Ci sono un paio di regole fondamentali che regolano i racconti che pubblico su questo blog: una è inscritta nel suo stesso nome (che detto così sembra stia parlando delle tavole della legge), massimo tremila battute, l’altra è che il testo sia associato a una canzone di musica indipendente (e su cosa voglia effettivamente dire indipendente potete leggere tutte le mia paranoie qui). Ci sono un sacco di regolette accessorie non scritte però a cui cerco di tenere fede (oggi la metafora religiosa va per la maggiore), di cui una delle principali è la contemporaneità: cerco di parlare, insomma, di artist* che siano vivi, vegeti e in attività, perché così metti caso che li ascoltate e vi piacciono, magari ci scappa anche che gli mollate dieci euro per il disco o andare a vederli dal vivo. Un morto se ne fa qualcosa dei soldi ottenuti vendendo dischi dopo la sua dipartita? Potete andare a vedere dal vivo una band che si è sciolta? Io non credo.
A quest’ultima regola, essendo non scritta, ho derogato più di una volta, sentendomi comunque un ladro in casa mia. Pensavo di dover derogare anche oggi, perché la band in questione non pubblica un disco dal 2001 e chissà se lo farà mai più, ma la mia pignoleria è stata attutita dal fatto che i Fugazi non si sono mai ufficialmente sciolti e soprattutto dal fatto che, in tema di musica indipendente, siano una delle band fondamentali (se non LA band fondamentale) di cui parlare.
Ringrazio quindi Filippo Nencioni (anagramma di Inno Polpi Fenici, ci tiene a precisare) per aver accolto il mio invito su queste schermate, dandomi modo di addentrarmi nella Storia. Nato a Massa Marittima in provincia di Grosseto nel 1992, sopravvissuto a Riotorto in Val di Cornia fino al conseguimento del diploma in lingua, Filippo è l’ospite perfetto di questo blog, in quanto scrive racconti e canzoni fin da quando era sedicenne. Dopo essere sopravvissuto qualche anno aggirandosi con aria cogitabonda per l’Italia e per l’Europa, facendo il cameriere, il poeta e il cantautore, la sua esplorazione di bassifondi urbani e birrerie si è momentaneamente interrotta in Maremma, dove continua a vagare ma in cerca di una fissa dimora nella quale arroccarsi per dar vita al capolavoro che lo renderà immortale. In attesa che il nascituro venga alla luce passa le estati facendo il barista al Congo Bar di Follonica, mentre gli inverni li dedica alla musica e alla parola scritta. Ha un progetto cantautorale a suo nome di cui sono usciti alcuni singoli e sta per arrivare il primo album, fa le veci del frontman (voce, chitarra e autore dei testi) nel power trio L’ultimo cittadino, ha pubblicato nel 2015 la prima e unica e ultima raccolta di componimenti (Autoliberazione, uscita con l’editore Parole Nuove) mentre suoi racconti surreali potete trovarli qua e là su riviste: leggetevi l’inquietante e distopico La clinica su Rivista Waste e il folle Dialogo tra un ricoverato impostore e un impostore ricoverato apparso su Rivista Blam.
Dei Fugazi ci sarebbe così tanto da dire che finirò per essere sintetico in maniera irrispettosa: come riuscire a far arrivare tramite le parole l’importanza di una band ritenuta fondamentale per la nascita del post-hardcore, un gruppo che partendo dal punk e dall’emocore (di cui già il cantante e chitarrista Ian MacKaye era stato punto di riferimento con Minor Threat ed Embrace) ha creato un proprio suono riconoscibile e capace di influenzare il suono degli anni 90 in toto? Come se non fosse già abbastanza questo MacKaye, Guy Picciotto (chitarra e voce), Joe Lally (basso) e Brendan Canty (batteria) hanno fieramente portato avanti per tutta la carriera una politica DIY (Do It Yourself) che prevedeva un prezzo dei biglietti il più basso possibile (solitamente fra i 5 e i 10 dollari) e l’assenza totale di merchandising (una scelta a cui risponde meglio di qualunque mia parola questa loro canzone, dovuta anche al fatto che avere qualcuno al banchetto avrebbe significato una bocca in più da sfamare e una levitazione dei costi), una scelta che non gli ha impedito di suonare ovunque nel mondo rimanendo fedeli alla propria scelta: pensateci quando vi sentirete fortunati perché avete pagato “solo” settanta euro per vedere Matthew Bellamy dei Muse che suona su una cazzo di piattaforma fra i fuochi d’artificio.
Formatisi nel 1986 a Washington, dopo un breve periodo di assestamento in cui Canty prende il posto di Colin Sears alla batteria e Picciotto imbraccia la seconda chitarra (inizialmente era previsto solo come cantante) la band inizia subito a macinare concerti e registrazioni. La loro produzione discografica parte nel 1988 con un Ep omonimo, seguito dagli Ep Margin walker nel 1989 (i primi due Ep vengono condensati nello stesso anno nella raccolta 13 songs) e 3 songs nel 1990, anno in cui arriva anche il primo album ufficiale della band, Repeater. Basta già questa manciata di dischi a far risaltare la freschezza del loro suono, asperità e velocità di derivazione punk che si mischiano con una ricerca sonora che spazia ovunque, brani caratterizzati da continui cambi di tempo e comunque permeati da un’urgenza sonora che li fa arrivare dritti alle orecchie e alle gambe dell’ascoltatore che non può rimanere fermo, le chitarre e le voci di MacKaye e Picciotto che si alternano e intersecano mentre la sezione ritmica fa muro alle loro spalle, il tutto unito a testi dai forti connotati sociali e politici. Il secondo disco, Steady diet of nothing esce già l’anno dopo e la loro popolarità cresce ulteriormente, poi nel 1993 l’album In on the kill taker li porta a confrontarsi con un altro guru dell’indipendenza come scelta di vita, Steve Albini: una prima registrazione del disco verrà infatti realizzata nello studio di quest’ultimo a Chicago, non soddisfacendo la band (un evento che li accomuna agli Slint) che registrerà poi tutto nuovamente nella propria casa base ma motivando i componenti ad approfondire la conoscenza delle tecniche di registrazione. Il 1995 vede l’uscita di Red medicine, la band continua a macinare chilometri in tour e continua a sperimentare coi suoni: sono gli anni del cosiddetto Alternative rock e i Fugazi vengono eletti a portabandiera di quell’etichetta in cui viene frullato un po’ tutto (un po’ come si fa oggi con l’indie) fino a non indicare più niente, ma che ancora oggi mi viene da utilizzare quando parlo di cosa andava in ambito rock all’epoca. Bisogna aspettare molto (almeno per i tempi della band) per il successivo End hits, uscito nel 1998, poi l’anno seguente i Fugazi fanno uscire un video documentario, Instrument, di cui realizzano anche la colonna sonora: Instrument Soundtrack presenta molte versioni demo dei loro brani storici degli inizi oltre a materiale inedito, una chicca per fan che di lì a poco rimarranno orfani del loro suono. The argument, uscito nel 2001, rappresenta a oggi con l’Ep Furniture + 2 il testamento musicale della band che continua a rimanere attiva nell’ambito musicale con svariati progetti (MacKaye e Picciotto anche nella produzione, il primo con la Dischord Records che ha fatto uscire tutti i dischi dei Fugazi e su cui bisognerebbe fare un articolo a parte: ci credete che ha vinto una causa contro la Nike?) e che magari un giorno vedremo riunirsi su un palco: possiamo esser certi che lo farebbero solo se hanno la carica per farlo e qualcosa da dire, non una di quelle reunion per far soldi che è quanto di più lontano dalla loro invidiabile etica.
Il racconto di Filippo si basa su una delle canzoni più particolari nella discografia dei Fugazi: I’m so tired, ballata dolente piano e voce in cui MacKaye mostra una vulnerabilità ben racchiusa nella strofa “I’m so tired / sheep are counting me”, un brano breve che si chiude in maniera improvvisa e perentoria senza lasciare nulla al pietismo. Allo stesso modo Filippo ci mostra con un lessico allo stesso tempo ricercato e lercio un protagonista lacerato ma vitale, lucido nella disamina della propria vita e consapevole di una cosa: “non è nell’autocommiserazione che voglio sparire”. Trovate il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Om-Tre, di Filippo Nencioni
I pensieri suicidi sono spesso raffazzonati e imprecisi, ti balenano in testa senza apparenti motivi mentre acciacchi una merda fumante con le ciabatte. Preferisco di gran lunga i ragionamenti che ne scaturiscono, hanno tutta l’aria di essere lineari e razionali: planano con eleganza dal punto A, che sta per “adesso vi faccio vedere io”, al punto B, che sta per “boh”. A volte esigono lo stesso inutile sforzo di quel povero diavolo che un giorno si arrampicò sulla cima di un vulcano giusto per cagare nel cratere.
Sto in piedi davanti allo specchio e col phon in mano mi immergo in luridi abissi di parole: «Fossi più coraggioso mi farei fuori adesso. Anche se devo ammettere che, se fossi più coraggioso, non avrei preso le decisioni che mi hanno portato fino a qui».
Stanotte tra un risveglio sudaticcio e l’altro ho messo in pratica un esercizio che ha più o meno l’effetto opposto della conta delle pecore: ho ripensato a tutte le situazioni imbarazzanti in cui mi sono cacciato nel corso degli anni. Rivedendomi nitidamente su quelle strade piene di vergogna, ho immaginato di pietrificare tutti i me del passato per poi deflagrare i loro gusci già vuoti con un raggio laser annichilente.
La mia anima si è palesata all’incirca quindici anni fa e da allora ha iniziato ad appesantirsi le tasche raccattando da terra sassolini e bulloni, rotolando lungo la linea del tempo si è ingrassata con tutto ciò che ha ingollato durante l’ingloriosa discesa. Ieri piangendo mi sono soffiato il naso e ho trovato dei bachi di sego nel fazzoletto, questo per dire quanto sia marcia.
Due sere fa sono uscito per bere una birra e sono tornato a casa alle otto del mattino con le fattezze di un gasteropode macilento, alle mie spalle un’itterica strisciata di vomito. È l’unica cosa che lascio sfuggire di me, perché fuori incontro soltanto una goffa gloria provinciale, terrificante come un gatto mammone che cuoce nel sugo di soddisfazioni demenziali. Una volta un tipo mi disse di non dimenticarmi mai chi sono e io, preso dall’insulso gioco delle battute a effetto, gli risposi che dev’essere una bella responsabilità quella di non dover dimenticare una cosa che non si sa.
Non è nell’autocommiserazione che voglio sparire.
Esiste un posto dove sono felice, si trova precisamente nell’intercapedine che divide il fuori e il dentro di me. Lo chiamo tre-om e vi accedo lasciandomi scivolare nello spazio che c’è tra il letto e il muro. Lì ci sono tre porte: dietro la prima c’è un postribolo nel quale posso scegliere chicchessia da portarmi a letto; attraverso la seconda posso accedere a tutti i libri scritti dall’alba dei tempi ai giorni nostri, compresi quelli bruciati nei vari roghi; nella terza mi hanno insegnato che non ci si deve mai entrare, per nessun motivo.
Ma dopo tutto questo ragionarmi addosso sono molto, troppo stanco, e credo che dimenticherò tutto ciò che ho imparato per attraversare l’ultima soglia.
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