quel che è accaduto –; immaginare una società in cui è il non incontrarsi a essere naturale e di conseguenza l’obbligo di farlo viene percepito come un’imposizione – ciò che ho scritto. Considerato il lockdown, mi rimaneva una sola scelta. Come si vede, comunque, il senso di entrambe le soluzioni non può che cambiare dal momento in cui una delle due si è trovata esclusa dal novero delle cose solamente immaginate.”

Un libro come Deriva può essere sicuramente definito coraggioso, almeno all’interno di un panorama editoriale che, con le dovute eccezioni, premia principalmente ciò che è considerato affine alle mode del momento. Per gli stessi motivi è difficile trovare una casa editrice disposta a scommettere su un romanzo simile, scommessa raccolta (e vinta) da pièdimosca edizioni.

  • Deriva è il secondo libro che pubblichi con pièdimosca edizioni: com’è nato il rapporto con la casa editrice?

“Dal 2017 sono titolare, insieme a Francesca Chiappalone, di Mannaggia, una libreria indipendente di Perugia, città in cui vivo dal 2016.

Pièdimosca edizioni nasce dall’esperienza dello studio editoriale settepiani, fondato poco dopo l’apertura della libreria da Elena Zuccaccia e Costanza Lindi.

Ci siamo conosciuti così: per via della libreria e dello studio editoriale, che di lì a poco ha pubblicato il numero 0 della rivista settepagine su cui è apparso un mio racconto. Un altro racconto è apparso sul numero 3 della stessa rivista e nel frattempo, nel 2019, è nata anche la casa editrice, strettamente legata allo studio ma con un più ampio organico, alla quale ho proposto un’antologia da me curata e interamente scritta da bambine e bambini di otto e nove anni, Quaranta cose inesistenti, e una nuova edizione de Le cose inutili, originariamente pubblicato da CaratteriMobili nel 2015 e riproposto da pièdimosca nel 2020.

La collaborazione proseguirà quest’anno, come accennato, con la raccolta Le regole di questi mondi.”

La donna le mette la mano sulla fronte e il fiato (fumatrice) nel naso. Il suono vaporoso, l’odore di colla: la lacca piove umida e intrappola i capelli nella forma più coerente con il vestito da sposa, inchioda i fili di perline sul cranio (prurito da non grattare).

La parrucchiera (profumo dolce) si sposta e permette a Lavinia di vedersi nello specchio.

Estratto di Niente di niente di me, microfinzione di Alessandro Busi per multiperso
  • In collaborazione con la casa editrice è partito da poco anche un tuo progetto di micronarrazione, multiperso. In cosa consiste esattamente e com’è nato il tuo amore per la forma breve (quando non brevissima)? Hai altri progetti per il futuro?

“Come ho scritto sul blog in quella che potrebbe sembrare una battuta, il multiperso è stato generato a ottobre scorso da una mia notte insonne.

Inizialmente era concepito come spazio – solitario – dedicato ad appunti di lettura, cioè brevi testi a caldo su alcuni dei libri che leggevo. Successivamente – nel giro di poche settimane – ho deciso di renderlo uno spazio collettivo sia per quanto riguarda gli appunti di lettura sia con l’aggiunta di una seconda sezione dedicata alle microfinzioni: genere a cui sono particolarmente legato da circa un decennio come autore e da sempre come lettore. Da lì a proporre un’antologia a pièdimosca – dev’essere un vizio – il passo è stato breve: fino a giugno selezionerò microfinzioni che diventeranno un libro nel 2023. Tutti i dettagli del progetto si trovano a questo link: https://multiperso.wordpress.com/lantologia/.

Sulla forma breve: non saprei indicare un tempo e un modo per la mia predilezione. Voglio dire che non ho alcun ricordo delle mie opinioni o dei miei gusti letterari, anche molto “antichi”, che non contemplassero una massiccia dose di racconti.

Per me la brevità in letteratura si associa ad alcuni termini il cui elenco può apparire contradditorio. Non lo è: esattezza, stile, densità, mistero, deragliamento, ricerca, sperimentazione, sospensione. Cose molto distanti, insomma, da una certa idea di brevità che vedo prendere piede.

I miei progetti futuri vanno sia in direzione della microfinzione che in direzione del romanzo, ma si tratta di idee in cantiere, dunque riservate per ora a un pubblico di soli umarell.”

Fino al 2001, nessun episodio degno di nota. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto di quell’anno, Franco si sveglierà appena dopo le sei e trenta, convinto che la campana delle sette debba coincidere con un altro colpo. Nei successivi venti minuti lo si vedrà correre in undici case. La campana delle sette, in questo modo, non porterà decessi. Ripeterà l’operazione ogni mattina. Non ci si uccide dopo aver ricevuto una visita: una questione di forma, di rispetto.

Estratto di Come un dovere, prosa di Carlo Sperduti apparsa sul blog La morte per acqua

Nonostante un gran numero di pubblicazioni (Caterina fu gettata – Intermezzi 2011, Valentina controvento – Intermezzi 2013, Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi – Gorilla Sapiens 2013, Ti mettono in una scatola – Intermezzi 2014, Lo sturangoscia con Davide Predosin – Gorilla Sapiens 2015, Sottrazione – Gorilla Sapiens 2016, Filomena non era bugiarda – Lavieri Editore 2018, Volevo fermarmi a tre righe ben scritte – Gorilla Sapiens 2019) Sperduti non si nega al mondo delle riviste letterarie: non potevo esimermi quindi dal chiedergli un parere riguardo alla situazione attuale.

  • Hai pubblicato e tuttora pubblichi racconti su riviste letterarie: come ti sembra il panorama attuale e quali ti sembrano più interessanti in termini di ricerca di nuove forme letterarie?

“Qualunque risposta puntuale apparirebbe tendenziosa, dato che ci sono riviste che mi pubblicano e riviste che mi rifiutano, anche sistematicamente, senza contare quelle a cui non ho mai proposto nulla e quelle che non conosco – quante saranno? forse la maggioranza? – quindi darò una risposta generale che, se non arriva ad annullare la domanda, in parte la riformula implicitamente ponendo la questione in altri termini sulla base di quel che mi capita di leggere.

Senza voler fare di tutt’erba un fascio e consapevole dell’esistenza di alcune eccezioni, la mia impressione è che nell’ambito delle riviste letterarie ci siano, come si suol dire, una notizia buona e una cattiva.

La buona notizia è una giusta e abbondante attenzione nei confronti di autrici e autori giovani e giovanissimi: un dato che dovrebbe essere ovvio ma purtroppo ovvio non è, quindi ben venga, anche perché non di rado i testi in questione sono di qualità; la cattiva notizia è che la ricerca di nuove forme letterarie, per usare la tua stessa definizione, mi pare quasi del tutto assente: si punta molto su certi temi e contenuti importanti, questo è vero, ma formalmente parlando si resta imbrigliati in alcune impostazioni date e da lì difficilmente ci si scosta, riducendo la ricerca formale, quando c’è, a qualche espediente a effetto: in altre parole mi sembra che ci siano in circolazione poche idee di letteratura ritenute accettabili – e in questo si fa nella nicchia, tristemente, il gioco dei prodotti di massa – mentre io, nella salvaguardia della molteplicità, continuo a pensare questo: ogni testo enuncia una propria idea di letteratura e quindi le idee di letteratura sono potenzialmente infinite; ogni testo, per essere efficace, deve prendere la mira, formalmente parlando, su un proprio linguaggio e una propria struttura, non necessariamente accomodanti o immediati; penso inoltre che anche questo dovrebbe essere ovvio ma purtroppo ovvio non è, e purtroppo, in questo caso, non vedo strade aperte se non sporadicamente: di solito viuzze cieche a senso unico o interrotte per lavori in corso che non verranno mai portati a termine.

In sintesi, credo che per dire cose diverse ci sia bisogno di dire in modo diverso, e che anzi il modo sia la cosa da dire, se proprio dobbiamo dire qualcosa: dire cose diverse nello stesso modo – o negli stessi pochi modi – è del tutto innocuo – la letteratura invece è tutt’altro che innocua – e non sposta di un millimetro il discorso sulla narrativa, se è di narrativa che si vuole parlare.

D’altra parte, tornando ai miei racconti: senza farne una questione di qualità poiché non posso certo autogiudicarmi in quel senso, quelli che arrivano a una pubblicazione in rivista – sia essa in rete o cartacea – sono di solito quelli più immediati o accomodanti.”

Un’altra cosa da cui non potevo esimermi, viste le sensazioni provocate dalla lettura di Deriva, era di chiedere a Sperduti qualche consiglio di lettura: quali possono essere i libri consigliati dall’autore di un simile esperimento letterario? Di certo tutto fuorché banali.

  • Sono incappato in un articolo riguardante la presentazione di una tua vecchia raccolta, Sottrazione, durante la quale hai detto di essere stato “accusato” di prendere in giro i lettori a causa dell’allontanamento, nelle tue storie, da uno schema rigido che prevede un inizio, uno svolgimento e una fine. Quali libri ti sentiresti di consigliare a chi invece cerca proprio un tipo di narrazione che faccia a meno della linearità a tutti i costi?

“È curioso come alcuni lettori si sentano presi in giro quando un libro li presuppone intelligenti e non stupidi.

Sulla stessa paradossale linea di pensiero, ho sentito disapprovare o rifiutare libri e racconti – miei e non – per la necessità di dover rileggere alcuni passaggi per capirli o per la mancanza di una vera e propria conclusione.

Io mi sento preso in giro quando leggo un libro di cui capisco tutto e subito. Punti di vista.

Assurdità a parte, la risposta a questa domanda è fin troppo difficile da condensare in pochi titoli, quindi abbandono l’idea di non omettere e pesco a caso da alcune delle mie letture, vecchie e nuove, classiche e contemporanee: Ferdydurke di Witold Gombrowicz (Il Saggiatore), Pong di Sibylle Lewitscharoff (Del Vecchio Editore) Glossa di Juan José Saer (La Nuova Frontiera), Il serpente di Luigi Malerba (Mondadori), Manodopera di Diamela Eltit (Alessandro Polidoro Editore), Figure nel salotto di Norah Lange (Adelphi), La passione secondo G.H. di Clarice Lispector (Feltrinelli), Farabeuf o la cronaca di un istante di Salvador Elizondo (Liberaria Editrice), La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec (Rizzoli), Locus Solus di Raymond Roussel (Edizioni Grenelle), La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne, Una pinta d’inchiostro irlandese di Flann O’Brien (Adelphi), Ulisse di James Joyce, Nuovo commento di Giorgio Manganelli (Adelphi), La promessa di Silvina Ocampo (La Nuova Frontiera), Genesi 3.0 di Angelo Calvisi (Neo Edizioni), Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, La gelosia di Alain Robbe-Grillet (Einaudi), Ida o il delirio di Hélène Bessette (Nonostante Edizioni), Le poltrone appassite di Felipe Polleri (Edizioni Arcoiris), Sul riccio di Éric Chevillard (Prehistorica Editore), Binari di Monica Pezzella (TerraRossa Edizioni), I due allegri indiani di Juan Rodolfo Wilcock (Adelphi) Le statue d’acqua di Fleur Jaeggy (Adelphi), La civetta cieca di Sadeq Hedayat (Carbonio Editore), Uccidendo nani a bastonate di Alberto Laiseca (Arcoiris Edizioni), Bestiario di Julio Cortázar (Einaudi), Il pantarèi di Ezio Sinigaglia (TerraRossa Edizioni), La questione dei cavalli di Arianna Ulian (Laurana Editore), Il libro della volpe di Enrico Ferratini (pièdimosca edizioni), Tropismi di Natalie Sarraute (Nonostante Edizioni), Finzioni di Jorge Luis Borges (Adelphi), L’incarico di Friedrich Dürrenmatt (Adelphi), La carne di Cristò (Neo Edizioni), La città condannata di Arkadij e Boris Strugackij (Carbonio Editore), Veronica, i gaspi e Monsignore di Marcello Barlocco (Giometti & Antonello), Cancroregina di Tommaso Landolfi (Adelphi), Un dramma davvero parigino e altri racconti di Alphonse Allais (Editori Riuniti), Racconto grosso e altri di Paola Masino (Rina Edizioni).”

A questa lista aggiungete pure il suo libro: lo trovate qui, lasciatevi avvolgere e allargate i vostri orizzonti.

Non ci stiamo allontanando, Gambino, non deve preoccuparsi. Ci stiamo separando, come fanno i continenti, per metterci a fuoco e poterci desiderare: il desiderio è il contrario della lontananza, vede?, è scritto proprio qui.

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Racconto in musica 85: Le mani più veloci dell’Ovest (Steve Gunn – Stonehurst cowboy)

L’appetito vien mangiando, il sonno vien dormendo e io, a furia di stare in pausa, ho finito per far durare le ferie natalizie quasi fino a febbraio: che ci volete fare sono un accidioso, se mi fermo è finita. Per fortuna sono arrivat* un bel po’ di narrator* nuov* a svegliarmi dal letargo, quindi finisco questo cappello introduttivo fra i più brutti che abbia mai fatto iniziando a presentarvi Laura Scaramozzino, autrice del primo racconto del 2022 e grandissima appassionata della musica di Steve Gunn.

Quello con Laura è stato un incontro casuale, avvenuto sulle pagine digitali di una rivista che ha pubblicato entramb*: da lì a proporle un passaggio su Tremila Battute il passo è stato breve, contando che la musica è una fonte d’ispirazione anche per le sue storie. Il suo curriculum letterario è lungo e variegato, fra partecipazioni ad antologie (Materia oscura, raccolta di racconti di fantascienza edita da Delosdigital, e Strane creature, reinterpretazioni della realtà pubblicate da Watson Edizioni, per citare solo un paio delle sue innumerevoli partecipazioni), romanzi (il fantascientifico Screaming Dora e Louise Brooks. Due vite parallele, libera rivisitazione ucronica della vita di una delle prime stelle del cinema hollywoodiano, entrambi usciti per Watson) e incursioni nella letteratura per ragazzi (il distopico Dastan verso il mare, uscito nel 2021 per Edizioni Piuma e selezionato al Premio Internazionale di letteratura Città di Como). Anche il mondo delle riviste letterarie l’ha accolta con entusiasmo, a partire da Inkroci (qui e qui) per proseguire con Quaerere, Sulla quarta corda, Lost Andromeda Tales, Clean Rivista, In fuga dalla bocciofila, Suite italiana e, ci scommettiamo, molte altre in futuro.

Passiamo invece a Steve Gunn, artista originario della Pennsylvania per cui l’accezione “poliedrico” è riduttiva. Inizia la sua carriera come chitarrista dei Violators, la band che accompagna Kurt Vile nelle sue esibizioni dal vivo, ma già dal 2007 affianca a questo impegno una produzione solista che lo vede pubblicare negli anni un numero sterminato di lavori, spesso in collaborazione con altri artisti (notevoli e sperimentali i suoi progetti con Mike Gangloff, Melodies for a savage fix, e Mike Cooper, Cantos de Lisboa). Caratterizzato da uno stile che mescola blues e country, autore di testi profondi e non di rado introspettivi, nel 2016 Gunn viene messo sotto contratto dalla Matador Records, una delle etichette indipendenti più iconiche del panorama statunitense che già pubblica i dischi di Vile (con cui l’anno prima ha fatto uscire uno split). Il risultato di questo matrimonio è Eyes on the lines, primo di tre album (i successivi saranno The unseen in between, 2019, e Other you, 2021) in cui alterna brani intimi voce-chitarra ad altri con arrangiamenti più elaborati, proseguendo una sperimentazione sonora che lo ha portato a realizzare anche un Ep di soli tre pezzi nel 2020, Livin’ in between, in cui a fianco di una cover di Neil Young, influenza facilmente prevedibile, appare una versione totalmente stravolta di un classico dei Misfits, Astro zombies: se non è una prova dell’amore per la musica a tutto tondo questa, io non so cos’altro possa convincervi.

Stonehurst cowboy, quarta traccia di The unseen in between, è una delle canzoni più personali e dolorose di Gunn, dedicata al padre morto. Laura è riuscita a prendere spunto da quelle parole e dalle malinconiche note che l’artista estrae dalla sua chitarra per accompagnarci in un cammino luttuoso, pervaso di tristezza ma anche di gratitudine per un amore che unisce al di là di ogni barriera: quello per la musica. Trovate il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, in una versione acustica suggerita dalla stessa Laura: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Le mani più veloci dell’Ovest, di Laura Scaramozzino

Anche le mie vanno veloci. Sfiorano, pizzicano, segnano. E lasciano fare. Cancello spazi tra le corde e nelle pause ricompongo ciò che alle dita sfugge. Il fingerpicking è una sintesi elettrica di acqua e luce. È la musica, padre, il sole sopra i capelli. Un appunto sul bloc notes azzurro.

Mi piacciono le giacche scure, assottigliano la mia figura nella penombra. Amo apparire inconsistente, svanire sul palco. La chitarra è una presenza sufficiente. Oggi, però, è diverso, avrei bisogno di consistenze. Della mia e della tua. Vorrei, padre, che le nostre mani misurassero il tempo. Le tue con un gancio a vuoto nel brusio di un pranzo, le mie sullo strumento a cui hai sempre sorriso. Ai tuoi tempi avresti potuto gettare a terra chiunque, i tuoi pugni erano quelli di un eroe dei manga. Un frullio invisibile. Un superpotere. Ci scherzavi su e mi mostravi le mosse. Ridevi di tutto ciò che avresti potuto fare e non hai mai fatto. Del Vietnam che non hai visto ma scorreva nel tuo sangue, nei tuoi diciott’anni senza preavviso.

Mamma ha gli occhi rossi e il vestito nero. Non si è seduta un momento. Ha servito tutti, mi si è avvicinata e ha distolto lo sguardo. Non ho mai avuto una faccia contenta, nonostante la tua allegria. L’allegria che ti ha salvato le notti e la voce. Non che io sia un tipo triste, te lo dicevo sempre. Sono solo uno che si concentra. Non ho altro modo di guardare alle cose.

I presenti mi lasciano stare. La piega delle labbra verso il basso aiuta, e così le spalle che si curvano. La gente non sa quanto pesino gli strumenti, sembrano così leggeri nelle mani di chi li suona. Qualcuno potrebbe pensare che il mio dolore è troppo grande e un giorno, forse, lo sarà davvero. Lo diventerà al punto che ci scriverò un disco. Parlerò di te, di quando sei tornato dall’addestramento e solo gli alberi erano quelli di sempre. Lo farò presto, quando la ruga sulla fronte non sarà più solo uno sforzo di concentrazione. Del resto, padre, non abbiamo altro modo per reagire. Ci restano i racconti e qualche memoria delle domeniche pomeriggio.

Potrei prendere un vassoio sul tavolo in fondo alla sala, girare fra le sedie e gli uomini in nero. Sporgere le fette di tacchino freddo a un vicino o una zia di cui non ricordo il nome, ma preferisco rimanere qui, a osservare. Come ho sempre fatto.

Quando ti sei ammalato, hai cominciato a guardarmi in modo diverso. Come se, improvvisamente, ti assomigliassi. Come l’avessi scoperto per caso. Forse hai riflettuto sulle mani, su quelle mani veloci come il vento. Sulle dita che si serrano in un pugno o si sciolgono sulla chitarra. Le differenze sono tutto e sono niente, padre. Il tuo dolore e il mio sanno incontrarsi. Il Vietnam e il cancro hanno segnato il tempo. Un tempo che era il tuo e adesso è il nostro, delle parole. E della musica.

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Oltre il sensazionalismo, dentro la denuncia: la scommessa vinta de Il dito di Dio

Il 13 gennaio sono passati esattamente dieci anni dal naufragio della Costa Concordia. Di quell’evento che tutti ricordiamo, chi più chi meno, rimangono alcune cose impresse e non per forza le più importanti: l’immagine della nave sdraiata su un fianco, la pratica dell’inchino che ha causato l’incidente, l’ordine di tornare a bordo di un esasperato Gregorio De Falco al capitano della nave Francesco Schettino, le vittime. Quante esattamente? Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma penso di non essere l’unico a cui le commemorazioni di questi giorni hanno ricordato quel numero, trentadue, oltre a vari dettagli che nel tempo avevo dimenticato. Gli anniversari servono a mantenere vivo il ricordo, un po’ a farci credere che cose del genere non succederanno più, ma serve tatto per riportare a galla certe vicende senza fare pornografia del dolore.

Quando ho sentito che Pablo Trincia avrebbe fatto un podcast su quel drammatico naufragio i miei dubbi erano molti. Il suo primo e più famoso lavoro, Veleno, era stato un caso mediatico sia per la vicenda che portava alla luce (l’allontanamento dalle famiglie di origine di sedici minorenni, a causa di accuse rivelatesi poi infondate di satanismo e pedofilia) che per la qualità con cui la stessa era narrata, e probabilmente ha fatto da apripista al successo che tuttora arride ai podcast; allo stesso tempo quel titolo, Il dito di Dio – Voci dalla Concordia, mi faceva presagire una narrazione esasperatamente enfatica, coi fari puntati unicamente sui drammi e su come l’onnipotente ci avesse messo lo zampino per rendere quell’incidente meno tragico. Alla fine è un ibrido fra il rigore giornalistico e la necessità affabulatoria quello che mi sono ritrovato a seguire per alcune settimane, al ritmo di due puntate ogni giovedì per arrivare fino al 13 gennaio 2022 con l’ultimo episodio, e posso dire che il rispetto per le vittime ha vinto sulla spettacolarizzazione a tutti i costi: più di tutto, però, Trincia è riuscito a mettere in luce molte delle cose che in questi dieci anni avevo dimenticato, oltre ad alcune di cui non avevo mai nemmeno sentito parlare.

Il primo segnale che Il dito di Dio non sarebbe stata un’operazione biecamente commerciale è la presenza di testimonianze dirette di chi quel giorno era sulla nave, persone che nel naufragio hanno perso dei famigliari o sono stati a un passo dal perderli. All’inizio non si capisce come mai siano state scelte proprio quelle persone, persi nel seguire il lento avvicinarsi della nave all’Isola del Giglio attraverso eventi semplici e banali che, unico vero difetto della produzione, vengono continuamente messi in contrasto con ciò che sta per avvenire, drammatizzando eccessivamente la narrazione: col proseguire delle puntate però, arrivando ai momenti che precedono il naufragio e a quelli durante il lento inclinarsi della Costa Concordia, si capisce che le varie storie che ci vengono raccontate sono destinate in molti casi a intrecciarsi, che proprio quelle testimonianze danno modo di avere un quadro il più possibile ampio di cosa è successo quella notte d’inverno sul ponte di comando, fra i corridoi allagati, vicino alle scialuppe prese d’assalto e anche fra chi, a terra, ha fatto di tutto per prestare soccorso a chi stava rischiando inaspettatamente la vita.

Mentre il tempo che manca all’impatto con gli scogli dell’Isola ci viene costantemente ricordato capiamo perché quella disgraziata manovra di avvicinamento è stata tentata, e si rimane basiti di fronte alla motivazione: la semplice richiesta del maître della nave, Antonello Tievoli, un piccolo favore per rendere omaggio alla propria madre (che, come scopriremo, nemmeno ne vide il passaggio). Un errore umano compiuto per futili motivi, reso criminale dalle successive reazioni perché non è per l’impatto che il comandante Schettino è stato condannato a sedici anni di carcere, bensì per la tardiva segnalazione di abbandono della nave che, a fronte degli evidenti segni che il naufragio era ormai inevitabile, è stato comunque procrastinato per un’ora. Trincia ci porta sul ponte di comando con l’audio originale, ci fa percepire la tensione e quasi viene da mettersi nei panni dei presenti, consapevoli dell’errore commesso e ancora incapaci di scenderci a patti (Schettino chiederà a una vedetta della guardia costiera di trainare la nave, una richiesta ridicola a fronte delle dimensioni dei due mezzi), una serie di tentennamenti che porteranno alla morte di trentadue persone con la consapevolezza che il conto sarebbe potuto essere molto più alto se il vento, il “dito di Dio” evocato dal titolo, non avesse evitato alla Costa Concordia di colare a picco in mare aperto invece di adagiarsi accanto agli scogli.

Fra quelle vittime ci sono madri, fratelli, nonni dei testimoni che Trincia ha convinto a raccontare la loro esperienza, un resoconto toccante e vivido di quei momenti e di ciò che è stato dopo, l’attesa per il ritrovamento dei corpi che, per la famiglia di Maria Grazia Trecarichi e per il fratello di Russel Rebello, durerà rispettivamente mesi e anni (i resti di Rebello verranno ritrovati solo in seguito allo smantellamento della nave, nel novembre 2014). Non è possibile riassumere in un articolo le emozioni che provoca sentire il calvario a cui sono andat* incontro, più facile è invece evidenziare le storture che stanno dietro a questa storia anche prima del naufragio.

“Cose del genere non succederanno più”

Parliamo di un timoniere, Jacob Rusli Bin, che si è trovato a dover effettuare una manovra di emergenza capendo poco e male gli ordini di Schettino, essendo un indonesiano che parlava solo inglese e che fino a venti giorni prima aveva compiti di pulizia e verniciatura; di politiche economiche criminali della Costa Crociere, capace di vezzeggiare i propri clienti risparmiando su gran parte del personale di bordo, pagato 900 euro per 12 ore di lavoro giornaliere, sulle misure di sicurezza (il generatore di emergenza andò in tilt dopo l’impatto, nonostante non fosse in una zona invasa dall’acqua) e persino sui risarcimenti, la cifra ridicola di 16000 euro che comunque, mal consigliati da avvocati di cui è forse legittimo dubitare della buona fede, hanno accettato la stragrande maggioranza dei passeggeri; di colpe mai veramente approfondite della stessa società nel ritardo con cui è stato dato l’allarme, con la dirigenza preoccupata del rimborso da corrispondere a un eventuale mezzo di soccorso che avesse potuto trainare la nave. Trincia non omette nulla, e terminato l’ascolto spero che molte persone saranno d’accordo con me che, se Foster Wallace (sì, sono riuscito a nominarlo anche in questo frangente) ci teneva a non fare mai più l’esperienza della crociera, noi dobbiamo tenerci a non mettere mai i nostri soldi in mano a questi bastardi.

La cosa più terribile che evidenzia Trincia, l’ultima su cui pone i riflettori, è però la consapevolezza che questa della Costa Concordia è una storia a “lieto fine”, in cui ci sono stati un processo, una condanna al carcere per quello che, al di là delle sue evidenti colpe, appare sempre più un capro espiatorio, dei risarcimenti. Molto peggio è andata a chi viaggiava sul traghetto Norman Atlantic il 28 dicembre 2014, nemmeno tre anni dopo le dichiarazioni che eventi del genere non dovevano più succedere: un incendio scatenatosi nel garage della nave, stipato oltre i limiti, ha costretto le circa cinquecento persone a bordo a lottare con pavimenti così bollenti da sciogliere le scarpe da una parte e, dall’altra, con l’ipotermia causata da temperature gelide e grandine. A questo incidente semidimenticato, di cui anche io avevo ricordi vaghissimi, è dedicata la chiusa finale, per mostrare quanto il clamore mediatico può fare per accelerare una giustizia che non possiamo dare per scontata e che per le undici vittime, i diciannove dispersi e le innumerevoli persone che aspettano ancora un risarcimento anche solo per i mezzi distrutti nel naufragio (chi aveva un camion che gli era essenziale per lavorare si è ritrovato dopo quelle trentasei ore d’inferno anche senza impiego) deve ancora arrivare.

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Racconto in musica 84: Ero (Jude – Life lays me down)

Sapete cosa si intende con musica “diegetica”? Io l’ho scoperto qualche mese fa, a un cineforum sul cinema sudcoreano tenuto alla Corte dei Miracoli (locale ubicato fra Porta Genova e i Navigli che consiglio a qualsiasi milanese di frequentare) da Alessandro Andrea Lonardo: in pratica si tratta di quella musica che è direttamente percepita dai personaggi, come quella che proviene da una radio, da un giradischi o è direttamente suonata da qualcuno nella scena. Tutto questo pippone non serve a darmi un tono (l’ho già detto sopra che fino a qualche mese fa ignoravo il termine), bensì a presentarvi il primo racconto per Tremila Battute in cui la musica è direttamente citata nel testo e quindi, se vorrete immaginarvi la storia di Gino Ciaglia come una sequenza cinematografica, diegetica: a risuonare, nella radio del protagonista, è una canzone del cantautore statunitense Jude.

Non so se Gino abbia una passione per il cinema, di certo gli piace scrivere e, oltre a questo, scacciare i piccioni che tormentano il busto di Carlo Levi nella sua Eboli. Nel 2016 ha pubblicato con la casa editrice Transeuropa il romanzo Deus ex Eboli, mentre suoi racconti sono apparsi in alcune antologie e su svariate riviste letterarie: potete già leggerne su Fillide, Rivista Blam e Quaerere, prossimamente su Risme, Smezziamo e Sguardindiretti.

Visto che abbiamo iniziato parlando di cinema rimaniamo lì vicino: qualcuno di voi ha visto Lost? Io ai tempi lo seguii con devozione assoluta (a posteriori malriposta visto il progressivo calo qualitativo e le quantità di domande rimaste senza risposta) e forse per questo mi ricordo della canzoncina You all, everybody che Charlie, la rockstar drogata della compagnia, canticchia in uno dei primi episodi per far sapere a tutti che lui è uno famoso: quella canzone, scopro oggi, è stata scritta da Michael Jude Christodal, in arte Jude, cantautore di Boston classe 1969. Il cinema e la televisione sono componenti importantissime per la sua carriera, iniziata nel 1997 con la pubblicazione del disco 430 N. Harper Ave per l’etichetta indipendente Fish of Death, i cui brani saranno parzialmente ripresi e riregistrati nel successivo album, No one is really beautiful, con il quale si celebra un sodalizio con la Maverick, label fondata da Madonna nel 1992. Finire all’interno del gruppo Warner aiuta Jude a dividere il palco con artist* di calibro internazionale (Alanis Morissette, The Cranberries e sua maestà Tori Amos, fra l* altr*) e ad apparire nella colonna sonora del film City of Angels, ma qualcosa evidentemente non funziona e dopo il disco del 2001 King of yesterday (uscito nella data pre-pandemia più sfortunata possibile, l’11 settembre) le strade di Jude e dell’etichetta si separano.

Tornato fieramente indipendente il cantautore pubblica due album in totale autonomia, Sarah (2004) e Redemption (2006), poi decide di fare comunella con altri musicisti e con Chris Seefried, Jeff Russo (ricordate quando vi avevo parlato dello splendido videogioco What remains of Edith Finch? Le musiche le ha scritte lui!) e Dave Gibbs forma la band rock-acustica Low Stars, di cui esce l’omonimo album di debutto nel 2007. L’esperienza si rivela breve e Jude comincia a concentrarsi più sulla sua carriera a Hollywood e dintorni: da anni infatti le sue composizioni (inedite e non) finiscono in film e serie televisive, tanto che potreste averle sentite all’interno di Dr. House, Dawson’s Creek, One tree hill, The O.C., Smallville, Final destination 2 e svariati altri prodotti non esattamente di premiere television. Nel 2016 torna a concentrarsi sulla propria musica pubblicando l’Ep Me and my monster, finanziato tramite crowdfunding sulla piattaforma PledgeMusic e ad oggi l’ultima sua uscita discografica.

Ieri era Natale e, seguendo una tradizione che nel 2022 potremmo già tradire anche quest’anno il racconto è a tema natalizio: non c’è però grande allegria nel testo di Gino che, attraverso poche immagini e un dialogo quasi surreale, delinea una scena prefestiva molto sui generis che non sfigurerebbe in un film. Jude e la sua chitarra ci mettono la colonna sonora, Life lays me down, una canzone disillusa ma non arresa che sfuma lentamente nella casa del protagonista così come sfuma il 2021 di Tremila Battute, che si prende due-tre settimane di pausa: ci vediamo l’anno prossimo, buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Ero, di Gino Ciaglia

Mi pare di aver sentito il campanello. Abbasso il volume della radio e attendo. La mente mi invia l’immagine di un dobermann.

Ora bussano. A stento riesco ad alzarmi dal divano. Vado alla porta, sollevo lo spioncino. È la mia vicina. Ha in mano un campanellino.

Apro.

«Devi fare Babbo Natale».

Resto in silenzio.

«Tutto bene?»

«A che ora?»

«Alle otto e mezza».

«E il vestito?»

«Macché vestito. Non ce l’ho nemmeno».

Aspetto.

«Ti spiego il piano. Ti faccio uno squillo all’ora prevista e ti lascio la porta aperta, io mi chiudo in bagno con i due mostri. Tu posi i regali sul pianerottolo, infili la testa in casa, fai ho ho e dai un paio di scampanellate».

Mi passa il campanellino.

«Ah, a momenti dimenticavo. Devi mangiare anche i biscotti e la carota. E bere il latte. Oddio!»

Reprime all’istante l’entusiasmo e abbassa la voce.

«Mi è appena venuta un’altra idea. Prima di scendere mettiti le scarpe».

Mi fissa i piedi.

«Ma perché sei scalzo. Non hai freddo?»

Resto in silenzio.

«Ti lascio fuori una bustina di farina, dai una spolverata a terra e ci cammini sopra. Fai le orme. Già che ci sei i regali non li lasciare fuori, sistemali davanti al caminetto. Non troppo vicino, non vorrei che una monachina desse fuoco alla carta e… d’accordo, non ci voglio pensare, no, mettili sotto l’albero, da sempre i regali si mettono sotto l’albero, giusto?»

Annuisco.

«È tutto chiaro?»

Annuisco di nuovo.

«Più tardi ti salgo i regali».

Mi fa l’occhiolino, si volta e inizia a scendere i gradini a due a due.

Aspetto che sparisca alla mia vista, richiudo la porta. Poi corro in bagno a vomitare.

Conosco la mia piccolina, non si offenderà se mi dedico per un istante a un’altra famiglia. Anzi. Tuttavia mi avvicino a una delle tante foto in corridoio e glielo chiedo. Nel dubbio, chiedo il permesso anche a mia moglie.

Ritorno alla radio e alzo di nuovo il volume. C’è Life Lays Me Down. Ritrovo Jude che dice:He was a saviour, I was a child Programmed behaviour and a Santa smile…”

Mi ributto sul divano.

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Un Dick minore fra visionarietà, patriarcato e fede: In senso inverso

Una delle mie prime passioni letterarie, quando veleggiavo fra l’adolescenza e l’età adulta, è stata la fantascienza. E con fantascienza intendo Philip K. Dick.

Il libro da cui è iniziato tutto

Ricordo che comprai i suoi primi due libri a una fiera a Bologna (l’ormai da tempo defunto Future Show). Uno era Ubik, dai più considerato il suo capolavoro, l’altro una raccolta di racconti lunghi intitolata L’uomo variabile, di cui era interessante la palese confusione della cover, che riportava la locandina dell’appena uscito Screamers – Urla dallo spazio (tutt’altro che epocale, ma fedele alla fonte letteraria) come se fosse una trasposizione del racconto che dava il titolo all’opera: peccato che non fosse così, visto che la fonte ispiratrice era invece il racconto Second variety (nella raccolta era presente anche Rapporto di minoranza, il che mi diede modo di capire quale scempio a livello di senso abbia compito Steven Spielberg col suo film, una delle mille libere trasposizioni che hanno costellato il panorama cinematografico da Blade Runner in avanti). Devo a Dick la lettura dell’I Ching, la passione per le storie strane e per i protagonisti tutt’altro che eroici, una certa attrazione per la filosofia e, last but not least, parte della motivazione che mi ha spinto a mettermi a scrivere: con tutti questi debiti spirituali il minimo che possa fare è recuperarne l’opera omnia, concedendomi un suo libro all’anno per evitare di finirli troppo presto, e per il 2021 (sul filo di lana) è toccato a In senso inverso.

La trama si svolge in un futuro prossimo (il libro è del 1967, ma ambientato nel 1998) in cui uno strano fenomeno scientifico chiamato Fase Hobart ha portato la realtà a invertire la rotta: il tempo si ritorce su sé stesso, i morti escono dalle tombe per ringiovanire fino a essere accolti di nuovo nell’utero, le sigarette si fumano a partire dalla cicca per poi riporle intere nei pacchetti e ci saluta con un “addio” per poi congedarsi con un “ciao”. Lungi dall’essere presa dal panico l’umanità si è adattata, trovando anche il modo di creare un sistema economico attorno a queste bizzarrie: la Biblioteca, un ente che ha il compito di cancellare tutte le scoperte nel momento in cui il suo creatore diventa troppo giovane per averle partorite, detiene gran parte del potere, mentre i Vitarium si occupano di disseppellire i redivivi, offrendoli poi al miglior offerente in maniera più simile a una casa d’aste che non ad un’agenzia funebre. In questo scenario dai toni gelidamente apocalittici si muovono il proprietario del Vitarium Fiasca di Hermes Sebastian Hermes (a sua volta redivivo), sua moglie Lotta e l’agente di polizia Joe Tinbane, che finiranno coinvolti in una situazione più grande di loro quando a risorgere sarà l’Anarca Thomas Peak, fondatore di un culto popolarissimo fra la popolazione nera ma pericoloso per le istituzioni.

In senso inverso propone alcuni dei tropi narrativi più cari a Dick: ci sono un potere oscuro che trama contro i protagonisti, la difficoltà a capire di chi fidarsi (una variante del tema “cosa è reale?”) e soprattutto l’esperienza religiosa, rappresentata dall’Anarca Peak che, come osserva lo scrittore e saggista Carlo Pagetti nell’introduzione, è un personaggio dietro cui si cela l’influenza del vescovo episcopale James Pike, figura controversa con cui lo scrittore ebbe un fitto colloquio per un lungo periodo. Anche i personaggi sono classicamente dickiani, dall’antieroe apparentemente destinato al fallimento incarnato da Sebastian fino a Lotta e Amy Fisher, due figure antitetiche rappresentative delle categorie in cui spesso Dick relega le donne: la concubina dolce e l’amante perfida.

C’è una lunga tradizione di personaggi femminili monocordi nella letteratura dickiana, figure ancillari la cui unica funzione sembra essere quella di aiutare indeffessamente il protagonista o di sminuirlo, mettendogli i bastoni fra le ruote. In senso inverso, contrariamente a quanto afferma il professore e saggista Emanuele Ronchetti nella postfazione, mette in campo due funzioni narrative più che due personaggi, donne che agiscono in base a logiche astratte e che, anche quando sembrano avere il potere dalla loro parte, finiscono per essere sfruttate come seduttrici compiacenti.

“Non dirmi dove siete” disse Sebastian.

“Mi venga un colpo se te lo dico, non con quella pazza scatenata vicino a te. Non ha affatto paura di te, vero? Le donne non hanno mai paura degli uomini con cui sono andate a letto.”

In senso inverso

Nel periodo in cui stava scrivendo questo libro Dick aveva appena divorziato dalla sua terza moglie, Anne Rubenstein, per convolare a nozze con la giovane Nancy Hackett. In una forma distorta Ann e Lotta incarnano queste due donne, l’ex moglie prevaricatrice e la nuova fiamma, ma la seconda appare tutto tranne che un tributo: debole e passiva, Lotta è un personaggio in balia degli eventi le cui uniche decisioni appaiono forzate e incoerenti, sempre in pericolo e sempre bisognosa di un uomo che la salvi. Se omaggio voleva essere segue una logica perversa, la stessa che, come racconta Emmanuel Carrère in Io sono vivo voi, siete morti (la biografia che dedicò a Philip Dick nel 1993), portò lo scrittore a dedicare a Rubenstein una delle sue rare incursioni nella letteratura realistica, Confessioni di un artista di merda: un libro sull’inferno coniugale pieno zeppo di dettagli tratti dalla loro vita di coppia, scritto nel periodo in cui tutto tra di loro sembrava andare a gonfie vele.

Se i personaggi femminili prendono spunto dalla vita vera lo stesso si può dire di quelli maschili: Joe e Sebastian, in modi diversi, rappresentano l’uno la versione idealizzata e l’altro il doppio negativo dell’autore stesso, personaggi tormentati (e autoassolutori) la cui differenza principale sta nella capacità di usare la forza e di “fare l’uomo” , presente nel primo e assente nel secondo. Ne In senso inverso Dick sembra dare ragione all’affermazione, da parte del movimento femminista, che il patriarcato fa male anche agli uomini, perché appena uscito da una relazione in cui era la moglie a mantenere la numerosa famiglia lo scrittore, umiliato da questo ribaltamento dei ruoli, non trova miglior rifugio che perdersi dietro sogni di mascolinità tossica, pur consapevole che il suo vero alter ego è il solito fallito che troverà nel Joe Chip di Ubik la miglior sintesi: un uomo che ha bisogno di aiuto persino per uscire dalla propria casa, bloccato da una porta che chiede denaro per aprirsi.

“Possiamo fuggire sparando” propose Tinbane.

“Secondo la Bibbia, è inutile.”

Divertito, ma anche irritato dalla passività di Lotta, Tinbane fece una smorfia: “Se ragionassi a questo modo sarei già morto da un secolo.”

“Non è il mio modo di ragionare. È…”

“Certo che è il tuo modo di ragionare. Tu dai a quelle parole il significato che inconsciamente vuoi che abbiano. Secondo me un essere umano, un uomo, è padrone del proprio destino. Forse questo discorso non vale per le donne.”

In senso inverso

In senso inverso non ha personaggi che rimangono scolpiti nella memoria, e a ben vedere nemmeno un intreccio così appassionante. Sebbene siano presenti numerosi colpi di scena, in cui si nota l’attitudine dell’autore a rendere la verità un concetto evanescente, gli snodi sono spesso forzati, le motivazioni che spingono i personaggi poco chiare e le loro reazioni talvolta illogiche. Con questo libro Dick conferma la nomea di “scrittore di idee”, un autore dalla fantasia vulcanica capace di prefigurare il futuro (e trasfigurare anche il presente, visto che nel libro riecheggia l’esperienza fresca della rivolta di Watts, mentre il maccartismo fa da sfondo a Occhio nel cielo) che, soprattutto nelle sue opere minori, offre una prosa non all’altezza delle sue visioni.

“Dunque l’eidos è la forma, come in Platone. La verità assoluta. Esiste. Platone aveva ragione. L’eidos informa di sé la materia passiva; la materia non è il male, è soltanto inerte, come l’argilla. Esiste anche un anti-eidos, un fattore distruttore di forme. È questo che la gente percepisce come male, il decadimento della forma. Ma l’anti-eidos è un eidolon, un’illusione; una volta impressa sulla materia, la forma è eterna – è soggetta a un’evoluzione costante, di modo che non possiamo percepire la forma. Il modo in cui, per esempio, il bambino si trasforma in uomo, oppure, come accade di questi tempi, l’uomo rimpicciolisce e diventa bambino. Sembra che l’uomo sia scomparso, ma in realtà l’universale, la categoria, la forma, è ancora lì. È solo un problema di percezione; la nostra percezione è limitata perché abbiamo solo una visione parziale. Come la monadologia di Leibnitz. Capisci?”

In senso inverso

A salvare un libro come In senso inverso, oltre al fascino dell’ambientazione, è un’altra delle componenti tematiche care all’autore: la religione. La missione di cui si sente investito l’Anarca Peak man mano che la sua “resurrezione” procede, un tentativo di spiegare l’esperienza ultraterrena da chi l’ha effettivamente esperita, porta a riflessioni fra il filosofico e il mistico che rappresentano la cifra più interessante di questo libro, non nuove per il fan accanito ma comunque interessanti e piene di spunti. Non basta questo a farmelo consigliare a chi non è avvezzo alla fantascienza dickiana, ma il fatto che con un colpo di coda Dick riesca sempre a portare motivi d’interesse nei suoi libri è il segno della grandezza di un autore la cui influenza è stata enorme. Chiudo chiedendo un favore a Fanucci, l’editore che da anni ripropone la sua opera omnia: si possono avere introduzioni da non saltare a piè pari per evitare di incorrere in enormi spoiler sulla trama?

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Racconto in musica 83: I giorni del silenzio (C Duncan – Wanted to want it too)

Negli ultimi giorni sono arrivati (o si sono poste le basi affinché arrivino) un certo numero di contributi esterni per questo blog, il che significa che finirete l’anno senza ritrovarvi davanti agli occhi racconti scritti da me e, soprattutto, senza che io abbia il controllo della playlist. Sapete come l’obiettivo principale di Tremila Battute sia quello di far scoprire nuova musica, possibilmente anche a me, perciò bando alle ciance (che espressione retrò!) ed eccomi a introdurvi Luca Cassarini con l’artista da lui pescato direttamente in Scozia, ovvero C Duncan.

Luca è un figlio dell’estate 1987 che coi racconti ci sa decisamente fare. Se ne sono accorte un po’ di case editrici, che li hanno accolti nell’opera collettiva Il cielo sopra Ravenna (Fernandel, frutto del laboratorio di scrittura Raccontare Ravenna) e in due antologie, Storie a quattroruote (Rudis Edizioni) e Novelle giapponesi (Idrovolante Edizioni), ma anche il mondo delle riviste ha accolto con piacere i suoi scritti: potete trovarli su Salmace, Smezziamo, Il diario del riccio, Il foglio letterario, Waste, Quaerere, sul numero di giugno 2021 di COYEmag e prossimamente anche su Morel e CrunchEd. A Tremila Battute è arrivato in punta di piedi, chiedendo se fosse possibile scrivere racconti ispirati a canzoni strumentali (la risposta: certo!), per cui lo aspettiamo al varco con un altro racconto in futuro: nel frattempo potete leggere altro di suo sul blog Scritture Artigianali.

C Duncan infatti non fa musica strumentale, ed è anzi difficile definire rigidamente il genere di appartenenza delle sue composizioni: il cappello sotto cui si può accoglierle è quello del Dream Pop, perché la dimensione eterea è sempre presente nella sua musica, fatta di suoni elettronici che passano con disinvoltura da ritmiche ballabili al creare ambientazioni oniriche. Nato nel 1989, compositore per svariati programmi televisivi britannici, Christopher Duncan pubblica il suo primo singolo For nel 2014, preludio all’album Architecht che viene licenziato dalla FatCat Records di Brighton (label attentissima ai suoni nuovi e sperimentali, visto che ha nel roster nomi come Sigur Rós e Animal Collective). In questo disco e nel successivo The midnight sun (2016) si concentra la parte più introversa e notturna delle canzoni di Duncan, che nel 2019 spiazza un po’ il suo pubblico con un lavoro che abbraccia maggiormente la parte pop rispetto a quella dream: Health è un disco dai suoni e dai ritmi solari, come testimoniato dal singolo di lancio Impossible, ma che non disdegna momenti riflessivi e quieti come la title track, un brano dove al piano e alla voce fitta di riverberi di Duncan si appoggiano ariosi suoni elettronici. Pittore oltre che musicista (le cover degli album sono suoi dipinti), il musicista è dichiaratamente gay e ha dichiarato al giornale scozzese The Herald (in un articolo che vorrei davvero linkarvi, se non fosse che apre così tanti pop up da rendere quasi impossibile la lettura) di voler utilizzare il proprio ruolo per sensibilizzare il pubblico rispetto alle tematiche LGBTQIA+. Sulla sua pagina bandcamp sono freschi di caricamento due nuovi brani: che sia il preludio al quarto disco?

Wanted to want it too è una canzone capace di intessere un’atmosfera nostalgica ma in qualche maniera intrisa di speranza, caratteristiche che si ritrovano anche nel racconto ad essa ispirato: pur col limite delle consuete tremila battute Luca è riuscito a tratteggiare un futuro credibile che stimola la curiosità di saperne di più, di sapere come si è arrivati a quei giorni del silenzio (drammaticamente simili a quelli che abbiamo vissuto durante il lockdown) che il protagonista senza nome attraversa stoicamente. Potete farvi avviluppare da questa ambientazione crepuscolare poco più in basso, subito dopo il brano che fa da colonna sonora alla storia: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

I giorni del silenzio, di Luca Cassarini

Ci sono entrato per caso, in questo appartamento.

L’uscio sventrato dava su una stanza fatiscente, l’odore di muffa si intrufolava in tutti i pori, il condominio era in totale abbandono. Un qualche vagabondo usava le scale come latrina, i muri trasudavano odori nauseabondi. Mi sono dato da fare, con la forza delle mie braccia e olio di gomito. Ho rimediato qualche asse e un paio di chiodi, alla meno peggio ho assemblato una porta contro spifferi, spiriti errabondi della notte e cattivi pensieri. Soprattutto cattivi pensieri. Oppure per proteggere gli altri da me, forse.

Ieri sera si sentivano grida sconce sotto la finestra. Qualcuno litigava. Un paio di bottiglie sono state spaccate, credo sul selciato o sulla testa di qualcheduno. La mattina dopo l’unico lascito erano cocci di vetro, null’altro.

La prateria di asfalto è corredata da un mucchio di carcasse metalliche, la carestia ha colpito anche quelle macchine dalla foggia antiquata. La penuria di materie prime ha fregato tutti quanti, alla fine. La benzina è finita da un pezzo, e il cielo a cui alzare vane preghiere è una cappa grigia senza stelle. Non si possono esprimere neppure desideri durante le notti d’estate. Non c’è nessuno che possa ascoltare le nostre contumelie.

A volte nel mio girovagare noto facce diffidenti dietro tendine strappate, sono l’unico o uno dei pochi che cammina alla luce del sole: un eufemismo, ora che la luce è filtrata costantemente da polveri e nebbia appiccicosa. Gli altri non escono di casa perché hanno paura, e hanno ragione. Io esco e mi faccio vedere per dimostrare loro che, se c’è qualcosa da temere, c’è ancor più da rimetterci stando barricati assieme ai propri deliri. Bisogna correre dei rischi calcolati, diamine. Mal che vada, sono armato: una pistola giocattolo. Qualcuno potrebbe sempre cascarci.

Ieri ragionavo ancora una volta sulla nuova religione, notando che ha attirato meno adepti del previsto. La vecchia dottrina di Dio Denaro, Madre Moneta e Santo Soldo tiene botta nel cuore di tanti. Se sapessero il mio pensiero mi considererebbero eretico, per cui sto zitto. Se mi chiedono qualcosa rimango sul vago. Le parole oggigiorno sono il vero tesoro di cui uno può disporre. Per non sprecarne le scarabocchio su fogli ingialliti, quando mi avanzano delle candele. I soldi stanno finendo, da barattare ormai non ho più niente. Sono colmo di desiderio.

Li chiamano giorni del silenzio, ma so che c’è ancora parecchio da dire e altrettanto da scrivere. Dicono che oltre il mare esiste una terra dove tutto è tornato a posto, ai tempi d’oro di una volta. Altri biascicano che è una stupida leggenda, ma se non provo non lo saprò mai.

Domani partirò, è già deciso. Lascerò aperta la porta, un bigliettino come memorandum a chi verrà dopo. SAPERE AUDE…!, ci sarà scritto sopra come saluto.

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Il viaggio dell’eroe contro il capitale, in un mondo ideale: Psychindustrial dei Modern Stars

Non c’è niente da fare, prima o poi torno sempre a parlare di anticapitalismo. Un po’ (tanto) l’argomento me lo vado a cercare, ma capita anche che lui venga da me a ricordarmi che, se agissi coerentemente con le mie parole, a quest’ora dovrei aver fondato una comune invece di aggiornare l’ennesimo blog sulla faccia della terra (pare pure che i social inquinino più degli aerei, come affermato dall’ennesima bufala). Nel caso specifico sono arrivati i Modern Stars a mostrarmi la loro idea di rivoluzione musicale contro il capitale, e lo hanno fatto con un concept album che parla dei giorni nostri con le influenze musicali di ieri: Psychindustrial, uscito il 26 novembre per MiaCameretta Records, è infatti un infuso psichedelico che mischia influenze orientali, folk d’annata e distorsioni lisergiche quel tanto che basta a farci viaggiare sulle note.

Ci sono dischi in cui alcuni canzoni spiccano sulle altre, ma non è questo il caso: il lavoro compiuto da Andrea Merolle (voce, chitarre, sitar, mandolino e sintetizzatori), Barbara Margani (voce) e Andrea Sperduti (batteria e percussioni), coadiuvati nell’occasione dal basso di Filippo Strang, è un composto organico in cui ogni brano fatica ad essere scisso dall’insieme, tutti immersi in un humus sonoro denso e pieno di elementi che si sovrappongono. Ad alimentare ulteriormente questa coesione è il concept, il viaggio di un personaggio senza nome dalla disillusione rispetto ai valori della società capitalistica fino alla riscoperta della propria umanità, un canovaccio ispirato da classici della letteratura distopica (1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley in particolare, e non a caso il secondo è citato esplicitamente nell’onirica Indian Donna Summer) che però, musicalmente, fatica a renderci partecipi dei dilemmi del protagonista.

Psychindustrial è un’esperienza avvolgente, sette brani dalla durata media piuttosto lunga e caratterizzati da una ripetitività che, anziché essere un limite, è una caratteristica ricercata che rende alcune canzoni (Artificial wombs e i tredici minuti di Indian Donna Summer su tutte) dei veri e propri mantra capaci di proiettarci altrove. L’atmosfera generale è però gioiosa e sovrabbondante già dall’iniziale Hypnopedia, laddove la voce riverberata di Merolle cerca di renderci partecipi della necessità di fuggire del protagonista: diversamente dal classico viaggio dell’eroe qui non si riesce a percepire un vero e proprio momento di crisi, quasi che il cammino verso l’autodeterminazione sia alla portata di tutti e basti unicamente la volontà individuale per perseguirlo. C’è un ottimismo molto vintage in ogni nota suonata dai Modern Stars, un riflesso della controcultura degli anni 60 che stride con la nostra realtà quotidiana e che toglie carica drammatica alla storia narrata: viene però voglia di viverci, in quel mondo ideale, cullati dai vocalizzi di Margani, dalle melodie esotiche prodotte dal sitar, dalle ritmiche ossessive della sezione ritmica e dal sodalizio psichedelico che distorsioni e synth stringono e approfondiscono durante i brani.

Psychindustrial è un tuffo in un passato in cui l’onda evocata da Hunter S. Thompson in Paura e disgusto a Las Vegas non si è ancora schiantata, è il grido di chi crede in un mondo migliore tanto da non riuscire a veicolare la sofferenza di chi vive in quello attuale. Un modo originale e forse in parte involontario per schierarsi dalla parte della rivoluzione, quello dei Modern Stars, capace di rivitalizzare il cuore e concederci una pausa dalle nostre quotidiane magagne: che tutto questo accada in un album che celebra il discorso con cui John il selvaggio apostrofa Mustafà Mond reclamando il proprio diritto ad essere infelice è un paradosso che possiamo accettare.

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Racconto in musica 82: Quel che ci definisce (Eugenio In Via Di Gioia – Sette camicie)

Pensate a quanto è bello veder crescere un artista fino al successo. Andare ai primi concerti e gustarseli a due passi dal palco, vedere quel nome che pian piano compare sulla bocca di sempre più persone e alla fine trovarsel* lì, in televisione, dove non avreste mai pensato di vederl*. Sentite quella sensazione di orgoglio, come se un po’ fosse merito vostro, o siete troppo impegnati a dire frasi come “i primi album erano meglio” o “s’è vendut* come Zerocalcare?

Io quella sensazione non l’ho mai provata appieno (ci starebbe l’esempio di Bugo, visto in un centro sociale a Novara, ma andava già su Mtv e mi pare ipocrita dire “io c’ero prima di voi), ma c’è almeno una band che ho sfiorato nel periodo della sua ascesa. Nell’ottobre 2014 forse già facevo parte dell’associazione Asap – As Simple As Passion di Novara, probabilmente avevo già partecipato a un secret concert dei Giuradei in casa di un amico, ma sicuramente non ero andato alla Casa di paglia (che è fatta davvero di paglia) a Fontaneto D’Agogna per vedere una band dal nome strano che faceva folk e arrivava da Torino. Per qualche anno quel gruppo non l’ho cagato di striscio, per un qualche pregiudizio legato al loro strano nome o per chissà quale motivo, poi li ho visti su un palco al solito Balla coi cinghiali, in mezzo a una folla che saltava e cantava le loro canzoni, e ho capito di essermi perso molto ma che c’era ancora tempo per recuperare: da allora gli Eugenio In Via Di Gioia quando posso non me li perdo mai, anche se ora i loro concerti fanno soldout in tempo zero.

Descrivere la loro carriera con una fredda formula cronologica sarebbe ingeneroso verso un gruppo che ha fatto del coinvolgimento nei live la sua cifra stilistica, ma ci sta dire almeno che Eugenio Cesaro (voce e chitarra), Emanuele Via (pianoforte, fisarmoniche e cori), Paolo Di Gioia (batteria, percussioni e cori) uniscono le loro forze nel 2012, risolvendo in maniera originale il problema del nome da dare alla band unendo i propri. Di lì a poco entra nel gruppo anche Lorenzo Federici (basso e cori), la cui esclusione dal nome della band viene risolta intitolandogli il primo album, Lorenzo Federici, uscito proprio in quel 2014 in cui io chissà cosa avevo di meglio da fare rispetto ad andare a vederli nella provincia novarese. Gli Eugenio In Via Di Gioia fanno propria la tradizione buskers, esibendosi come artisti di strada e mantenendo quell’approccio anche sul palco: la distanza fra loro e il pubblico viene empaticamente annullata e spesso sparisce anche fisicamente, vuoi perché Eugenio lancia un cubo di rubik fra il pubblico per poi risolverlo mentre canta e suona Prima di tutto ho inventato me stesso (canzone contenuta nell’Ep Urrà del 2013) o perché salta in mezzo alla gente a fine concerto per cantare Giovanni re fasullo d’Inghilterra (di cui la Disney mantiene immeritatamente i diritti). L’umanità che li contraddistingue è palese nella loro alchimia sul palco, nel modo di interagire con i fan e di inventarsi sempre nuovi modi per essere genuinamente originali, dalla tessera fedeltà che dava diritto a un kebab fatto con carne a km 0 una volta arrivati a dieci concerti visti/oggetti del merchandising acquistati (potete farla anche ora, aiutando col ricavato un progetto legato alle persone anziane in difficoltà) ai video fatti coinvolgendo il proprio pubblico.

I media nazionali si sono accorti di loro quando nel 2018 hanno intrattenuto i passeggeri di un treno che viaggiava con un ritardo di sei ore, ed era già uscito il secondo disco Tutti su per terra (licenziato come il precedente da Libellula Music); il Festival di Sanremo si è accorto di loro, portandoli sul palco degli emergenti nel 2020 con il brano Tsunami, dopo che già era uscito il terzo disco Natura viva; loro invece si sono accorti che il mondo si può migliorare anche attraverso le canzoni impegnandosi in progetti come Lettera al prossimo, una campagna crowdfunding organizzata nel 2019 con FederForeste e Coldiretti per ripiantare una foresta danneggiata da una tempesta nel triveneto. Il sociale e la società erano già temi presenti in molti dei loro brani, ma con il già menzionato Natura viva del 2019 (che li ha portati a suonare anche al Concerto del Primo Maggio) gli Eugenio In Via Di Gioia hanno fatto un ulteriore step, passando con coraggio dall’ironia alla schiettezza perché, come dicono in questa intervista che non mi stancherò mai di linkare, “speriamo che questo possa entrare più in profondità e rendere coscienti i giovani che esiste un’alternativa”. Sono felice di aver scoperto gli Eugenio In Via Di Gioia, anche se non posso dire “io c’ero prima di voi”, e sono felice che il primo concerto visto con la mia futura fidanzata sia stato proprio un loro live al Serraglio di Milano, perché penso che la mia felicità sia anche un po’ merito loro e per quanto stucchevole possa essere mi piaceva dirglielo in qualche maniera, anche se magari non leggeranno mai queste righe (ma se loro sono riusciti a convincere Chiara Ferragni a visitare i Musei Egizi di Torino perché non pensare che tutto è possibile?) P.S. È uscito il loro nuovo singolo Umano!

Sette camicie è contenuta in Tutti su per terra ed è un brano che, pur nella sua sfrenata allegria, mostra come ci costruiamo delle gabbie attorno a un’immagine di sanità da mantenere a tutti i costi, esemplificata da quella camicia indossata persino al mare perché “esser sé stessi è appagante, ma esser sani costa fatica”. Riuscirà a togliersela il protagonista del racconto, impegnato in uno spogliarello ambulante su una spiaggia? Per saperlo andate poco più in basso, non prima di aver ascoltato il brano che lo ha ispirato: buon ascolto e buona lettura!

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Quel che ci definisce

Il cellulare cade a terra e rimane lì, vibrante su una cunetta di sabbia, ignorato da tutti. Non si accorgono della sua presenza i ragazzi che giocano a beach soccer pochi passi più in là, non lo degna di attenzione la donna di mezza età che, con la sdraio piazzata lì di fronte, preferisce farsi rapire dalle pagine di un romanzo rosa il cui protagonista maschile, per quanto focoso e ribelle, non sostituirebbe comunque al goffo e prevedibile uomo di cui si è innamorata anni fa.

Le scarpe si fanno notare, quella destra almeno. Scalciata lontano raggiunge l’asciugamano dove un giovane addormentato, presa in faccia una manciata di sabbia, si alza gridando Avete rotto il cazzo con questo pallone, ma di fronte ha solo una calzatura di pelle nera coi lacci che ricadono sui bordi. Mentre il giovane si guarda in giro incuriosito l’uomo ha già abbandonato dietro di sé anche i calzini.

Avanza con passi lenti e ondeggianti, liberando il collo dal giogo della cravatta. Passando accanto a un ombrellone fa un lancio distratto e la abbandona lì, nello spazio vuoto creato dall’improvviso bisogno di refrigerio di un gruppo di bambini scalmanati. Da una radio lontana proviene un ritmo soffocato, l’uomo se ne lascia trasportare giusto il tempo di qualche passo tentennante, a occhi chiusi, mentre con le braccia stese all’indietro e qualche contorsione del tronco cerca di scostarsi la giacca dalle spalle.

Un signore anziano alza la testa quando il sole del primo pomeriggio viene oscurato per un istante, sulla sua pelle simile al cuoio plana come un gabbiano nero l’ennesimo indumento. L’uomo cerca di avanzare mentre slaccia e srotola i pantaloni, con movimenti goffi li lascia dietro di sé, in una posa che ricorda le sagome disegnate a terra dopo un delitto. Una coppia lo osserva, lei sussurra Sembra proprio come in un film, lui si guarda intorno cercando le telecamere.

Ormai è a pochi passi dal mare, la sabbia umida del bagnasciuga gli penetra fra le dita dei piedi, rinfrescando le piante arroventate. L’uomo sfila l’orologio e fa per lanciarlo tra le onde, poi si limita a gettarlo con sufficienza al suo fianco. Il peso del cronografo di ultima generazione causa il crollo della torre di un castello, il pianto del bambino che lo ha costruito e la reazione di suo padre, che si alza e grida Oh ma sei coglione?

Ora l’uomo è in mare, le sue grige mutande di marca si scuriscono a contatto con l’acqua. Gli restano solo quelle e la camicia da togliere, la mano si dirige verso un polsino ma lì si ferma, congelata in un istante che dura quanto una hit estiva. Poi l’uomo si avvolge le spalle come in un abbraccio e incomincia a piangere.

I bambini scalmanati giocano a schizzarsi, presi dalla frenesia mettono l’uomo nel mezzo e lo bagnano da capo a piedi, confondono le lacrime con l’acqua del mare. A furia di schizzi rendono la camicia trasparente tanto che quasi non la si nota più, fra le sue braccia, l’invisibile gabbia d’alta sartoria che lo definisce e di cui non riesce a disfarsi.

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Fantasia, empatia, divertimento: la ricetta perfetta in Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata di Raphael Bob-Waksberg

Qualche settimana fa, nel preparare lo zaino per andare alla Fiera del libro di Torino, mi sono capitati in mano alcuni racconti scritti nel 2017. In quel periodo ero ancora single, una condizione che si evince facilmente leggendo quelle storie perché in molte il protagonista è un ragazzo sensibile a cui le cose in amore vanno male (con sottofondo surreale, perché a fare qualcosa di realistico facevo fatica anche ai tempi). Alcuni di quei racconti sono davvero terribili, ma proprio del tipo che mi vergognavo rileggendoli: che cosa cazzo avevo in testa per non accorgermene? Poi mi sono iscritto a una scuola di scrittura, ho conosciuto lì la mia fidanzata e pian piano ho cominciato a scrivere vicende migliori e con protagonisti un po’ più vari (allegre e a lieto fine no, tanto che nel primo periodo della nostra relazione avevo in progetto di realizzare una raccolta di racconti a tema “storie d’amore che finiscono in merda”).

Che c’entra tutto questo con Raphael Bob-Waksberg? Un filo conduttore esiste, perché metà dei racconti del suo esordio letterario Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata sono stati scritti prima di conoscere sua moglie e l’autore è convinto che, se si potesse disporli in ordine cronologico, apparirebbe chiaro l’attimo in cui ha trovato l’amore: la differenza fondamentale tra noi due è che pure le storie scritte prima del colpo di fulmine gli sono riuscite benissimo, il che spiega perché di lavoro lui crei serie animate come BoJack Horseman e Undone mentre io faccio l’operaio metalmeccanico in una fabbrica di bottoni.

Non è carino costringere la sorella a farsi cinque ore di macchina fino a New York e trovarsi una camera d’albergo (perché Dio non voglia che le tocchi dormire ancora su quel sudicio divano) e comprare il biglietto per vedere lo spettacolo e poi, SORPRESA! Ah, A PROPOSITO, non solo: il personaggio basato su di te è un’alcolista. E il personaggio basato su Shannon è dipendente dalle pasticche, cosa che si evince dal fatto che continua a ingerire pasticche. Come se all’epoca fosse ovvio, come se qualsiasi persona dotata di raziocinio avesse potuto accorgersene, avesse potuto dire qualcosa, ma naturalmente non era ovvio, perché se fosse stato ovvio, tu avresti detto qualcosa, avresti fatto qualcosa. Certo che sì.

Volete sapere cos’è il teatro?

La raccolta di Bob-Waksberg è un bizzarro concentrato di idee e sperimentazione letteraria, diviso fra narrazioni brevi di sole due-tre pagine e racconti di più ampio respiro (Più te stesso del te stesso che già sei, il più lungo, si attesta sulle quaranta pagine). L’autore gioca sia con la forma che coi contenuti, costruendo storie a partire da una serie di frasi solo parzialmente interconnesse (Le bugie che ci raccontiamo), una lista di luoghi e/o situazioni (La guida della monogama seriale alle attrazioni di New York, Catalogo dei pranzi con la persona che ti ha scaricato, Regole per Taboo), immaginandosi cosa voglia dire essere un cane (Rufus) o improvvisandosi poeta (la poesia, penso il punto più complicato del già complicato lavoro di traduzione per Marco Rossari). Bob-Waksberg è un vulcano in eruzione che complica i preparativi per un matrimonio con caproni da sacrificare al Dio della Pietra e Grida delle Lamentazioni del Coro Strepitante (L’occasione più lieta e propizia), stravolge la carriera tutt’altro che esaltante di una band alt-folk/fuzz-punk/shoe-core facendoli diventare supereroi alcolizzati (Gli Emergenti) e fa tutto questo senza mai perdere una delle caratteristiche che hanno reso grandi i suoi lavori per la televisione: la sensibilità.

A quel punto sugli appunti avevo scritto: [PAUSA PER RISATE].

Nessuno ha riso.

Ho fatto comunque la pausa.

Tuttavia c’è una buona notizia, ho continuato. Ed è questa: la scienza continuerà a vivere quando saremo tutti morti. La scienza sopravviverà con o senza i nostri tentativi di capirla: alla scienza non importa.

La scienza è come una vecchia fiamma insensibile, non le mancherete, e certo, forse questo mette un po’ paura, ma non è anche emozionante?

Noi uomini di scienza

Ciò che ha reso grande una serie come BoJack Horseman, più delle trovate surreali di cui grondava (una delle mie preferite, anche se minima, è la capra che falcia il prato e si spara direttamente l’erba in bocca), è stato creare personaggi credibili e complicati le cui vicende ci toccavano in profondità, facendoceli amare anche di fronte ai loro molteplici errori. In Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata Bob-Waksberg dimostra che quella capacità è una caratteristica innata, che riesce a riversare in una sceneggiatura tanto quanto in un libro: le tre pagine di Viaggia per il paese illustrano magistralmente cosa voglia dire soffrire di depressione, Il diario dei fatti e Volete sapere cos’è il teatro? mettono in scena piccoli e grandi drammi famigliari in cui è facile ritrovarsi, anche se non abbiamo mai avuto né un fratellastro cresciuto lontano da noi né un fratello che porta in scena la storia più tragica del nostro passato comune. In tutto il caleidoscopico universo narrativo dell’autore siamo sempre portati a empatizzare con i suoi personaggi, e non è da tutti riuscirci se le persone di cui seguiamo le gesta sono un uomo che sfrutta una porta interdimensionale per tradire sua moglie con quella del sé stesso di un’altra realtà, o un agglomerato di dieci presidenti statunitensi diversi realizzato in laboratorio.

Quando ero ragazzo, venivo a Presidentilandia e sognavo un giorno di diventare presidente – tipo che la mia immaginazione era così meschina e stupida, pensavo che mettersi un bel vestito e infilarsi una testolona di polistirolo e muoversi con gesti affettati in un parco a tema fosse tipo il massimo in termini di rilevanza e sofisticatezza. La verità è che qui è pieno di coglioni, e il punto è che se fai impersonare un presidente a un coglione finisci con l’avere un presidente coglione. Forse avresti potuto arrivarci: essere presidente non ti cambia granché, ti fa diventare più te stesso del te stesso che già sei.

Più te stesso del te stesso che già sei

Il vero miracolo compiuto da Bob-Waksberg è però quello di riuscire a sperimentare e farci commuovere mentre tiene altissima l’asticella del divertimento, un equilibrio che si ritrova raramente e che mi ha ricordato una versione più surreale e meno intellettualmente narcisistica di David Foster Wallace (e sì, lo so che è un nome che tiro fuori ogni due per tre, ma se la parte iniziale di La banalità fatta persona non vi ricorda un po’ La persona depressa di DFW allora chiudo il blog domani). Riderete un sacco seguendo le continue complicazioni della coppia di aspiranti sposi di L’occasione più lieta e propizia, godendovi le sfide interstellari sempre condite da massicce dose di superalcolici de Gli emergenti o visitando il surreale parco a tema presidenziale (una versione distorta del villaggio a tema settecentesco in cui lavora Victor Mancini, protagonista di Soffocare di Chuck Palahniuk, e non a caso nella trama c’entra sempre una persona malata di cui prendersi cura) in cui il protagonista di Più te stesso del te stesso che già sei impersona con crescente disaffezione il ventunesimo presidente degli Stati Uniti Chester A. Arthur. Mi ripeto per farvici riflettere: quante volte vi è capitato in mano ultimamente un libro originale che vi facesse allo stesso tempo commuovere e divertire come dei matti?

– Sì, penso proprio di pensare troppo, – ho detto. – Ci penso tutto il tempo. Ma poi penso: e se invece non penso troppo? E se sono solo una normale pensatrice ma penso di pensare troppo perché inconsciamente voglio deresponsabilizzarmi?

Gli Emergenti

Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata spicca come eccezione alla regola in un panorama letterario dove molti libri terribili vengono prodotti solo sulla base del successo in altri campi dei loro autori. Quello di Bob-Waksberg non è un tentativo estemporaneo di riciclarsi in altre vesti, ma la summa di un lungo lavoro (Noi uomini di scienza è stato pubblicato la prima volta nel 2009) che ha fatto nascere frutti stupendi: compimenti a Einaudi per avercelo portato, perché in questo 2021 ricco di libri belli è stato la classica ciliegina sulla torta.

Racconti preferiti (giusto per non dire tutti): Noccioline salate del circo, lo giuro su Dio, L’occasione più lieta e propizia, La Guida della monogamia seriale alle attrazioni di New York, Il diario dei fatti, Gli Emergenti, Viaggia per il paese, Più te stesso del te stesso che già sei.

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