Racconto in musica 173: Bellezza (Johnny Mox – The long drape)

Quando ancora avevo una band e potevo definirmi un musicista uno dei miei più grandi sogni era quello di esibirmi in una situazione simile a questa: i Kyuss che suonano nel deserto in mezzo a un sacco di gente. Davvero in mezzo eh! Una roba che puoi fare solo a un certo livello di popolarità, abbastanza alta da attirare gente (mica che ti ritrovi, come gli Skruigners a inizio carriera, con sei persone davanti di cui tre pogano e le altre tre gli saltano in testa dal palco) ma non abbastanza da attirarne un fiume, che poi a livello di sicurezza diventa complicato… Ed è meglio non averla, la sicurezza, se vuoi rendere tutto spontaneo e magnifico come me lo immaginavo io.

Negli anni situazioni del genere le ho vissute, nel mio strapiccolo. Non nel deserto ovviamente, che la pianura padana a tutto assomiglia tranne che al Joshua Tree, e non con in mano uno strumento, ma col palco improvvisato fra il pubblico ho visto i Mood, i bustesi Fuyumeku, ho sperato di vederci anche i rumorosissimi Lightning Bolt al Leoncavallo qualche anno fa perché avevo letto che così facevano i loro concerti e invece no, quella sera erano su un palco normale staccati dalla folla (c’erano notizie peggiori nell’aria, visto che era la stessa sera dell’attentato al Bataclan di Parigi). La prima volta in cui però mi è capitato di trovarmi in una situazione simile è stato al primo, mitico MiOdi, il contraltare distorto del MiAmi che negli anni sarebbe diventato il Solomacello Fest: fra un concerto e l’altro, senza nessuna avvisaglia, un duo chitarra e batteria iniziò a suonare in mezzo allo spiazzo cementificato del Magnolia e ad attrarre gente intorno a sé, coinvolgendo anche solo per quanto era bizzarra e improvvisata la performance. Quel duo erano i Nurse!Nurse!Nurse! (che ancora oggi ritengo un nome fighissimo), e alla batteria c’era Johnny Mox.

Gianluca Taraborelli l’ho conosciuto come batterista, ma negli anni è diventato reverendo e stregone, rimanendo sempre uno sperimentatore. La sua trasformazione nel Reverendo Johnny Mox avviene nel 2012 con l’uscita di We=Trouble (Musica per Organi Caldi, Whosbrain Records), disco dove Taraborelli inizia a sperimentare con loop vocali e suoni che pescano dagli ambiti più disparati, dal noise al rap, creando una versione postmoderna del gospel che ne mantiene inalterata la carica spirituale e sociale (la terza traccia All We ever wanted was Everything è stata registrata a Nairobi, un dettaglio importante per ciò che avverrà più avanti nella sua carriera). Passa solo un anno e il suo nome si avvicina alle mie orecchie con l’Ep Lord Only Knows how many times I cursed these Walls, uscito ancora con l’aiuto di Musica per Organi Caldi più Sons of Vesta, Escape from Today e Solomacello, ne passa un altro e mi si ficca in testa con ancora più insistenza visto che il Reverendo esce con uno split in compagnia dei Gazebo Penguins (cui avevamo dedicato uno dei primi racconti del blog), Santa Massenza. Di stare fermo Mox non ne ha proprio voglia, e il 2015 è l’anno in cui mi arriva in mano Obstinate sermons, prodotto da talmente tante etichette, a guardare il suo Bandcamp, che citiamo per sintesi Woodworm, To Lose La Track (che gli resterà al fianco per il resto della carriera) e la V4V di Mike Montagano (per il cui blog StorDisco scrivevo ai tempi): mi si apre un mondo, mi si stacca la testa dal collo a furia di fare headbang su They told me to have faith and all I got was the sacred dirt of my empty hands, mi si inquieta l’anima di fronte alla spettralità lancinante di The long drape e mi si riempie il cuore di ammirazione quando mi rendo conto che la batteria è fatta con la voce. Il rap citato in partenza infatti non è un orpello messo lì senza saperne, perché Mox della scena ne sa e sa anche fare beatbox, cosa che, come mi è capitato di vedere un paio di volte, nei suoi live insegna al pubblico (provate a dire sempre più velocemente “puzza di cazzo” e vedete l’effetto che fa, ma fatelo sotto la doccia se non volete ritrovarvi la casa piena di sputi).

Passano alcuni anni prima che il Reverendo torni a farsi vivo e me ne accorgo al Lato B di Finale Emilia, durante la quinta Festa del ringraziamento organizzata dal circolo, dove il nostro si esibisce con tanto di band alle spalle, i The Moxsters of the Universe. È appena uscito Future is not coming… But you will, che dal vivo con la band mostra tutto il blues che sta nell’animo del Reverendo, ma in quei tre anni Taraborelli non ha solo progettato quel disco, anzi: in coppia con il chitarrista e manipolatore di suoni Marco Bernacchia, meglio conosciuto col moniker Above The Tree, ha fatto partire il progetto Stregoni. Partire nel vero senso della parola perché il duo in tre anni suona dovunque in Italia e all’estero, e non suona da solo: Stregoni è infatti un progetto a metà fra il live e il workshop, si propone di attirare e far suonare richiedenti asilo di ogni nazionalità e si esibisce ogni volta con una formazione diversa, in un caleidoscopio di influenze e di apertura diametralmente opposta ai diktat sull’immigrazione dell’UE tutta e del governo gialloverde in quello specifico momento storico. Riassumere quell’esperienza è difficile, soprattutto non avendo potuto essere presente, ma vi consiglio di informarvi a partire da questa intervista su Sentire Ascoltare per farvi un’idea di come la musica possa farsi promotrice di un miglioramento nella società.

Sperimentatore sempre, dicevo all’inizio, e Mox lo dimostra ancora nel 2019 con Spiritual Void, album composto da un’unica traccia di sedici minuti registrata fra i boschi del Trentino da cui proviene e che, nomen omen, si manifesta come esperienza spirituale oltre che musicale. Nel 2020 approccia per la prima volta l’italiano nell’Ep di due tracce Hyper Gospel. 1, poi fa il salto quantico e torna sul finire del 2023 con Anni Venti, un disco in italiano nel quale la matrice hip hop che ha sempre fatto parte del suo percorso artistico si fa preponderante, amplificando ancora di più la componente sociale che sta dietro alla sua musica. “Scaricare i costi delle crisi sulla pelle della gente è una forma di violenza che oramai chiamiamo tutti resilienza”, canta Mox in Pensiero collettivo, e fra una frecciatina al Massimo Pericolo di Sette miliardi in Non si torna più indietro e l’esplicitazione sarcastica dello stigma della povertà ne I poveri il reverendo che si è fatto stregone incanta ancora, sempre con la sua fidata cassa su cui salire a fare sermoni davanti al pubblico… e chissà se è la stessa con cui ha suonato quella volta al Magnolia?

Ho esplicitato più volte la mia ignoranza linguistica riguardo all’inglese (non che con l’italiano sia messo meglio, visto come ho formulato la frase che precede questa parentesi), motivo per cui fin dalla fondazione di questo blog ho immaginato dietro alle parole di The long drape una storia che volevo raccontare ma che, non riuscendo a capire il testo, non sapevo raccontare efficacemente. Johnny Mox stesso mi è venuto in soccorso inviandomi il testo della canzone e così questo racconto ha infine trovato vita, facendosi fotografia sbiadita di un matrimonio meno felice di quel che dovrebbe essere: il perché potete scoprirlo andando a leggerlo subito dopo aver ascoltato la canzone che lo ha ispirato, a me non resta che ringraziare Gialuca per il dono e augurare a tutt* voi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Bellezza

Tutti i soldi del mondo non faranno mai tornare il vestito come prima. Lui era convinto di poterle donare tutto, il mondo intero in cambio della sua bellezza, e invece guarda.

Era davvero radiosa, mentre camminava verso l’altare. Lui non aveva mai pensato che potesse esserlo così tanto, anche se l’aveva sposata contro il parere di tutti, anche se aveva visto qualcosa nella sguattera che altri avrebbero preso solo come amante, lasciandole al massimo un figlio bastardo e qualche minaccia a intimarle il silenzio prima di essere cacciata. Lui no, lui aveva capito a cosa serviva davvero la ricchezza.

Ma la ricchezza non può rimediare a tutto quel sangue. Nemmeno la miglior sarta del mondo saprà ricucire abbastanza bene da nascondere la violenza. Non se l’aspettava così la prima notte di nozze, quando ancora piccola ne parlava con la madre, giocando con un asciugamano a farle da velo mentre dalla stanza accanto suo fratello tossiva l’anima e i sorrisi si spegnevano all’istante. Lui non sarebbe riuscito ad accompagnarla all’altare, nessuno dei suoi fratelli ci sarebbe riuscito.

A quel tempo suo padre se n’era andato già da un bel pezzo, litaniando bestemmie che l’avrebbero portato molto più in basso della miniera in cui aveva lasciato i polmoni.

Con tutti i soldi del mondo, pensa, bisognerebbe inventare un sapone che sappia pulire ogni cosa. I vestiti, i pensieri, le anime. Pulire i giorni, smacchiarli dal rancore, renderli lindi e scintillanti come appaiono in superficie. E invece.

Verso l’altare della chiesa si può imparare a camminare con grazia in ogni situazione. Col vestito bianco, con quello nero. Quando seppellisci tutti i tuoi fratelli, tutte le tue sorelle, tuo padre, tua madre per ultima, col cuore spezzato dai troppi lutti, impari a fingere che sia tutto normale. Impari a fingere che si possa amare la morte, perché la morte ha un nome e un indirizzo.

Puoi decidere che il giorno più bello della tua vita non ha a che fare con l’amore, ma con la vendetta.

Continua a strofinare, ma le macchie di sangue resistono. Non che serva a granché nascondere, ma sarebbe così bello, qualcosa di davvero bello, poterne uscire pulita. Guarda il velo candido gettato in un angolo, l’unica parte del vestito ancora intonsa, l’unica parte a cui lui non si è aggrappato per evitare di andare a fare compagnia a suo padre, una coltellata alla volta: una morte fin troppo veloce.

Prende in mano il velo, saggia la consistenza della stoffa, pensa ai soldi che è costato, alle vite buttate per poterlo acquistare. Lo posa sul proprio capo: quando verranno a prenderla sarà la sua corona, regina per una sola notte.

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Memorie di un vecchio videogiocatore: Fallout

Sono un vecchio videogiocatore, e come tale ho visto cose che… no dai, basta con le citazioni da Blade Runner. Però ho fatto in tempo, guarda un po’, a giocare anche al videogioco di Blade Runner, un videogioco che pur avendo una produzione costosissima non aveva comunque i diritti del film: niente Harrison Ford, niente nomi dei protagonisti (alcuni erano mutuati da quelli di Ubik, il capolavoro di Philip K. Dick che pure ebbe una trasposizione videoludica, mentre per quella cinematografica stiamo ancora attendendo), ma tanta tecnica che ai tempi sembrava miracolosa. Fra la fine degli anni 90 e i primi anni 2000 c’erano continui passi avanti nella grafica, il fotorealismo sembrava a un passo (che poi, a riguardarli oggi, certi di quei videogiochi di passi ne dovevano fare ancora molti, ma si arrivava da pixel grossi come la mia testa che ora, guarda un po’, passano per “pixel art”) e l’industria videoludica, allargandosi, stava iniziando a lasciarsi indietro la nomea di corruttrice di giovani menti per ripulirsi l’immagine in quanto fabbrica di soldi.

Sono un vecchio videogiocatore, quindi ricordo anche i momenti in cui si era già tentato di sfruttare i videogiochi per farci dei soldi, anche al di fuori del contesto videoludico in sé. Non ho mai visto Super Mario Bros, quello in cui Bob Hoskins si è dato all’alcol per non essere costretto a pensare alla merda che stava girando, ma di trasposizioni videoludiche terribili è pieno il mare della cinematografia. Molte sono state realizzate dal famigerato Uwe Boll, regista tedesco su cui andrebbe scritto un articolo a parte (e chissà che non lo faremo) che per anni ha preso dei videogiochi e non gli ha reso giustizia con cose terribili, che chiamarli film è forse troppo, come House of the dead e Alone in the dark (dal peggiore di questi, lo scorrettissimo Postal, riuscì però a tirar fuori qualcosa di divertente), ma per anni il meglio che si poteva trovare, a parte rare perle come Silent Hill, era quella tamarrata della saga di Resident Evil. Poi qualcosa è cambiato, non totalmente ma un po’ sì.

Ecco, ora Uwe Boll vuole sfidare anche noi a un incontro di boxe

Il punto di svolta, o almeno quello in cui se ne sono accort* tutt*, è stato The last of us, forse perché già pescava da un videogioco che faceva della trama il suo punto di forza (ho visto trame migliori comunque), ma in generale l’equazione “film/serie tv tratta da un videogioco = merda” sta venendo sfatata: la serie su Fallout, saga videoludica il cui capostipite è uscito nel 1997 (solo per PC, ai tempi le console dovevano ancora prendere il sopravvento), ne è la dimostrazione.

Back to 1997, with isometric visual

Sono un vecchio videogiocatore, quindi ricordo le anteprime sulla rivista The Games Machine in cui si parlava dei diritti di sfruttamento a cui gli sviluppatori di Interplay Entertainment è stato dapprima concesso e poi negato l’utilizzo. Il primo Fallout era un gioco di ruolo che avrebbe dovuto basarsi su G.U.R.P.S., un set di regole molto meno famoso di Dungeons & Dragons ma con un’ambientazione futuristica e ironica che gli aveva garantito una comunità di appassionati, poi non se ne fece niente e gli sviluppatori dovettero camuffare quel set di regole e modificare anche dettagli dell’ambientazione: certe idee geniali nascono anche così, tipo il look retrofuturistico da società anni 50 andata avanti ben oltre il limite consentito, o il Vault Boy che spiega col suo sorrisone fiducioso quali caratteristiche sviluppare per fare un headshot come si deve a un super mutante. Sono dettagli che un videogiocatore porta nel cuore, le prime cose a cui pensa quando scava nella memoria, e per anni sono state le prime a venire sacrificate sull’altare del “va be’, abbiamo il titolo del videogioco scritto in grosso, che vogliono di più se non darci i soldi?” (ora ci vorrebbe il meme di Fry, facciamo come se l’avessi messo): Jonathan Nolan e Lisa Joy per fortuna non sono di quella scuola.

Precedenti illustri

La coppia, sia sul lavoro che nella vita, si era già meritata l’affetto di molti appassionati di fantascienza con la prima stagione di Westworld, serie che richiedeva un certo impegno a livello di attenzione (diciamo che non saprei riassumere tutti i passaggi della trama) ma che ricambiava con uno sviluppo appassionante, personaggi credibili (e che cast, basti citare Ed Harris e Anthony Hopkins), temi profondi e un finale che se non è perfetto poco ci manca. Westworld era la classica serie che sarebbe dovuta finire così, invece Joy e Nolan hanno fatto la mossa Lost e ci hanno ricamato su, hanno complicato ulteriormente il loro canovaccio sulla coscienza e l’intelligenza artificiale e allargato la prospettiva: io ho perso interesse dopo due puntate della seconda stagione, le opinioni generali non sono state molto generose e alla fine la serie è stata cancellata dopo la terza stagione. In Fallout l* due si limitano a produrre (ideator* della serie sono Graham Wagner e Geneva Robertson-Dworet, quest’ultima già sceneggiatrice dell’ultimo film dedicato alla saga di Tomb Raider), anche se alcune caratteristiche del loro precedente lavoro rimangono nel tono spesso sopra le righe degli eventi, qui più sul fronte violenza che non su quello sessuale (avere un bordello fra le ambientazioni è stato l’escamotage con cui Westworld si concedeva una quota di nudità piuttosto alta, perché come recita il motto “It’s not porn, it’s HBO!”).

Ovviamente la trasposizione cinematografica perfetta di un videogioco non consiste nel filmare tutto in soggettiva se stai facendo un film su uno sparatutto (cosa che nell’altrimenti dimenticabile Doom veniva fatta, in una sequenza che come omaggio era piuttosto riuscito), ma nel riuscire a restituire lo stesso spirito. Per fare questo Fallout doveva restituire alcune caratteristiche ben note ai cultori della saga, che hanno a che fare con l’ambientazione geografica, l’ironia di fondo e una cura per le sottotrame, oltre a investire come ogni serie che si rispetti (anche non tratta da un videogioco) in una trama appassionante e personaggi ben scritti. E partiamo proprio da questi ultimi allora.

Ci sono un ghoul, un soldato e una sopravvissuta…

A far fare il salto di qualità alla saga videoludica di Fallout è stata la software house Bethesda, che nel 2008 sviluppò Fallout 3 portando il gioco nella “nuova generazione”: non più grafica isometrica, ma una soggettiva figlia dell’altra famosa saga dello studio, Elder Scrolls (scusate la parentesi nerd, ma magari avete anche voi sentito parlare di Skyrim), e un sistema di gioco che univa le logiche di un first person shooter a quello del gioco di ruolo. Va da sé che il personaggio principale era un semplice specchio muto del giocatore, ma tutto attorno a lui l’ambientazione postapocalittica ricreata da Bethesda pullulava di personaggi bizzarri e unici, da compagn* che potevano unirsi a te (non più di uno alla volta) a sceriffi robot, ghoul amichevoli e affaristi senza scrupoli. Wagner e Robertson-Dworet hanno avuto la buona idea di valorizzare questa diversità, sviluppando la trama attorno a tre personaggi che si ritrovano costretti a interagire fra loro: Lucy MacLean (Ella Purnell), una giovane donna che ha vissuto la sua intera esistenza nel Vault 33 (uno dei rifugi antiatomici autosufficienti costruiti due secoli prima e ancora isolati dalla superficie) e ne fugge per ritrovare il padre rapito da alcuni predoni, il soldato Maximus (Aaron Moten), recluta della Confraternità d’Acciaio che aspira a diventare cavaliere, e il Ghoul (Walton Goggins), un cacciatore di taglie mezzo scarnificato dalle radiazioni che pare in giro da secoli e ha imparato a cavarsela in ogni situazione, con poco interesse per le vite che calpesta nel percorso.

Che bella compagnia!

Tutt* loro si ritrovano coinvolt* nella ricerca di un misterioso artefatto, rubato in un laboratorio segreto da uno scienziato che lo deve consegnare alla fantomatica Lee Moldaver (Sarita Choudhury), e i vari passaggi di mano del prezioso congegno (di cui nessuno conosce la natura) portano l* tre ad allearsi, rincorrersi, cooperare e cercare di uccidersi a seconda della situazione, ognuno coi propri obiettivi da perseguire: costruiti su una caratterizzazione piuttosto marcata (ingenua e ottimista Lucy, ombroso e arrivista Maximus, cinico e sempre a suo agio il Ghoul), i personaggi se ne distaccheranno parzialmente con l’avanzare delle puntate, sfuggendo al pericolo macchietta e assumendo anche grazie ad alcuni flashback (particolarmente importanti per il Ghoul, ex star di Hollywood quando ancora si chiamava Cooper Howard) maggiore profondità. Attorno a loro il mondo della California nuclearizzata è pieno di gente bizzarra di cui è difficile fidarsi, dal “dottore” che cerca di vendere sottobanco i propri rimedi miracolosi ai predoni che gestiscono tramite robot medici un giro di compravendita di organi passando per comunità di mutanti dalle dubbie motivazioni, queste sì macchiette ma funzionali a rendere vivida e palpabile la mancanza totale di legge che vige nella Zona contaminata.

… che vagavano in mezzo alle macerie…

Una cartolina dalla Zona contaminata

Avete visto Mad Max: Fury Road? Se avete risposto “no” recuperatelo prima di ieri, perché è un’esperienza cinematografica incredibile, un miracolo di azione spasmodica corroborato da un world building essenziale ma tutt’altro che sobrio. La sobrietà non è di casa nemmeno in Fallout, che alla rassicurante patina anni 50 del mondo pre-guerra nucleare affianca edifici ridotti a scheletri, deserti mortali, strutture automatizzate che hanno smarrito la loro funzione e bidonville putride: l’unica parvenza di ordine sembra resistere nei Vault, ma anche gli angusti corridoi sotterranei ci metteranno poco a sembrare meno sicuri di quanto sembri. Fallout la serie riesce a replicare i Fallout videoludici nel senso di meraviglia di fronte a questo mondo alieno, donando all’ambientazione un carattere che non si limita al “postapocalittico standard” e lo rende vivo, unico. A questo contribuisce sicuramente il look retrofuturistico, dove accanto alle tute avanzatissime dei Cavalieri della Confraternità d’Acciaio convivono le pubblicità zuccherose di prodotti come la Nuka Cola, i cui tappi sono ormai moneta corrente nella Zona contaminata: una buona ambientazione la si (ri)crea anche così, attraverso piccoli dettagli che fanno il mondo, e certo il farmaco che toglie le radiazioni non può rivaleggiare con il chitarrista fiammeggiante del già citato Fury Road, ma quando scopri che quel farmaco si chiama “Rad-Away” ti viene da sorridere riguardo alla lapalissiana qualità di quel nome, e quel sorriso ti ha catturato ancora un po’.

… con una battuta sempre pronta sulla punta della lingua…

Ok, non stiamo parlando de L’ultimo boyscout, ma non è (solo) coi dialoghi che Fallout manifesta tutta la sua carica ironica. Il primo videogioco della saga iniziava col protagonista costretto a uscire dal suo Vault per salvare la propria comunità da un malfunzionamento, e la soluzione consisteva nel procurarsi un G.E.C.K., altrimenti detto in maniera estesa “Garden of Eden Creation Kit”. Come lo mettiamo a posto questo problema? Ma che domande, col kit di creazione del Giardino dell’Eden! Ribadiamolo: Fallout non se n’è mai fatto niente della sobrietà, e la sua trasposizione seriale questo spirito lo abbraccia in pieno, calcando la mano sull’ingenuità degli abitanti dei Vault, caratterizzando in maniera ambigua ogni fazione (la Confraternita d’Acciaio, emblema di ordine e civiltà, assume sempre più un’immagine pseudo-fascista con l’avanzare della trama) e facendo ringraziare i poveri abitanti della Zona contaminata quando qualcuno evita di ucciderli per partito preso. È un mondo malato quello uscito dalla guerra nucleare ma questo non significa che non si possa riderci sopra, anche solo vedendo un orso mutante che gioca all’apriscatole con un’armatura atomica.

Alle bestie mutanti le armature atomiche piacciono un sacco!

… mentre cercano di salvare il mondo.

Una delle cose che ricordo di più all’interno della saga videoludica di Fallout è l’esplorazione di un Vault abbandonato. Era un Vault trovato per caso, raggiunto svicolando dal percorso imposto dalla trama, lasciato dall* abitant* alla viglia di bizzarre elezioni: ogni candidat*, invece di fare campagna contro l* avversar*, tentava di minare la propria candidatura. Addentrandomi sempre più in profondità nei cunicoli scoprii che la struttura, completamente automatizzata, precedeva il sacrificio di un membro della comunità ogni tot tempo (questa la funzione delle “elezioni”), pena la mancanza di beni di sostentamento: arrivare alla camera di esecuzione (e sopravviverci) permetteva di scoprire che l’ultimo “sindaco” si era rifiutato di sottostare alla legge, scoprendo così che… non era davvero necessario, e anzi quel sacrificio continuo era una prova da superare per dimostrare di essere evoluti come società. In quella piccola storia, facilmente evitabile, ho riconosciuto l’abilità di Bethesda di portare avanti una narrazione che, nonostante l’ironia di fondo, sapeva anche coinvolgere ed assestare buoni pugni nello stomaco.

Fallout la serie non ha per forza la trama più originale del mondo, ma sa come raccontare una storia e lo dimostra ad ogni puntata. Mentre seguiamo la ricerca di Lucy, Maximus e Cooper veniamo messi a parte anche della situazione nel Vault 33, dove il fratello di Lucy Norman (Moisés Arias) scopre che la comunità idilliaca in cui è cresciuto nasconde strani segreti, e i vari flashback sulla vita di Cooper ci mostrano che la Vault-Tec, l’azienda creatrice dei Vault, ha interessi che vanno al di là della salvaguardia dei cittadini, in un clima di paranoia anticomunista che estremizza il Maccartismo reale. Joy e Nolan hanno già sfruttato efficacemente le sottotrame in Westworld, lasciando che lo spettatore si facesse domande a ogni svolta della narrazione, e altrettante domande ne lascia Fallout quando si arriva alla fine della decima puntata: speriamo che nella prossima stagione non si giochi troppo al rilancio, finendo nel macciocapatondiano “lì c’è un mistero più misterioso”, perché quanto fatto finora è quanto di meglio si possa augurare un vecchio videogiocatore quando fanno la trasposizione di una saga che ha amato.

Prossima fermata: New Vegas!

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Racconto in musica 172: Colpo di fucile (Sparklehorse – Kind ghosts)

Sembra l’altroieri che vi parlavamo di traumi (e in effetti lo era), e guarda un po’ oggi siamo qui a parlare di morte. Di rockstar morte. Fuori splende il sole (almeno qui a Milano) e io vi parlo delle mie rockstar morte, in maniera meno originale e folle di quanto facesse Bill Hicks qualche decennio fa.

È sempre bello vederlo impazzire

Ho 45 anni e ho già capito che, a meno che non voglia appassionarmi alla trap e a Taylor Swift dimenticando tutto il mio passato, molt* artist* che adoro moriranno prima di me. Ho già avuto il mio quantitativo di lutti inaspettati (nonostante lo stile di vita non esattamente morigerato), quasi tutti concentrati nel grunge e dintorni: Laine Staley, Scott Weiland, Chris Cornell soprattutto visto che sono stato per anni fan sfegatato dei Soundgarden (e dire che si erano appena riformati…), anche se quello per cui ci sono rimasto peggio è stato decisamente Mark Lanegan, colui che considero tuttora la miglior voce della musica in assoluto. Tutti in giro da una bella fetta di tempo eh, che si sono fatti la loro carriera, anche se ti viene da pensare che se Keith Richards sopravvive a una caduta da una palma e Ozzy Osborne a un incidente col tagliaerba (lo so, sembra la gara a chi cerca di morire nella maniera più stupida) pure loro potevano diventare anziani nonostante gli eccessi. Peggio è quando qualcuno se ne va nel pieno del successo (almeno per un fan): l* var* Kurt Cobain, Jim Morrison, Amy Winehouse e compagnia cantante (e suonante) sono entrati nel mito anche per quello e difficilmente si affiancherà un Club 85 al famigerato Club 27 delle rockstar morte troppo presto.

Poi ci sono le morti che fanno meno rumore, quelle di chi non vende milioni di dischi. Puoi essere nel giro da decenni, aver suonato in gruppi influenti per il tuo genere di riferimento e aver prodotto dischi strafamosi tipo In utero dei Nirvana, ma quanti si ricorderanno di Steve Albini dopo la sbornia attuale di articoli? Io nemmeno mi ricordavo di Mark Linkous, l’uomo che ha fondato ed era, a tutti gli effetti, la band Sparklehorse, e meno male che è arrivato Lorenzo Santangeli a ricordarmi di berne una anche alla sua memoria, che a Tremila Battute ci piace commemorare così.

Lorenzo è uno che da queste parti abbiamo già visto e che contiamo di rivedere spesso, perché la sua passione per la scrittura e per la musica lo rendono il collaboratore che tutt* vorrebbero. Aveva già parlato per noi, associandovi i suoi racconti, di Eiko Ishibashi e della Gilla Band, mentre altri racconti e la novella Kernel li potete trovare cliccando su questo comodissimo link. Presto si metterà in proprio con un blog di approfondimento su musica e dintorni che si chiama Il Cerchio Perfetto, che vi esortiamo a seguire: se poi vi venisse la voglia anche di collaborare contattate direttamente Lorenzo al suo profilo Instagram, il blog è aperto ai contributi esterni e anche noi di Tremila Battute ci impegniamo a dargli una mano.

Non avrei potuto scrivere parole più sentite e calde di quelle scritte da Lorenzo su Mark Linkous e i suoi Sparklehorse, quindi la smetto di intasare questo spazio di chiacchiere inutili e lascio a lui il metaforico microfono.

“Questa presentazione sarà non ortodossa, sarà inaccettabile, sarà una mera pagina di diario. Quando Mark Linkous si spara al cuore con un fucile è il 6 Marzo del 2010 e io quattro giorni dopo lasciavo Roma e partivo per Londra con vaghissimi progetti di gloria musicale. Non credevo ai cosiddetti segni, ma di certo con una visione più chiara dell’assurdo avrei forse compreso che tutto aveva inizio sotto il peggiore degli auspici. Da due o tre anni ascoltavo Sparklehorse insieme a quelli con cui avevo un piccolo gruppo. Sparklehorse me lo aveva consigliato un altro amico con simili velleità e una passione sicura per i Radiohead. Il gruppo inglese ha un bel ruolo in questa storia, ma ci torno fra poco. Mi innamoro di Sparklehorse senza troppa difficoltà. Lo vado a vedere dal vivo. Ricordo che si portava via il suo amplificatore. Che ha suonato quasi ogni canzone dieci bpm sotto. Che a fine concerto ho cercato di fargli autografare (autografare!) un demo, stava talmente fuori e io talmente dentro che non ci siamo capiti neanche sulla prima lettera del nome del gruppo. Stava appoggiato al muro, sul punto di cascare dentro il muro. Nel ricordo sono una bambina col sorriso idiota. Nella sua musica però c’era tutto quello che già mi ascoltavo, ma fatto con uno stile particolare e soprattutto sostenuto dai testi più belli che io avessi mai letto. In quegli anni ancora non avevo trovato la mia vena, continuavo a bucarmi a vuoto, e quelli intorno a me mi guardavano come i cani quando gli dici biscotto e non glielo dai. Non ho mai avuto né lo spirito di mandarli a cuccia, né la disperazione per ignorarli, l’assurdo era ancora solo un’iperbole che mi piaceva tantissimo senza sapere bene perché.

Per Mark Linkous invece erano già passati molti anni dal primo tentativo di suicidio. Per Mark Linkous c’era già stata la partita a scacchi con la morte, che aveva vinto all’ultima mossa, con suo grande dispiacere. Era il 1996. Qualche tempo prima era tornato da New York e da Los Angeles, dove aveva fallito (così si dice se non ti fai tanti clienti), si rintana nella sua città natale dove da giovane andava in motocicletta, si drogava, cresceva insieme ad altri ragazzi disadattati. È tornato per fare solo musica fantastica. La registra con l’aiuto dell’ex Camper van Beethoven, Lowery. Fin dalla copertina Mark Linkous non vuole funzionare più per la gente, prende ispirazione dal grottesco della sua terra, dalla letteratura locale (tra l’altro gente molto amata anche in Italia). Un bel cielo azzurro è monopolizzato dal volto del pagliaccio a molla. Una canzone ascoltata in sogno, suonata in un sottomarino e distorta dall’acqua, di un gruppo con un generale, gli suggerisce il titolo. Fin dalla prima canzone, Homecoming Queen, Mark Linkous dice a tutti che lui ora guarda alla nicchia e parla lunare, la lingua in cui si viaggia nel tempo. Ruba il primo verso a Shakespeare e poi va da solo. A horse, canta, a horse, my kingdom for a horse, rattling on magnetic fields. Entrambi, lui e Riccardo III, a invocare un cavallo, entrambi per fuggire la morte, ma lui attraverso il tempo, perché fin dalla prima canzone Sparklehorse annuncia che Mark Linkous è già coi piedi nell’oblio. What once grew straight and tall toward the sun is absorbing back down to dirt like a sponge. Il disco si muove sulle tracce di Tom Waits, ma con voce gentile e un immaginario gotico caldo. Qualcuno lo aveva definito un Faulkner con la Rickenbacker, in un articolo intitolato Too good to be famous: troppo bello/buono per essere famoso.

Ma qui entrano in gioco i Radiohead. Stanno già diventando uno dei gruppi più popolari. Hanno sentito il disco e decidono di portarsi Sparklehorse in tour. Improvvisamente l’obiettivo tanto inseguito sembra a portata di mano, proprio quando la rinuncia è stata firmata fino all’ultimo foglio. Bisogna festeggiare. Mark Linkous lo fa con un cocktail di medicinali che lo stende e lo uccide per due minuti. Quando torna dal viaggio cosmico, dopo la vittoria a scacchi in orbita, il dubbio che tutto sia stato un grande sogno è la certezza che la realtà non esiste, il via libera per andare avanti. Altri dischi, collaborazioni eccellenti, una modestissima schiera di devoti che rispondono presente alla sua chiamata minore. Non sarà mai baciato dal penoso successo. Neanche quando collabora con David Lynch (collaborazione che comunque gli garantisce un nutrito gruppo di affezionati in Italia). Parliamoci chiaro, è un bene. I musicisti fantastici non sanno che farsene del successo. Mark Linkous in fondo ha scelto la musica per sfuggire la vita mostruosa tutta lavoro e fatica che aveva intorno nel paese natale. Ha visto Johnny Cash, ingenuamente si è detto this is a cool way to live, e non ci ha pensato più due volte.

L’anno scorso sono tornato dal mio esilio per ristabilirmi in questo paese che mi sembra il più straniero di tutti, non per fare musica fantastica, ma per continuare a scrivere le mie prose eccentriche, per vedere dove mi portano. Poco tempo dopo gira la notizia che un disco postumo di Sparklehorse verrà pubblicato a breve, si chiama Bird Machine. Il materiale è stato registrato tutto nel 2009, sembra che il fratello ne abbia ritrovato una traccia per caso e che per il prodotto finale non abbia dovuto fare nient’altro che mettere in pratica le esperienze accumulate quando già suonava con lui. Come ho detto prima, non credevo ai segni e non ci credo neanche adesso (forse solo alle chiusure di parentesi), eppure ho pensato che potesse essere di buon auspicio, ma con un unico problema, che dopo aver messo la testa dentro l’assurdo non so proprio di buon auspicio per cosa.”

A chiusura del cerchio (perfetto) a parte delle canzoni di Bird machine ha lavorato anni fa proprio quell’Albini che commemoravamo all’inizio. Non Kind ghosts però, il brano a cui Lorenzo si è ispirato, una canzone che fra glitch elettronici e chitarre riverberate nasconde sotto la delicatezza della voce di Linkous la malinconia e il dolore. C’è dolore anche nel racconto di Lorenzo, un dramma che si riverbera a distanza di anni e attorno al quale, senza premeditazione, si riuniscono due vecchi amici: cosa li ha accomunati e cosa si diranno sta a voi scoprirlo, andando a leggerlo subito dopo il brano che ha ispirato la storia, mentre a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Colpo di fucile, di Lorenzo Santangeli

Uno di noi ha detto «vado via, vado nella Capitale della musica», e quando curiosi, già un po’ invidiosi, forse addirittura tristi, gli abbiamo chiesto perché, lui non ha saputo darci una vera risposta. Lo abbiamo visto andare, risoluto, noi pieni di amarezza, e due ore dopo ci è arrivata la notizia che dall’altra parte del mondo il nostro Maestro, l’uomo per cui tutti noi eravamo nella musica, si era sparato un colpo di fucile in testa. In quegli anni, e di certo anche per via di quel colpo di fucile, il destino è stato un argomento molto discusso tra di noi praticanti della musica. Aveva scelto di spararsi o era inevitabile a prescindere dalla sua volontà? E volontà cosa significava? La volontà di spararsi un colpo di fucile in testa, cosa significava? Delle domande in progressione abbiamo sempre apprezzato la qualità musicale, il suggerimento di un ritmo, l’arrangiamento piano dell’assurdità.


Molto tempo è passato, e il suono di quelle domande si è disperso tra i rumori in sottofondo. Un pomeriggio, al supermercato, precisamente al reparto dei vini, ho incontrato lui, il vecchio amico musicista. «Che ci fai qui?» gli ho chiesto senza alcuna traccia di felicità. «Sono tornato» mi ha risposto, «la Capitale per me è finita.» Abbiamo camminato per un po’ e ci siamo lasciati organizzando una rimpatriata per la sera. Al tavolo del pub lui ci ha raccontato frammenti di una storia forse per noi impossibile da condividere e forse impossibile per lui da riconciliare. Quanti anni erano passati? Dodici? Tredici? Aveva vagato per anni nel tentativo di ingannare l’oblio.
Due giorni dopo, verso le tre del pomeriggio, io sono stato il primo a leggere la notizia diffusa dalla sorella del nostro Maestro. Su una delle più importanti riviste musicali in circolazione annunciava che alle sette di sera, su ogni piattaforma digitale, sarebbe uscito il disco postumo di suo fratello, scritto in quei mesi prima della fucilata, scoperto per caso nelle memorie e lasciato quasi intatto dal momento in cui i vicini hanno sentito lo sparo.


Io e il mio vecchio amico musicista lo abbiamo ascoltato insieme, una volta a casa mia, poi una seconda volta nell’appartamento che lui aveva preso da poco in affitto. Non so bene cosa mi è passato per la testa, ma ancora meno so cosa è passato per la testa a lui. Io posso dire di aver sentito una voglia irrefrenabile di mettermi a suonare; lui invece si è alzato e da un angolo ha preso il suo zaino. «Devo andare», ha detto, «devo ritornare». Da quel giorno non l’ho più sentito.

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Finto come la verità: Baby reindeer e May December

Non potevo esimermi dal citare e ribaltare il motto “stranger than fiction”, anche  perché è incidentalmente il titolo di un ottimo album dei Bad Religion e di un bel film con Will Ferrell, per parlare di Baby reindeer, serie creata da Richard Gadd da poco uscita su Netflix, e di May December, film di Todd Haynes da poco invece uscito dalle sale cinematografiche dopo una permanenza troppo breve. Entrambe le opere infatti traggono spunto da eventi reali (dalla propria vicenda personale nel caso della serie di Gadd e da uno scandalo sessuale scoppiato sul finire degli anni 90 negli Stati Uniti per quanto riguarda il film) ed entrambe giocano con la metacinematografia, visto che Gadd interpreta sé stesso mentre May December opera l’escamotage del film nel film. Entrambe le opere sono accomunate anche dal trattare temi molto sensibili problematizzandoli in maniera originale e curata (le molestie sessuali e lo stalking nel primo caso, l’abuso di minori nel secondo), ma dove si discostano è nel modo che hanno di affrontare un elemento molto caldo nella narrazione odierna, sia cinematografica che editoriale: signore e signori, ecco a voi il Trauma.

Peggio di così puoi ancora scavare

Fino a qui tutto bene?

Non mi ritengo così intelligente da arrivare a fare un’analisi dei media moderni sulla base di un elemento, ma che ci fosse qualcosa di strano in atto nel mondo dell’editoria lo percepivo: molta autofiction, più del solito, e incentrata su esperienze tutt’altro che positive. Ci è voluto questo articolo de Il Post (che ne riprende uno del New Yorker) però a farmi ragionare sull’amplificazione, che ossessione magari è troppo, delle storie che hanno il trauma come motore trainante delle vicende e della costruzione dei personaggi. L’esempio più lampante che viene fatto è Una vita come tante di Hanya Yanagihara, in cui la personalità del protagonista viene influenzata dalle terribili esperienze acccadutegli, dall’abbandono appena nato a un lungo campionario di violenze e torture subite: non avendo letto il libro non posso né concordare né dissentire con questa lettura, di certo però la vita del Jude di Hanagihara assomiglia, in quanto a emblema della sfiga, a quella di Richard Gadd.

Baby reindeer si basa su un monologo di stand-up di Gadd stesso, e parla di come la vita piuttosto anonima del suo alter ego Donny viene sconvolta dall’incontro con Martha (Jessica Gunning), una donna solitaria che un giorno entra nel pub dove l’uomo lavora e inizia a sviluppare per lui un’ossessione morbosa, alimentata dalla tenerezza con cui lui la tratta ma condita da comportamenti di stalking sempre più eccessivi. La storia ci viene raccontata dal punto di vista di Donny, sentiamo i suoi pensieri e le sue rimuginazioni sugli eventi, veniamo messi a parte delle sue recriminazioni e di ciò che lo porta a prendere decisioni che si rivelano essere, nella stragrande maggioranza dei casi, a dir poco pessime.

Cosa potrà mai andare storto?

La serie ha l’innegabile capacità di trattare un tema come quello delle molestie e dello stalking, in maniera preponderante agito dagli uomini contro le donne, ribaltando la questione senza cadere nella trappola dell’ideologia al contrario. Donny non è né viene mai dipinto come il simbolo della violenza delle donne sugli uomini, è solo una persona apparentemente comune che alla sfiga di avere ambizioni da comico pur mancando di senso dell’umorismo (ambizioni per cui è disposto a tenere la propria vita in standby, fra il lavoro senza prospettive da barista e la strana convivenza con la madre della sua ex) aggiunge il ritrovarsi gli spazi vitali invasi progressivamente da Martha, una donna che ad una vulnerabilità che emerge a tratti aggiunge sempre più livelli di follia, ansia di possesso, manipolazione e violenza. Dalle centinaia di mail giornaliere alla presenza costante al pub Martha (interpretata in maniera inquietantemente efficace da Gunning) passa all’intrufolarsi persino in casa di Donny le cui reazioni, dettate dall’empatia come da una strana forma di gratificazione per quelle “attenzioni”, sono poco efficaci, tese a sminuire comportamenti che rendono la sua vita sempre meno vivibile.

Empatia malriposta

Se di Martha scopriamo il malessere mentale attraverso le azioni, a qualche dettaglio della sua vita e, soprattutto, delle sue pendenze con la legge, senza avvicinarci mai alle cause dei disturbi ossessivi che la caratterizzano, di Donny scopriamo pian piano che le sue decisioni, che ti fanno venire spesso la voglia di dargli una scrollata forte urlandogli nelle orecchie “ooooooohhhh ma ce la fai?”, sono dettate da un quadro psicologico molto più complesso di quanto potesse apparire inizialmente. Baby reindeer è una serie che delinea con meticolosità e sensibilità problemi psicologici difficili da trattare, e lo fa alternando il più che comprensibile tono drammatico con quello della commedia, strappando risate a denti stretti (le performance del Donny stand-up comedian fanno venire voglia di nascondersi per interposta persona) fra un pugno nello stomaco e l’altro. Mentre la polizia, una volta coinvolta, si dimostra inefficace nel trovare soluzioni definitive alla persecuzione, fa specie che una soluzione psicologica al monte di problemi che l* due protagonist* assommano non venga mai cercata attivamente, giusto accennata flebilmente con il personaggio di Teri (Nava Mau), psicoterapeuta trans che Donny conosce grazie ad una app di incontri e con la quale ha una relazione complicata dalla sua confusa sessualità oltre che, ovviamente, dalla presenza costante di Martha.

Andata a denunciare, dicevano…

È impossibile seguire l’emersione continua di traumi nella vicenda di Donny/Gadd senza chiedersi “è tutto reale?” L’aver modificato i nomi dell* protagonist* pare non abbia impedito a qualcun* di risalire alla vera identità della stalker, e anche a fronte di questo avvenimento ho evitato di cercare dettagli biografici che avvalorassero la mia prima, e sbagliata, reazione: quella della colpevolizzazione della vittima, non riferito alle sue azioni verso la controparte reale di Martha ma verso un’altra figura, non menzionabile per evitare spoiler, le cui colpe non possono essere spiegate con la presenza di un disordine mentale e la cui pericolosità, se una controparte reale esiste, è anche maggiore. Baby reindeer ha un ritmo vertiginoso, ma è innegabile che ci sia una componente di morbosità nel suo calamitare l’attenzione, nel farci vedere l’abisso che si apre sotto i piedi di Gadd/Donny portandoci a pensare a come dev’essere stato rivivere quelle situazioni, anche se romanzate. Il continuo gioco al rialzo di eventi e traumi trasforma lo spettatore in voyeur, un gioco che regge grazie a una buona scrittura dei personaggi (che dovrebbe essere ovvia, vista la fonte autobiografica, ma se sapessimo tutt* raccontare bene le nostre sfighe ci sarebbero molti più libri che valga la pena leggere al mondo) ma che lascia una domanda in testa: sarei stato così coinvolto se fosse stato tutto finto?

Dacci oggi il nostro disagio quotidiano

Again: fino a qui tutto bene?

Il campionato metacinematografico in cui gioca May December è più canonico rispetto a quello di Baby reindeer, ma non per questo meno interessante. Liberamente ispirato alla storia di Mary Kay Letorneau, insegnante statunitense finita in prigione a causa di una relazione con un alunno dodicenne divenuto suo marito in seguito alla scarcerazione, la pellicola si svolge nel breve periodo che l’attrice Elizabeth Barry (Natalie Portman) passa in compagnia di Gracie Atherton (alter ego di Letorneau, interpretata da Julianne Moore), del di lei marito Joe Yoo (Charles Melton) e della loro famiglia apparentemente perfetta. L’attrice ha accettato di interpretare Gracie in una pellicola che rievoca la storia del caso giudiziario, e col suo riluttante beneplacito studia la vita della donna e parla con i suoi amici e conoscenti, sforzandosi di comprendere le dinamiche più nascoste della vicenda per entrare meglio nel ruolo.

Qualcuno sta per parlare di specchi?

È un gioco di specchi quello operato da Haynes e dalla sceneggiatrice Samy Burch (meritatamente candidata agli Oscar), ostentatamente evidenziato dalla presenza continua di superfici riflettenti. La Elizabeth interpretata da Portman non sembra davvero interessata a cogliere le sfumature più recondite dell’animo di Gracie, sembra più una persona che dal suo piedistallo cerca conferme di qualcosa che già sa, indizi che sgretolino un quadro di rispettabilità e convivenza pacifica che le sembra falso sin dal principio. Non ci vuole in effetti molto prima che emerga qualche crepa, dalle torte sfornate a ripetizione da Gracie che nessuno mangia veramente al rapporto col figlio maggiore Georgie (un viscido Cory Michael Smith), avuto dal primo marito e coetaneo del suo patrigno Joe, ma ogni rivelazione non sembra minare veramente lo status quo quanto svelarne uno nuovo, uno in cui nessuno vuole realmente affrontare la realtà.

MVP delle facce di merda

Non succede molto in May December, eppure si seguono le vicende con un senso di disagio persistente. L’ho visto in un pomeriggio infrasettimanale con una sola persona in sala oltre a me, e anche lei ne è uscita con la stessa sensazione (anche se meno entusiasta di me): quasi tutt* l* protagonist* vivono una situazione in cui preferirebbero non essere e l* poch* che invece accettano con entusiasmo la presenza di Elisabeth, come la figlia di Gracie e Joe Mary (Elizabeth Yu), ci mettono poco a cambiare idea. Haynes gioca con questa situazione che è sempre lì lì per esplodere centellinando le emozioni, gli sfoghi, mostrandoci il teatrino che cerca di reggere nonostante emerga sempre più la sua falsità mentre lo spettatore si aspetta continuamente che la corda si spezzi. Ma il gioco di specchi è molto più complicato, i riflessi più profondi, e avvicinarsi alla fine della pellicola non significa avvicinarsi alla verità.

Altri specchi, altre stanze

Il film di Haynes parla di traumi in maniera completamente diversa dalla serie di Gadd: qui sono già tutti sul piatto, esposti al sole della Savannah in cui si svolgono le vicende, eppure tutt* continuano la loro vita come se niente fosse, senza affrontarli apertamente. Questo aspetto è fondamentale nel rapporto palesemente morboso fra Gracie e Joe (ci sono momenti in cui lei lo redarguisce come si fa coi bambini che lasciano in giro i loro giochi, nello specificodei contenitori in cui lui fa crescere farfalle di una specie da preservare), una relazione in cui il ruolo di elemento fragile della coppia continua a scambiarsi fra i due e il cui equilibrio sembra reggersi sul non farsi domande a cui sarebbe troppo doloroso dare delle risposte (Joe è una vittima o ha ottenuto ciòche voleva dalla vita? Si può essere in grado di decidere quando ti capita una cosa del genere nella vita?), anche in una situazione in cui quelle domande diventano impossibili da ignorare. Da quel quadro sbiadito (efficacemente filmato con un effetto sgranato che sa di tv di una volta) riescono a uscire solo il figlio e le figlie della coppia, due in procinto di diplomarsi e una, l’unica capace di parlare senza ipocrisie, già scappata altrove: per chi resta non c’è che una parte da continuare a recitare, anche quando prende consapevolezza di quanto è stretta.

1-2-3 prova

In un film dalla trama semplice ma dai contorni degli eventi sfumati a risaltare particolarmente è Natalie Portman. Alla sua Elizabeth non dona particolare carisma né scene memorabili e in una gara di espressività perde nettamente il confronto con Moore, eppure resta l’impressione che è proprio così che andava interpretato quel personaggio, quello di una donna arrivata che pensa di sapere già tutto, interessata solo a ciò che le serve e indifferente ai danni che la sua presenza causa (la scena in cui va ospite nella classe di Mary evidenzia bene questo suo disinteresse per chi le sta attorno). Nell’efficacissimo finale (non è un vero spoiler, ma evitate di leggere se pensate di rovinarvi la visione) si ritrova a interpretare una scena madre del film nel film senza sapere bene cosa fare, incapace di trovare la giusta chiave di lettura per interpretare una donna molto più complessa di quanto pensasse, finendo per darne niente più che una versione lussuriosa e ammiccante ovvero la stessa, giusto per complicare ancora un po’ il gioco di specchi, del film tv sensazionalistico già girato anni prima sulla figura di Gracie: senza un trauma bello esposto Elizabeth brancola nel buio e noi con lei, storditi e a disagio senza capire neanche bene perché.

Ad una lunghissima lista di pessime decisioni prese da Donny/Gadd May December risponde con un solo errore, ma che fa porre in continuazione la stessa domanda: perché accettare la proposta di Elizabeth? Perché sottoporsi a questo strazio? Come poteva pensare Gracie di ottenere qualcosa di positivo? Mi sono chiesto per tutto il film anche come avranno vissuto la situazione Letorneau e suo marito Vill Faulaau, ma ho scoperto nell’unica ricerca fatta  he sono morti da tempo, e nel momento in cui scrivo, cercando immagini a corredo dell’articolo, sono incappato anche nella notizia che la vera Martha di Baby reindeer domani rilascerà un’intervista: dubito che dall’interno di una bolla in cui tutt* o quasi hanno visto la serie riuscirò ad evitare di sentirne qualcosa, ma finché posso resto ancora in questo magico mondo di voyeuristica finzione, un magico mondo in cui non ho appena scoperto che è morto Steve Albini.

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Racconto in musica 171: Frammenti (Marta Del Grandi – Snapdragon)

Abbiamo parlato molto recentemente su questo blog di provincia, grazie all’ultimo libro di Mattia Grigolo, dipingendola come un posto piuttosto orribile dove la prospettiva di emergere o anche solo di fuggirne sembra un miraggio. Ovviamente questa è una semplificazione che approfondisce solo un lato della questione (per problematizzare maggiormente, illuminando il rapporto centro-periferia, consiglio a chiunque di andare ad ascoltare dal vivo Martina Miccichè o in alternativa di leggere il suo libro Femminismo di periferia), ma è vero che da giovane nel mio paesino del novarese non mi sarei mai aspettato di combinare assolutamente niente (e infatti oggi posso dire “dirigo un blog che quando va bene fa trenta visualizzazioni al giorno!”, che è la versione aggiornata del “guardami! Guido il pullmino della scuola!” che Otto Disk rivolge a Bart in una vecchissima puntata de I Simpson). Non mi sarei aspettato che nessuno potesse combinare niente intorno a me in generale, non arrivando da Cerano né da lì attorno in generale, pur essendo vicini a Milano e non, che ne so, sul Monte Amiata, dove i lodevoli Dondolaluva anni fa mi raccontavano non esserci manco i locali dove suonare. Poi è spuntato fuori Bugo, ma era la classica eccezione che conferma la regola, o almeno così pensavo. Poi ho visto un mio amico a Porta a porta, ospite abituale quando si parla di casa reale, argomento su cui ha pure scritto un libro pubblicato da Feltrinelli. Poi ho cominciato ad ascoltare Marta Del Grandi, ho approfondito la sua biografia, e fra anni passati in Belgio e persino in Nepal salta fuori che è di Abbiategrasso. Abbiategrasso? Metà strada fra Cerano e Milano, sempre all’interno di quella cerchia che anni fa consideravo il buco del culo del (mio) mondo, e da cui comunque qualcun* riesce a emergere: non sono abbastanza ottimista da trarne una lezione, ma quando succede qualcosa di bello intorno a voi vi invito a farci caso e a farlo risaltare.

Non che Del Grandi abbia bisogno di me o di questo blog da trenta visualizzazioni al giorno quando va bene per ottenere visibilità, perché il suo secondo disco Selva l’ho visto in molte classifiche dei migliori dischi italiani del 2023, e spesso nella top ten. Cantautrice giramondo, il suo percorso artistico comincia a Milano con un corso di canto ai Civici Corsi di Jazz (come racconta ampiamente in questa intervista) che la spinge a dedicare sempre più tempo alla musica, tanto da trasferirsi a Gent per frequentare il Conservatorio. Proprio in Belgio pubblica il suo primo disco come Marta Rosa, l’autoprodotto Invertebrates, in cui l’influenza del jazz si sente nelle atmosfere soffuse di brani come l’iniziale White snow o Some days ma non si limita a quello, portando ad esempio una briosità più pop in Shoes, rocks and boxes o vibrazioni più nervose ed elettriche in I don’t wanna marry, brano che trae spunto dalla storia di Pippa Bacca e dal modo in cui quella vicenda (su cui vi invitiamo a informarvi) era stata trattata dai media, che è poi quello paternalistico e saccente con cui la società cerca di ingabbiare le donne in una rigida comfort zone invece di insegnare agli uomini come essere migliori.

Gli anni successivi sono caratterizzati dai viaggi, e che viaggi. Del Grandi si sposta fra Cina e Nepal, vive per tre anni a Kathmandu (dove collabora con la sede locale di Sofar Sounds e con l’agenzia WASP – We All Should Play) e inizia a creare la musica che finirà poi in Until we fossilize, il primo disco col suo nome in copertina uscito nel 2021 per Fire Records, uno dei vari album figli della pandemia. Etereo e intimista, composto da remoto con altri musicisti e con poche risorse economiche (il contratto discografico arriverà dopo la registrazione), Until we fossilize si discosta molto dal precedente disco come atmosfere e mostra più compiutamente le capacità vocali di Del Grandi, che appoggiata ai synth soavi di Somebody new o accompagnata nei suoi vocalizzi dalla chitarra malinconica di Shy heart riesce a toccare corde molto diverse fra loro pur rimanendo all’interno di un contesto musicale molto coeso. La voglia di sconfinare, frutto anche di una libertà compositiva maggiore data dal suonare fisicamente con una band (con la quale condivide anche il progetto Mòs Ensemble), la porta con il seguente album a spaziare invece fra generi e influenze molto diverse: Selva mantiene lati intimi come Eye of the day ma si apre al pop gioioso spruzzato di fiati di Chamaleon eyes, alla semplicità chitarra-voce di Stay, ai ritmi elettronici sospesi fra fiaba e inquietudine di Snapdragon e pure a una concessione alla lingua italiana, nella title track, un brano leggiadro intriso di poesia che forse la porterà ad abbandonare l’inglese o forse no, e sicuramente non importa. Forte anche di una collaborazione con i Casino Royale (il brano Cospiro) e con il musicista statunitense Graham Reynolds, in questo 2024 Del Grandi ha pubblicato il nuovo singolo The best sea: è presto per dire se sia il preludio al nuovo disco, di certo da queste parti non vediamo l’ora di ascoltarlo.

Fra le tracce di Selva l’orecchio mi è stato catturato in maniera preponderante dalla già citata Snapdragon, un brano dal ritmo trascinante che la voce melodiosa di Del Grandi lascia sospeso in un limbo fra innocenza e inquietudine, frutto anche di un testo efficace che parla di segreti e alibi ma in maniera quasi fiabesca. L’ascolto prolungato mi ha portato alla mente alcune immagini, fissate come fotografie scattate a una festa di compleanno nel testo scomposto che potrete trovare più avanti, dove ognuno è libero di ricostruire come meglio crede la vicenda. Come ci è finito l’uomo in costume a faccia in giù nella piscina? Chi è il fotografo? E quanto è innocente la bambina che apre felice il suo pacco regalo? Se volete la versione che è nella mia testa chiedete pure, intanto vi lascio leggere e ascoltare la meravigliosa canzone da cui il racconto trae spunto: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Frammenti

Sotto la luce gialla che le illumina le foto sembrano più vecchie, sbiadite. Sono gettate sul tavolo in maniera scomposta, come se chi le stava esaminando le avesse sparpagliate a causa della frustrazione.

  • Nella prima foto dall’alto c’è una bambina sorridente con una scatola in mano. La scatola è avvolta da una carta multicolore, ornata da un fiocco arancione su cui la bambina si appresta a posare le mani. L’inquadratura è lievemente storta, l’immagine è ripresa da lontano.
  • Nella seconda foto della bambina si vedono solo un occhio e qualche ricciolo, dietro la sua testa spunta una bottiglia di birra. Un uomo dalla faccia rossa e sudata la abbraccia e le stampa un bacio sulla fronte: lei non sembra troppo felice. La prospettiva è ravvicinata, probabilmente la foto è stata scattata dall’uomo che abbraccia e bacia la bambina.
  • Nella terza foto un altro uomo, in costume da bagno, galleggia sulla superficie della piscina. Accanto a lui galleggia una bottiglia di birra, poco lontano ci sono nell’acqua anche una sedia di plastica e alcuni palloncini. A margine dell’inquadratura si vedono degli schizzi d’acqua. L’uomo è a faccia in giù.
  • Nella quarta foto la bambina mira verso l’obiettivo con quella che sembra una pistola ad aria compressa. Ha un occhio chiuso, sorride. La foto è lievemente mossa.
  • Nella quinta foto l’uomo in costume discute con la bambina. Lei ha la testa bassa e il broncio, lui è ripreso di spalle e tiene la mano con l’indice puntato vicinissimo al suo naso. Una donna con un bicchiere pieno solo di ghiaccio osserva la scena da una sdraio a bordo piscina, gli occhiali da sole scostati dagli occhi. L’inquadratura è lievemente storta.
  • Nella sesta foto l’uomo che abbracciava la bambina digrigna i denti e fa il dito medio alla macchina fotografica. La prospettiva è ravvicinata, la foto mossa: probabilmente un altro autoscatto.
  • Nella settima foto la bambina è con le gambe a penzoloni nella piscina. L’uomo con il costume non c’è più, la sedia e i palloncini sì. La sdraio su cui era seduta la donna è vuota. L’inquadratura è molto storta.
  • Nell’ottava foto la bambina è in mezzo ad alcune piante di bocca di leone. Ha la pistola in una mano, l’indice dell’altra davanti alle labbra. Una mano sfocata alza il pollice nella sua direzione. A margine dell’inquadratura l’uomo in costume si appresta a tuffarsi in piscina.

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Ferm* tutt*, è uscito il nuovo album de iFasti

iFasti li ho conosciuti in un periodo molto strano della nostra vita: il lockdown. Avevo da poco aperto il blog (e stavo già capendo che sarebbe diventato solo una “aspirante” rivista letteraria), neanche tre mesi, e la band torinese era la prima che scoprivo e di cui capivo chiaramente che per vederla dal vivo ci sarebbe voluto tempo, molto tempo. Troppo tempo in realtà visto che a tutt’oggi ancora non ci sono riuscito, il che spiega, insieme all’apprezzamento per il precedente disco Tutorial (di cui potete leggere la recensione qui), quanto fossi ansioso di ascoltare qualcosa di nuovo. L’attesa è finita ed è arrivato Oltre, fresco fresco di uscita per I Dischi Del Minollo e Scatti Vorticosi Records.

È un disco di cui avrei fatto meglio a parlare ieri, 25 aprile, perché iFasti sono un gruppo fieramente politico in un periodo in cui non è più così normale esserlo in maniera un po’ più profonda di un Fabri Fibra, che ripubblica una versione aggiornata della sua In Italia che scommetto non cambierà la visione delle cose di nessuno come non ha fatto la prima volta. Se siete stat* ad una manifestazione in una grande città ieri (e magari, lo spero, era così anche nelle piccole città) nel corteo ci saranno stati dei carri che sparavano musica e, in certi casi, discorsi: avete fatto caso all’età delle canzoni? Quando Rocco Brancucci, voce recitante della band, esclama in 100 fiori che a Genova nel 2001 “ci avete picchiati, ci avete derubati di quel futuro che oggi è poi il presente” dice una verità che è (anche) emblematica della situazione della musica impegnata, uscita dalle televisioni e dalle radio, relegata al solo panorama indipendente dove vive alterne fortune. Avrebbero dovuto uscire anche loro dalle casse, come avrebbero dovuto uscirne i Vintage Violence o gli Il Buio e tant* altr* artist* di cui ho parlato qui o che ho solo ascoltato in questi ultimi anni (e spero che in qualche corteo e in qualche carro sia stato così), arrivare a più orecchie possibili come una volta capitava ai 99 Posse, invece viviamo un disimpegno, musicale e non solo (e io non ne sono esente, che il mio contributo alla causa si limita perlopiù a qualche tirata su questo blog e della beneficenza fatta comodamente dal divano di casa).

Ma non voglio precorrere i tempi, e se col precedente album ho iniziato parlando dei testi qui preferisco farlo partendo dalla musica e spiegando (anche) cos’è cambiato dal 2020 a oggi.

Ma quanto è bella la cover?

Oltre è probabilmente il disco più omogeneo de iFasti, e il più post-rock. Se si eliminasse la voce dall’equazione questo sarebbe più evidente: mai come in questo disco i due bassi (soprattutto) e la chitarra creano incastri continui, giri armonici protratti a lungo che in un album di genere si sarebbero prolungati per minuti e minuti e che invece la band, ancorata a una struttura perlopiù standard di strofe e ritornelli, sfrutta per il tempo necessario a creare l’atmosfera senza fare in modo che l’atmosfera sia tutto. Questo approccio sulle prime è frustrante, si percepisce che potrebbe esserci un mondo dai confini più ampi dietro quelle note e non dargli libero sfogo tende a rendere l’esperienza sonora più omologata, che si traduce anche in uno spazio della componente elettronica molto minore: poi si cominciano ad apprezzare le sfumature, le piccole differenze, la vena abrasiva della già citata 100 fiori o il beat sincopato di Giada, emerge il lavoro della batteria elettronica e la curva di soddisfazione sale, i brani iniziano a girarti in testa. Oltre ti prende piano piano, in maniera avvolgente, ha meno picchi fantasiosi di Tutorial (che, almeno da questi primi ascolti, continuo a preferire sul fronte prettamente musicale) anche perché cerca di fare qualcosa di diverso, più coeso e “morbido” alla sua maniera. Rinnoverò il paragone con gli Offlaga Disco Pax fatto quattro anni fa affermando che se Tutorial era il loro Bachelite, Oltre è il loro Gioco di società: può piacervi più uno dell’altro, ma è una motivazione più di gusto che di qualità visto che quest’ultima rimane sempre alta.

“E povera umanità che paga rate per costruire e comprare divani migliori”

Anche i testi hanno subito un’evoluzione, contraria però a quella della musica. Ai toni più calmi degli strumenti la voce monocorde (e non per questo meno efficace, anzi) di Brancucci affianca versi ancora più affilati, scomodi, diretti ma al contempo aperti a più livelli di lettura. Le piazze di spaccio in cui “con una birra in mano ho giocato anche al superenalotto” contrapposte al posto di lavoro dove alle lamentele segue l’arrivo del “vigilante che mi picchia sulle gambe” (Claudia) approfondiscono in poche frasi il problema della tossicodipendenza oltre i confini della responsabilità del singolo e portandolo su quello sociale (“preferisce eccitarsi oppure addormentarsi, che avere a che fare con questa platea di ipocriti matti”), la prima frase di 100 fiori rinnova l’annosa questione della pace fatta con le bombe, l’immagine del paese (non esplicitato) con la cannabis legale e il salario minimo aumentato del duecentocinquanta per cento in José ci costringono a ragionare meglio sul confine fra realtà e utopia.

Nella giornata di ieri e in qualunque 25 aprile le frasi delle canzoni di Oltre potrebbero e dovrebbero risuonare perché iFasti sono capaci sia di far ragionare che di creare slogan ad effetto, a volte più semplici di quanto la realtà non sia ma che servono a creare una frattura: puoi essere a favore o contro, non neutrale. “Non siamo venuti al mondo solo per svilupparci economicamente, ma per cercare di essere felici” (José), “Guidiamo come matti per portare caramelle nei centri commerciali” (Felici e salvi, che sarebbe perfetta anche nel corteo del primo maggio), “Ti piace ancora l’idea di una donna che sia una buona madre, che consegni a suo figlio un moschetto per la patria, per l’onore, senza piagnucolare” (Giada), parole perentorie che mostrano problemi che forse è troppo semplicistico risolvere augurandosi che “il sistema dovrebbe cadere di schianto” (l’ultima crisi bancaria ci ha dimostrato che a farne le spese non sono comunque i ricchi, ma è anche vero che quelle conseguenze sono frutto di un sistema che non è crollato veramente), ma contro cui bisogna prendere posizione in maniera netta, con un approccio simile ma non uguale a quello dei fascisti (pardon, dei “non anti-fascisti”) al governo che cercano di limitare col gioco delle tre carte il diritto all’aborto e pensano all’improvviso che uno dei problemi principali del paese siano le manifestazioni nelle università.

Ieri un cartello recitava “tax the rich”, forse dovremmo partire da lì e cominciare a lavorare per un mondo in cui essere come José, che “vive con ottocento dollari al mese e gli altri li dona”, magari facendosi due domande sull’impatto ecologico della sua maggiolino dell’ottantasette ma senza dimenticarsi delle mille altre fonti inquinanti che al potere fa comodo nascondere dietro il paravento della responsabilità soggettiva. Ascoltiamo Oltre, pensiamo, agiamo.

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Racconto in musica 170: Leggende (Vonneumann – el Carinebo)

Questa non sarà un’introduzione come le altre. Questa sarà un’introduzione che, anziché prendersi un sacco di spazio per introdurre un contesto che, la stragrande maggioranza delle volte, finisce per essere totalmente alieno alla questione di cui si finisce a parlare (nonché foriero di perdite di tempo da parte vostra, che potreste occupare il tempo in maniera molto più utile, giocando, che so, a palla corda, e questa parentesi ha fondamentalmente l’unico scopo di farvene perdere ancora di più. Giocate a palla corda!), si prenderà TUTTO il tempo. Sarà un’introduzione che non introdurrà la band della settimana, perché non ci sarà l’approfondimento, solo l’introduzione, e l’introduzione introdurrà (e parzialmente anche presenterà) il mio rapporto con la band in questione, ovvero i romani Vonneumann.

Anni fa, per la precisione nel 2014, ricevetti in via del tutto digitale e senza che ricordi minimamente né come né perché un disco che non sapevo come recensire. Non era il primo disco ostico e indefinibile che ricevevo, me ne erano già capitati a bizzeffe, ma era il primo disco ostico e indefinibile che mi piaceva così tanto da voler trovare a tutti i costi il modo di far capire alla gente che avrebbe dovuto ascoltarlo: era Il de’ blues dei suddetti Vonneumann, un’entità astratta e sperimentale formata da sette brani che, lo avrei scoperto solo in seguito, era probabilmente l’album più accessibile della loro intera discografia, ma che al momento a me parve alieno e terribilmente coinvolgente. Provai a recensirlo e ne cavai fuori, in un afflato di metamusicalletteratura che manco Charlie Kaufman nei suoi giorni migliori (il risultato potrebbe non essere lo stesso), la descrizione del disco come se fosse la colonna sonora di un film noir stereotipato, ovvero questa cosa qui: ne vado molto orgoglioso, a torto o a ragione, e a loro piacque, tanto che iniziai una corrispondenza con l’allora bassista della band, oggi batterista (e anche mille altre cose, ammesso che si possano rigidamente delineare i ruoli all’interno di un’entità come Vonneumann), Fabio Ricci.

Nel frattempo quella strana storia stereotipata che avevo creato per la recensione iniziò a mutare nella mia testa. Mi chiesi (probabilmente): cosa può esserci di più contorto di una vicenda creata solo per descrivere un disco? Risposta: un romanzo scritto a partire da quella vicenda in cui il protagonista si rende conto di essere il protagonista di un romanzo. La scrissi, mantenendo la struttura di quella recensione per quel che riguarda la trama generale e ficcandoci dentro tutti gli stereotipi noir che mi venivano in mente (l’investigatore privato alcolizzato, la femme fatale a cui è stato ucciso il marito, il commissario in pensione che fa da mentore al protagonista, il locale orientale che dietro ha una bisca clandestina, il bar dove si sbronzano i protagonisti col barista scostante ma loquace…), oltre a momenti in cui l’investigatore si ritrova a percepire chiaramente che non ha il controllo degli eventi e che probabilmente è solamente un burattino nelle mani del narratore. Una volta finito, non ricordo né come né perché (quanti buchi in questa storia! Ma son passati gli anni, portate pazienza), inviai il risultato a Fabio: lui non solo lo lesse, ma fece anche appunti puntuali ed approfonditi su cosa gli piacque, cosa detestò (le sua analisi sono tanto lucide quanto dirette e senza fronzoli) e cosa avrebbe cambiato. Da allora quello pesudoromanzo (che per lunghezza potremmo al massimo definire una novella, mi sa) dorme in un angolo del mio computer, in attesa paziente di un momento di gloria che potrebbe non arrivare mai. Ma.

Ma nel frattempo quell’idea di storia stereotipata noir, quel germe strano (e probabilmente non così originale) che mi si è insinuato in testa porta altri frutti. Il risultato è un brano strumentale della mia band non strumentale di allora, portato live solo una volta e mai registrato, tanto che me ne sono dimenticato persino il titolo: tre movimenti, sullo sfondo lo stesso svolgersi degli eventi e un finale fuzzoso e confuso che lascia spazio a qualche arpeggio malinconico (o così mi pare di ricordare). La canzone ha una breve e mesta vita, con la band andiamo avanti a fare cose e vedere gente (come si suol dire), passa del tempo ed – ehi! – i Vonneumann stanno facendo un nuovo disco! La band romana nel frattempo ha fatto uscire un disco live (Sitcom koan, 2016), creato una propria community attraverso la mailing list MOD N (qui trovate maggiori dettagli, qui potete iscrivervi) e fatto partire il progetto di un disco collaborativo, aperto a contributi di ogni forma e foggia. Io piglio quella canzone e mi dico “vabbé, con la mia band non ci facciamo niente, magari loro trovano il modo di usarla”: Fabio la ascolta e rigetta in toto la struttura (lo dicevo sopra che è molto tranchant, e gli voglio bene anche per questo), ma apprezza il suono fuzzoso e lo inserisce sul finale di questa traccia qui, rimasticato e rigirato fino a renderlo indistinguibile dalla fonte originale. Ma io non mi accontento.

Schemi di composizione di un disco collaborativo

Anche Fabio scrive, e bene. Da lì (non so come, ma so il perché) parte l’idea di scrivere un racconto a quattro mani da allegare al disco, una cosa gestita a step in cui il protagonista imparanoicato viaggia su un treno (l’idea prende spunto da una conversazione avuta sul racconto Il tunnel di Friedrich Dürrenmatt) in cui io mi occupo dei suoi pensieri in prima persona singolare, mentre lui fa la voce della coscienza che, in seconda persona singolare, lo cazzia e riporta alla sua realtà di inettitudine. Ognuno di noi scrive una parte e la manda all’altro, aggiungendo dettagli e minime svolte, ci facciamo vicendevolmente degli appunti (pochi) e dopo qualche mese abbiamo in mano un raccontino da allegare a tl;dl (2017, il cui titolo fa riferimento alla formula “too long; didn’t read” mutandola in “too long; didn’t listen”), disco magniloquente di quattro tracce pensato per la community, creato con la community e dato poi in pasto anche a chi nella community non è a seguito di un sondaggio (indovinate un po’) interno alla community. Ed è così che da una recensione potenzialmente problematica è nata un’amicizia (sono stato a casa di Fabio a cena, mi ha fatto conoscere la sua famiglia e gli voglio un mondo di bene, anche se ci siamo visti tre volte in croce che potrebbero essere addirittura due in realtà), poi una collaborazione e, da subito, un’amore sconfinato per quel progetto assurdo e iperconcettuale che è Vonneumann, che dopo l’uscita nel 2014 del batterista Gabriele Paone è composto da Fabio Ricci (basso, tromba, elettronica, batteria, attivo anche nei dTHEd di cui vi avevamo parlato qui, partendo fra l’altro dalla stessa storia che oggi ho sbrodolato per intero), Filippo Mazzei (chitarra, clarinetto basso e contralto, elettronica) e Toni Virgilito (chitarra, elettronica, violoncello), una band in continua mutazione che riesce a basare un suo disco sui paradossi di Zenone (Switch Parmenide, 2006, Avantgarde Records), descrivere l’album NorN (2017) con termini come “NorN takes inspiration from the infinite possibilities of languages, from the extreme artificial rigor of Ithkuil, to the sinuous beauty of the Codex Seraphinianus, to the lightness of infants’ scribbles, to the mystery of primitive computer AI spontaneously developing new languages to dialogue, but then when you need to print your last document, something goes wrong and you get strings of undecipherable characters like (caratteri indecifrabili)” (Vonneumann è anche poliglotta) e dedicare l’ultimo disco, il decimo di una carriera più che ventennale (che, visto che io non l’ho fatto, potete approfondire grazie a quest’intervista), al JOHNNIAC (2023), il megacomputer che John Von Neumann creò negli anni cinquanta e a cui dobbiamo cose tipo l’articolo che sto scrivendo, gli spippolamenti elettronici sui dischi dei Vonneumann e le IA che, dopo aver sconfitto il campione di Go sudcoreano Lee Sedol, causeranno la nostra estinzione o non ci faranno lavorare più per il resto della nostra vita (il sondaggio è aperto!)

Guarda un po’ i casi della vita: proprio da pochi giorni ho finito MANIAC di Benjamín Labatut, libro consigliatissimo sulla vita del già citato Von Neumann e non solo, cosa che mi ha spinto a riascoltare dopo qualche mese JOHNNIAC decidendo di trarre un racconto da una delle sei tracce. La scelta è caduta su el Carinebo, il brano d’apertura, perché la voce ospite di Ivan A. Rossi (storico collaboratore in sede di produzione e registrazione dei Vonneumann) che snocciola frasi mi ha ricordato la struttura a testimonianze interconnesse con cui Labatut ha raccontato la vita di Von Neumann: da lì mi è partita la flippa di fare la stessa cosa con questo fantomatico el Carinebo, programmatore e pirata, ubriacone e genio, raccontato in brevi frammenti da chi l’ha, per fortuna o per sfortuna, incrociato. Trovate il racconto più in basso, subito dopo il brano che lo ha ispirato: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Leggende

«Lo chiamavano el Carinebo. Non so perché. Che io sappia non è mai stato nel sud del mondo, ma quando si metteva a farfugliare ubriaco poteva raccontare tutto e il suo contrario, ticchettando con la mano metallica».

«In ufficio ogni mattina, di solito un’ora prima dell’effettivo inizio della giornata lavorativa, ci riuniva attorno a un tavolo e diceva sempre la stessa frase: Non pretenderò da voi niente di più di quello che pensiate io possa pretendere da voi. Facevamo notte alla scrivania, tutti tranne uno che faceva il giusto e se ne andava come se niente fosse. Concedeva appena l’ora di straordinario al mattino, ma la segnava sempre. Lo tolleravamo perché pensavamo che anche lui lo ritenesse un lavativo, poi un giorno lo abbiamo sentito tesserne le lodi per il suo contributo al lavoro che portavamo avanti e ad un mio collega venne automatico lamentarsi. Lui lo guardò un po’ stupito: Se la macchina funziona, rispose, ogni suo componente è essenziale.

Quando ci hanno arrestato, quello che avevamo sempre visto come un profittatore è stato il primo a rifiutarsi di collaborare con la giustizia».

«Io non l’ho mai visto che dentro quel bar, eppure fuori lo conoscevano tutti. E non intendo nel paese, intendo ovunque».

«Lui non viveva, imitava la vita. Ma la imitava così bene che diventava la versione migliore di chiunque, gli riusciva tutto meglio che all’originale. Avrebbe potuto fare il pirata, il genio informatico o lo scrittore alcolizzato ed è stato tutte queste cose, anche di più. A volte più di una insieme».

«Se ci siamo amati? Penso di sì, alla nostra maniera. Un po’ come si pensa ci possa amare un gatto: ci sono slanci di tenerezza, ma non puoi sapere quanto calcolo c’è dietro. Posso dire che non sono mai stata meglio di quando stavo bene con lui, il che è tanto considerato che ora lo odio».

«El Carinebo, che pezzo di merda. Il mondo non sarà più la stessa cosa senza di lui, per fortuna. Datecene un altro così e siamo fottuti».

«Giravano un bel po’ di leggende attorno a lui, ci affascinavano perché erano cose aliene al nostro ambiente. Una riguardava il suo cane, un bastardino minuscolo con tre zampe. Dicevano che lo avesse trovato al nord, durante il Buio, e che fossero sopravvissuti insieme a una tempesta di ghiaccio in mezzo al nulla. Dicevano anche che la gamba gliel’avesse mangiata lui, e che in cambio gli avesse dato la mano.

Dopo una premiazione a cui eravamo entrambi invitati ci siamo trovati di fianco a cena, una delle rare cene a cui partecipava e una delle rarissime, almeno per il nostro ambiente, in cui anche il più sobrio era quantomeno brillo. Si è creata quella che pensavo fosse una certa intimità, e siccome anche io avevo buttato giù un certo numero di bicchieri gli ho chiesto conto di quella storia. Se era vera, insomma. Lui mi ha sorriso appena, come se pensasse fosse la cosa giusta da fare in quel momento. Ci ho guadagnato io, ha detto. La carne di cane è più buona di quella umana, sia cruda che cotta».

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La buona, vecchia gente di una volta, diretta da Christoper Nolan: Gente alla buona di Mattia Grigolo

Una decina di giorni fa ho incontrato, durante un pranzo in compagnia, un’amica che non vedevo da parecchio. Negli ultimi due anni ha cambiato completamente vita: si è trasferita in una frazione di montagna, un paese sperduto di poche case dove ha prima gestito un rifugio, mentre ora si appresta ad aprire una sua piccola società agricola. Produce formaggio (Toma per gli intenditori), ha sei mucche e una di queste, ci ha raccontato, l’ha appena comprata da un allevatore che la picchiava, probabilmente convinto non si sa come né perché che per ottenere latte dalle mucche bisogni fare così. Lei ovviamente ha altri metodi, ed orgogliosamente ci diceva che da quando l’ha comprata quella mucca è rifiorita (e lo so che è un animale e non una pianta, ma è il termine che ha usato lei e mi sembra dolce e poetico, quindi stateci).

Ho raccontato questo aneddoto (non nella sua interezza ma quasi, scusate persone che erano in coda dopo di me) a Mattia Grigolo mentre mi facevo autografare la copia di Gente alla buona, il suo romanzo uscito per Fandango, perché quando la mia amica ce lo ha raccontato io ho pensato subito al paese senza nome, disperso nella Brianza, in cui si svolgono le vicende del libro. A tre quarti della storia, come dettaglio non fondamentale ma emblematico della cura nel creare i personaggi, Grigolo descrive i genitori di uno dei protagonisti in questa maniera:

Mighè vive con i suoi in un angolo del caseggiato. Di lavorare i campi non sono mai stati capaci, non sanno come comportarsi in mezzo al grano, preferiscono star dietro alle bestie. Quando la bestia non ne vuole sapere, non la convinci con le caramelle, come i bambini. Alla bestia gli devi menare e bestemmiare e pure con tutte le botte e le bestemmie, a volte continua a non darti quello che serve. L’Armando in quello è bravo, non si fa intenerire. Quando c’è da tirare calci e pugni, non si tira certo indietro. Forse è una reazione, uno sfogo a quella vitaccia.

Metodo infallibile, quello delle botte e delle bestemmie, così infallibile che si sa già che a volte non funziona. E non sappiamo quante volte non funziona, perché non si dice, non si ammette: il metodo funziona perché si è sempre fatto così. Già solo in un periodo come quello precedente (che va avanti in maniera altrettanto tagliente) è raccolto buona parte del marcio che si può trovare, grattando un poco, sotto la superficie bucolica della mentalità del piccolo paese, quello in cui tutti sanno tutto di tutti (“il paese è una stanza” recita la quarta di copertina) e ognuno ha un ruolo prefissato, un certo numero di spazi in cui recitarlo e un tetto sotto cui rifugiarsi, dove sperare di imparare prima o poi a gettare la maschera ed ambire a essere qualcos’altro. Grigolo è bravissimo a descrivere in pochi tratti il gruppo di personaggi attorno a cui ruota il suo romanzo, facendoli interagire in uno spazio ristretto che si schioda dalla chiesa e da quei due bar in croce (compreso il ritrovo d’elezione, il Bar Anna, la cui proprietaria parla il minimo indispensabile a far sentire ben accetto chiunque) solo per gettarsi nei campi e nella nebbia, negando allo sguardo una prospettiva di fuga.

È bravo, sì, ma io dopo un certo numero di pagine ho temuto che fosse tutto lì: un paese e i suoi problemi, qualcosa di brutto che accade, nessuna lezione da impartire (perché si capisce già da quelle prime pagine che in Gente alla buona niente andrà per il verso giusto) e uno stile secco ed essenziale (ancora più affinato rispetto ai libri precedenti, di cui è un’efficace sintesi) per narrare le vicende. Non poco, è chiaro, ma temevo di non trovare altre sorprese proseguendo nella lettura. E invece.

«Sai cosa mi ha chiesto il Natale scorso il Filippo? Mi ha detto: papà perché non parli mai del tuo amico che è morto? Gliel’ha detto la madre. Sicuro. Pure che io non lo so, perché lei ha sempre evitato di dire certe cose davanti a me. Non sa niente lei, non sa quello che dovrebbe sapere. Ma sai cos’è? Non se lo merita. L’ho sposata e ho giurato davanti al prete e alle fedi che avevamo in mano, ho giurato che gli dicevo la verità fino a che non morivo, ma non ce l’ho fatta.»

«Cosa gli hai risposto, a Filippo?»

«Tutti lo sanno ormai che io il Natale, quel giorno lì, quella notte lì, è come se voglio scomparire. Mettermi dentro un armadio e uscire solo quando qualcuno mi viene a chiamare e mi dice Oh pirlon, il Natale è finito. Mi salva solo questa cosa qui, che facciamo noi tre, la cosa del cimitero. Solo quello mi tiene fuori dall’armadio. E Filippo lo sa, lo vede, che a Natale io sono un’altra persona. Ho una responsabilità io, nei suoi confronti. I padri hanno le responsabilità, i mariti pure. O no?»

«Io non ne so un cazzo di padri e mariti.»

«Perché ogni volta che qualcuno non segue le regole che il paese ha deciso per lui, allora questo qualcuno si deve sentire una merda?»

«Hai ragione.»

«Hai già i tuoi problemi a vivere in una città dove ci sono i tedeschi.»

Ridono.

Ci sono state due morti in paese. Due morti di cui si parla poco, sottovoce, gonfi di dubbi: tutti sanno tutto di tutti, ma anche questa si rivela essere una regola non così infallibile. È morto Michelino, un bambino, il migliore amico di Brando, Sara e Larcher, un tragico incidente; è morto il Giànin, il matto del paese, uno che era giovane quando lo erano anche Toni, Sander e il Marione, i padri dei tre bambini ancora vivi: ma questo non è stato un’incidente. In paese o si evita di nominare quel che è successo, lasciando il lutto fra le mura domestiche e bofonchiando un semplice “sono venuto a chiedere come state e se avete bisogno”, oppure si chiede per mezze frasi, facendo dei lunghi giri per arrivare a un “e di cosa può morire un matto come lui a quell’età?”. Grigolo usa sapientemente i dialoghi per farci conoscere meglio i personaggi e per infittire il mistero attorno a quelle morti, lasciando affiorare in maniera lenta e inesorabile le rivelazioni mentre una gabbia di colpe e rimorsi si stringe intorno a tutti i protagonisti, nessuno escluso, nemmeno il prete Don Maurizio.

Sembra un giallo, descritto così, e avrebbe potuto anche esserlo se a Grigolo non interessassero molto di più i personaggi delle indagini. Lo è al massimo alla stessa maniera de La raggia, la prima novella da lui pubblicata con Pidgin, che condivide con Gente alla buona un’ambientazione provinciale e periferica e l’escamotage narrativo dei salti temporali: solo che qui l’autore si improvvisa Christopher Nolan, e la cosa gli riesce.

All’autore il paragone è piaciuto

Dunkirk non è il mio film preferito di Nolan, anzi. Ricordo di essermi annoiato vedendolo, ma gli concedo il beneficio del dubbio fino ad una seconda visione perché mi sembra tuttora impossibile essermi annoiato di fronte a un congegno così raffinato: tre storie concatenate che si svolgono su piani temporali diversi, uno di giorni, uno di ore, uno di minuti. Il meccanismo temporale che sbalza i personaggi di Gente alla buona avanti e indietro fra la fine del 1995, l’inizio del 1996 e il 2019 (con un breve prologo iniziale ambientato in maniera non cronologica fra il 1965 e il 1987) non è così maniacale, ma è essenziale per dare al lettore l’impressione di essere risucchiato in un buco nero, costretto a vagare lungo i quattro angoli della gabbia per vedere mano a mano illuminati i lati più oscuri della vicenda, sperando che le cose non stiano messe male come temi mentre invece è molto peggio di così… O forse sono io che sono troppo ottimista. Il modo in cui Grigolo arriva in cerchi concentrici alla Verità è il suo essere Nolaniano nella maniera più efficace, gestendo il ritmo della narrazione e non mollando mai la presa, angosciandoti e deliziandoti mentre ti accorgi che, come tutta quella buona vecchia gente di una volta, anche tu non vedi l’ora di sapere tutto, morbosamente, dolorosamente.

Sara ripensa al padre mentre dava da mangiare alle bestie o mentre se ne stava sul trattore: trasandato, che se poteva ci andava in mutande a far fatica. Ma non poteva, che va bene tutto, ma poi, alla fine, pure quelli del paese c’hanno una dignità, piccola come una monetina, ma ce l’hanno, anche se vivono per la terra, anche se tengono più alle loro bestie che alle loro mogli. È per questo che lei è stata sempre vista come strana: perché era come un ragazzo e stava sempre insieme ai maschi e non le interessava di essere comandata da loro.

Però non se n’è andata, è sempre rimasta lì, schermandosi dal dolore e dalla colpa con le cose belle che le sono rimaste: Brando sul letto, chiusi in camera a fingere di studiare, Mighè aggrappato alle sue spalle mentre se lo porta sul portapacchi della bicicletta, il mare di quel giorno a Lavagna.

Forse tutto sta nel fatto che dal paese non si è mai spostata, sempre dentro il confine, che fuori scotta. È rimasta al paese anche quando il loro mondo, quello di loro quattro amici, è cambiato all’improvviso.

Ci sono cose che non si possono dimenticare, ci sono persiane chiuse che non si ha più la forza di riaprire. Il paese è una gabbia.

Se Gente alla buona è Nolan nella struttura, nello stile è invece secco e brutale. Il paese è un posto dove “fa un freddo che”, senza altre parole, senza bisogno di troppo dettagli. Se i rapporti si basano sui non detti all’interno di chiacchiere intorno al nulla e a un bicchiere di vino, gli spazi sono delineati intorno al vuoto che incombe, alla nebbia che cancella l’orizzonte, ai campi così sterminati che sembrano dover non finire mai. Grigolo ha modellato il paese su quello dove si è trasferito da adolescente, duemila anime in croce, prendendo in prestito nomi delle vie e caratteristiche dei personaggi e frullando il tutto fino a cavarne fuori un modello diverso e comunque credibile, un modello in cui le donne sono perlopiù spettatrici inermi di ciò che gli uomini fanno e nascondono. Mi ci ritrovo anche io in quelle dinamiche, io che vengo da un paesino che di anime ne conta addirittura settemila ed è abbastanza vicino a Novara da non sentirsi relegati nel buco del culo del mondo, ma è comunque lontano dalla statale e pertanto attorno sembra avere solo risaie (una volta, ora coltivano anche altro, anche se io con la mia incompetenza vegetale fatico ad accorgermene): vedo Sander e Toni di fronte a un tavolo del Bar Anna e somigliano a quelli che frequentano il bar che una volta era di mio zio, li guardo andare in chiesa senza convinzione e penso a quando facevo finta di andarci da adolescente, chiudendomi in garage a leggere in macchina, leggo la descrizione del Giànin e penso a tutti i matti del paese che abbiamo avuto e che ancora ci sono, che si chiamano così perché il politicamente corretto lì non è ancora arrivato e si ride di stereotipi col teatro in dialetto, ah che belle le tradizioni, e io che da tutto quello mi sentivo escluso anche perché non avevo animo di prendermela con qualcuno di più debole di me (e quanto avrei voluto esserne capace, e quanto male farà quella voglia nell’arco del romanzo) temevo che un giorno lo scemo del paese sarei stato io.

Grigolo fa una disamina perfetta di tutto ciò che vuol dire vivere in un paese sperduto in mezzo al nulla, ci si cala dentro (in Brando si riconosce qualcosa di lui, un effetto voluto dato che entrambi si sono trasferiti a Berlino e, pertanto, sono parzialmente riusciti ad uscire dalla gabbia) e non ne esce solo con una descrizione, ma con una storia che non si riesce a smettere di leggere. Gente alla buona è così avvolgente anche perché, nonostante tutto il male che cova sotto la superficie, l’autore mostra dell’affetto per quelle anime in pena che si trascinano in tra i campi, in mezzo al bestiame, con nient’altro da fare che bersi un bicchiere o, quando il progresso lo permette, giocarsi lo stipendio alle slot, perché ci si deve per forza anche voler bene quando si sopravvive a cosìstretto contatto: “Solo è una disgrazia”, come dice Celine, “che resti così carogna con tanto amore di riserva, la gente”.

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Racconto in musica 169: Cosa vuol dire bruciare delicatamente (72-Hour Post Fight – CANDLEFACE THEME)

Nelle ultime tre settimane ho avuto la fortuna di partecipare, scoprendolo sempre all’ultimo momento, a due piccoli festival musicali: la festa per il diciannovesimo compleanno di To Lose La Track, svoltasi il 23 marzo al C. S. O. A. Cox 18, e lo Psychodelice Spring Fest, svoltosi giusto ieri sera all’Arci Bellezza. In entrambi i casi a fare da catalizzatore principale è stato Johnny Mox, musicista poliedrico di cui avrò modo di parlarvi prossimamente (anche perché mi ha girato il testo di una sua canzone su cui da anni voglio scrivere un racconto ma, essendo pessimo con l’inglese, non ho mai capito esattamente di cosa parlasse), e in entrambi i casi ho finito per godermi un sacco di concerti di artist* che in parte conoscevo di nome, in parte di fatto ma che, Mox escluso, mai avevo visto dal vivo. L’elenco sarebbe troppo lungo, e di sicuro di molt* di loro risentirete parlare su queste schermate (non che ne abbiano un bisogno essenziale per la loro carriera eh): il punto è che i festival sono belli anche e soprattutto quando non conosci tutt* l* artist* che vi partecipano (magari non all’estremo di andare a un evento di K-pop se vi piace il punk, ma ci siamo capiti), e bisognerebbe avere la capacità di buttarsi e andare a curiosare anche se magari, come è capitato a me ieri, non avete nessuno che vi accompagni. Lo dico perché il 17 novembre 2023 mi sono fatto frenare da quelle stesse motivazioni, e non posso neanche usare la scusa che era un giovedì e dovevo far uscire un articolo per il blog visto che quella settimana ho paccato: al Base quella sera hanno suonato otto band fra cui i Leatherette (di cui abbiamo recensito entrambi i dischi) ed ho il vago ricordo di un qualcosa a cui dovevo presenziare prima delle 21, ora di inizio della maratona musicale, ma neanche questa è una scusa accettabile anche perché così mi sono perso, salvo recuperarli subito dopo almeno su disco, i 72-Hour Post Fight, che se non si fosse già capito dal titolone a inizio articolo sono la resident band della settimana.

La band milanese è una di quelle per cui è stato creato il termine “eclettico”, anche nella composizione: due producer (Carlo Luciano Porrini aka Fight Pausa e Luca Bolognesi aka Palazzi D’Oriente), un batterista (Andrea Dissimile) e un sassofonista (Adalberto Valsecchi), uniti da un amore per la musica che, se non è a 360 gradi, almeno a un 270 ci arriva. Hip hop, ambient, jazz, post rock, questo e altro viene frullato nelle loro composizioni magicamente coese che arrivano alle orecchie dell* ascoltator* per la prima volta nel 2019, anno di uscita del primo disco omonimo (uscito per La Tempesta International): vero e proprio flusso sonoro ininterrotto la cui divisione in otto tracce è puramente funzionale (e sicuramente spaventa di meno l* ascoltator*), 72-hour post fight crea un’atmosfera sospesa in cui le varie anime del progetto si intersecano alla perfezione, la musica che ti aspetteresti di ascoltare in un lounge bar se in quel lounge bar suonassero dal vivo jazz su basi hip hop. La natura a dir poco ibrida del progetto si manifesta ulteriormente nell’album di remix che esce a distanza di pochi mesi sempre nel 2019, dove otto artist* internazionali “giocano” con le canzoni originali, modificandole ed espandendole (nelle mani di Ben Vince la traccia Death quadruplica la sua durata e assume un’aria sottilmente inquietante).

Non passa nemmeno un anno che i 72-Hour Post Fight, pur impegnati singolarmente in vari progetti, sfornano un nuovo Ep di due brani, NOT/UNGLUED, tracce che pur mantenendo l’atmosfera ariosa dell’esordio manifestano un interesse maggiore per la ritmicità, con la seconda in particolare che condensa stimoli su stimoli fra pianoforte malinconico, batteria asciutta, sax scatenato ed inserti elettronici essenziali. Entrambe le canzoni confluiscono in NON-BACKGROUND MUSIC (2022), un disco opposto e complementare al precedente (come affermano loro stessi in questa intervista): resta invariato il mix di generi che rendeva così affascinante l’esordio, ma rispetto all’album omonimo qui le tracce sono distaccate e prendono direzioni diverse in cui condensare ora il lato più prettamente hip hop (MEDITATION ON INSTAGRAM FEEDS, con un featuring del vocalist sudafricano di stanza a Stoccolma Kamohelo, e MADE OF CLAY, che nel 2023 “acquisisce” anche una voce grazie a Clauscalmo e F4), ora quello jazz (l’iniziale CANDLEFACE THEME), ora quello elettronico/downtempo (SMOKE CUTTER), senza mai perdere però quell’innata capacità di restare non incasellabili e soprattutto, come indica il gioco di parole insito nel titolo del disco, impossibili da percepire solamente come musica di sottofondo. In questi anni la band ha suonato in lungo e in largo per l’Italia, venendo invitata ad esempio per ben due volte al C2C di Torino, e leggendo quest’altra intervista in cui salta fuori la definizione “ragazzi punk che cercano di esprimere emozioni da adulti” mi aumenta il rimorso per essermeli persi nel novembre scorso: sono di Milano e avrò facilmente modo di recuperare (anche se nel frattempome li sono già ripersi, prima o poi imparerò dai miei errori), teneteli d’occhio anche voi.

CANDLEFACE THEME è la già citata traccia d’apertura di NON-BACKGROUND MUSIC, un brano che unisce l’atmosfera da jazz club ad una vena d’inquietudine data dalla base che opera in sottofondo. Nella solita/insolita maniera in cui opera il mio cervello la canzone è diventata il sottofondo perfetto di una storia in cui il protagonista, complice la cover del disco, è un uomo con una candela al posto della testa: se volete addentrarvi un po’ nella sua routine di vita non dovete fare altro che andare più in basso, subito dopo il brano che lo ha influenzato e che, ovviamente, vi consiglio di ascoltare mentre leggete. Ci sentiamo settimana prossima, buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Cosa vuol dire bruciare delicatamente

Come tutti gli uomini candela, ad esclusione di quei pochi che non sono impiegati nel settore hospitality e intrattenimento, alla sera devo lavorare. Attacco intorno alle diciotto, un po’ più tardi nei mesi caldi, arrivo al locale mezz’ora prima e smezzo una sigaretta col mio collega mentre ci organizziamo: quali tavoli abbiamo, i turni sul palco, varie ed eventuali. Mi trovo bene con lui, più che col precedente. Quello si lamentava sempre, diceva che il nostro è un lavoro noioso che potrebbe fare anche uno scemo e che gli avrebbero dovuto dare altre mansioni. L’ho incontrato per strada, un giorno, mi ha detto che lavorava in fabbrica alla catena di montaggio: sembrava soddisfatto.

Il responsabile ci lascia gestire tutto in autonomia, perché di quello che dobbiamo fare ne capiamo più noi di lui ed è abbastanza in gamba da riconoscerlo. Illuminiamo la cena di alcune coppiette, raramente gruppi di amici, osserviamo i brindisi per qualche ricorrenza o promozione e poi, quando è il momento, ci alterniamo al fianco delle ballerine e dei comici. Ci piacciono più le prime dei secondi, sono molto meno esigenti anche se avrebbero più diritto ad esserlo.

All’una chiudiamo i battenti, ogni tanto rimaniamo a dare una mano con le pulizie. Non ci spetterebbe e nessuno ce lo chiede apertamente, ma delle buone relazioni si costruiscono anche così ed è sempre meglio costruirne, coi tempi che corrono. Sulla strada di casa accompagno il mio collega agli incontri, a volte mi fermo anche io e ascolto qualche storia, più raramente parlo.

Un paio di mesi fa c’era un tipo che raccontava di non riuscire a spegnersi da tre anni, aveva paura di non riaccendersi il mattino seguente. Ha provato a superarla con la terapia, con gli psicofarmaci, ora ci provava con gli incontri. Ha detto che sua moglie non si sentiva sicura a dormirgli accanto, lo accusava di mettere in pericolo sia lei che la figlia: lui ha iniziato a mettersi un paralume ma non è servito, ha detto, né con la paura né con la moglie. Dall’altra parte della sala una ragazza mi ha sorriso, quando ci siamo alzati tutti l’ho raggiunta vicino alla macchinetta del caffè e l’ho salutata. Che coglione eh, mi ha detto indicando con la testa il tipo che se ne stava ancora sulla sedia, la testa che continuava a bruciare e a bruciare. Io ho bevuto il mio caffè ancora bollente, le ho chiesto scusa e sono uscito. A casa ci ho messo un po’ prima di riuscire ad addormentarmi.

Non li ho più rivisti agli incontri, né lei né lui.

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Mi è capitato di nuovo, ovvero di come l’inconscio collettivo mi ha donato un’idea e di come Andrea Betti l’ha sviluppata molto prima di me

Doverosa premessa (versione corta, quella lunga la trovate qui): nel 2020, “grazie” al tempo libero concessomi dalla pandemia, finisco una raccolta di racconti in cui è compreso Un antidoto alla precarietà, storia di un dipendente che lavora per un’azienda che resetta il suo cervello ogni volta che esce dal capannone in cui svolge le sue (forzatamente misteriose) mansioni; due anni dopo fa il suo debutto sugli schermi di Apple Tv+ la serie Scissione, in cui il protagonista lavora per un’azienda che scinde la mente dei suoi dipendenti in modo che non possano sapere che lavoro svolgono durante la giornata; io ovviamente non faccio causa a Steve Jobs (anche perché era già morto) né al creatore della serie Dan Erickson (che avrebbe giustamente obiettato “chi cazzo è questo qui?”), penso a quanto è bello l’inconscio collettivo che fa girare la stessa idea in parti diverse del globo e mi metto in paziente attesa (dura ancora oggi) che qualcuno pubblichi quel racconto e tutti quelli che gli fanno compagnia nell’ancora inedita raccolta.

Arriviamo a qualche mese fa, gennaio per la precisione. Approfittando del tempo libero concessomi dalla nascita di Gesù e del nuovo anno mi metto a sviluppare un’idea che ho in testa da anni, che ha assunto varie forme nel tempo e che è riassumibile in termini molto stringenti col concetto “se sapessi con certezza assoluta che dio non esiste, cosa faresti?” Ora sostituite “dio” con “una civiltà aliena molto più avanzata”, immaginate che il contatto fra le nostre civiltà non avvenga perché gli alieni giudicano che non ne valga la pena (cosa che ci tengono a rimarcare arrivando in un batter d’occhio e andandosene molto, mooolto, moooooooltoooo lentamente) e provate a pensare a quanta gente si deprimerebbe in seguito a questa esperienza. Poche? Molte? E cosa cambierebbe in seguito a questa mancata interazione, a questa manifesta prova che esiste una civiltà più avanzata e che noi non siamo all’altezza della loro attenzione?

Provo a sviluppare questo germe in forma di romanzo, incentrandolo sull* invitat* a una festa che si svolge dieci anni dopo il mancato contatto: la gente pensa a sbronzarsi e fumare, ma dai dialoghi fra le persone emergono piccoli dettagli di ciò che è successo allora e di cosa è cambiato nella società per quanto riguarda il rapporto col divino, col sesso e con la morte (anche con un tot di altre cose, ma queste sono le principali). Arrivato a una quarantina di pagine scrivo un post su Facebook per chiedere pareri riguardo all’idea, qualcuno si mette pure a leggere questo delirio e due diverse persone (due su neanche una decina, mica due su mille) mi citano un romanzo che assomiglia molto, a livello di idea generale, a quello che sto scrivendo io. Quel romanzo si chiama Una breve visita, lo ha scritto Andrea Betti, lo ha pubblicato la casa editrice Wojtek a fine 2022 ed è la storia di come il mondo cambia dopo che una civiltà aliena arriva, si fa un giretto turistico per il pianeta senza calcolarci di pezza e poi se ne va come se niente fosse. Che intendiamoci, è un’idea che in forma completamente diversa era già passata per la testa (e per le pagine) dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij nel loro seminale Picnic sul ciglio della strada (di cui vale la pena recuperare anche la liberissima trasposizione cinematografica Stalker di Andrej Tarkovskij), ma che nel libro di Betti assume inquietanti analogie con quello che è il retroterra della mia storia.

Dal libro di Kibernetes, quattrocento anni circa nel Dopo

Nel mondo immaginato da Betti ci sono un Prima e un Dopo, e l’evento da cui si inizia il nuovo conteggio degli anni è la comparsa dei Cilestrini, razza aliena umanoide apparsa al Polo Sud che per un fine settimana vaga sulla Terra ammirando (e deridendo) opere d’arte, fissandosi sui posacenere come se fossero molto importanti, facendo giri in bicicletta ed evitando qualsiasi comunicazione o contatto ad esclusione di ruggiti con cui spaventano e aprono le folle che gli si assiepano attorno. Questo strano contatto avviene cinque anni dopo l’apparizione della Fessura, un’incrinatura nel tessuto spazio temporale ai confini dell’Eliopausa al cui studio dedicherà tutta la vita il professor Gustav Amirani, uno dei vari personaggi che animano, in un continuo andirivieni temporali, Una breve visita, sorta di bizzarro compendio di eventi fondamentali di quel periodo storico stesi da un monaco dell’ordine dei Kibernetes a quattrocento anni di distanza. Se tutto questo vi pare complicato aggiungeteci una colf di origine amazzonica che è anche una sensitiva, un gruppo di “terroristi culturali” (il RAD) che predica un ritorno dell’umanità alla sua forma più animale, una piaga depressiva battezzata Panacedia che ha portato una fetta notevole della popolazione terrestre a suicidarsi e ha fatto sprofondare altr*, fra cui il giovane Marcus, in una profonda catatonia, due galleristi che parlano di correnti artistiche inusuali e poi movimenti fondamentalistici religiosi, un occhio di vetro, droghe assortite e scienza a profusione. Basta?

Andrea Betti, l’ho scoperto solo a posteriori (perché non sono attento), l’avevo già conosciuto tramite le pagine di La scommessa psichedelica (ne avevo parlato qui). Il suo saggio Perché un rinascimento non si faccia restaurazione è una lucidissima analisi sui pericoli che il rinascimento psichedelico possa essere sfruttato per atomizzare ancora di più la società, creando una popolazione in pace come le mucche invece di aprire le menti per trovare sé stessi e la propria connessione col cosmo (“Non è Gesù Cristo che sono andato a cercare dai Tarahumaras, ma me stesso, il signor Antonin Artaud”, usando una citazione contenuta nel saggio), il tutto in un discorso che mischia le proprie esperienze psichedeliche con l’utopia potenzialmente sfruttabile dal capitalismo esplorata in Come cambiare la tua mente di Michael Pollan e i discorsi sociali di Mark Fisher.

[…] sarebbe ben triste, in questo mondo già triste, che le sostanze sacre venissero impiegate solo per creare persone docili in comunione col cosmo, da metter sotto a lavorare instancabilmente per pochi soldi, felici nel farlo, senza le conseguenze dannose degli stimolanti come cocaina e anfetamine […]

Andrea Betti, Perché un rinascimento non si faccia restaurazione

Quanto detto sopra dovrebbe bastare a capire quali e quanti stimoli Betti lanci anche passando alla narrativa pura, tesa fra la science fiction ironica di un Douglas Adams (o, ancora meglio, il Terra! di Stefano Benni) e quella speculativa, che cerca di immaginare le conseguenze sul domani delle problematiche di oggi. L’avvento dei Cilestrini è l’escamotage per avviare una riflessione sull’umanità e la sua necessità di sentirsi al centro del mondo, sull’arte, su droghe e piante sacre (Marcus, sua sorella Guinevere e un loro amico soprannominato Sputter sembrano parecchio associabili alla cultura rave, mentre la colf Ajuricaba si rivelerà essere una sciamana) e sui limiti della tecnologia, senza dimenticarsi di costruire intorno a questa overdose di stimoli una trama intricata fatta di continui balzi avanti e indietro nel tempo, in cui i ricordi d’infanzia di un personaggio si mischiano con l’assalto agli Uffizi da parte dei RAD e del loro leader Hyeronimus e la spiegazione pseudoscientifica dei tentativi di contatto cosmico attraverso la Fessura tramite la sonda a correlazione quantistica Deutsh-Josza/Gagarin.

«Gagarin. Fu una scelta felice secondo lei questo nome, professor Amirani?»

«Per quel che me ne frega, secondo me, sì. Alcuni polemizzarono, rivendicando un connotato maschilista. Sonda è femminile, dicevano; allora il comitato propose: Tereshkova. Ma ci fu da ridire: obiettarono che, nonostante la parola “sonda” sia femminile, una sonda in sé non è una femmina, è un oggetto privo di genere e sesso, o tutt’al più lo si poteva ritenere un simulacro intersessuale; a quel punto altri ancora contestarono che una sonda è oggettivamente asessuata. Mah… a me andavano bene entrambi (sia il primo uomo, che la prima donna nello spazio). E tutto sommato, chissene! Per me è Josza. Chiacchiere evaporate da tempo. Le proiezioni ad oggi?»

«Se tutto andrà bene raggiungerà la Nube di Oort in poco più di cinque anni. Sfruttando il gravity-assist di Saturno, poi quello di Nettuno. Un doppio trasferimento Hohmann».

«Come con Cassini-Huygens. Ma questa volta dobbiamo raggiungere una velocità mai raggiunta prima senza sbagliare nulla».

«La disposizione dei corpi celesti rilevata dal telescopio orbitante Herschel, trova riscontro anche con lo Spektr-r».

«Mmh… queste percolazioni hanno un pattern di diffusione sui bordi che sembrerebbe promettente».

«Materia oscura?»

«No… pensavo, più al Nulla…».

«Il Nulla, dottore?»

Una breve visita

A tratti Una breve visita sembra pervaso dalla fantasia e dalla frenesia del Foster Wallace di Infinite Jest (da cui penso non a caso mutua una divisione per nomi specifici dei periodi storici: là gli anni colonizzati dal capitalismo, qui i secoli identificati con nomi come “acidificato” o “del Fullurene”), tanto nella varietà linguistica che nella capacità di portare avanti e far incrociare a tempo debito sottotrame diverse, strizzando però quella mole di suggestioni in uno spazio enormemente più breve. È forse questo l’unico difetto che si può imputare al libro di Betti: poco meno di duecento pagine sono uno spazio ristretto per far esplodere completamente tutta la carica che si sente vibrare nel testo, e sebbene ci si affezioni anche a personaggi accessori (Nicanor, il marito di Ajuricaba, c’è in massimo dieci pagine eppure ti si stampa in testa) resta la sensazione di una storia risolta in un universo che poteva essere approfondito di più. Penso che l’autore l’abbia fatto apposta, perché Una breve visita diverte, intrattiene e allo stesso tempo ti frulla il cervello, lasciandoti con più domande che risposte ed evidenziando in questo la sua anima da speculative fiction.

Un brand riconoscibile, potente, sintesi di valori e intenzioni. Anche se sei un iconoclasta non puoi farne a meno. La croce barrata dei Bad Religion, la DK stilizzata dei Dead Kannedy’s, la “A” azteca e teknusa di Aphex Twin. Il grip identitario è come un lazo lanciato con perizia da un vaccaro a cavallo, strizza il collo del capo di bestiame e lo riconduce alla mandria, all’insieme di sua pertinenza. Da sempre sventolano stendardi e loghi, marche e glifi. Ognuno di questi sintetizza la sua idea di mondo. Nell’esperienza bicentenaria del nichilismo (o così perlomeno abbiamo interpretato la vostra genealogia) i RAD non possono agire senza un segno di riconoscimento. C’è chi ancora vi liquida sbrigativamente come Black Bloc, ma i RAD non sono Black Bloc, giusto? Per quanto, secondo i nostri studi, molti di questi siano stati inquadrati nei vostri schieramenti. I RAD sono un fenomeno antropologico del tutto inedito come sostiene il Maestro Urmach, perché sistematicamente

[seguono grida]

Una breve visita

E fin qui ok, ma quella storia delle similitudini fra questo libro e quello che voglio scrivere io?

Sincronocità, madame

Come detto più in alto, l’idea di un mondo in cui gli alieni passano semplicemente a fare un giro (o, nel mio caso, saltano direttamente la fermata) non è una novità assoluta e può aver consciamente o inconsciamente influenzato sia me che Betti, ma le similitudini non si fermano qui.

  • Il Dopo immaginato in Una breve visita è piagato dalla già citata Panacedia, una depressione endemica che ha portato una fetta notevole della popolazione a suicidarsi in massa; nel mio romanzo viene suggerito, tramite gli eventi e i dialoghi della festa, che il suicidio sia diventato socialmente accettato e uno degli invitati è convinto, in orbita palesemente cospirazionista, che questa spinta al volerla fare finita sia causata dagli extraterrestri.
  • Il passaggio dei Cilestrini causa problemi strutturali, come onde radio nel caos e satelliti alla deriva, ma è il Trauma dell’Abbandono di Specie dovuto al loro vagare senza rapportarsi a noi a rimanere impresso e porta tanto alla depressione quanto alla formazione di movimenti sovversivi o pseudoreligiosi, il tutto in un mondo dove i governi e le grandi religioni si sgretolano; l’immagine delle astronavi extraterrestri che se ne vanno lentamente nel mio romanzo porta al contempo a un disimpegno totale di una parte della popolazione (seguendo il ragionamento “se non ci hanno cagato è perché non valiamo niente, perché impegnarsi a migliorare le cose?”) e ad un ampliamento dell’accettazione e dell’inclusività sociale dall’altro.
  • Le sostanze che alterano la percezione fanno spesso capolino in Una breve visita, e si riveleranno fondamentali in una parte dell’intricata trama; nel mio romanzo, pur non influenzando se non indirettamente gli eventi, la marijuana impregna la stragrande maggioranza delle pagine che ho scritto fino ad ora.

Basta questo a dire che io e Betti abbiamo scritto lo stesso libro? Ovviamente no, perché le divergenze sono maggiori delle assonanze sia per quanto riguarda lo stile che i temi trattati: basta però a farmi sorridere pensando agli scherzi del caso, che mi portano a sviluppare un’idea rimasta per anni in un angolo del mio cervello nello stesso periodo in cui un libro che parte da premesse molto simili è arrivato da poco sugli scaffali delle librerie. Nel periodo di sbornia post-marveliana che stiamo attraversando, in cui il multiverso è ovunque e vengono creati/abbandonati universi condivisi che uniscono di tutto (dall’abortito Dark Universe dei mostri storici Universal all’alleanza Godzilla/King Kong che ha appena partorito un nuovo capitolo cinematografico), sapessi minimamente come gestire una cosa del genere proporrei a Betti una finzione narrativa in cui i suoi Cilestrini e i miei extraterrestri (ancora) senza nome convivono nello stesso multiverso: chi ci mette i soldi per una saga?

«[…] ma in compenso ho letto alcuni suoi saggi, madame De Rivail. Mi hanno particolarmente impressionato quelli sulla rotazione consonantica occulta nelle risonanze vocali dei canti sciamanici della Siberia Occidentale. Illuminanti: il concetto di interferenza e risonanza – come immagina – sono il mio pane».

«La ringrazio, professore… fui ispirata da un viaggio alle isole Diomede; l’ultimo inverno prima della sospensione dei voli».

«Ma pensi: furono una delle mete prese in considerazione per costruire la fabbrica Deutsch/Josza».

«… e c’è chi le chiama ancora coincidenze!».

«Sincronicità, madame. Ma talvolta non sono sufficienti […]»

Una breve visita

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