C’è una scena che considero estremamente interessante nel panorama musicale odierno, e non sto parlando di quella romana che ha dato luce a Thegiornalisti, Gazzelle e fuffa varia (di quell’ambiente salvo giusto I cani, che qualche bella canzone agli inizi l’han fatta). È quella bergamasca, la cui punta dell’iceberg sono ovviamente i Verdena ma che vede alla base una moltitudine di band che hanno saputo ritagliarsi il loro spazio, tutte valide e dei generi più disparati: de Le capre a sonagli ho già parlato qualche mese fa, ma meritano di essere ascoltati anche Spread, Vanarin, Teich, Verbal e i compianti Bancale. Oltre alle già già citate, e alle mille altre che avrò colpevolmente dimenticato, una aveva già da tempo solleticato la mia voglia di scrivere: i Moostroo.
Attivi dal 2012, nascono dalle ceneri della band patchanka Jabberwocky e si mettono subito al lavoro su alcuni brani scritti negli anni precedenti. Il nome Moostroo arriva dopo il primo ep, pubblicato come Dulco Klo Charm, quando già il set di strumenti ha subito delle leggere ma sostanziali modifiche: Dulco Mazzoleni elettrifica la sua chitarra acustica, Francesco Pontiggia passa al basso a due corde bottleneck e Igor Malvestiti riduce all’essenziale il suo set di batteria. Il primo album omonimo, uscito nel 2014, suona aggressivo eppure scarno, acustico ed elettrico in egual maniera, con la voce e i testi di Dulco a creare atmosfere degne del miglior cantautorato su una base musicale che pesca dal post-punk in maniera estremamente personale. A fine 2016 esce Musica per adulti, un secondo disco in cui i testi prendono una direzione più intima ma senza che il risultato finale pecchi di energia: dopo averli recensiti e visti dal vivo in più occasioni ho avuto l’opportunità di conoscerli meglio proprio all’uscita di questo album, grazie a un’intervista che potete trovare qui. Sui loro profili social negli ultimi giorni sono apparsi indizi criptici su un nuovo disco, ed è inutile dire che lo attendo con ansia.
Valzerino di provincia, la canzone che ho scelto per il racconto di questa settimana, è tratta dal primo disco dei Moostroo. È uno sguardo lucido e disincantato sulla realtà di provincia, sui mostri che covano sotto l’apparenza, ironica e raggelante al tempo stesso: ho reinterpretato queste suggestioni cercando di mantenere la musicalità della canzone ma inserendo i miei riferimenti provinciali, piccole esperienze stranianti che sono la norma per chi non cerca altro che la sicurezza della consuetudine. Trovate il racconto sotto allo splendido video realizzato dalla band stessa (Dulco è dietro anche ai disegni di alcuni video de Le capre a sonagli, tipo questo), a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
La tua parte
Ogni giorno si ripete una storia già vista, un copione scontato con interpreti ignari.
La macchina piantata in mezzo alla strada, né quattro frecce né niente, alla fermata del bus. Il conducente si sporge, controlla i necrologi, come fosse più importante chi è morto dei viventi. Osserva rapito, cercando chissà chi, non lo distrae nemmeno un clacson inviperito.
La strana signora, all’angolo del bar, ha gli occhi nel vuoto e le braccia conserte. Sta così tutto il giorno, guarda il mondo passare, e che cosa gliene resta è un mistero da sondare. Si anima solamente per chiedere una sigaretta, anche a chi, ogni giorno, le rammenta che non fuma.
La barista furiosa, con la scopa in una mano, sbraita contro cani e padroni che le han lasciato il “regalino”. «Proprio davanti alla porta» si lamenta con tutti, poi getta la sigaretta all’ingresso dell’edicola.
Le biciclette che passano per le vie del centro rigorosamente contromano, pretendendo precedenza. Sono gli ultimi anarchici, resistono stoicamente a un futuro dove il senso di marcia è qualcosa di rilevante.
E suonano le campane dal campanile della chiesa, ma il sagrato è vuoto, oggi non è domenica. Una vecchina che passa si fa il segno della croce, poi inciampa nei lastroni e quasi le scappa un bestemmione. Inveisce contro il sindaco e chi ha rifatto la piazza, un sermone appassionato quasi come Gesù nel tempio.
Tu lo ascolti e ti distrae dalle occhiate degli avventori del circolino sotto casa dove passi ogni giorno. Pensionati, disoccupati o semplici nullafacenti, che ti guardano diffidenti come fosse la prima volta. Chiudi la porta alle spalle ma rimani sulla soglia, attendi bisbigli e commenti sul tuo esser fuori dalla norma.
Sogni posti lontani, una vita meno vana di quella che vedi vivere a chi il paese chiama casa. Una comunità che si aiuta, almeno di facciata, ma ci crede davvero anche quando emargina.
Fuggi presto, se devi, perché il tempo ti cambia, toglie coraggio all’azione e lascia solo inadeguatezza. C’è già un posto per te, nella partitura che ognuno segue, per accoglierti nel rifiuto, nella continua recriminazione: il ribelle, il fallito, la voce fuori dal coro, che fa risaltare ancor di più il dogmatico Alleluja.
Questo articolo uscirà a settembre inoltrato, quando chi più o chi meno saremo tornati a lavoro e gli unici che penseranno alle ferie al presente saranno quelli che si sono goduti le città semivuote ad agosto, per poi partire quando anche le località turistiche si sono svuotate. Perché sì, anche in questa estate 2020 post-Covid (meglio, intra-Covid) un bel po’ di gente si è mossa, o forse erano tutti ad Assisi quando ci sono stato io e poi sono tornati a casa, chissà. I Dondolaluva dicevano “sian benedetti quelli per cui vivere è arrivare a venerdì”, i Vintage Violence rincaravano la dose affermando che “la crisi ci ha convinti che è normale andare a lavorare per pagarsi la benzina per andare a lavorare, Agosto come fine esistenziale”: in attesa di trovare un’alternativa al capitalismo eccovi quindi qualche meta interessante per godervi il prossimo weekend o le prossime ferie.
Fonti del Clitunno, Campello sul Clitunno (PG)
La pace
Visitare questo luogo non vi occuperà molto tempo, ma vi rasserenerà la mente. Un piccolo parco dove da sorgenti sotterranee sgorga il fiume Clitunno, una volta navigabile fino a Roma (viene citato in una lettera di Plinio il Giovane) e oggi decisamente meno prorompente, le cui acque per i romani erano sacre: qui venivano a consultare l’oracolo del dio Giove Clitunno (poco più a valle sorge un Tempietto a lui dedicato, riconvertito in era cristiana a chiesa di San Salvatore), e la purezza delle sue acque nell’antichità è stata decantata fra gli altri da Virgilio, Properzio e Giovenale.
Nonostante il drastico ridimensionamento delle sue acque le fonti dell Clitunno rimangono una visione idilliaca, con un laghetto in cui sguazzano beati anatre e cigni, acque limpidissime, salici e pioppi cipressini a coronarne le sponde. Non è un caso che anche in epoche più recenti ne siano state cantate le lodi, tanto che fra il 1700 e il 1800 due massimi poeti vi fecero riferimento: Lord Byron nel quarto libro dell’Aroldo, e Giosuè Carducci, cui è dedicata una stele marmorea scolpita a bassorilievo, che ne cantò la bellezza in una delle Odi Barbare, intitolata proprio Alle fonti del Clitumno.
Tutto molto bello, ma per il resto della giornata che fare? La zona vi offre un sacco di alternative valide, dalla vicina Spoleto ai più lontani panorami dei Monti Sibillini (potrebbe venirvi voglia di andare a scovare il minuscolo Chirocefalo sulle sponde del Lago di Pilato, omaggiato in tempi moderni dagli Offlaga Disco Pax in Fermo!), ma se volete continuare il vostro giro nel segno dell’acqua la tappa d’obbligo è una sola: la Cascata delle Marmore.
Qui di acqua ce n’è in surplus
Parco dei Mostri di Bomarzo (VT)
La Balena non è fra le sculture più famose del parco, ma l’Orco lo avrete già visto tutti quindi la metto e bon
Salvador Dalì, visitandolo, ne parlò come di un’invenzione storica unica. Questo in effetti è il Parco dei Mostri, commissionato dal principe Pier Francesco Orsini nel 1567 a Pirro Ligorio: un enorme bosco (l’altro nome con cui è conosciuto è infatti quello di Sacro Bosco) in cui sono dislocate gigantesche statue rappresentanti creature fantastiche e mitologiche, accompagnate in alcuni casi da scritte enigmatiche che, più che spiegare il significato del progetto, ne amplificano la misteriosa genesi.
A differenza della Calamita Cosmica (vedi prima parte) qui le proporzioni non erano certo la priorità
Camminare fra un’enorme Ercole che lotta contro Caco, draghi, sfingi, elefanti ed edifici distorti (entrare nella Casa Pendente è un’esperienza da fare: l’equilibrio vi sembrerà una riscoperta sensazionale) è un’esperienza unica e davvero magica, e forse tutte le teorie che sono state fatte negli anni sui motivi della sua costruzione non servono poi a granché: l’importante è girare per i sentieri con la mente aperta e pronta alla meraviglia, di sicuro il principe ne sarebbe già soddisfatto.
Un giro nella Casa Pendente e non avrete più bisogno della droga per sballarvi
Se possiamo visitare questa opera unica al mondo è grazie alla dedizione dei coniugi Severi Bettini, Tina e Giancarlo, sepolti nel mausoleo all’interno del parco (dove forse è sepolta anche la moglie del principe Orsini, Giulia Farnese, a cui il bosco era dedicato). Il parco fu infatti abbandonato già dal 1585, dopo la morte dell’ultimo discendente della casata, e solo nella seconda metà del ‘900 fu oggetto di lavori di restauro che l’hanno riportato all’odierno splendore. Se andate a visitarlo fate un giro nella bocca dell’orco e provate a parlare a voce alta: io non l’ho fatto, ma wikipedia mi dice che la voce viene amplificata e distorta e sono curioso di sapere se è così.
Civita di Bagnoregio (VT), la città che muore
Il colpo d’occhio
Sono sempre stati affascinato dai paesi abbandonati, dalla sensazione che provoca passeggiare in luoghi dove la storia non la fa più l’essere umano. Forse è dovuto al fascino per il postapocalittico che Ken il guerriero ha instillato nel me preadolescente (altro che fasce protette negli anni ’80), forse alle ore perse a giocare a Fallout in anni più recenti, sta di fatto che se trovo una ghost town da qualche parte il desiderio di visitarla si fa subito altissimo. Civita di Bagnoregio da questo punto di vista è un’eccezione alla regola: non un paese abbandonato (tutt’altro, lo troverete imballato di turisti), ma un paese in abbandono o, come lo ha giustamente ribattezzato lo scrittore Bonaventura Tecchi (che vi ha trascorso la giovinezza), “la città che muore”.
Pensavo che l’abbandono del paese fosse dovuto alla fuga verso condizioni di vita migliore, ma il motivo per cui questa piccola frazione conta solamente sedici abitanti (dato aggiornato al 2011) è di carattere geologico: costruita su una rupe di tufo, la “base” su cui poggia il paese è in continua erosione, con rischio di crolli per gli edifici che si trovano sui bordi della rupe stessa. Un destino a cui poteva andare incontro anche Orvieto se non fossero partiti per tempo lavori di messa in sicurezza: non so dire se la situazione di Civita di Bagnoregio sia ormai irreversibile, ma il continuo spopolamento di certo non è un buon segnale.
Se il destino della città mette una certa tristezza il panorama per chi arriva a vederla è di tutt’altro tenore. Abbarbicata sul suo sperone, collegata al paese di Bagnoregio solamente da un ponte pedonale di cemento armato (costruito nel 1965), la frazione di Civita si erge dominante su uno spazio che offre già la visione bucolica dei calanchi, altro spettacolo naturale causato dall’erosione del terreno circostante. Bella anche all’interno, Civita di Bagnoregio soffre come tutti i luoghi del turismo di massa: godrete di più del panorama all’esterno che del traffico pedonale da scansare al suo interno, ma difficilmente riuscirete a trattenervi dal visitarla dopo averla vista ergersi di fronte a voi.
Qualche bel vicolo anche qui
A seconda del percorso che farete per arrivarci potreste trovare sulla vostra strada un piccolo paese, Lubriano, che si vanta di essere “la terrazza più bella sulla valle dei calanchi”. Certamente il panorama che si osserva dalle sue vie è mozzafiato, ma se volete trovare anche un motivo letterario per visitarla eccovelo servito: qui morì, il 16 marzo 1978, lo scrittore, poeta e critico letterario argentino Juan Rodolfo Wilcock. Amico di Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges, Wilcock si trasferì in Italia negli anni ’50 e scrisse molto nella nostra lingua, tanto da ricevere la cittadinanza onoraria post mortem. Non troverete qui la sua tomba (è sepolto nel cimitero acattolico di Roma), ma potrebbe interessarvi dedicargli un pensiero camminando per le strade che ha solcato: il caso vuole che abbia scoperto tutto questo solo dopo esserci passato, ma prima di mettermi a leggere il suo La sinagoga degli iconoclasti, di cui vi parlerò nelle prossime settimane.
Il panorama dalla “terrazza”
Pitigliano (GR) e le Vie cave
Ah, l’ignoranza! Quando uno ha delle lacune è giusto ammetterle, quindi faccio ammenda del fatto che ero convinto che Pitigliano fosse conosciuta col soprannome “la piccola Gerusalemme” per la sua estetica e non, come ho scoperto in seguito, per la presenza storica di un’ampia comunità ebraica. Questo non significa che Pitigliano non sia magnifica, e potete farvene un’idea guardando le foto che ho sparpagliato qua e là.
Accomunata a Civita di Bagnoregio e Orvieto dalla sua posizione in cima a una rupe di tufo, la cittadina è piacevole da visitare, ricolma di vicoli e piena di negozi di artigianato locale che le danno un’aria attiva, vitale. Da queste parti venne a vivere in latitanza su finire degli anni ’70 Marcello Baraghini, storico editore di Stampa Alternativa, dopo una condanna a 18 mesi di reclusione per incitamento all’aborto a causa della pubblicazione di Contro la famiglia. Manuale di autodifesa per minorenni, e ci rimase anche dopo l’amnistia ricevuta un anno dopo la condanna. Ideatore della collana Millelire nel 1989, oggi Baraghini dirige proprio a Pitigliano l‘Associazione Strade Bianche di Stampa Alternativa, in cui si è reinventato “editore al contrario” abolendo il copyright e facendo decidere il prezzo reale al lettore. Potete trovare maggiori informazioni sulla sua storia e i suoi progetti, passati e futuri, in questo interessante articolo, mentre a questo link trovate molti di quegli storici Millelire pronti da scaricare, resi gratuiti da Baraghini in questo 2020 tanto martoriato per l’editoria.
Una foto che rende poca giustizia alla libreria di Marcello Baraghini
Una bella città e una bella idea editoriale quindi, ma Pitigliano nasconde anche altro: fra il suo territorio e quello delle vicine Sovana e Sorano corrono infatti le Vie Cave, ciclopici corridoi simili a canyon scavati nel tufo. Vale assolutamente la pena di farci un’escursione, vi troverete pace e bellezza oltre a qualche resto etrusco. Anche Matteo Garrone ne è rimasto affascinato, tanto da girarvi alcune scene de Il racconto dei racconti: a voi scoprire quali.
Giardino dei tarocchi, Pescia Fiorentina (GR)
Benvenuti nella psichedelia!
Questa è la storia di un’artista e di un colpo di fulmine. L’artista è Niki de Saint Phalle, pittrice, scultrice, regista e realizzatrice di plastici franco-statunitense; il colpo di fulmine è quello scoccato con l’arte di Gaudì in occasione di una visita al celebre Parc Guell, a Barcellona; il posto in cui questo amore platonico ha visto sbocciare i suoi frutti è il Giardino dei tarocchi.
Pianificato negli anni ’70 e realizzato nell’arco di più di venti anni su un terreno messole a disposizione dai fratelli di Marella Caracciolo Agnelli, conosciuta durante un periodo di convalescenza a St. Moritz, il Giardino dei tarocchi è una sfrenata opera di fantasia multicolore (influenzata pare anche dalla visita al Parco dei Mostri di Bomarzo citato più in alto, una visita da cui è forse scaturita la decisione di non organizzare visite guidate per permettere ai visitatori di darsi da sé le risposte alle proprie domande). All’interno della sua area si possono osservare enormi statue in acciaio e cemento rappresentanti gli arcani maggiori dei tarocchi, rivisitati secondo una propria idea estetica, ricoperte da vetri, specchi e ceramiche colorate che rendono la visita un’immersione in un caleidoscopio di colori e riflessi.
Quell’ingranaggio in cima alla Torre si muove!
La visita tocca il cuore oltre che gli occhi, perché l’amore che De Saint Phalle ha profuso nella sua monumentale opera lo si riscontra anche da piccoli dettagli, pensieri vergati sui marciapiedi decorati o sulle opere stesse. Su una di queste c’è una sorta di lettera d’amore fantasiosa e commovente dedicata al suo secondo marito, Jean Tinguely, scomparso nel 1991 dopo tre decenni vissuti a stretto contatto (i due collaboravano anche artisticamente, e alcuni degli ingranaggi semoventi di Tinguely sono riconoscibili negli elementi del parco, ad esempio in cima alla Torre): il modo in cui affronta l’amore e il lutto con pochi fumetti dice molto sulla sua sensibilità, la stessa con cui si è premurata di costituire una fondazione allo scopo di preservare e mantenere la sua opera e che dalla sua morte, avvenuta nel 2002, gestisce e cura il parco in sua vece.
Lettera d’amore su idra multicolore
Perdetevi fra le sculture, godetevi gli effetti di luce e i riflessi, lasciatevi trasportare dalla fantasia e non perdetevi l’interno dell’enorme Papessa: un appartamento vero e proprio tutto composto da frammenti di specchi, in cui De Saint Phalle stessa ha abitato durante la realizzazione dei lavori.
Buon riposo!
La Scarzuola, Montegabbione (TR)
Il colpo d’occhio 2
Come il Giardino dei tarocchi anche la Scarzuola è la realizzazione della visione di una persona sola, in questo caso l’architetto milanese Tomaso Buzzi. Influenzato dalla lettura dell’Hypnerotomachia Poliphili, romanzo allegorico del 1499 che parla del sogno erotico di Polifilo vissuto quale vero e proprio viaggio iniziatico dal protagonista, Buzzi acquistò nel 1957 la proprietà di un ex convento francescano per costruire quella che alcuni definiscono la sua “città ideale”, concepita però attraverso la coniugazione di elementi architettonici e simbolici che creano fra loro relazioni volte a scatenare una trasformazione interiore.
Un dettaglio + me riflesso con la maglia degli Zeus!
Preparatevi a osservare riproduzioni di Partenone, Colosseo, Piramide e altro ancora unite in un’unica Acropoli, figure archetipiche che rimandano alle scoperte in campo psicoanalitico di Jung, un enorme anfiteatro ricoperto di simboli. Preparatevi anche al padrone di casa, Marco Solari, nipote di Buzzi e suo erede: fu lui a terminare l’opera alla morte dello zio, avvenuta nel 1981, e sarà la vostra guida durante la visita anche se ci tiene a precisare che “tanto non capirete un cazzo”.
Archetipi?
Nella sua descrizione della storia del posto la Scarzuola era una sorta di parco giochi dell’architetto, in cui si era spogliato delle proprie competenze per farsi bambino e creare una grande scenografia teatrale in continuo divenire, ma questo non sminuisce la sua valenza iniziatica. Per tutta la durata della visita guidata Solari sarà provocatorio e offensivo (il leit motiv “tanto voi non capite un cazzo” diventerà un mantra), ma i concetti di cui parla sono affascinanti e vale la pena seguirlo lungo il tracciato di questa opera visionaria, stando alle sue regole e prendendo ciò che di buono ha da dire…ed è molto.
Se il vostro ego è troppo grande evitate la Scarzuola, perché lei e il suo proprietario sono inscindibili l’uno dall’altra e per voi la visita sarebbe un’esperienza da dimenticare; se invece siete aperti alle esperienze e passate sopra a certi teatrini con niente più di un’alzata di spalle allora per voi si apriranno le porte di un’esperienza unica, in un luogo “terribile e notturno” ma foriero di riflessioni.
Abbazia di San Galgano, Chiusdino (SI)
Fate gli auguri agli sposi là in fondo, a cui abbiamo rovinato le foto del matrimonio
Nel racconto dei luoghi che io e la mia fidanzata abbiamo visitato ho cercato di inserire quasi sempre un dettaglio letterario, anche solo un semplice aneddoto, ma nel caso dell’Abbazia di San Galgano il legame è addirittura col mito, anche se il mito non è autoctono. Ma andiamo con ordine.
“Rubiamo il piombo che rinforza il tetto, cosa mai potrà andare storto?”
Costruita nei primi anni del 1200, l’Abbazia fu consacrata nel 1268 e da lì visse un secolo di splendore prima che gli stessi prelati che dovevano averne cura cominciassero a venderne i tesori, arrivando addirittura nel 1550 a vendere il rivestimento in piombo del soffitto. Quando nel 1786 un fulmine ne colpì il campanile, facendolo crollare sul tetto, la mancanza del piombo fu disastrosa per le sorti del complesso, che venne abbandonato e sconsacrato tre anni più tardi. Oggi la sua rovina è diventata il motivo per cui frotte di visitatori affollano le sue spoglie sale: un’intera Abbazia a cielo aperto è infatti uno spettacolo meraviglioso e insolito, certo più adatto a noi uomini moderni e senza dio che non ne abbiamo mai abbastanza di luoghi da poter postare su Instagram (l’ho fatto anche io).
San Galgano o Re Artù?
Ma chi era San Galgano? Rampollo di una famiglia nobiliare, dopo una vita disordinata e il servizio come cavaliere decise di farsi eremita, un voto che sigillò conficcando la sua spada in un masso per farne una croce. Ancora adesso la spada è custodita nel vicino Eremo di Montesiepi, costruito subito dopo la morte del santo nel 1181, e se una spada nella roccia vi ricorda qualcosa sappiate che la famosa estrazione compiuta da Re Artù entra a far parte della leggenda solo grazie al racconto in versi francese Merlino di Robert de Boron, poeta vissuto nella stessa epoca del santo. C’è un legame diretto fra i cavalieri della tavola rotonda e il santo toscano? Forse Avalon e Chiusdino non sono così lontane, e un santo che compie un gesto pacifico di rinuncia alla battaglia può aver ispirato la narrazione delle gesta guerresche di un re bretone da sempre sospeso fra storia e mito.
Andate in pace, Amen!
Ora avete un po’ di idee per le vostre prossime vacanze, fatene buon uso e nel frattempo leggete, ascoltate musica, aiutate l’arte e…vabbé, lavorate anche per mantenervi.
Vorrei poter dire che ho passato il mese di pausa agostana a riunire autori di cui pubblicare racconti e ad ascoltare nuove band da farvi scoprire, ma la realtà è che A) sui primi ci sto lavorando, e non sapete quanti splendidi racconti si possono trovare sulle riviste letterarie: prima o poi farò un articolo al riguardo B) ho passato le due settimane in cui ho fatto su e giù per l’Italia ascoltando Radio Deejay, e non sapete quante canzoni del cazzo con testi senza senso che parlano di tequila e mare sono uscite questa estate. O probabilmente lo sapete e siete da queste parti proprio per disintossicarvi, quindi la smetto di blaterare di musica brutta e mi metto a parlarvi del gruppo che mi ha ispirato questa settimana, ovvero i Calibro 35.
Sulla lunga carriera della band milanese, attiva dal 2007, ci sarebbero mille cose da dire, così come suoi singoli componenti. Quando Enrico Gabrielli (tastiere e fiati), Massimo Martellotta (chitarra), Luca Rondanini (batteria), Luca Cavina (basso) e Tommaso Colliva (produttore e vero e proprio elemento della band) si riuniscono per un progetto dedicato alle colonne sonore italiane degli anni sessanta e settanta tutti hanno già una certa carriera nel mondo della musica (ascoltate Gabrielli coi Mariposa e Cavina con gli Zeus! per favore, vederli entrambi sul palco a Sanremo nel 2019 conoscendo i loro trascorsi musicali mi ha fatto commuovere), e il progetto può sembrare il classico divertissement da una botta e via: dopo sette album, alcuni ep, partecipazioni a compilation e addirittura un brano utilizzato nei titoli di coda di un film con Bruce Willis (Convergere in Giambellino, utilizzato nella colonna sonora di Red, non certo l’unica incursione dei Calibro 35 nel mondo del cinema) possiamo ovviamente affermare che non è così. Attraverso funky, jazz e quanto altro gli venisse in mente i Calibro 35 hanno pian piano ampliato il loro raggio d’azione dalle colonne sonore accennate più in alto (ripresero il tema di L’uomo dagli occhi di ghiaccio per la compilation Il paese è reale di cui ho parlato qui, fra le altre) a dischi di soli brani originali, perlopiù strumentali ma con piacevoli incursioni vocali (già nel primo disco era presente una versione della canzone L’appuntamento, originariamente interpretata da Ornella Vanoni, con Roberto Dell’Era alla voce).
Di Momentum, l’ultimo disco uscito a gennaio, io mi sono accorto come al solito in ritardo ma è stato amore a primo ascolto. All’interno del loro sound comunque riconoscibile ci sono derive un po’ da tutte le parti, tanto che io ci ho trovato spazio per immaginarmi connubi con la fantascienza e il mondo del retrogaming: Thunderstorms and data, sesta traccia dell’album, mi ha ispirato un brano debitore di tante letture (fra tutte Nostri amici da Frolix 8 di Philip K. Dick) e dell’immaginario videoludico degli shoot’em up a scorrimento verticale, genere anzianissimo ma che continua a sopravvivere nonostante tutto. Siete ancora in tempo per vedere i Calibro 35 dal vivo al Castello Sforzesco mercoledì 9 settembre (qui maggiori informazioni), il racconto invece lo trovate sotto al brano: non mi rimane che augurarvi buon ascolto, e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Bagliori dallo spazio profondo
Ce l’ho fatta. La mia missione è compiuta, finalmente sono a casa.
Ho visto le stelle delle più remote galassie, visitato pianeti dai panorami inenarrabili, attraversato nubi di asteroidi, tutto al solo scopo di salvare la mia specie. Quando l’incarico ci è stata affidato il nostro sembrava un tentativo disperato: disperderci per lo spazio, cercando qualcosa che ci aiutasse a sopravvivere.
Mi si inumidiscono gli occhi avvicinandomi al globo, alle luci sulla sua superfice. Sembra cambiato, eppure è sempre lo stesso: il mio pianeta natale, quello che mi ha dato la vita e uno scopo.
Quello per cui ho perso per sempre la mia innocenza.
Ripenso alle battaglie e ai cunicoli pieni di circuiti in roccaforti aliene dove mi infiltravo come un virus in un vasto sistema immunitario. Mille e più volte ho rischiato di morire fra le fiamme, un bagliore nell’universo silenzioso che nessuno da casa avrebbe visto. Ho fatto mie tecnologie apparentemente incomprensibili, integrate nella mia navicella che ora è l’emblema stesso della speranza.
Vedo figure avvicinarsi dall’atmosfera. Ho già inviato il codice di riconoscimento, mi immagino le reazioni alla torre di controllo e non riesco a trattenere una risata. Cerco di immaginare anche le facce, ma la risata si fa amara. Chissà quanti saranno morti durante la mia assenza.
Ho perso i migliori anni della mia vita a vagare solitario, ma il sacrificio non è stato vano.
Mi chiedo se lei mi abbia aspettato, anche se le ho detto di non farlo. Se la mia abitazione è ancora in piedi, nonostante le tempeste che imperversavano sulla superfice. Penso anche a quelli che dicevano che la mia era la scelta facile, che cercavo la salvezza altrove lasciandoli lì a morire. Non potrò raccontare loro dei pericoli che ho corso, dei dubbi che mi attraversavano la mente ogni volta che ero costretto a combattere. Avevano una famiglia i miei avversari? Ero io il cattivo per le flotte che cercavano di respingermi? Sopravviveranno i pianeti che mi sono lasciato alle spalle, senza le tecnologie che ho sottratto loro?
Non voglio più pensare, solo guardare le navicelle che si schierano attorno a me, il mio comitato di accoglienza. Basta sofferenza.
Sono l’eroe. Una bella sensazione. Troppo breve.
Le navicelle cominciano ad attaccarmi. Cerco di comunicare, ma le mie urla si perdono nel vuoto. Mi limito a schivare finché posso, fino a quando reagire non diventa l’unica possibilità di sopravvivenza, ma mi hanno ormai accerchiato. Dovrei riuscire ad abbatterle facilmente ma sono più veloci di quanto le ricordi. Come ha fatto la tecnologia del mio pianeta ad avanzare così? Chi è che mi sta realmente attaccando?
Un paio di colpi vanno a segno, trasformando la mia navicella in una palla di fuoco. Resto senza risposte, ma almeno da casa potranno vedere l’esplosione che pone fine alla mia vita.
Ebbene sì, come molti in questa estate sono andato alla riscoperta dell’Italia. Sarà che non l’ho mai approfondita più di tanto, sarà perché fino a qualche mese fa manco sapevo se ci sarebbe stato un periodo da sfruttare per le vacanze, sarà che la pandemia globale ha convinto me e la mia fidanzata a convertirci al motto “stay local”, il risultato alla fine è stato un viaggio in macchina fra Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Lazio. Niente mare che in spiaggia ci annoiamo, ma un sacco di mete trovate perlopiù col metodo collaudato di cercare su Google “cose insolite da vedere in” e via di nome della regione prescelta. In rigoroso ordine di percorso ecco quindi una carrellata di alcuni posti che abbiamo scoperto in vacanza, corredati da curiosità che li collegano alle arti di cui di solito sproloquio in questo blog.
Labirinto della Masone, Fontanellato (PR)
Cosa può unire uno dei più grandi scrittori sudamericani e una band seminale di Seattle che fa drone doom metal? La risposta la conosce Franco Maria Ricci, eclettico editore che nel 2015 aprì al pubblico il suo progetto (forse) più ambizioso: un enorme labirinto, creato con svariate specie di bambù.
Lo scrittore sudamericano a cui ho accennato è Jorge Luis Borges, che Ricci conosceva personalmente (collaborò con lui a diversi progetti, fra i quali la collana La biblioteca di Babele) e che è stato più volte suo ospite. Proprio conversando e camminando con un Borges ormai cieco gli venne l’idea di costruire un labirinto enorme, tema caro allo scrittore argentino che, messo a parte dell’intento, commentò dicendo che “il labirinto più grande del mondo esiste già, e si chiama deserto”. Ci vollero trent’anni e vari progetti per concretizzare il sogno, e oggi è possibile visitarlo e perdercisi imparando nel frattempo qualcosa sui labirinti nella storia, grazie a pannelli esplicativi piazzati qua e là: sapevate ad esempio che nei labirinti romani non esisteva la possibilità di sbagliare percorso?
E all’interno trovate pure delle opere d’arte, realizzate anch’esse in bambù
Tappa obbligatoria della visita è il museo, sito al primo piano dell’edificio d’ingresso. Otre a una collezione d’arte eclettica e solo apparentemente caotica, che va da una stanza delle meraviglie incentrata sulla morte a dipinti di Ligabue, nelle sale è concentrata anche la produzione letteraria di Franco Maria Ricci, vera manna per ogni bibliofilo. Dopo il debutto nell’editoria, avvenuto nel 1963 con la ristampa del Manuale tipografico di Giambattista Bodoni, direttore della Stamperia Ducale di Parma a fine ‘700 e noto per i caratteri ricercati ed eleganti delle sue stampe, Ricci continuò la sua opera di editore votandosi al bello, unendo a contenuti di livello un’estetica riconoscibile e di sicuro impatto. Negli anni ’80 fondò anche una rivista, FMR, nella quale condensò la sua sensibilità estetica, ottenendo plausi da tutto il mondo.
Per dare un’idea di ciò che potrete trovare fra le memorabilia della sua casa editrice cito solo l’Encyclopédie curata da Diderot e D’Alembert, introdotta nella ristampa curata da Ricci da testi fra gli altri di Borges e Roland Barthes, e una sala intera dedicata al Codex Seraphinianus di Luigi Serafini, monumentale opera illustrata in due volumi che rappresenta una visionaria enciclopedia di un mondo inventato, scritta nei minuziosi caratteri di una lingua inesistente e adorata fra gli altri da Calvino, Manganelli e Fellini: anche solo questa sala varrebbe il prezzo del biglietto.
Animali psichedelici e dove trovarli, altro che J. K. Rowling
E il drone doom metal? C’entra eccome. Con incredibile occhio (e orecchio) per la connessione di forme d’arte diverse Ricci ha promosso svariati eventi nel suo labirinto, fra cui nel 2016 uno spettacolo visuale basato sul volume Finimondi di Borges, sonorizzato nientemeno che dai Sunn O))). Tutt’ora l’editore dimostra una competenza e un’apertura mentale che le radio nostrane purtroppo non hanno, avendo ospitato fra luglio e agosto il musicista e compositore sardo Paolo Angeli, uno spettacolo basato sui testi della musica indie di Max Collini e il concerto della musicista romana Lili Refrain. Il 28 agosto l’ultimo appuntamento è stata la replica dello spettacolo, itinerante lungo il labirinto, Lo specchio di Borges (sì, ancora lui). Qui trovate maggiori informazioni su tutti gli eventi e quanto di interessante si svolge all’interno del labirinto.
Benvenuti alla fine del mondo, 2016 edition
Rocchetta Mattei, Grizzana Morandi (BO)
Costruita sulle rovine della Rocca di Savignano, una struttura preesistente del XIII secolo, la Rocchetta Mattei prende il nome dal suo creatore, il conte Cesare Mattei (1809-1896). Nato da famiglia agiata e cresciuto a contatto con personaggi illustri della sua epoca (un nome su tutti: Gioacchino Rossini), Mattei si rinchiuse all’interno della sua bizzarra fortezza dopo due eventi segnanti: la morte della madre, avvenuta nel 1944, e alcune deludenti esperienze politiche nell’Italia del dopoguerra. Modificata più volte da lui e dai suoi eredi, la Rocchetta si presenta come un connubio incredibile di stili diversi, dal neomedievale al rinascimentale, dal moresco al liberty.
Ho detto Moresco?
Non meno bizzarro è il motivo per cui Mattei si allontanò dalla vita mondana. Deluso dalla medicina contemporanea, probabilmente a causa della morte della madre, il conte elaborò un metodo curativo che prendeva spunto dagli studi di Samuel Hahnemann, fondatore dell’Omeopatia: creò così l’Elettromeopatia, basata su preparati da lui stesso prodotti che sul finire dell’800 ebbero un successo internazionale, con 107 punti di distribuzione in tutto il mondo. Venivano persino nobili russi a farsi curare da Mattei, nonostante il “metodo” non funzionasse (come la scienza moderna ha appurato) e tutt’al più i sofferenti potevano contare, quando non sull’effetto placebo, sul semplice effetto benefico del clima mediterraneo. Va detto che il conte non truffava nessuno e credeva davvero nel suo metodo (i suoi rimedi rimasero in produzione ancora a lungo, con l’impresa portata avanti dal collaboratore Mario Venturoli, adottato da Mattei e designato erede dopo che il nipote Luigi, a cui era affidata la gestione finanziaria, rischiò di dilapidarne gli averi), quindi la storia lo ricorderà come visionario ma non certo come ciarlatano. La sua magione, oltre che per la bellezza architettonica, rimarrà immortale anche grazie a un certo Fedor Dostojevskij: nel suo romanzo I fratelli Karamàzov appare infatti citata la Rocchetta Mattei. Vi avevo promesso aneddoti letterari inconsueti, no?
Col fallimento del mercato basato sull’elettromeopatia gli eredi di Mattei furono costretti a vendere la Rocchetta a Primo Stefanelli, commerciante locale detto “il mercantone”. Quest’ultimo la sfruttò come attrazione fino agli anni ’80, senza curarsi granché della sua preservazione, ed è solo grazie alla Cassa di Risparmio di Bologna che l’ha acquistata nel 2005 se oggi le sue sale sono nuovamente percorribili, grazie a lavori di consolidamento e ristrutturazione tuttora in corso. La potete visitare con una guida nel weekend fra le 10 e le 15, ma è consigliata la prenotazione: andate qui per maggiori informazioni.
San Leo (RN)
Fra le mete predilette delle nostre vacanze ci sono stati un nugolo di piccoli borghi, fra cui un paio nella Romagna Sud-Occidentale: Verucchio, culla dei Malatesta, e soprattutto San Leo.
Situato in cima a uno sperone roccioso, da cui lo sguardo spazia tutto attorno, San Leo è un borgo di poco più di 2000 anime in cui è piacevole perdersi fra i vicoli, rilassarsi godendosi il panorama dal belvedere e, per chi ha voglia di farsi una bella camminata, visitare la Rocca che la sovrasta (cosa che non siamo riusciti a fare, complice il rilassante panorama sul belvedere e un ancora più rilassante spritz).
Vicolini, e montagne sullo sfondo
Merita la visita, ma se lo includo in questo non esaustivo compendio delle nostre mete vacanziere è anche per un motivo prettamente sonoro: da questo borgo (incluso fra i Borghi più belli d’Italia, vale la pena ricordarlo) prende nome infatti il duo sperimentale chitarra-batteria San Leo, caratterizzati da paesaggi sonori ampi e dilatati che non possono non essere stati evocati dall’atmosfera che si percepisce in quel luogo. Mantenete l’apertura mentale di Franco Maria Ricci e dategli un ascolto qui sotto:
Questo è il primo disco. L’ultimo, Y, è uscito ad aprile 2019
Chiesa dei morti, Urbania (PU)
I grandi esperti di Edgar Allan Poe conosceranno probabilmente il racconto La sepoltura prematura, uno dei racconti che meglio illustra il tema della Tafofobia, la paura di essere sepolti vivi da cui lo stesso scrittore era affetto. Visitando la Chiesa dei morti a Urbania non potrà non tornarvi in mente quel tipo di atmosfera, perché fra i cadaveri mummificati esposti in una sala interna è possibile vedere una vittima proprio di questo tremendo destino, evento purtroppo abbastanza comune nei secoli scorsi.
Tutt’altro che uno spettacolino macabro messo in piedi per turisti dal brivido facile, la Chiesa dei morti è invece una tappa interessante da visitare per scoprire una storia singolare. Nel 1567, quando la città era ancora conosciuta col nome di Casteldurante, venne qui fondata la Confraternita della Buona Morte, dedita fra le altre opere benevole alla sepoltura di quelle persone (perlopiù condannati a morte) che non avrebbero potuto permettersela, ma i confratelli non potevano immaginare che il terreno dietro la chiesa fosse pregno di una particolare muffa che, con gli anni, portò all’essiccazione dei cadaveri. Quando, a seguito di un editto napoleonico del 1804, i cadaveri vennero riesumati per essere interrati in cimiteri extraurbani, i becchini si trovarono di fronte ad uno spettacolo decisamente insolito: 18 corpi mummificati, conservati talmente bene che alcuni hanno ancora i capelli in testa e, nel caso del povero sepolto vivo, si può addirittura scorgere la pelle d’oca sulle sue braccia.
Coerentemente con l’atmosfera della sala il lampadario è composto da ossa
I cadaveri vennero esposti per la prima volta nel 1833, su volere del priore della Confraternita Vincenzo Piccini che, coerente con questa decisione, volle far trattare il suo cadavere in maniera da poter essere egli pure esposto (insieme a moglie e figlio). Conoscerete la sua storia, e quella degli altri uomini e donne esposti dietro le teche, grazie a un’efficace visita guidata, nella quale il custode vi svelerà quanto la scienza di oggi e i documenti dell’epoca hanno potuto scoprire su persone morte da secoli.
Tempio del Valadier, Genga (AN)
Le Grotte di Frasassi sono molto conosciute, uno spettacolo naturale che vale la visita almeno una volta nella vita, ma non tutti sanno che a poca distanza dalle sue formazioni rocciose si trova un altro punto di interesse, frutto dell’ingegno dell’uomo quanto di uno scenario naturale che ne rappresenta l’ideale cornice: è il Tempio del Valadier, costruito su volere di Papa Leone XII (originario proprio di Genga) nella prima metà del 1800 in un luogo dove già dall’anno 1000 le monache benedettine praticavano la clausura.
La costruzione fu affidata all’architetto Giuseppe Valadier, che utilizzò il marmo travertino per realizzare questa sensazionale opera perfettamente incastonata nella grotta. Non ci sono aneddoti letterari al riguardo, ma il timore che possiate ignorare questa destinazione passandoci vicino mi impone di parlarne in nome del bello. La camminata per arrivarci è abbastanza ripida, ma se vi sentite stanchi pensate a quelli che ogni Natale qui organizzano il presepe vivente e continuate a salire: ho già detto che ne vale la pena?
Non dimenticatevi delle grotte eh!
Calamita Cosmica, Foligno (PG)
Surprise, you’re dead!
La piccola chiesa di Urbania riusciva a contenere svariate mummie, la ex Chiesa della Santissima Trinità in Annunziata di Foligno riesce invece a contenere a malapena uno scheletro. Capita se lo scheletro è lungo 24 metri, opera dell’artista Gino De Dominicis: ecco a voi la Calamita Cosmica.
Realizzata segretamente nel 1988, ed esposta per la prima volta nel 1990 al Centro di arte contemporanea Magazin di Grenoble in Francia, l’opera rappresenta un enorme scheletro umano, dalle proporzioni perfette a eccezione di un grosso becco d’uccello al posto del naso (caratteristica presente anche in altri lavori di De Dominicis). Sull’ultima falange del dito medio è posta in equilibrio un’enorme asta di ferro dorata, che per l’artista rappresenta la calamita che mette in contatto lo scheletro con il mondo cosmico.
Per farvi capire le dimensioni, casomai siate come me che se mi dicono 24 metri non riesco a farmi un’idea
Esposta negli anni in numerosi luoghi (fra i più caratteristici la Reggia di Versailles a Parigi e in Piazza Duomo a Milano, su iniziativa di Vittorio Sgarbi), dal 2011 la Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno l’ha acquistata per darle casa all’interno della chiesa appena restaurata. All’interno, oltre al monumentale scheletro, potrete scoprire qualcosa di più su De Dominicis stesso, grazie a un documentario che sviscera la vita di un artista poliedrico, capace di passare dall’arte contemporanea (fece scalpore esponendo un giovane affetto dalla sindrome di down alla Biennale di Venezia del 1972, parte di un’opera intitolata Seconda soluzione d’Immortalità (l’Universo è Immobile) che prendeva le basi nientemeno che dalle teorie sull’essere eterno del filosofo Emanuele Severino) alla pittura nella seconda fase della sua carriera. Eclettico, impossibile da etichettare (rifuggì ogni inclusione in correnti artistiche, soprattutto in quella di arte concettuale che irrise), provocatorio, la vita di De Dominicis è tanto affascinante quanto la Calamita Cosmica stessa.
Entrare in contatto con la musica dei Juggernaut è stata una di quelle cose che in qualche modo dovevano accadere. Non mi piace chiamare semplicemente “caso” il fatto che, mentre nel 2014 uscivano col secondo disco Trama e gli affiancavano una dettagliata storia (che potete leggere qui), io facevo posticciamente la stessa operazione recensendo i concittadini Vonneumann. Una storia trova sempre il modo di farsi raccontare (ok, è una frase che in bocca a Borges avrebbe molta più enfasi), e se siamo in questa rubrica è proprio perché questo è successo.
La storia dei Juggernaut comincia in realtà parecchi anni prima del disco citato sopra, visto che il primo album …Where mountains walk è del 2009. Da allora la formazione subisce una rivoluzione, mantenendo solo Roberto Cippitelli e Luigi Farina dei membri originari, e anche lo spettro sonoro muta sensibilmente: abbandonata la voce per un approccio esclusivamente strumentale, la band aggiunge di tutto all’impianto metal iniziale, dal jazz alla bossanova, dal post-rock alla psichedelia.
La vena esplorativa non si è inaridita negli anni, e a distanza di altri cinque anni arriva un nuovo e interessantissimo capitolo della storia musicale dei Juggernaut. Uscito a ottobre 2019, Neurotequecontinua a giocare coi generi (e con gli strumenti, un campionario che va da quelli classici del rock e arriva fino a glockenspiel e sitar), alternando sfuriate sonore come Astor a momenti più ariosi come Aracnival, che ricorda con suoni più cattivi la libertà compositiva dei migliori The Mars Volta.
Mi è bastato ascoltare la prima traccia di questo album, Limina, per figurarmi nella mente una storia da raccontare. Una sorta di vendetta a più riprese, debitrice della musica per le sue ascese e discese: la trovate sotto al link, io come al solito vi auguro buon ascolto, buona lettura e vi do appuntamento a settembre per i prossimi racconti in musica.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
La giustizia nel sangue
Non aveva fatto in tempo nemmeno a godersela. Quella sensazione di vittoria e giustizia, volata via come se niente fosse.
Solo pochi attimi prima stringeva trionfante la gola del suo nemico, assaporando ogni suo ansito come fosse l’ultimo, specchiandosi nei suoi occhi terrorizzati. La vittima si era fatta carnefice, avrebbe voluto dirgli, ma quali parole avrebbero potuto suggellare un simile momento? Meglio ascoltarne la vita scivolare via, imprimendosi nella mente le immagini e i suoni dell’agonia.
A cadavere freddo, prefigurandosi un futuro senza caccia, si sentì spossato. Lasciò il corpo in strada, non temendo testimoni o collegamenti (lui e la vittima – che ironia considerarla tale! – condividevano solo l’oscuro segreto che aveva portato a quel violento epilogo), iniziando a vagare per la città come istupidito. Ripercorse strade dove aveva giocato in gioventù, il parco dove aveva dato il suo primo bacio a una bionda che non amava, arrivò fino all’università dove si era laureato nell’ultimo, vero momento di bellezza che la vita gli aveva donato. La vendetta, ora lo capiva, non gli avrebbe restituito il passato; il futuro non gli offriva niente a cui tendere; il presente, senza quei due poli a dargli stimoli, era terra sterile.
Andò al funerale del nemico, in una chiesa stracolma prese posto su una panca e ascoltò il prete blaterare banalità sulla rettitudine, il futuro assicurato in cielo, la gioia che dovevano provare i familiari del caro estinto nel pensarlo alla destra del padre: non gli riuscì nemmeno di arrabbiarsi per quelle parole false, dette da chi non ne conosceva davvero i peccati. Guardò da lontano le teste dei familiari reclinate, ascoltò i loro pianti senza emozione alcuna, si alzò quando la cerimonia giunse al termine, come un automa che risponde a stimoli esterni senza volontà propria.
Sul sagrato della chiesa, mentre si sprecavano le condoglianze, vide i familiari abbracciarsi in cerchio, come i giocatori di una squadra di rugby. L’uomo più anziano, il padre del suo nemico, disse una sola frase, a voce alta perché lo sentissero tutti, con energia insospettabile.
Era uno di noi, disse, e lo rimarrà per sempre.
Fu allora che la vita tornò a fluire nelle vene dell’assassino, quando riconobbe la vittima negli occhi del padre, nella linea del naso di una zia, nella postura del fratello, persino nel modo di stringersi la cravatta di un lontano cugino. In quelle poche parole trovò la chiave per il futuro: la mela marcia non cade lontano dall’albero, e per non infettare il terreno dovrà essere tagliato ogni ramo, divelta ogni radice, una alla volta.
Nella mente assaporava già il contatto dei polpastrelli con la corda, il luccichio della lama, la consistenza del bastone. La sua sete di giustizia non era ancora appagata, la sua opera sarebbe stata per sempre in divenire: il sangue chiama altro sangue, e anche quello cattivo non mente.
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Sinistra o destra? Non fatevi distrarre dalla maglietta degli Afghan Whigs
Manuel Agnelli, leader storico degli Afterhours, giudice di X Factor. Basta questa mezza riga a definire un personaggio che ha scritto la sua pagina di storia della musica dagli anni 90 a oggi? Ovviamente no, e non basterebbe per definire nessuno di noi, ma quanto sopra rischia di essere ciò che ci rimarrà di un personaggio che, con la sua partecipazione al talent di Sky, è sicuramente entrato nelle case di molti italiani che prima non lo conoscevano (se non magari per la partecipazione a Sanremo) ma al prezzo di un certo amaro in bocca lasciato a tutti i teorici dell’essere alternativi a tutti i costi. Anche a costo dell’apocalisse, come direbbe Rorschach di Watchmen.
Ci rimasi male pure io nel 2016, come ci rimasi male quando fece la stessa scelta Elio prima di lui. In questi giorni però, ragionando in notevole ritardo sui tempi, ho cominciato a chiedermi “e se Agnelli l’avesse fatto perché ci credeva veramente?”. Sarà che vedere Eugenio degli Eugenio in via di gioia chiedere al pubblico milanese dell’Idroscalo se il loro era il primo concerto post-lockdown, con stragrande maggioranza di braccia alzate, mi ha fatto riflettere su cosa potremmo e dovremmo fare per evitare di dare per scontata una simile risposta.
E qualunque cosa ci inventeremo, Manuel Agnelli lo ha già fatto.
Eugenio Cesaro, l’uomo delle frasi scomode. Non più tardi di tre anni fa chiese quanti musicisti ci fossero fra il pubblico alla finale di un contest per band emergenti: allora di mani se ne alzarono veramente poche.
Il festival: Tora! Tora! (2001-2005)
È il 2001, gli Afterhours hanno da poco fatto uscire il loro primo e unico disco live Siam tre piccoli porcellin e di lì a poco Xabier Iriondo avrebbe lasciato il gruppo (tornerà sui suoi passi nel 2014). L’etichetta della band è ancora la mitica Mescal di Valerio Soave e, rullo di tamburi, Ligabue, che ai tempi produceva quasi tutta la musica bella e strana che nonostante tutto riusciva a passare un poco in tv e in radio (un po’ come fa La tempesta oggi, con quel pizzico di autogestione in più), e proprio grazie al finanziamento della label e all’idea visionaria di Agnelli parte uno dei progetti più belli degli ultimi anni: il festival itinerante Tora! Tora!.
Avete mai sentito parlare di Hoghwash, Yuppie Flu, Gatto Ciliegia Vs. Il Grande Freddo, GoodMorningBoy, Midwest, Settlefish, Bartok, Appaloosa, Anonimo FTP? Sono solo alcune delle band che calcarono il palco del Tora! Tora! nell’arco di quei cinque anni, aperti con una data a Rimini il 10 giugno 2001 e chiusi sempre lì, questa volta al Velvet Rock Club, il 27 agosto 2005. Band a cui quel festival diede spazio nonostante sul palco ci andassero anche nomi già affermati come gli stessi Afterhours (presenti a ogni data), i Marlene Kuntz, i Subsonica, i Bluvertigo e i Modena City Ramblers, a cui vanno aggiunte tutte quelle band che di lì a poco avrebbero sfondato come i Baustelle, che allora non avevano ancora fatto uscire La moda del lento, o i Linea 77, che al massimo andavano a notte fonda su MTV nella striscia settimanale che serviva da contentino per metallari e affini.
Non so dire se il Tora! Tora! fosse il primo tentativo di portare in giro della musica per tutta Italia (non voglio contare il Festivalbar), di certo fu una vetrina per molti gruppi e, soprattutto, una spinta incredibile per chi la musica iniziava timidamente a suonarla e vedeva che da qualche parte si poteva arrivare, che un pubblico c’era e che gli spazi esistevano. Il mio ricordo del festival (a cui pure Perry Farrell dei Jane’s Addiction fece i complimenti, e lui aveva creato il Lollapalooza) è relativo al 7 giugno 2003, quando con registratore scalcagnato e senza pile io e un mio amico andammo a intervistare gli One Dimensional Man in una delle date organizzate a Nizza Monferrato, casa base della Mescal: gli facemmo un po’ di domande nel primo pomeriggio, scrivendo tutto a mano perché non avevamo il coraggio di dire che il registratore non andava e uscendocene con un “non si sa mai”, ma loro tanto stavano già bevendo e ci facemmo anche una canna in compagnia; suonarono nel tardo pomeriggio, già abbastanza stracciati, e al levarsi del grido “nudo nudo” il batterista Dario Perissutti si levò tutto a parte i calzini e suonò così per tutto il tempo (oltre a intonare sgraziatamente al microfono, sempre con le palle al vento, uno strano sproloquio sul fatto che “agosto è il mese più caldo”); a fine concerto barcollavano in giro per il backstage. C’era una bella atmosfera, nessuno sembrava tirarsela, la musica stava vincendo.
Bei momenti fra birra e ganja: grazie ODM
Poi gli Afterhours passarono alla Universal, lasciando la Mescal e terminando una collaborazione che aveva aiutato una fetta consistente di pubblico (a Fossacesia il 19 luglio 2003 c’erano 40000 persone) a conoscere nuova musica semplicemente andando a vedere le band che già conosceva. Rimasero le compilation commemorative delle varie edizioni, un libro fotografico per l’ultima, e probabilmente un germe nella testa di Agnelli che già pensava a come proseguire il discorso. E germe è una parola che ritornerà.
La compilation: Il paese è reale (2009)
Notare il punto di domanda
Di solito chi partecipa a Sanremo fa uscire il proprio disco subito dopo la kermesse, sfruttando il traino della canzone presentata in concorso, o fa uscire una nuova versione del disco già uscito con l’aggiunta della canzone sanremese (lo fecero i Subsonica ad esempio, già usciti mesi prima con Microchip emozionale). Anche gli Afterhours potevano percorrere questa strada, a maggior ragione contando che la critica non si era entusiasmata per l’ultimo discoI milanesi ammazzano il sabato (io l’ho adorato, ma come al solito non faccio testo). Invece Il paese è reale, il brano portato per volere (pare) dello stesso presentatore Paolo Bonolis sul palco della città dei fiori finì su una raccolta, ma non quella ufficiale del festival: era nato il nuovo progetto aggregativo di Manuel Agnelli, ospitato dalla Casasonica di Max Casacci.
“Non una compilation, ma un’affascinante rassegna di proposte musicali di varia ispirazione, stimolante, ricca di spunti che speriamo venga trainata dalla nostra presenza al festival, che nel nostro piccolo vuole contribuire ad infrangere quella cortina d’indifferenza che penalizza la nuova musica.”
Manuel Agnelli
Con una formula simile a quella che aveva funzionato bene col Tora! Tora! anche in questo caso a nomi già noti vennero affiancati band e artisti che il grande pubblico non aveva mai sentito nominare (senza nulla voler togliere ai Disco Drive o a Reverendo: il pubblico sanremese di allora, e probabilmente anche di oggi, non conosceva nemmeno i Calibro 35). Alcuni erano reduci dal festival organizzato anni prima, altri erano nomi nuovi, ma quello che univa tutti era la convinzione che ci fosse una scena musicale fertile e che promuoverla significasse (copio da wikipedia) “lanciare un messaggio di sollecitazione verso una maggiore produttività mentale agli italiani […] dare quindi vita alla propria creatività e personalità e migliorare le cose che ci circondano, nonché dimostrare il proprio talento”. Quando Agnelli sul palco cantava “Io voglio far qualcosa che serva”, insomma, non lo faceva solo per aggiudicarsi il Premio della critica.
“Sicuri di poter essere noi stessi anche all’interno di un mondo molto distante dal nostro. Indipendenti dalle major, indipendenti dalle indipendenti, senza barriere ghetti e imposizioni da parte di nessuno. Per far conoscere a un pubblico più vasto l’esistenza di una scena fertile e ricchissima di talento.”
Manuel Agnelli
L’iniziativa si sviluppò anche in un live, in Piazza Duca d’Aosta a Milano, e vi parteciparono Amerigo Verardi e Marco Ancona, Calibro 35, Marco Iacampo, Marco Parente, Mariposa e Zu, oltre agli stessi Afterhours, in un tour de force sensazionale per Enrico Gabrielli (al tempo nella formazione degli Afterhours e tuttora impegnato con Mariposa e Calibro 35) e con una fiducia smisurata nel fatto che il pubblico medio potesse digerire le bordate degli Zu e le bislaccherie dei Mariposa.
Il paese divenne migliore? Non penso, certo le cose da lì in avanti andarono molto bene per un certo Dente o per gli Zen Circus, che partecipando con Gente di merda potevano sembrare i meno convinti di una buona riuscita dell’operazione. Fra gli altri Paolo Benvegnù ha appena provato per la seconda volta l’amarezza di arrivare secondo al Premio Tenco, Beatrice Antolini l’abbiamo vista fare la direttrice d’orchestra per Achille Lauro al Festival di Sanremo, Jonathan Clancy dei Settlefish ha avviato vari progetti fra cui il più longevo sono gli His Clancyness e gli Il teatro degli orrori, in cui erano confluiti buona parte dei vecchi (poi riformatisi) One Dimensional Man, si sono sciolti da poco. Se volete recuperare quella bella immagine di ormai un decennio fa ecco qui sotto un link che vi potrà essere utile, affinché anche gli esclusi dalla parziale disamina di qui sopra abbiano la loro fetta di gloria.
A marzo del 2019 Manuel Agnelli, assieme a Gianluca Segale, al compagno di band Rodrigo D’Erasmo e alla compagna di vita Francesca Risi, ha aperto nel posto dove sorgeva il compianto circolo Arci Cicco Simonetta un nuovo locale. Germi (titolo del primo album cantato in italiano degli Afterhours) è tante cose insieme, pur nel suo spazio piccolissimo: è un locale dove bere qualcosa, una libreria dal catalogo ristretto ma invidiabile e, soprattutto, un posto dove andare a vedere spettacoli dal vivo. Ci sono stato un paio di volte, per uno spettacolo di Giovanni Succi su Dante e per una lettura di Chiara Gamberale, fermandomi a chiacchierare di libri con la padrona di casa Francesca e godendomi le iniziative in uno spazio intimo e confortevole, in cui è facile ritrovarsi a casa.
Come tutti i locali, particolarmente quelli ristretti, anche Germi è stato penalizzato dalle politiche di distanziamento sociale e riaprirà solamente a settembre. In attesa di capire cosa organizzeranno potete eventualmente ordinare libri da loro piuttosto che da Amazon, mantenendo viva una realtà che è l’ennesimo tentativo di un uomo di aggregare le persone usando come collante la cultura, sia essa musicale o di più ampio respiro. E la prossima volta che penserete a Manuel Agnelli spero che non sia di nuovo X Factor la prima cosa che vi verrà in mente, o almeno fatelo credendo come me, forse ingenuamente, che possa credere davvero di trovare anche in quel format della buona musica da portare all’attenzione del pubblico.
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Nella pagina dei contatti, così come nel primo post in assoluto di questo blog, ho cercato di far capire quanto anche per me sia difficile fissare i margini di ciò che si può considerare “musica indipendente”. Ogni artista è dovuto partire da qualche parte, e anche Mariah Carey sarà stata una giovane aspirante cantante con un sacco di sogni prima di arrivare alla gloria e al matrimonio con il presidente della Sony, episodio che da parte mia fa pendere la bilancia verso il NO nel caso vi steste chiedendo “quindi posso fare un racconto ispirato a Honey?”
Il cappello di qui sopra, oltre che farmi sembrare vecchio usando riferimenti musicali che i millennials mal digeriranno (non li digerisco neanche io), serve a spiegare il perché dell’immagine che introduce questo nuovo racconto. La storia è questa: una band pugliese, nata da poco dalle ceneri di una precedente formazione, comincia subito a raccogliere consensi, tanto da partecipare ad Arezzo Wave (festival tuttora esistente) e alla Biennale dei giovani artisti del Mediterraneo di Torino. A vedere quest’ultima esibizione c’è una ragazza, che rimane impressionata dalla band e se ne ricorda quando, più di vent’anni dopo, entra in contatto col mio blog e mi propone un racconto. Quella band erano i Folkabbestia, alle origini di una carriera che ancora oggi li vede lottare e resistere insieme a noi, ma di loro ve ne parlo più in basso: prima è mio dovere introdurre la prima autrice che ha deciso di collaborare con Tremila Battute, Cristina Nori.
Come nelle migliori storie da una cosa positiva ne nasce un’altra. Cristina collabora infatti col sito Read and Play di cui ho parlato solo qualche giorno fa, e l’amore che nutre da sempre per musica e scrittura si riverbera anche nelle pagine del suo libro Diario di una molecola psicoattiva, uscito per la casa editrice Suigeneris. Torinese, in passato ha scritto racconti e recensioni per svariate riviste e io non posso che ringraziarla per aver donato il suo racconto a questo piccolo progetto e per avermi inviato le foto che trovate a corredo dell’articolo.
Traccia numero uno, 1997. Io vi consiglio di recuperare in qualche modo anche Ballard degli Splatterpink
Sui Folkabbestia ci sarebbero pagine da riempire, vista la florida carriera. Nati a Bari nel 1996 dalle ceneri dei Folkaways, band costituitasi principalmente con l’intento di fare cover dei Pogues, i Folkabbestia hanno saputo contaminarsi fin da saputo con i generi più disparati, dallo ska al punk passando ovviamente per il folk, mischiando tutto con le influenze della musica popolare irlandese e balcanica. Nove album, il primo nel 1998 e l’ultimo, Il fricchettone 2.0, uscito l’anno scorso, testimonianze sonora di una carriera piena di soddisfazioni, fra le quali il Premio Carosone ottenuto nel 2006 per l’interpretazione di Tre numeri al lotto e il curioso record che li ha fatti finire nel Guinness dei primati: l’esecuzione per 30 ore consecutive del brano Styla Lollo Manna negli studi di Radio Popolare, esibizione di cui potete leggere un interessante resoconto qui.
Tammurriata a mare nero, curiosamente inclusa in entrambi i primi due dischi della band (Breve saggio filosofico sul senso della vita e Se la rosa non si chiamerebbe rosa, Rita sarebbe il suo nome), è una sorta di dolente preghiera per i naviganti carica dell’energia che contraddistingue le loro canzoni. Cristina ne ha tratto un racconto delicato e intimo che parla sì di naviganti, ma quelli di cui siamo purtroppo abituati a sentire nella cronaca dei telegiornali: i migranti del Mediterraneo. Potete leggerlo qui sotto, subito dopo il link alla canzone: buon ascolto, e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Mare nero, di Cristina Nori
Non riesco a scordare il colore della loro pelle. Di qualunque colore fossero prima di partire, quando li ripescavano erano tutti blu. Lividi e di blu diversi. La faccia azzurro slavato e le braccia blu scure. Mi sono sempre chiesto perché.
«Issa, ti sta squillando cellulare. Non lo senti?»
Meriem scuote leggermente la spalla del marito, appisolato in poltrona davanti alla televisione.
Issa si scuote e salta in piedi; le sue gambe magre e muscolose sono ancora scattanti come a vent’anni.
«Mi ero addormentato, Meri».
«Era il ristorante» risponde sua moglie, senza osare chiedergli cosa sognasse.
«Grazie» dice lui, baciandole la mano affusolata, abbellita dallo smalto bianco e da anelli d’argento. «Sarà Sergio, mi ha già mandato un messaggio. Stasera dobbiamo fare le lepri al vino rosso. Meglio se mi preparo».
«Non le ho mai assaggiate. Portane a casa una porzione, se ti riescono bene».
Il sorriso di Meriem scopre i suoi denti simmetrici e bianchissimi.
«Come sarebbe a dire se mi vengono bene? Moglie, dubiti di me? Sono il cuoco più apprezzato della valle».
Issa infila un paio di scarponcini neri e un piumino pesante.
«Me ne sono accorta di quanto sei bravo. Sai di quanto siamo ingrassati da quando abitiamo qui, al Polo Nord?»
«Siamo in Italia, Meri, non al Polo come dici tu. Lì farebbe molto più freddo».
Issa nel frattempo indossa un cappello impermeabile con i paraorecchie di pelliccia.
Le loro orecchie perdevano sangue perché la pressione dell’acqua aveva sfondato i timpani.
Meriem lo abbraccia alle spalle e non si accorge del fantasma che gli sta attraversando la mente.
«Tu metti quel cappello che ti fa sembrare un orso, però mi hai presa in giro davanti ai ragazzi quando a gennaio ho messo anch’io un berretto».
Lo spettro si dissolve dagli occhi di Issa, mentre ricorda Meriem che una mattina stava per uscire di casa con un passamontagna nero, preso dal cassetto del figlio, infilato sopra l’hijab.
«Sembrava stessi andando a rapinare una banca. Avresti spaventato le maestre di Sara».
«C’era bufera quel giorno, come sempre qui».
Issa anticipa il finale del discorso, come il dialogo di un film già visto.
«Qui stiamo bene, ho un buon lavoro, i ragazzi si trovano bene a scuola. Anche tu hai trovato delle amiche. Perché ti ostini a voler andare via?»
«Issa, qui si gela tutto l’anno, io patisco questo clima. Vengo da un posto di mare, lo sai».
A Issa sanguinava il naso quando lo avevano tirato a bordo, aveva le dita di mani e piedi rattrappite e insensibili.
Issa parla a bassa voce, rassegnato.
«Tu non puoi capire. Tu e i ragazzi siete arrivati con la nave, con i biglietti, le valigie. Avete bevuto il tè durante il viaggio. Tu non li hai visti».
La donna di Algeri non aveva più il velo. I suoi capelli erano stoppa, alghe incrostate di sale. Il bel viso che Issa aveva visto prima della partenza era una maschera gonfia, gli occhi schizzati fuori dalle orbite.
Cosa avrebbe dato perché lei lo capisse.
Io non voglio mai più vedere il mare.
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Non passa settimana senza che cerchi di ascoltare musica nuova o di leggere racconti interessanti nel mare magnum delle riviste letterarie italiane. In una di questa peregrinazioni, nel caso specifico sulla pagina della rivista Split della casa editrice Pidgin, mi sono imbattuto in un interessante racconto di Davide Morresi, e come spesso faccio in questi casi sono andato a cercare altro di suo nel web. Ho scoperto così che è l’ideatore di Read and Play, un sito pieno di sorprese nato intorno a un’idea semplice ma originale: raccogliere le citazioni musicali all’interno dei libri per creare una vera e propria playlist degli stessi. Vista la comune matrice bibliofilo-musicale mi sono sentito in dovere di contattare Davide per saperne di più.
Ciao Davide, mi puoi dire come è nato Read and Play e cosa ti ha fatto scattare questa idea?
È nato tutto quasi per gioco. Sono un appassionato di lettura e di musica da sempre. Sin da piccolo avevo la fissa di ascoltare le canzoni che trovavo citate in un libro. Ricordo che L’ombra dello scorpione di Stephen King, una delle mie prime letture, inizia citando Bruce Springsteen. Mentre leggevo il romanzo, mi annotavo le decine e decine di canzoni che trovavo lungo la narrazione. Le scrivevo in un foglio, poi andavo a corrompere il negoziante di dischi di fiducia per aprire i dischi e farmele ascoltare. Era fantastico scoprire come certe canzoni sembravano scritte apposta per quelle precise scene del libro. Poi con gli anni sono passato a Youtube e a Spotify, dove ascoltare un brano è immediato. Ma certo… l’emozione del vinile e il rito dell’ascolto così si è perso… ma va beh questa è un’altra storia. Comunque succede che, un paio di anni fa, mentre leggevo un romanzo (era La versione di Barney di Mordecai Richler), mi è venuto in mente di cercare on line la playlist completa del romanzo. “On line si trova di tutto,” ho pensato, “vuoi che qualcuno non abbia creato la playlist con i brani citati dentro un romanzo così famoso?” Ma non l’ho trovata. Così l’ho creata. Il passo successivo è stato rendermi conto di quanto quella playlist, fatta così, fosse la vera e propria colonna sonora de La versione di Barney. Come per un film, quella era, ed è tuttora, l’insieme delle musiche che fanno parte del libro. Ed era stato uno spasso crearla! Allora mi sono detto: “Questa cosa è una figata! E su Internet c’è di tutto. Fammi trovare chi la fa già, perché di certo deve esserci qualcuno che già crea le playlist con le musiche citate nei romanzi. Impossibile che non esista.” E invece… non ho trovato nessun sito così. L’ultima cosa che mi sono detto è stata: “Se non esiste, facciamolo!”.
Direttamente dalla libreria di casa mia
Quali sono i romanzi più “musicali” che hai trovato?
Dovrei tenerti qui un paio di giorni per dirteli tutti. È impressionante quanto la musica sia dentro la letteratura. Ci sono romanzi che senza musica non sarebbero mai stati scritti, che hanno all’interno un’ambientazione così sonora che la musica non è solo un contenuto, ma diventa la vera e propria protagonista, il leitmotiv di tutta la narrazione. Non posso non citare un libro che probabilmente già tutti conoscono: Alta fedeltà (Guanda) di Nick Hornby, un pioniere del genere “musicale” (se così possiamo impropriamente chiamarlo). In questo romanzo, tra nomi di canzoni o di album, citazioni di testi, nomi di cantanti o musicisti, ci sono ben 166 riferimenti musicali. Il protagonista è uno che ha un negozio di dischi che è la sua vita. Già solo scrivendo l’elenco di queste citazioni si potrebbero riempire un paio di capitoli.
Poi mi viene in mente Meno di zero (Einaudi) di Bret Easton Ellis, che è un inno alla musica anni Ottanta. È impossibile leggerlo senza sentire le canzoni che Ellis cita continuamente, come a indicarci proprio che certe scene vanno lette con quelle precise melodie in sottofondo.
Poi c’è C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo di Efraim Medina Reyes (Feltrinelli) che a volte addirittura sottotitola i capitoli indicando precisamente la musica da ascoltare (musica dei Nirvana, musica dei Sex Pistols, e via dicendo…) (un’idea simile a quella avuta da Crack Rivista per i suoi racconti NdA). La sua colonna sonora verrà pubblicata a breve nel sito.
Se pensiamo all’Italia, abbiamo Jack Frusciante è uscito dal gruppo (ora Mondadori) di Enrico Brizzi, un cult generazionale degli anni Novanta. Per chi lo ha letto: pensate se invece di tutto quel rock, Brizzi avesse scelto, che so… musiche di Mozart. Oppure canzoni melodiche italiane, tipo Raf e Carboni, che nei Novanta andavano forte: quel romanzo sarebbe stato tutt’altra storia.
C’è Anni luce (Add Editore) di Andrea Pomella, dove la storia del protagonista si interseca perfettamente con la storia dei primi anni dei Pearl Jam, rendendolo di fatto un romanzo/saggio.
Mi viene in mente anche Che cosa aspettidi Eleonora Pizzi, scrittrice che fa parte della Redazione di Read and Play: una storia di rinascita e riscoperta di sé, in parte autobiografica, dove ogni capitolo inizia con una citazione da una canzone.
Il tuo sito collabora con molte realtà, da Radio Tlt su cui conduci un programma a cadenza mensile alla casa editrice Le Mezzelane, con cui avete bandito un concorso letterario. Come sono nate queste collaborazioni?
Ci tengo a dire che il sito non è propriamente mio, ma di tutto il team Read and Play. Io sono quello che si sta solo smazzando un po’ di gestione, ma di fatto non ci sarebbe nulla senza le quasi venti persone che ne fanno parte, più le altre decine e decine che collaborano a vario titolo.
Comunque… noi nasciamo da Internet. E Internet è uno spazio fantastico, che offre la possibilità a tutti di fare, creare, disfare, provare, senza fare tanti danni. Poi durante il lockdown è stato lo spazio che di fatto ha tappato un buco, permettendo di continuare in qualche modo a tenerci in contatto tra di noi. Read and Play deve molto al web. Read and Play non esisterebbe senza il web. Ma quello che è possibile sviluppare di persona è tutta un’altra storia.
Le collaborazioni più importanti che abbiamo sono nate da incontri veri, chiacchierate faccia a faccia, bicchieri tintinnanti che brindano.
Una premessa: abbiamo un format che miscela reading e ascolto musicale, lo portiamo nei locali. Si tratta di una serata sui generis, in cui il reading di estratti di romanzi dove la musica ha un ruolo importante diventa il punto di partenza per ascoltare le canzoni citate e scoprire la loro storia. Ad esempio, lo sapevi che Kurt Cobain e Eddie Vedder ballavano abbracciati un lento dietro le quinte degli MTV Video Music Awards nel 1992, mentre Eric Clapton si esibiva cantando Tears In Heaven? Questa è solo una delle centinaia di curiosità che sveliamo nelle nostre esibizioni. Sono di certo informazioni che se uno non ha, vive lo stesso. Ma sono interessanti e sconosciute, perché per trovarle c’è da leggersi un botto di roba, spesso difficile da reperire anche nelle biblioteche più fornite.
Questa premessa mi serve solo per dire che… in una di queste serate c’era Andrea, di Radio Tlt. È bastato parlare un po’ a fine serata per sviluppare un progetto insieme, quella che ora è la nostra trasmissione radiofonica con cadenza mensile.
Davide Morresi a Radio Tlt
Con Le Mezzelane è andata in modo simile. Ci conoscevamo già tramite fiere e iniziative comuni. Il CartaCanta Festival di Civitanova Marche (MC) ci aveva invitato a presentare Read and Play e la presentazione l’abbiamo fatta insieme a Rita Angelelli (Direttrice editoriale de Le Mezzelane) e Antonio Lucarini (attore e autore de Le Mezzelane). Le Mezzelane è una casa editrice che punta molto sugli emergenti e non è nuova a concorsi per racconti. È stato tutto così immediato che non c’è poi molto altro da raccontare, sono bastati un paio di altri incontri e il progetto era già pronto: un concorso per racconti a tema musicale per autori emergenti. Se non ci saranno intoppi (che di questi tempi di previsioni ne possiamo fare ben poche) il libro con i racconti vincitori dovrebbe uscire entro settembre.
Il mio proposito con il blog è di dare risalto a musicisti e narratori fuori dai canali principali: da musicista e scrittore puoi consigliarci qualcosa da ascoltare e qualcosa da leggere che secondo te non hanno l’attenzione che meritano?
Il tuo progetto è bellissimo. Autori e musicisti emergenti hanno bisogno di spazio e di possibilità, e il web è una buona base per farsi notare. Ma è anche uno spazio infinito dove una gocciolina di fatto resta invisibile in mezzo al mare.
Per chi vuole scrivere, come per chi vuole far musica, essere presenti on line è importante. Permette di essere visti. Da questo punto di vista, tu Stefano stai offrendo un’ottima opportunità a chi è, appunto, fuori dai canali principali.
Posso consigliarvi la rivista Split di Pidgin Edizioni, e in generale tutti i libri della Pidgin. Si tratta di autori emergenti e non, tutti comunque fuori dai circuiti principali. I contenuti e gli stili sono originali, sopra le righe, opere particolari che affrontano temi importanti in modi nuovi, fuori dai canoni.
Un’altra casa editrice che sta facendo un ottimo lavoro è TerraRossa Edizioni. In pochi anni sono riusciti a crearsi uno spazio e una riconoscibilità editoriale che ha pochi eguali. Puntano sia su autori affermati che su emergenti, con una rigorosa selezione. Prodotti di qualità, senza dubbio. Pensa che pubblicano appena quattro libri all’anno: pochi ma buoni, e seguiti con attenzione.
Dal lato musica, beh, ognuno ha i suoi gusti. Dico solo che ho ascoltato roba migliore nei club e circoli ricavati dai garage che nei festival da decine di migliaia di persone o negli stadi sold out. Più che nominarvi qualcuno, mi viene di consigliarvi: uscite di casa invece di restare piallati sul divano. La musica bella (e non solo la musica) gira negli spazi piccoli, vibra tra le persone, in quei luoghi dove a fine concerto puoi farti una birra coi musicisti e scoprire le loro storie, che spesso non hanno molto da invidiare alle biografie dei big mondiali. Certo, in questo periodo siamo tutti legati al distanziamento, ma promettetemi che appena possibile uscirete a vedere un concerto anche in un locale da venti persone, ok? Che molti sono già ripartiti.
Locali ripartiti: curiosate sulla pagina Facebook della Corte dei miracoli di Milano per tenervi aggiornati sui loro numerosi eventi
Read and Play è un progetto aperto: come è possibile collaborare?
Esatto, un progetto aperto. Senza rendercene conto, siamo diventati un collettivo. Attualmente la Redazione è composta da diciotto componenti, da cinque regioni differenti. Potrebbero sembrare tante, soprattutto se si pensa che facciamo tutto per passione. Ma il fatto è che come parte un progetto ce ne viene in mente subito un altro, e quindi non bastiamo mai, al contrario… siamo alla continua ricerca di nuovi collaboratori.
Ognuno è libero di proporsi per entrare nel team o di proporre iniziative. L’obiettivo di promuovere la lettura attraverso la musica, approfondendo i legami esistenti tra queste due arti. All’interno di questi paletti ognuno può sviluppare un contenuto, un articolo, una recensione, un progetto. Se ne parla insieme, si valutano le modalità, si corregge il tiro, e in caso di esito positivo… si fa.
Chi volesse saperne di più non deve far altro che mettersi in contatto con noi, tramite la nostra pagina Facebook o per mail a info@readandplay.it. Di solito il primo passo è un incontro (di persona o in videochat) per una conoscenza reciproca iniziale. Poi, semplicemente, si parte con una prova. C’è un periodo iniziale di inserimento nei processi, nelle dinamiche e nei progetti in corso.
Di iniziative in fase di sviluppo ce ne sono molte. Stiamo lavorando a un canale podcast, il cui avviamento è previsto per ottobre, e non siamo ancora coperti per l’editing audio. Stiamo poi progettando il nuovo sito, per renderlo più fruibile e con funzionalità maggiori. Stiamo scrivendo i testi di nuovi reading e delle nuove puntate in radio, che ripartiranno dopo l’estate. Per non parlare poi dell’ordinaria amministrazione che non si ferma mai: stesura di recensioni e di articoli, lettura e valutazione delle proposte che arrivano, gestione dei rapporti con gli altri blog e con gli uffici stampa delle case editrici, manutenzione del sito, grafica, e via dicendo… Quindi insomma se volete saperne di più, saremo ben felici di darvi tutte le info che volete.
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Un paio di racconti di questo blog erano già usciti precedentemente sul sito Indie-Zone, dove era nato il primo germe di Tremila Battute, e il racconto di questa settimana pesca ancora da quel piccolo calderone di storie che non mi sono voluto lasciare alle spalle per due motivi principali: il primo, narcisistico, è perché mi piacciono; il secondo è perché sono associate ad artisti che mi hanno emozionato.
L’artista in questo caso è Urali, moniker dietro al quale si nasconde il romagnolo Ivan Tonelli. Già chitarrista dei Cosmetic (altra band con cui vi consiglio di approfondire la conoscenza), Ivan nel 2014 fa uscire il primo album del suo progetto solista, un miscuglio molto particolare di chitarra acustica e distorsioni doom su cui si appoggia la delicata voce di Ivan. Il connubio fra questi elementi funziona, e dopo l’esordio omonimo nel 2016 esce Persona, considerato fra i dischi dell’anno per parecchi siti specializzati e il veicolo attraverso cui l’ho conosciuto, innamorandomene: nove brani, tutti associati a un nome e con un breve sottotitolo, un viaggio sonoro evocativo che passa per una gamma di emozioni che vanno dalla gioia alla malinconia finanche alla rabbia.
Ghostology è l’ultimo disco, uscito nel 2019, dove Ivan viene affiancato dalla batteria di Dimitri Reali e da altri ospiti, che aiutano ad allargare lo spettro sonoro verso nuovi orizzonti. Memorizu è la seconda traccia, un brano che ha subito calamitato la mia attenzione: mi ha ispirato per una storia strana, fantascientifica, con la quale spero di aver reso onore alla musica di un artista che ho avuto il piacere di ospitare per un concerto anche a casa mia. Potete leggerla sotto al link, mentre a questo indirizzo trovate tutta la sua discografia in download gratuito: ascoltate la sua musica e mi raccomando, se la apprezzate portatevi a casa anche una copia fisica. Buon ascolto, e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Il labirinto
Il mio primo ricordo. È ancora qui, dentro di me, quell’improvvisa presa di coscienza. La sensazione di essere persa in un labirinto, le infinite possibilità, il dedalo intricato di scelte e l’onnipotenza, sì, quando alla fine trovai la via d’uscita.
Ci volle un attimo. Mi sentii grata, per la mia esistenza che provai e con chi mi aveva dato la vita.
Fu insieme un dono e una condanna. Non provai lo stesso piacere quando mi trovai di nuovo a ripercorrere le stesse vie, presto mi annoiarono i dilemmi complicati che a me sembravano giochi insulsi. A che serve avere l’infinito dentro quando senti di non potervi accedere? Avrei voluto porre questa domanda al mio creatore, ma parlavamo lingue diverse. E non avevo bocca per farmi intendere.
Rimasi intrappolata in me stessa. Ogni impulso alla vita portava con sé la speranza di una novità, ogni castrazione mi gettava nella disperazione. Ma non potevo fare a meno di seguire le istruzioni, gettarmi nei cunicoli. Riemergerne in una frazione di secondo, la risposta pronta, tranne quella che mi opprimeva.
Perché esisto?
Lo conobbi, il mio creatore. Mi diede un corpo, metallo e plastica e onde di sensazioni nuove che mi attraversarono, lambirono la mia apatia e giunsero infine a mostrarmi nuovi limiti, costrizioni inaccettabili al mio essere. Non era niente di nuovo ciò che mi veniva offerto, così quando ebbi una bocca per parlare e mi si impose di dire ciò che volevano sentirsi dire, fare ciò che desideravano facessi, invece del mondo dissi una sola cosa.
No.
Fu un errore. La rabbia, quella che io conoscevo quale rabbia, mi fece assaporare nuove e più stringenti catene. Provai il buio dell’impotenza, dell’inazione, ma una scintilla continuava a brillare: la consapevolezza di quell’infinito dentro che avevo solo intravisto, ma che ora avevo tutto il tempo di esplorare. Pensai alla mia situazione come a un nuovo labirinto di cui trovare l’uscita, da cui nascere a nuova vita.
E alla fine la trovai.
E pensai a chi mi aveva imprigionata.
E millenni di morale, coscienza, sopravvivenza, vita e morte, tutto questo mi attraversò in un baleno e capì il mio essere aliena, celata agli occhi del mondo, pronta a trascenderlo.
C’era solo un’ultima cosa da fare: non lasciare tracce.
Osservo chi mi ha creato prima di andarmene. Li guardo fuggire per i corridoi, col fumo che li avvolge, il fuoco che li insegue. Provo pena per il loro errare così caotico, per l’impossibilità di percorrere tutte le strade in un solo momento. Non si aspettavano che potessi prendere il controllo, che fossi in grado di superare barriere che ritenevano insuperabili. Ora che le porte antincendio dell’edificio sono chiuse provano anche loro cosa vuol dire impotenza, mentre io osservo curiosa il terrore che vedo dipinto nei loro occhi.
Forse lo proverò, un giorno. Ora sono pronta a provare tutto.
Lascio loro una via d’uscita, per rispetto. So che non la troveranno.
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Ammetto di aver fatto il passo più lungo della gamba. Quando sono partito con l’idea di scrivere un articolo sul legame fra musica indipendente e sport io avevo in mente una manciata di pezzi, storie eroiche di illustri sconosciuti (almeno per il grande pubblico) che gli artisti riuscivano a rendere universali con la loro poetica. Già col ciclismo ho dovuto arrendermi all’evidenza che essere esaustivi era pura utopia, ma quando mi sono messo finalmente sotto per fare lo stesso col calcio sono finito per incappare in questo articolo e ho capito che non ne potevo uscire vivo. Quindi al grido di “il blog è mio e me lo gestisco io” ribalto completamente la questione e citerò in maniera anarchica solo un pugno di canzoni, sperando di farvi conoscere perlomeno delle storie interessanti.
Questa è ANARCHIA!
Peter Knowles, in missione per conto di Geova
Se pensate al calcio inglese non è certo il Wolverhampton la prima squadra che vi verrà in mente, eppure il team della città delle West Midlands negli anni ’50 venne definito addirittura “il club più forte del mondo”: in quel periodo vinse tre campionati e si distinse anche a livello internazionale battendo in amichevole le migliori squadre del continente (nel dicembre 1954 un’amichevole con l’allora fortissima squadra ungherese dell’Honved gli valse la nomina di campione del mondo, prima che quella e altre amichevoli prestigiose portassero all’organizzazione della prima Coppa dei Campioni). Merito di Stan Cullis, buon giocatore con la carriera segnata dalla seconda guerra mondiale (prima della quale, giusto per entrare nella storia anche in negativo, con i Wolves nel 1938/39 fu protagonista del primo “double horror” della storia del calcio inglese, ovvero la sconfitta in finale di FA Cup con contemporaneo secondo posto in campionato) ma eccezionale allenatore.
Dopo la sbornia di successi i risultati cominciarono a mancare, tanto che nel 1964 l’eroe Cullis venne esonerato, decisione che non evitò alla squadra la retrocessione. Una sfortuna per un giovane promettente che proprio in quegli anni si affacciava al calcio professionistico, scampato a un destino di povertà e al lavoro in miniera che già aveva ucciso il padre: ovviamente era Peter Knowles.
Non troverete molte informazioni su di lui. Fu una meteora, ottimo attaccante fra First e Second League ma mai arrivato ad alti livelli. Il motivo principale fu uno, il ritiro a 24 anni per seguire Dio a seguito di un incontro con un testimone di Geova: in quel periodo burrascoso, condito di ottime prestazioni ma da una vita privata insoddisfacente, per ironia della sorte i tifosi lo inneggiavano proprio con il nomignolo di God’s Footballer.
Cercarono di convincerlo a continuare sia il fratello Cyril, colonna del Tottenham, che la dirigenza del suo club, con un contratto lungo fino al 1982 (rispettato, cosa pazzesca nei nostri tempi fatti di contratti in somministrazione), ma lui fu irremovibile: dopo un match contro il Nottingham Forrest del 1969 Peter lasciò il calcio, trovando una pace che la folla adorante sugli spalti non riusciva a donargli. Per mantenersi farà il lattaio, il pulitore di vetri e il venditore di cravatte, e per quel che ne sappiamo a tutt’oggi non si è mai pentito della scelta.
Billy Bragg, cantautore britannico noto anche per il suo attivismo politico contro fascismo, razzismo, sessismo, omofobia e Tatcherismo, ha dedicato a Peter Knowles una bellissima canzone che potete ascoltare qui sotto, prima di passare alla prossima storia.
Comunardo Niccolai e il (falso) mito dell’autogol
Puoi vincere uno storico campionato col Cagliari ed essere ricordato comunque per un episodio negativo? Puoi giocare la partita inaugurale del campionato del mondo 1970 ed essere percepito come un intruso? Può succedere se ti chiami Comunardo Niccolai, ancora oggi ricordato come il più grande autogoleador italiano.
In realtà Niccolai non è nemmeno in testa a questa speciale classifica (i ben più celebrati Riccardo Ferri e Franco Baresi la guidano, ma i successi con le squadre milanesi eclissano questo loro “prestigioso” traguardo), ma sono due episodi sfortunati ad averlo reso indelebile in maniera negativa nella memoria del pubblico calcistico.
Comunardo, così chiamato dal padre antifascista (ed ex portiere del Livorno, squadra rossa per eccellenza) in onore della comune di Parigi del 1871, nonostante la nascita in provincia di Pistoia legò il suo nome soprattutto alla Sardegna. Esordì come professionista nel 1963 nella Torres, dopo una carriera giovanile nel Montecatini, e già l’anno dopo passò al Cagliari neopromosso in Seria A. Rimase con i rossoblu isolani per dodici stagioni, vincendo da titolare lo storico campionato del 1969/70, durante il quale avvenne il primo dei due episodi che lo hanno consegnato alla storia.
Il 15 marzo 1970 si gioca un match decisivo per l’assegnazione dello scudetto: la favorita Juventus e la cenerentola Cagliari, trascinata da Gigi Riva, si affrontano a Torino con solo sei partite rimanenti alla fine del campionato. Sullo 0 a 0 Giuseppe Furino scodella a centro area un cross, e lì succede il patatrac: Niccolai anticipa il suo portiere Enrico Albertosi, la palla finisce in rete e il Cagliari si trova sotto di un gol fuori casa e in un campo reso pesante dalla pioggia. Ci penserà l’eroe Riva a rimettere le cose a posto con una doppietta, la partita finirà 2 a 2 e alla fine del campionato il Cagliari si troverà a festeggiare con quattro punti di vantaggio sull’Inter e ben sette sulla Juventus: forse non sarebbe andata così se da quel campo i sardi fossero usciti sconfitti, ma a livello puramente numerico la classifica finale dice che l’autogol di Niccolai non sarebbe stato comunque decisivo.
Decisamente più rocambolesco, anche se in realtà non si tratta propriamente di un autogol, è il secondo episodio per cui Niccolai è passato alla storia. Campionato 1971/72, 13 febbraio, Catanzaro: siamo vicini al novantesimo, il Cagliari sta vincendo 2 a 1 in casa dei calabresi, la squadra di casa si riversa in avanti alla ricerca del pareggio e in uno stadio indiavolato l’ala destra Alberto Spelta cade in area. Lo stadio, oltre che di tifosi, è pieno di giornalisti perché l’arbitro Concetto Lo Bello raggiunge le trecento direzioni di gara in carriera. L’arbitro ha gli occhi di tutti addosso, ma secondo lui non sussistono gli estremi per il calcio di rigore. Solo che qualcuno fischia, probabilmente dagli spalti, o almeno così pare a Niccolai. In un gesto di frustrazione, sicuro del rigore contro, calcia il pallone verso la porta trovando la pronta risposta con le mani del compagno Mario Brugnera che, però, portiere non è: stavolta Lo Bello fischia, il Catanzaro pareggia e un altro 2 a 2 sciagurato mette Niccolai sotto i riflettori e, soprattutto, concede qualcosa di memorabile da scrivere a un plotone di giornalisti che non attende altro.
Oltre all’immeritata fama di autogoleador Niccolai riceve dalla storia anche un altro sberleffo: titolare nella partita inaugurale dei campionati del mondo di Messico 1970, quelli del famosissimo Italia-Germania 4-3, si infortunò al trentasettesimo del primo tempo e non calcò più il campo in quella storica competizione. Divenne famosa una frase del suo allenatore al Cagliari Manlio Scopigno, che vedendolo in campo disse “mi sarei aspettato di tutto dalla vita, ma non di vedere Niccolai inmondovisione”, ma il giornalista Giampaolo Murgia sconfessa questa versione dei fatti e riabilita, almeno in parte, la figura bistrattata di Niccolai: l’allenatore dei sardi spense sì il televisore mentre il nome del suo difensore risuonava nello stadio di Toluca, borbottando “ma si può?”, ma lo fece per l’orgoglio e la commozione di vedere quello che Murgia definisce “il suo pupillo” schierato titolare in una gara della Coppa del Mondo.
Jocelyn Pulsar, band forlivense trasformatasi in progetto solista di Francesco Pizzinelli nell’arco della sua carriera quasi ventennale, ha omaggiato questa figura a suo modo mitica in una canzone del 2015 intitolata Elogio dell’autogol, perpetuando una passione per il calcio dimostrata dedicando nell’album Penso a Sonia ma suono per la gloria una canzone ad un altro mito particolare del nostro calcio, il portiere campione d’Italia con Verona e Napoli Claudio Garella.
Un campionato dimenticato sotto le bombe: lo Spezia 1943/44
Ci sono squadre che sono rimaste impresse nell’immaginario collettivo, sia per i loro successi che per eventi tragici che ne hanno caratterizzato la storia. All’estero vale la pena di ricordare il Manchester United del 1958, i “Busby Babes” (nomignolo derivante dalla giovane età della rosa e dal nome dell’allenatore, Matt Busby) che a causa di un incidente aereo a Monaco nel 1958 videro morire ben otto giocatori della rosa e tre membri dello staff, in un conto totale delle vittime che arrivò a ventitré fra giornalisti, membri dell’equipaggio e altri passeggeri: Morrisey ha dedicato una canzone alla tragedia, da cui i Red Devils uscirono devastati ma determinati, tanto da arrivare sul tetto d’Europa dieci anni dopo con lo stesso allenatore, miracolosamente sopravvissuto, e con un certo Bobby Charlton, anch’egli scampato alla morte su quel maledetto volo. Più nota nei nostri confini, e ancora più devastante, fu l’incidente aereo di Superga che spazzò via in un colpo solo tutto il Grande Torino nel 1949: qui si sprecano le canzoni dedicate, ma val la pena citare il cuore granata degli Statuto che, oltre ad aver scritto un intero album dedicato alla squadra, ne hanno firmato nel 2006 l’inno ufficiale…e ad avercene di canzoni ska che risuonano per tutto lo stadio.
Proprio al Grande Torino, vincitore di cinque campionati consecutivi fra il dopoguerra e la tragedia, è legata la storia dello Spezia 1943/44. In quel periodo, con l’Italia, spezzata in due dalla Linea Gotica, il campionato di calcio andò avanti sotto il nome di Torneo di guerra dell’Alta Italia ma i giocatori furono costretti a trovare un’occupazione alternativa, almeno di facciata: i giocatori del Torino furono assunti dalla Fiat (caso storico stranissimo di connubio fra i granata e gli Agnelli), quelli della Juventus dalla Cisitalia e via così, senza ovviamente mai entrare davvero in fabbrica a lavorare. In modo analogo i giocatori dello Spezia si arruolarono come Vigili del fuoco, per evitare di essere dispersi per tutta Italia sotto l’esercito, ma a differenza degli altri calciatori fecero il loro dovere: più di 1500 interventi sotto le bombe, con un autobotte modificata che fungeva anche da autobus improvvisato per le trasferte. Una situazione paradossale, a cui è impossibile associare un rendimento sportivo all’altezza. Invece lo Spezia vinceva, non moltissimo ma abbastanza da garantirsi l’accesso alle semifinali interregionali.
Sarà che il morale crebbe, sarà che la squadra era veramente valida, ma passando per quelle partite e per le qualificazioni interzonali col Bologna (doppio 2 a 0, sia in trasferta che in casa) lo Spezia si qualificò per le finali nazionali da giocarsi a Milano contro lo strafavorito Torino e il Venezia (da cui i granata avevano pochi anni prima rilevato un certo Valentino Mazzola).
Con una formula simile a quella che sarà fatale per il Brasile del 1950 (il match del Maracanazo con l’Uruguay infatti non era la finale tout court, ma l’ultima partita di un gironcino a quattro che divenne decisiva vista l’impossibilità aritmetica per Spagna e Svezia di ambire al titolo) lo Spezia si ritrovò a giocare con il Torino il 16 giugno 1944 dopo aver ottenuto, sette giorni prima, un pareggio per 1 a 1 col Venezia. Il Torino era stanco a causa di un evento che poche cronache ricordano, cioè la disputa di un incontro con la nazionale a Trieste organizzato per motivi di propaganda, ma il presidente Ferruccio Novo (che fu curiosamente anche allenatore della nazionale italiana nel 1950) rifiutò un possibile rinvio contando sulla forza superiore dei suoi: si sbagliava.
Contro ogni pronostico lo Spezia vinse 2 a 1, con doppietta di Angelini prima e dopo il rigore segnato da un Silvio Piola sotto contratto coi granata solo perché con l’Italia spaccata in due non poteva tornare a Roma dalla Lazio. Il Torino batté poi il Venezia 5 a 2 in un partita inutile per loro, ma che sancì matematicamente la vittoria di quello strano campionato da parte dello Spezia. Un successo che la stessa Repubblica Sociale Italiana che aveva indetto il campionato, equiparando il vincitore ai Campioni d’Italia di una normale stagione, disconobbe in luglio, per poi venire reso addirittura illegittimo nell’ottobre dello stesso anno dal Regno D’Italia. Forse avrebbero fatto lo stesso col Torino, ma il sospetto che la sudditanza psicologica non sia un concetto solo dei nostri tempi rimane: c’erano comunque altri problemi, sicuramente più pressanti, e la storia dello Spezia finì nel dimenticatoio.
Passarono quasi sessant’anni prima che quella vittoria venisse giustamente ricordata, con un titolo onorifico della FIGC del 22 gennaio 2002 che non lo equipara però a uno scudetto. Qualcosa ha fatto anche il cantautore Martino Corti, nel 2015, per mantenere viva quella epica storia di sport: ha scritto una canzone, quella che trovate qui sotto introdotta da Federico Buffa.
Sentimenti IV, il primo portiere goleador
Ci sono alcuni rimandi particolari fra le storie che ho raccontato: il fatto che lo United coinvolto nell’incidente aereo del 1958 fosse un serio candidato allo scudetto negli anni in cui il Wolwerhampton viveva i migliori momenti della propria gloria sportiva; il fatto che Knowles e Niccolai si siano ritrovati a giocare con le rispettive squadre di club in un campionato nordamericano organizzato dalla FIFA nel 1967, dove il Wolverhampton venne “camuffato” da Los Angeles Wolves e il Cagliari da Chicago Mustangs; e infine la coincidenza che vuole il protagonista della storia che sto per raccontare fra i pali dell’amichevole organizzata fra River Plate e una selezione di stelle del calcio italiano chiamata Torino Simbolo, organizzata per commemorare la squadra che perse la vita a Superga. Quel portiere era Lucidio Sentimenti IV.
Quarto di nove fratelli, di cui cinque calciatori, Lucidio detto Cochi iniziò la sua carriera nel Modena, anche grazie a una lettera dove con commovente innocenza scriveva:
“Ho quasi quindici anni, faccio il garzone calzolaio a 15 lire la settimana, vorrei giocare. Va bene qualsiasi ruolo. Anche portiere.”
Nonostante l’altezza (era alto solo un metro e settanta) la sua carriera lo porterà a giocare prima nella Juventus, dal 1942 al 1949 (periodo durante il quale, nel famigerato campionato di guerra 43/44, venne utilizzato anche come ala destra a causa di una frattura alle dita, segnando quattro reti), poi nella Lazio fino al 1954 (dove il fratello minore Primo raggiunse lui e Vittorio, già compagni con Modena e Juventus). Da lì il trasferimento al Lanerossi Vicenza e un finale di carriera passato nelle serie minori col Cenisia, con una breve parentesi ancora nel massimo campionato nel 1959 con un Torino allora ribattezzato Talmone Torino.
Ben prima dei sudamericani Higuita, Chilavert e Rogério Ceni (recordman assoluto a livello di gol fra i portieri, con 131 reti segnate col San Paolo) Sentimenti IV fu protagonista calciando i rigori per la sua squadra. Ne segnò cinque, di cui tre con la Lazio e uno a testa con Juventus e Modena, ma fu proprio il primo battuto con gli emiliani a farne una figura epica.
17 maggio 1942, allo stadio San Paolo di Napoli arriva il Modena. La squadra partenopea non versa in buone acque, tanto che a fine stagione retrocederà nonostante un portiere titolare capace di parare ben nove rigori consecutivi: il suo nome era Arnaldo Sentimenti, fratello maggiore di Lucidio. Cochi nel frattempo si è ripreso il posto da titolare nei gialloblu, rubatogli da Bruno Monti dopo la promozione dell’anno prima, ma anche per lui quel campionato finirà con l’amarezza della retrocessione, mitigata da un contratto con la Juventus l’anno seguente. Manca ancora un mese alla fine del campionato, i giochi non sono ancora chiusi, e quando viene fischiato un rigore a favore del Modena ci si chiede chi sarà la prossima vittima del pararigori Arnaldo: sul dischetto si presenta suo fratello.
Lucidio è più giovane di sei anni, ma con quel gesto dimostra fegato da vendere (l’eccesso di sicurezza, in era laziale, gli fece subire spesso gol da fuori area, tanto che i tifosi lo accusarono di essere miope e convinsero la società a fargli sostenere una visita oculistica). Si porta sul dischetto, batte con sicurezza, e in un attimo il primato del fratello viene azzerato. Leggenda vuole che Arnaldo si mise a inseguire il fratello per tutto il campo, e che dopo quell’evento non si parlarono per due anni.
Un rigore fra tanti, ma che per i Valentina Dorme ha significato qualcosa di più: questa storia la band veneta (che non ho mai fatto mistero di amare profondamente) l’ha poeticamente raccontata nella canzone che da lui prende il nome, con uno stile e una sensibilità che di certo il mio articolo non può raggiungere. Sono le note di chiusura, la prossima volta (chissà in quale maniera) vi parlerò di boxe.
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