Racconto in musica 46: Passaggio di consegne (Vessels – Glass lake)

Quando sono partito col progetto di questo blog, poco più di un anno fa (tanti auguri!), l’ho fatto con l’obiettivo di dare risalto a musica che apprezzavo e che faticava ad arrivare alle masse: allo stesso tempo volevo scoprirne di nuova, giusto per non finire a parlare solo di ciò che già conoscevo. Ammetto che in questo, con una logica del “ma ha fatto anche cose buone” che non mi appartiene, devo ringraziare pure quello Spotify che condanno apertamente linkando ogni volta un articolo sulle briciole che lascia agli artisti (lo trovate più in basso, prima del brano della settimana). Il modo in cui mi ha aiutato l’app su cui si mettono a litigare gli artisti che condannano la vecchia industria discografica è stata la Discover weekly, la playlist dedicata che amplifica il mio terrore riguardo agli algoritmi (“se dico a Spotify che questo brano non mi piace poi smetterà di farmi sentire QUALUNQUE canzone di questo genere?”) e allo stesso tempo porta alle mie orecchie suoni nuovi o, quantomeno, band che non conosco, visto che comunque si basa all’incirca su quelli che pensa essere i miei gusti: tutto questo giro di parole per dire che i Vessels, resident band della settimana, li ho scoperti in questa maniera, grazie a un brano stipato in fondo ad una playlist automatica in cui figurava, chissà perché, un sacco di post-punk che evidentemente l’algoritmo ha deciso piacermi al di sopra di ogni cosa (non è così).

Non fingerò di conoscere vita, morte e miracoli dei Vessels, dato che ammesso poche righe sopra di non sapere niente di loro fino a poco tempo fa. Posso però dire cosa mi ha attratto inizialmente della band di Leeds, e cosa mi ha colpito approfondendone la conoscenza. Parecchi mesi fa ho tributato un racconto ai Fuck Buttons, duo elettronico di Bristol, e nell’articolo di corredo mi auguravo prima o poi di trovare qualcosa che suonasse in maniera simile a quel groviglio di suoni sintetici orchestrati con animo da band post-rock: i Vessels è su questo stesso campo che si spingono (non riesco a non pensare che manchi l’influenza del duo in questo brano), con la differenza sostanziale che loro dal post-rock, perlopiù strumenti alla mano e (poca) voce, ci sono partiti, per poi lasciarsi andare sempre più a una sperimentazione elettronica forse più ossessiva e meno orchestrale dei Fuck Buttons, ma comunque capace di far viaggiare la mente. Pregio ulteriore di questa continua evoluzione, partita dall’esordio omonimo del 2006 per arrivare, attraverso altri tre album e un Ep, a The great distraction del 2017, è il fatto che i Vessels non sono mai mutati come formazione (Tom Evans inserti elettronici e voce, Tom Mitchell batteria, Martin Teff chitarra, basso e synth, Lee J. Malcolm inserti elettronici, synth e batteria, Peter Wright inserti elettronici) passando agevolmente da un brano come questo a uno come questo spinti solo dalla curiosità verso le mille direzioni non scontate che può prendere la passione per la musica: non so a voi, ma a me questo basta per farmeli amare.

Glass lake, canzone a cui è ispirato il racconto della settimana, arriva dal terzo album Dilate, quello che ha segnato la svolta decisa verso l’elettronica (sul loro Bandcamp parlano di focus sulla “euphoria of the dancefloor”). Un brano apparentemente freddo ma allo stesso tempo pervaso da un’atmosfera distesa e sognante, in cui la batteria ha un qualcosa di tribale, che partendo dal titolo mi ha ispirato una storia di riti ancestrali e, come da titolo del racconto, passaggi di consegne fra il mistico e l’inquietante: trovate il racconto dopo il brano, a me non resta che augurarvi come al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Passaggio di consegne

Quando arrivò il momento ci dirigemmo verso il lago, come i nostri padri avevano fatto prima di noi. Lasciammo tutto così com’era, senza annunciare a nessuno il nostro viaggio: seguire la propria natura non necessita spiegazioni.

Arrivammo al tramonto, col cielo di un vivido rosso che si specchiava nell’acqua calma. Gli alberi ci invitarono a unirci a loro, creando un sentiero al nostro passaggio fino alla radura sacra. Uno di noi attizzò il fuoco, con sterpi e rami che la natura ci offriva in dono; un altro dispose i tamburi, in modo che potessimo guardarci attraverso le fiamme mentre suonavamo; un altro salmodiò i canti durante tutta la preparazione, affinché ogni cosa andasse com’era sempre andata: affinché il nostro futuro si legasse al nostro passato.

Aspettammo la notte, il canto dei gufi e il lamento dei lupi, prima di iniziare a battere sulle pelli il ritmo che ci cresceva nel sangue. Le vette degli alberi ci osservavano immote, il vento morì nel cerchio che ci ospitava, le ombre iniziarono a danzare sui nostri volti e a loro ci unimmo, a turno, stringendo mani di tenebra. Seguimmo passi già segnati da altri prima di noi, facendoli nostri come ultimo omaggio agli antenati, ad occhi chiusi ballammo e suonammo finché dalle acque vicine non iniziammo a sentire un suono rispondere alle nostre invocazioni, ai nostri battiti, sempre più forte, sempre più veloce.

Chiudemmo gli occhi, roteando ancora, ballando attorno a un fuoco che non ci scaldava più. Udimmo a malapena lo sfrigolio con cui l’acqua spegneva la fiamma, mentre nelle nostre teste un urlo ancestrale ci spingeva a muoverci in tondo ancora e ancora, sempre più lenti man mano che le energie ci venivano risucchiate dalle ombre della notte, sempre più freddi a ogni giravolta. All’apice dello sforzo e dell’agonia urlammo, come creature spaventate che venivano al mondo: ma l’energia di quell’urlo ci fu sottratta dalla gola.

Ci svegliò dolcemente il sole, scaldandoci coi suoi raggi. Nella radura regnava la pace, le foglie degli alberi si agitavano dolcemente, invitandoci al movimento. Camminammo lungo un sentiero di luce, nelle orecchie lo sciabordio delle acque e un invito, perentorio e soave al tempo stesso: erano i nostri spiriti, gli spiriti che i nostri padri ci avevano donato, a chiamarci dal fondo del lago.

L’acqua immobile ci attendeva, riverberando nel giorno già nato; ci specchiammo sulla sua superficie, vedendoci giovani e sgravati dal peso degli anni; ci accarezzò il riflesso, cingendoci poi in un tenero abbraccio; restammo così a lungo, a guardarci rivivere nei nostri figli, fino a che le profondità non ci reclamarono come avevano reclamato i nostri padri.

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Hikikomori, linguaggi cifrati e non solo: Ferruccio Mazzanti racconta il suo Timidi messaggi per ragazze cifrate

È bizzarro come uno dei libri che più mi ha colpito negli ultimi mesi parli di una persona reclusa in casa, perché chi più chi meno abbiamo vissuto quel tipo di situazione per mesi e non vediamo l’ora di ricominciare a vivere come prima della pandemia. La condizione di Grot è però anomala rispetto alla nostra (non che non li sia ANCHE la nostra eh): il protagonista di Timidi messaggi per ragazze cifrate, scritto da Ferruccio Mazzanti e pubblicato dalla casa editrice Wojtek Edizioni, è infatti carcerato e carceriere, un ritirato sociale che ormai da 1245 giorni non vede la luce del sole e non ha contatti col mondo esterno se non tramite computer. Grot è un hikikomori.

…l’uomo dell’era del social network dovrebbe rinunciare all’esistenza. Sissignori, proprio così: rinunciare all’esistenza, perché chi continua ad agire, l’uomo privo di pensieri che si ostina a uscire là fuori, palesa la propria limitatezza per alcuni ovvi motivi:

1) perché non prova vergogna della propria esposizione pubblica;

1.1) dato che si conforma agli altri;

1.2) così facendo mette in mostra la propria mancanza di sensibilità e umanità;

1.3) quindi dimostra di non possedere la consapevolezza necessaria per essere una persona degna di questo nome;

2) e questo dovrebbe farlo vergognare ancora di più, costringendolo in definitiva a ritirarsi.

Ferruccio Mazzanti, Timidi messaggi per ragazze cifrate

La prima volta che mi sono trovato di fronte a questo termine è stato parecchio tempo fa, dopo che un amico mi aveva consigliato l’anime Welcome to the NHK, la seconda solamente l’anno scorso, quando mi sono imbattuto nel libro Hikikomori – I giovani che non escono di casa di Marco Crepaldi (di cui ho parlato in parte qui). Ciò che accade a Grot, per dirla con le parole di quest’ultimo, è di essere sottoposto a “una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società economicamente sviluppate”: il mondo esterno diventa un luogo denso di pericoli, incarnati dalla figura perfetta e totalmente integrata dell’ex compagno di classe Rotwang, a cui Grot non trova altro modo di reagire che quello di chiudersi nella propria camera dal giorno seguente il diploma. Per 1245 giorni nessuno riesce a entrare nella sua bolla di sicurezza, nemmeno la madre, costretta a parlargli addossata alla porta della camera senza ricevere risposta se non tramite lettere che ogni tanto il ragazzo fa scivolare sotto la soglia. Lettere apparentemente indecifrabili, come quelle che invia su internet a ragazze bellissime che spera lo salvino dalla sua reclusione autoimposta: convinto di essere sempre sotto l’occhio vigile di Rotwang, pronto a sbeffeggiarlo pubblicamente e a farlo sentire ancora più inadeguato, Grot sparge infatti i suoi messaggi d’amore utilizzando linguaggi cifrati.

“Ho dovuto studiare moltissimo per riuscire a costruire il personaggio” mi ha detto l’autore rispondendo gentilmente ad alcune domande, “tanti libri di psicologia e sociologia, ma senza dubbio nella mia vita ho incontrato molte persone che, sebbene non fossero timide in modo patologico o con disturbi relativi alla sfera sociale, potevano in qualche modo afferire a comportamenti riconducibili in piccolo alla sfera degli hikikomori. Penso in particolare a un mio compagno di classe al liceo che aveva evidenti difficoltà a interagire con gli altri”. Questa commistione di studio ed esperienze personali si nota all’interno del libro: la realtà in cui vive Grot ci è mostrata con sensibilità ma senza fare sconti, viviamo al suo fianco tanto la rigorosa quotidianità, fatta di faccende domestiche svolte ossessivamente e ore passate sui videogiochi, quanto la rabbia che cova nel profondo per il nemico Rotwang (che in più punti del libro si augura possa essere schiacciato da un camion), fino alla commovente ingenuità con cui scrive a ragazze mai conosciute lettere d’amore piene di sentimenti idealizzati.

“Cara Giorgia:

quando incroci il mio sguardo io tremo tutto, anche se non ci siamo mai incontrati. Ti sei mai fermata, Giorgia, a riflettere sul fatto che scriversi è un modo per incrociare gli sguardi? Per fissarsi negli occhi al di là dei nostri limiti corporei? Per cui con questa lettera ci stiamo guardando negli occhi, Giorgia. Ci osserviamo attraverso le parole. Giorgia, tu sei la mia principessa azzurra. Perché non mi decripti? Perché non impari a capirmi?”

Ferruccio Mazzanti, Timidi messaggi per ragazze cifrate

Una delle occupazioni quotidiane più importanti nelle giornate sempre uguali di Grot è quella di criptare i propri messaggi al mondo, una componente che nel libro di Mazzanti è essenziale per la forma stessa del libro. Come in un rompicapo che possiamo decidere di sviscerare autonomamente le lettere del protagonista ci sono proposte anche in forma criptata, secondo metodi che egli stesso descrive in maniera approfondita (dai cifrari di Giulio Cesare al crittogramma di Thomas J. Beale, le cui analisi e descrizioni storiche rappresentano un ulteriore motivo d’interesse all’interno del libro), fino a quando la cifratura non entra prepotentemente anche all’interno della trama, ammantando di mistero le vicende e lasciandoci avanzare tra le pagine con la netta impressione che la chiave per chiarire ciò che sta succedendo sia lì, da qualche parte, nascosta in piena vista. Di fronte a un’architettura così complicata, ma non per questo pesante, è sbalorditivo pensare che Mazzanti non conoscesse il mondo della crittografia prima di iniziare a scrivere Timidi messaggi per ragazze cifrate.

“Il problema per me era riuscire a creare un linguaggio che anche graficamente fosse in grado di mostrare il movimento psicologico della timidezza” racconta l’autore. “Il timido nel momento in cui si esprime non dice quel che vorrebbe dire, ma quello che gli riesce di dire. In questo scarto tra volontà e realtà, tra significato e significante, avviene un ripiegamento su se stessi che in alcuni casi può diventare patologico, fino a sfociare nell’hikikomori”. Per Mazzanti la crittografia è un linguaggio “capace di rendere questo movimento a un tempo psicologico e grafico”, e la componente visiva è un altro elemento importante del libro: pagine in cui i caratteri si accavallano, dialoghi sfalsati su più righe, Mazzanti gioca con la pagina scritta in maniera non convenzionale e riesce a farci entrare negli stati d’animo del suo protagonista anche così, arrivando persino a farci chiedere se in alcuni punti Grot stia urlando o se il suo non sia l’ennesimo messaggio cifrato.

È da tre ore che tento soluzioni per mettere in chiaro la chiave e ancora non ho risolto un bel nulla. Proprio un bel nulla. Lo sapevo che l’incontro con la realtà esterna mi avrebbe gettato in un pozzo di vergogna. Io mi vergogno. Se il senso di colpa è un sentimento rivolto al passato la vergogna è tutta rivolta verso il domani. Io non mi sento propriamente in colpa, perché in verità mi vergogno di non essere all’altezza di H.E.L.27 e temo il momento futuro in cui H.E.L.27 si accorgerà di quanto poco io valga. La colpa non è d’altri se non di mia madre, che mi ha partorito con questa strana deformazione cranica che non riesco a rivelare ma che tutti gli altri devono fare finta di non vedere perfettamente.

Ferruccio Mazzanti, Timidi messaggi per ragazze cifrate

Nonostante la paura e la vergogna Grot troverà il modo di uscire dalla sua autoreclusione, vagando per strade in cui si mischiano realtà e allucinazione, intraprendendo un viaggio senza punti di riferimento in cui le sorprese sono continuamente dietro l’angolo. Una storia, quella di Timidi messaggi per ragazze cifrate, che Mazzanti ha concepito partendo dalla fine, “così che ogni parte del libro potesse essere vista retroattivamente proprio dall’ultima pagina: penso che sia questo a dare alla storia una struttura non standardizzata”. Un romanzo passato attraverso una prima stesura scritta in quattro mesi, una seconda a cui ha lavorato per tre anni “in modo molto discontinuo, a causa delle esigenze lavorative”, e un’ultima stesura completata in cinque mesi (non è per forza così per tutti, ma ricordatevi di queste cifre quando comincerete a leggere il prossimo libro): un lavoro dalla gestazione lunga, proposto a varie case editrici fra le quali effequ, che pur rifiutandolo ha permesso a Mazzanti di entrare in contatto con la CE che ha permesso a questa storia di avere un lieto fine, la giovane realtà napoletana Wojtek Edizioni.

Timidi messaggi per ragazze cifrate è il libro d’esordio per Ferruccio Mazzanti, ma per chi frequenta il variegato mondo delle riviste culturali il suo è un nome tutt’altro che nuovo: è infatti membro fondatore de In fuga dalla bocciofila (di cui fa parte anche Francesca Corpaci, un nome che vi consiglio di tenere d’occhio e che potrebbe non esservi nuovo se tenete d’occhio la pagina facebook del blog) e Il mondo o niente, e non potevo certo esimermi dal chiedergli di parlarcene:

In fuga dalla bocciofila è stata fondata nel 2014 e parte dal presupposto di un aggiramento della critica cinematografica attraverso la narrazione. L’idea è che ogni nostro pezzo sia una recensione in forma narrativa, ovvero un racconto che prenda spunto da un film per parlarne anche in modo metaforico o aleatorio. Questo ci espone al continuo rischio di essere fraintesi, ma il bello di questa rivista, che poi nel tempo si è formalizzata in una associazione culturale in grado di organizzare eventi di vario genere, è che ci piace azzardare. Nonostante vi sia un presidente, all’interno il gruppo è concepito in modo orizzontale, cosa che trovo molto bella anche se a volte ci rende un po’ lenti nel prendere decisioni”.

Il mondo o niente, invece, è stata fondata nel 2017 e dopo svariati cambi redazionali, di cui l’unico sopravvissuto sono io, ha trovato da un paio d’anni un gruppo molto coeso che lavora con grande entusiasmo. Il mondo o niente nasce come una rivista di recensioni, ma col tempo si è aperta anche alla pubblicazione di racconti brevi. Vengono indette delle call più o meno due volte l’anno a cui tutti possono partecipare. L’ultima è stata chiusa da poche settimane e abbiamo ricevuto più di cinquanta racconti. Ogni racconto viene letto da tutta la redazione e valutato, poi ogni redattore seleziona uno dei racconti sopravvissuti e insieme all’autore fa un editing. Riuscire a spiegare cosa io abbia imparato da queste esperienze credo sia impossibile in così poco spazio”.

Nel futuro di Mazzanti ci sono un’opera teatrale sulle questioni relative all’identità di genere, di cui sta scrivendo la sceneggiatura insieme al Teatro Immersivo di Firenze, e una raccolta di racconti, che sta rifinendo e a cui spera di trovare presto una casa. Nel frattempo, per chi voi non lo avesse ancora letto, non vi resta che recuperare Timidi messaggi per ragazze cifrate: acquistatelo nella vostra libreria indipendente preferita o su Bookdealer, supportiamo le piccole realtà!

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Racconto in musica 45: Il condannato (Nitritono – Passo di Terre Nere)

Non sono mai stato esattamente un patito della montagna, ma mi è capitato qualche volta di andare a fare trekking e sono tornato sempre soddisfatto dall’esperienza. Rimango comunque un uomo da Pianura Padana, abituato a vedere le catene montuose da lontano nelle giornate di sole e che si lascia scoraggiare da quella distanza: un paio di volte mi è capitato però di avere un rapporto più diretto e intimo con le cime, dimostrando in entrambi i casi chiaramente quanto quello non sia il mio elemento.

La prima fu alle superiori, durante una gita all’Isola d’Elba con tanto di ascesa al Monte Capanne, l’unica attrazione del luogo che ricordi a fronte dell’autista del nostro pullmino che guidava a manetta, qualche stanza d’albergo vandalizzata e due professori che, si diceva, avessero trombato. L’ascesa al monte, tornando al punto, fu lenta e noiosa, nessuno per quel che ricordo era particolarmente voglioso di partecipare ma, perlomeno, ci era stata promessa la discesa in funivia: peccato che gli accordi cambiarono in corsa, e tornammo così come eravamo venuti contando solo sulle nostre gambe. Ora probabilmente non si lascerebbero degli adolescenti liberi di scendere per i sentieri senza nessuno a controllarli, ma erano gli anni novanta e si era tutti più ingenui, o forse ci si affidava molto di più alla selezione naturale (i tempi cambiarono già l’anno dopo, quando non ci fecero andare in gita in Sardegna perché avevano paura che qualcuno affogasse durante la traversata notturna col traghetto): io, che non ero esattamente il più in gamba del lotto, finii per ritrovarmi da solo, prendere la svolta sbagliata e camminare lungo un sentiero con un’inclinazione sempre più preoccupante man mano che avanzavo. Ormai timoroso sia di andare avanti che di tornare indietro non trovai di meglio da fare che arrampicarmi, prendendo come appigli degli arbusti che, non so come, ressero il mio peso, il tutto nella cieca fiducia che potessi trovare, al di sopra della mia testa, il sentiero giusto: se sono qui a raccontarlo è perché stranamente il mio senso dell’orientamento funzionò, riuscendo a riprendere la discesa in sicurezza invece di rotolare in un crepaccio.

La seconda me la andai a cercare, decidendo in totale autonomia di fare sei giorni zaino in spalla sui Monti Liguri, con tanto di tenda per dormire sotto le stelle. Di quell’esperienza ricordo in particolare tre cose: la prima notte passata sotto delle pale eoliche (alla faccia della natura selvaggia), durante la quale mi svegliai intimorito da uno sfregamento contro la tenda che io interpretai subito come “cinghiali” e invece risultò essere “fili d’erba mossi dal vento” (ma lo scoprii solo con la luce del sole); un sentiero segnalato che finiva in un prato fiorito invaso dalle api, che attraversai con la stessa logica usata anni prima sul Monte Capanne (“ci sarà modo di proseguire dopo il prato”, incredibilmente funzionò anche in quel caso) e dal quale uscii indenne e con la fobia delle punture risolta; gli scarponcini utilizzati, che non mettevo da almeno cinque anni e mi distrussero i piedi in maniera lenta e metodica, tanto che i sei giorni si ridussero a tre e per parecchio tempo camminai come sui carboni ardenti. Da allora nutro un grande rispetto per chi ne sa veramente di montagna, e ringrazio la mia fortuna per non aver fatto la fine di Chris McCandless (o Alex Supertramp che dir si voglia).

Perché tutto questo inutile preambolo? Perché, a differenza mia, la band di questa settimana è molto più legata alla montagna e, in generale, al cammino in solitaria: signore e signori vi presento i Nitritono.

Duo prevalentemente strumentale formato da Luca Lavernicocca (batteria) e “Sir” Siro Giri (chitarra), i Nitritono nascono influenzati da band come Zu, Melvins, Fantomas e Om, portando avanti dalla demo omonima uscita nel 2013 un discorso musicale che si è fatto sempre più personale, anche attraverso la scelta di un’accordatura molto bassa. Dopo un primo album (Panta Rei, 2017) e uno split coi conterranei Ruggine (band con cui hanno condiviso anche la sfortuna, subendo due furti a distanza di un anno nella sala prove comune), i Nitritono hanno pubblicato a novembre 2020 l’ultimo disco, Eremo. Influenzato tanto dalle montagne intorno a Cuneo quanto dal Cammino di Santiago (il Re di Pietra dell’omonima traccia ad esempio è il Monviso, mentre Hospitales è una delle tappe più faticose del Cammino Primitivo), il disco del duo si contraddistingue per atmosfere in cui l’oscurità è preponderante, pur lasciando spazio a sprazzi di luce (penso in particolare alla seconda traccia Samos) che rendono l’esperienza sonora varia e davvero unica. Sembra davvero di essere in cammino ascoltando i sei pezzi che lo compongono: è facile immaginarsi una faticosa ascesa in una giornata tempestosa nel lento procedere di Re di Pietra, il cui sfogo finale appare quello di chi è riuscito a raggiungere la cima e guarda trionfante il mondo sotto ai suoi piedi, o un percorso solitario nelle note malinconiche e grevi di Bric Costa Rossa (una delle due punte della Bisalta, monte dalla particolare conformazione a due punte che viene per questo definito “Montagna del Diavolo”). Con un drumming che in certi momenti accarezza anche il tribale (Hospitales) e una chitarra capace di momenti lisergici è facile essere trasportati in Eremo verso un percorso interiore (merito anche di brevi inserti vocali che, soprattutto in Re di Pietra, ricordano dei mantra), fatto di luoghi oscuri da affrontare come la Costa Da Morte (una delle zone marine più impervie della terra, dove fra Finisterre e Muxìa finisce il Cammino di Santiago) che dà il nome alla traccia finale, un ipnotico maelstrom che ricorda gli Ufomammut nella sua granitica psichedelia (merito anche della collaborazione con lo sperimentatore visuale e sonoro Petrolio) ma se ne distacca nel convulso e stridente finale. Il viaggio offerto da Eremo non si limita alle orecchie e all’interiorità, ma abbraccia ance gli occhi, visto che ogni copia del disco contiene una foto dei luoghi evocati dalle canzoni.

Nella mia analisi del disco ho volutamente lasciato fuori un brano, Passo delle Terre Nere, e avrete già intuito dal titolo di questo (lunghissimo, grazie per essere arrivati fin qui) articolo che è il brano che mi ha ispirato il racconto della settimana. Quando l’ho ascoltato la prima volta (grazie al link fornitomi da I dischi del Minollo, una delle cinque etichette che hanno curato l’uscita e che, tanto per cambiare, non sbaglia un colpo) sono stato colpito dall’atmosfera di disperazione che coglievo nelle sue note, ritrovandomi subito a pensare ad una fuga: l’ambientazione montana è stata frutto del titolo, mentre l’epoca in cui si svolge la vicenda è volutamente priva di connotazione, anche se è facile pensare alle due guerre mondiali. Vi lascio il piacere (spero) di scoprire di più da soli, leggendo il racconto subito dopo il link al brano, e vi auguro al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Il condannato

Li sentii arrivare alle mie spalle, all’inizio semplici sussurri che si confondevano con il vento che mi soffiava in faccia, poi sempre più minacciosi, vicini, urla come catene per impedirmi di procedere oltre, verso l’ultimo declivio da superare per lasciare alle mie spalle l’orrore a cui loro mi richiamavano, desiderosi di vendetta, invidiosi del mio destino, e mentre il vento aumentava d’intensità e nel fango mi si inabissavano gli stivali potevo ormai sentirli alle mie spalle, aliti caldi a mitigare il gelo dell’inverno ma d’un tepore illusorio, pronti a trascinarmi nell’inferno in cui mi avevano preceduto e proprio quando ormai mi mancava un solo passo e già vedevo le luci della valle mi afferrarono coi loro artigli e non mi rimase che gridare, gridare tanto da sentire in gola il sapore del sangue, finché la bocca non mi venne chiusa dal puzzo pestilenziale della morte.

Mi svegliai con il mio grido ancora nelle orecchie, come ogni notte. Ci misi poco a riprendermi: quando l’incubo diventa un’abitudine non fa meno paura, ma l’angoscia passa in fretta. Mi alzai per guardare dalla finestra, in cerca di luci che potessero segnalare che qualcuno mi aveva sentito. Il buio del paese che mi ospitava ormai da anni era integro, la sonnolenta vita della piccola comunità proseguiva come al solito. Nemmeno la guerra era riuscita a scalfirla, complice un confine che aveva resistito alla follia dell’uomo e che era stato la mia salvezza.

Nessuno mi aveva chiesto il nome quando avevo disceso le montagne, avevano solo voluto sapere cosa ero bravo a fare. Da soldato divenni panettiere, le notti passate a scrutare il buio vennero sostituite da quelle accanto al forno. Mi concentrai sul mio futuro, ma il passato veniva a tormentarmi in quelle poche ore di sonno che mi concedevo.

Non avrei più pianto per loro, ma sapevo che non avrebbero smesso di chiamarmi per tutta la vita, loro, i commilitoni che avevo abbandonato, i feriti che gemevano alle mie spalle chiedendo aiuto mentre io fuggivo, con la vergogna sconfitta dalla paura e le gambe che prendevano forza ad ogni passo, alimentandosi di speranza e di oblio, l’oblio a cui ci avevano condannato ordinandoci di difendere un passo montano già perduto e a cui mi ero ribellato, quello in cui avevo sprofondato il mio senso del dovere a costo dell’orrore ogni notte, di lasciare due fratelli dietro di me, di non sentire mai più una madre di cui non avrei mai potuto richiedere il perdono. Che piangesse tre figli, considerandomi morto e non vigliacco.

Non sapevo a cosa andavo incontro allora, ma così sia. A quelli come me, che non sanno immaginare l’espiazione senza martirio, non resta che vivere la vita come una condanna.

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Alla festa delle distorsioni con Ruggine dei Pontecorvo

Se c’è una cosa che è chiara fin dalle prime note di Cade, traccia d’apertura del disco dei Pontecorvo, è che ci sarà ben poco spazio per la riflessione. Ruggine, album che arriva a quattro anni di distanza dal primo ep omonimo, è una corsa a perdifiato lungo sentieri garage rock che si sporcano di stoner e blues, sette tracce veloci (a parte la conclusiva Prendere sonno sono tutte al di sotto dei tre minuti) in cui le distorsioni la fanno da padrone, arrivando a spandersi persino sulla voce.

La band brianzola, formata da Fili (chitarra e voce), Ale (basso) e Fra (batteria), ha l’innegabile capacità di saper mescolare i vari elementi che compongono la propria musica in maniera non scontata: basta arrivare a metà del singolo Gaviscon Blues per rendersene conto, quando la band tira il freno a mano e piazza un finale grosso e lento nella miglior tradizione stoner, mentre nella successiva Freddo sono le influenze blues a ritagliarsi spazio. Quello che rimane sempre invariato è l’approccio diretto e senza fronzoli, voce urlata per la stragrande maggioranza del tempo e le distorsioni della chitarra che seppelliscono tutto come un rullo compressore, lasciando un po’ di respiro solo in una Prendere sonno piazzata non a caso al termine e riecheggiante delle atmosfere inquiete degli Alice in Chains (qualcuno ha detto Angry chair?).

I testi sono intrisi di disillusione, urlata forte quasi a scrollarsi di dosso un futuro senza prospettive, ed è un peccato che la voce di Fili sia utilizzata a mo’ di quarto strumento: gravata di distorsioni e lasciata a sgomitare coi suoni aumenta l’effetto di coesione generale, ma paradossalmente la mancanza di un elemento anche solo leggermente fuori dal coro finisce per mitigare la potenza del trio. Ruggine è un disco che nei suoi soli diciannove minuti di durata riesce a essere estremamente vario, con arrangiamenti interessanti (Paglia è la miglior traccia sotto questo punto di vista, con un finale al fulmicotone molto convincente) condensati in brani che puntano sempre e comunque a vincere per knock out, ma suona stranamente più monotono di quello che effettivamente è. La mia sensazione, strettamente personale, è che nella loro musica i Pontecorvo riescono a sfogare le proprie frustrazioni, ma manchino ancora della rabbia per andare oltre la disillusione e incazzarsi per davvero: la strada è quella giusta, ancora un piccolo step e avranno la potenza necessaria per lasciare senza fiato l’ascoltatore.

Uscito ad aprile 2020 esclusivamente in digitale, Ruggine è stato stampato a dicembre in vinile a tiratura limitata grazie ai ragazzi di Truebypass. Piange il cuore a pensare a una band del genere impossibilitata a calcare i palchi, perché la dimensione live sembra essere quella più adatta ai Pontecorvo: se qualche booking è in ascolto li metta a suonare in accoppiata con i Morso, ne vedremo delle belle.

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Racconto in musica 44: Però ci vuole lentezza per costruire le cose (Riccardo Sinigallia – Io e Franchino)

In più di un’occasione mi è capitato di parlare del podcast L’audionario di Francesco Del Gratta, di cui purtroppo da un po’ di tempo non escono nuove puntate. Con grande passione Del Gratta si è messo a esplorare alcune scene musicali conosciute (la Firenze del post-punk e della dark-wave negli anni ’80, l’Islanda di Bjork e Sigur Rós) narrandone la storia e, soprattutto, andando a scovare le “nuove leve” che arrivano da quelle zone…un po’ quello che cerco di fare io, con molta improvvisazione in più e molta professionalità in meno. Nella sesta puntata, che potete trovare qui, parla della scena romana lasciando filtrare molto di più la nostalgia per il passato rispetto alla speranza per il futuro (soprattutto se quel futuro si chiama Gazelle o Tommaso Paradiso, anche se rispetto a lui sono molto meno critico su I Cani e molto di più su Calcutta), forse perché parte di quella scena dimostra di averla vissuta nel pieno della sua formazione: è quella dei vari Niccolò Fabi, Daniele Silvestri, Max Gazzé e Tiromancino, formatisi tutti attorno a un locale che si chiamava, molto originalmente, Il Locale e passata poi a colonizzare l’airplay radiofonico (cosa che per i primi bizzarrissimi Tiromancino, ascoltati su Videomusic decenni fa, mai avrei potuto pronosticare). A fare da trait d’union in tutta quella scena c’era un cantautore, uno che non ha fatto tantissimi album nonostante sia sulla breccia dagli anni 90 ma che in compenso ha prodotto e continua a produrre altri artisti: quel cantautore è Riccardo Sinigallia.

A darmi modo di parlare di Riccardo Sinigallia è stato un altro esperto di musica, Matta Grigolo. Berlinese d’adozione dal 2013, ma nato alle porte di Milano dove si è vissuto una scena fatta di punk, skaters e writers, Mattia ha uno di quei curriculum che vorrei avere io: otto anni di lavoro nella discografia, tre anni a organizzare live elettronici tra Leoncavallo e altri storici club milanesi, una lunga militanza nel giornalismo musicale per testate come Zero, Rolling Stone, Il Mucchio, Soundwall, NOT, Wired e Area. Non bastasse ciò a Berlino ha fondato il progetto di laboratori creativi per italiani all’estero LE BALENE POSSONO VOLARE (grazie al quale l’Istituto Italiano di Cultura, il Comites Berlino e l’Ambasciata Italiana a Berlino lo hanno premiato come Italiano dell’Anno 2014), insegna scrittura creativa, ha fondato una rivista di approfondimento online (Yanez Magazine) e una rivista letteraria, Rivista Eterna, che uscirà per soli tre numeri prima di andare verso la morte e rimanere eterna solo nel nome, nella forma e nelle parole di chi ha contribuito a darle vita con i suoi racconti.

Riccardo Sinigallia, dunque. Cosa dire di un uomo che, chiacchierando senza pensieri, tira fuori le parole del ritornello di Quelli che benpensano di Frankie Hi-Nrg? O che salva Vento d’estate, inizialmente un pezzo di Max Gazzé (che doveva finire in La favola di Adamo ed Eva) di cui non era soddisfatto, facendolo ascoltare per sbaglio a Niccolò Fabi? Per certi versi è lui il deus ex machina che sta dietro a tutto quel proliferare di cantautori, e non solo, emerso dall’underground romano degli anni ’90, del quale un piccolo seme si poteva già trovare nei Sei suoi ex, band che Sinigallia formò alla fine degli anni ottanta con, fra gli altri, Niccolò Fabi e Francesco Zampaglione (pensate alla vostra cover band, nata per caso e morta senza che nessuno la ricordi, e immaginate che da lì escano poi questo tipo di artisti). Bisognerà aspettare il 2003 perché veda la luce il suo primo disco, omonimo, ma per tutti gli anni ’90 Sinigallia non resta fermo: produce i primi dischi di Niccolò Fabi, lancia Max Gazzé, inizia a dirigere video (il primo è proprio Quelli che benpensano, in cui appare sul sedile posteriore cantando l’iconico ritornello), entra a far parte dei Tiromancino producendo e cofirmando l’album La descrizione di un attimo, passa da Sanremo proprio con la band dei fratelli Zampaglione, prende parte al collettivo La comitiva (di cui produce l’unico disco, Medicina buona) e inizia pure a scrivere colonne sonore, col film Paz! di Renato De Maria. Negli anni arriveranno altri tre album solisti (Incontri a metà strada nel 2006, Per tutti nel 2014 e Ciao cuore nel 2018), la formazione, assieme a Max Casacci, Vittorio Cosma, Gianni Maroccolo e Howie B, dei DeProducers, band con all’attivo tre dischi in cui sonorizzano dal vivo conferenze scientifiche raccontate in maniera rigorosa ma accessibile, il lancio di altri artisti come Coez e Motta, la candidatura ai David di Donatello con una canzone scritta per il film Non essere cattivo di Claudio Caligari (su richiesta dell’amico Valerio Mastandrea, che appare in un sacco di suoi videoclip tra cui quello di La descrizione di un attimo dei Tiromancino) e mille altre cose, alcune delle quali condensate in Backliner, film biografico realizzato da Fabio Lovino.

Io e Franchino, quarta traccia del disco Per tutti, è una storia di amicizia complicata, in cui il Franchino evocato da Sinigallia è quel Francesco Zampaglione con cui ha condiviso una lunga parte del proprio percorso artistico. Mattia è riuscito a rendere al meglio il testo e le atmosfere della canzone, utilizzando una prosa colloquiale che si adatta alla perfezione sia ai lati ruvidi che a quelli teneri di un rapporto tortuoso ma sincero. Trovate il racconto subito dopo la canzone, a me non resta che augurarvi come sempre buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Però ci vuole lentezza per costruire le cose, di Mattia Grigolo

Una luna opalescente si è portata via l’effetto strano che fa la nebbia nelle strade del paese. Franchino arranca sul marciapiede aggrappandosi alle ringhiere bagnate di brina. Oltre i cancelli, i cani abbaiano, ma restano a distanza dal puzzo acido di alcol del ragazzo, il suo barcollare che sembra quasi un danzare.
Mi avvicino e gli dico Hey come va, come va?
Franchino ha gli occhi stanchi dal vino, dall’amore, dalla vita.
Non dice niente, non chiede nemmeno, alza solo un braccio guardandosi i piedi, l’asfalto oppure il niente sfocato dalla luce tenue dei lampioni.
Io m’infilo sotto quel braccio e me lo prendo sulle spalle e ci trasciniamo come l’ombra di una bestia zoppa. Io e Franchino, quella notte diventiamo fratelli.

Franchino mi telefona che è notte fonda, alzo il ricevitore e la cornetta pesa del sonno e del lavoro in fabbrica. Dico Pronto senza chiedere, lui dice Divento papà senza piangere. Così esco di notte, con dei bermuda strappati sul culo, una t-shirt dei Melvins, un elastico che mi tiene in piedi aggrappandosi ai capelli. La piazza è vuota e tutto rintuona; il mio urlare che si fa eco sulla facciata della chiesa, fino all’alimentari lì davanti, il suo sorridere che si perde subito perché è un lampo, perché lui è così, Franchino, vive della paura di non essere all’altezza, con quelle spalle che ha, quelle ginocchia storte da numero dieci. E mi dice Ho paura e gli dico Franchino, hai qualcuno da difendere e mi stringe così, come ci siamo sempre stretti senza averlo fatto mai.

Franchino è seduto ad un tavolo di un bar buio. Davanti a lui c’è una sedia vuota e quando arrivo volta la testa per guardarmi ma non mi guarda davvero, però mi dice Siediti, dai siediti. Franchino mi dice che le persone non sanno perché fanno quello che fanno, lo fanno e basta e lo fanno veloce. Però ci vuole lentezza per costruire le cose, perché lento è il tempo quando passa dandoti il beneficio del dubbio e del poter riparare agli sbagli.
Gli dico che di sbagli noi ne abbiamo fatti tanti e lui dice che no, quelli non sono errori, sono passaggi troppo veloci.
Io gli chiedo Non bevi niente? e lui accende una sigaretta già iniziata.
Dice Me ne vado.
E dove vai?
Non so.
E io che gli dico Perché? e lui che mi risponde Quello lo so.

Dalla città al paese sono dieci stazioni dai nomi bianchi scritti nel blu. Ho un figlio, una figlia, una compagna malata e un cane che ride. Ho tre poesie bellissime che non ho mai fatto leggere a nessuno e ho una fotografia dai colori sbilanciati, dagli angoli piegati.
Siamo io e te Franchino, stretti in un sorriso che non è mai stato il tuo.
La chiudo tra i ricordi. Un giorno l’ho abbracciata, così, come se fosse di ossa, di carne e del tuo sapore amaro, Franchino, così sfuggente come un’amicizia che è un ricordo e un sorriso che mi sono messo in tasca, perché tu lo hai dimenticato su un tavolo di un bar, tanti anni fa.

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Luci e ombre degli Watchmen di Damon Lindelof

È passato più di un anno da quando Watchmen, miniserie prodotta dalla HBO e ispirata alla leggendaria graphic novel di Alan Moore (che con ammirevole coerenza si è rifiutato di avvallare questo ennesimo adattamento di una sua opera creativa, come aveva già fatto con From hell, V per Vendetta, La leggenda degli uomini straordinari e il film dello stesso Watchmen) e Dave Gibbons, ha fatto la sua apparizione. Ambientata nello stesso universo narrativo, ma traslata nel nostro periodo storico, la serie aggiorna l’ucronia di Moore mantenendone lo spirito politico…ma di tutto questo avrete sicuramente sentito già parlare, visto che se l’argomento era di vostro interesse avrete già visto la serie e, magari, anche spulciato la Peteypedia, sorta di approfondimento “off screen” condotto dal personaggio di Dale Petey che da un lato ricalca i documenti presenti alla fine di ogni capitolo nella graphic novel originaria, e dall’altro ricorda quanto Damon Lindelof, l’autore della serie, ci stia sotto coi riferimenti ipertestuali fin dai tempi di Lost. Perché scriverne ora, quindi? Innanzitutto perché me la sono goduta solo ultimamente (ho aspettato che la mia fidanzata leggesse l’opera di Moore e Gibbons prima della visione), in seconda battuta perché…be’, è il mio blog, di essere sul pezzo me ne importa il dovuto e un’analisi della serie mi andava di farla. A qualcuno andrà mai di leggerla, soprattutto contando che c’è chi, come Fumettologica, ha fatto un’incredibile opera di analisi episodio per episodio? Solo la storia potrà dirlo, intanto iniziamo parlando di

La Storia nella storia

Inizia tutto da qui

Uno dei maggiori pregi che è stato riconosciuto a Watchmen è quello di aver mischiato, in linea con la fonte d’ispirazione, la trama che coinvolge i personaggi con gli eventi storici. Se la graphic novel spostava le lancette del tempo un poco più indietro rispetto al periodo di uscita, ambientando le vicende in un 1985 in piena guerra fredda rispetto alla fine del decennio che avrebbe visto, pochi mesi dopo l’inizio della pubblicazione, la caduta della cortina di ferro, la serie si concentra sulla nostra attualità, delineando una minaccia interna: i suprematisti bianchi del Settimo Cavalleria. Questa decisione dà modo non solo a Lindelof e soci di estremizzare ciò che stava accadendo già più di un anno fa (e che dopo l’assalto al congresso di inizio gennaio sembra quasi una premonizione), ma anche di integrare nel motore narrativo una vicenda oscura ai più, ovvero il massacro razziale di Tulsa: far luce su un episodio di razzismo talmente eclatante (il conto delle vittime non è mai stato accertato, anche a causa di stime ridotte al ribasso per ovvi motivi dalle autorità bianche, ma dovrebbe aggirarsi intorno alle 250-300), eppure rimasto taciuto per lungo tempo, rappresenta un ottimo modo di fare intrattenimento veicolando al contempo dei contenuti forti.

Meglio o peggio dei sostenitori di Trump?

Il mondo in cui si ritrovano ad agire Sorella Notte, Specchio e gli altri “agenti in costume” è allo stesso tempo più oppressivo e più liberale di quello attuale: da un lato i suprematisti bianchi si sono organizzati in una vera e propria associazione terroristica, cosa che per fortuna non è (ancora) successa negli USA; dall’altro uno dei loro atti più eclatanti, la “notte bianca” in cui hanno ucciso un gran numero di poliziotti (portando ad implementare il decreto che concede alle forze dell’ordine di agire in ogni senso sotto copertura, ironicamente varato da Joe Keene Jr., figlio del politico che mise fuorilegge gli Watchmen nel 1977), è stato perpetrato a causa della decisione del Presidente Robert Redford di concedere un risarcimento statale ai parenti delle vittime degli episodi di Tulsa, cosa che nella realtà invece non è mai avvenuta. Questa dicotomia investe la serie per tutta la sua durata, mischiando continuamente realtà e finzione (lo sceriffo Bass Reeves che il giovane Will guarda estasiato al cinema prima che Tulsa venga messa a ferro e fuoco, ad esempio, fu davvero il primo sceriffo nero a ovest del Mississippi nel 1838, e anche il volantino lanciato dalle truppe tedesche ai soldati statunitensi neri è un vero dettaglio storico) ma mostrando un’apertura alla speranza più netta di quanto non abbia fatto Moore.

Foto di gruppo con sfocature

L’idea di un Giustizia Mascherata nero, interpretazione libera ma non infedele di una possibilità narrativa lasciata aperta dalla graphic novel, è stata sfruttata in maniera egregia, e la storia di come Will Reeves sia diventato il primo eroe in costume dell’universo di Watchmen rappresenta anche il punto più alto della serie (l’episodio Questo essere straordinario, non per niente vincitore di ben tre Emmy). Quanto il tema del razzismo sia importante per la serie lo si evince anche in piccoli dettagli: nell’episodio Un’ammirazione quasi religiosa viene inquadrata più volte, nel Vietnam appena conquistato, una bandiera statunitense con le stelle disposte a cerchi concentrici, troppo simile al modello della prima versione del vessillo (utilizzata, al pari di quella sudista, dai Trumpisti che hanno assaltato il congresso) per essere casuale.

Musica maestri!

Il sonorico duo

Mi è bastato meno di un episodio per riconoscere la mano di Trent Reznor e Atticus Ross nelle musiche della serie. Il duo, rodatissimo e già al lavoro su svariate colonne sonore (per quella di The social network nel 2011 si sono portati a casa un Oscar), riesce a creare dei temi che riecheggiano di atmosfere anni ’80 ma suonano comunque attuali, una scelta che può apparire influenzata in tempi di nostalgia eighties ma che qui ha il suo senso nel tracciare una continuità fra i decenni che caratterizzano gli eventi principali dell’universo Watchmen. La direzione sonora è un fiore all’occhiello della serie anche per la scelta dei brani che fanno la loro apparizione lungo il corso degli episodi: le musiche non sono mai scelte a caso, anche se i rimandi non sono sempre facilmente intuibili (un plauso ancora a Andrea Fiamma di Fumettologica che è riuscito a cogliere nella canzone di Oklahoma! da cui proviene il titolo del primo episodio un riferimento all’impiccagione cui va incontro Judd Crawford).

Al di là dei riferimenti nascosti la colonna sonora spicca per qualità e varietà. Dagli anni ’80 di Beastie Boys e Devo al jazz, passando per musica classica e blues (con qualche scelta più ruffiana, come Living in America di James Brown utilizzata durante i festeggiamenti per la conquista del Vietnam) le musiche si abbinano perfettamente agli eventi, col plauso di una versione di Life on Mars di David Bowie che sì, è anch’essa abbastanza scontata quando uno dei personaggi è stato effettivamente sul pianeta rosso, ma risulta una cover ottimamente riuscita.

I personaggi, fra passato e presente

Chi sale e chi scende

Un elemento su cui Watchmen zoppica sono i personaggi, o meglio alcuni di loro. Funzionano molto bene la maggior parte di quelli nuovi, dall’Angela “Sorella Notte” Abar di Regina King al Wade “Specchio” Tillman di Tim Blake Nelson (una specie di “nuovo Rorschach“, rassomiglianza acuita dalla scena in cui Specchio mangia con la maschera che gli lascia libera solo la bocca, molto simile a una vignetta contenuta nella graphic novel), ma la faccia da schiaffi di James Wolk rende evidente fin da subito come il suo Joe Keene Jr. non possa essere lo stinco di santo che proclama di essere…o forse sono influenzato dal suo ruolo di pallista professionista in Mad Men.

Passaggi di consegne

Su quelli vecchi, invece, le mie perplessità aumentano esponenzialmente, andando a minare parte della credibilità della serie. Laurie “Spettro di seta” Blake, interpretata da Jean Smart, è la più credibile del lotto: ha avuto abbastanza esperienze negative coi supereroi da giustificare la sua scelta di operare per la cattura dei nuovi aspiranti giustizieri mascherati, è disillusa al punto giusto ma ancora indomita nello spirito. L’Adrian Veidt di Jeremy Irons è, al contrario, perlopiù una macchietta che demitizza completamente l’immagine di “uomo più intelligente del mondo” che l’Ozymandias di Moore si era costruito (e, in maniera controversa, guadagnato sul campo): tutto ciò che gli succede è funzionale a metterlo in ridicolo, dalla sua “autoreclusione” su Europa fino all’arresto farsesco nel finale, e anche il modo in cui annuncia la propria astinenza sessuale (campo lasciato aperto, al pari delle origini di Giustizia Mascherata, ma sfruttato decisamente peggio) lo relega da stratega sopraffino a spalla comica. Il Dr. Manhattan/Cal Abar di Yahya Abdul-Mateen II è una via di mezzo fra il trattamento operato coi due altri eroi mascherati del passato, dato che il modo in cui ragiona atemporalmente è mutuato alla perfezione, ma risulta poco credibile che un essere che ha lasciato dietro di sé (quasi) ogni retaggio umano si limiti a questa forma (mutuata da ricordi d’infanzia) quando deve ricreare la vita su un satellite lontano: la sua storia d’amore con Angela oscilla invece pericolosamente sul filo della credibilità (il Dr. Manhattan può ancora provare emozioni?), ma la difficoltà di ragionare come un essere che avrebbe anche potuto architettare tutto per la propria distruzione (o andarci incontro come a qualcosa di ineluttabile) lascia aperto il dibattito sui suoi affari di cuore.

Nel bene e nel male, come concludi fa la differenza

Buchi narrativi

E purtroppo Watchmen non lo fa nel migliore dei modi. Il piano di Lady Trieu di appropriarsi dei poteri del Dr. Manhattan è ambizioso, geniale e strategicamente perfetto (col dettaglio aggiuntivo di umiliare il padre, reo di non averla accettata né aiutata quando poteva farlo), ma il modo in cui viene smantellato non ha senso: un’opera fatta con un gozziliardo di dollari, creata per incamerare il potere di un Dio, viene distrutta da una pioggia di calamari ghiacciati che LASCIA IN VITA TUTTI GLI ALTRI? In una serie di dettagli che si incastrano alla perfezione questa caduta di tono è micidiale, una concessione all’happy ending e al classico finaleadeffettoconsalvezzachearrivaall’ultimosecondo che rovina sul più bello un discorso fin lì quasi a prova di bomba.

Stride anche un po’, in una serie così legata alle tematiche discriminatorie, che nel finale non si conceda a una donna di appropriarsi del potere che un uomo è riuscito a usare (più o meno) saggiamente. Lady Trieu poteva essere davvero il nuovo che avanza, una matriarca che porta un equilibrio diverso da quello a cui siamo abituati, ma tutti preferiscono concordare (tacitamente e non) con Adrian Veidt quando afferma che “ci vuole un egocentrico per riconoscerne un altro”: l’unico momento in cui gli danno ragione, insomma, è quando difende il patriarcato. I poteri passano comunque a una donna (Lindelof ha dichiarato apertamente che il finale aperto alla Inception è lì solo per bellezza, e non c’è dubbio che Angela abbia ereditato i poteri del Dr. Manhattan), ma con goffaggine e pudore eccessivi: Osterman ha come prima cosa imparato a ricrearsi, vogliamo davvero credere che Angela con quei poteri non riesca a capire se possa o meno camminare sull’acqua?

“Indovina almeno in quale mano è”

La serie mi aveva lasciato piccoli dubbi lungo tutti gli episodi, alcuni fugati offscreen (del diario di Rorscharch, che il Settimo Cavalleria ha eletto a propria bibbia, viene menzionata la pubblicazione ma non gli esiti sull’opinione pubblica: Peteypedia risolve la questione spiegando che la sua autenticità è sempre stata messa in dubbio, motivo per il quale solo i suprematisti bianchi conservano gelosamente, anche se resta confuso il perché, le prove del misfatto di Veidt), altri rimasti (il modo in cui Veidt annulla i ricordi del Dr. Manhattan avrebbe dovuto essere il Piano A per evitare che questi potesse fermarlo a Karnak nel 1985, ma come avrebbe fatto a utilizzarlo? E come ha fatto a scappare da Karnak la madre di Lady Trieu?), ma il modo in cui finisci una storia è essenziale per annullare o meno queste domande che continuano a risuonare nel cervello: purtroppo l’ultima puntata delude, conclude in maniera troppo mainstream le vicende e, pur non rovinando quanto di buono fatto, lascia quel retrogusto amaro di occasione mancata per rimanere davvero nell’immaginario collettivo anche dal punto di vista narrativo.

E se vi state ancora chiedendo che fine ha fatto Lube Man sappiate che Lindelof l’ha rivelato solo su Peteypedia

Damon Lindelof aveva annunciato che Watchmen sarebbe stata una serie autoconclusiva, su cui non avrebbe messo più mano ma lasciando aperta una porticina a eventuali sequel ad opera di qualcun altro. Che una seconda stagione arrivi o meno, magari con nuovi protagonisti e un altro punto di vista, una sola cosa è sicura: Alan Moore non sarà d’accordo.

“L’hai detto”

Racconto in musica 43: Tre pietre (Shellac – Riding bikes)

Il mio avvicinamento alla musica ha attraversato varie tappe, alcune di cui vado fiero e altre meno. Il me bambino aveva eletto ad esempio Liberi liberi di Vasco Rossi a sua canzone preferita, da preadolescente passai alla musica da discoteca della Deejay Parade mischiata coi Queen del Greatest Hits II (ma sfuggii con orgoglio alle canzoni da spiaggia del campo estivo, che significava A) spiaggia del Ticino, mica il mare B) La canzone del sole e Albachiara ripetute ogni tardo pomeriggio: Vasco per fortuna smise di piacermi proprio lì, Battisti purtroppo o per fortuna l’ho sempre tenuto lontano per lo stesso motivo), tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori feci il salto di qualità (almeno all’interno del palinsesto di Radio Deejay), scoprii la Rock Hit e, con essa, il grunge. Fu un momento fondamentale, mi sembrava di essermi affacciato a un mondo “adulto” quasi da comunità segreta (la famosa comunità segreta della musica che vendeva un sacco e passava su Mtv, quanta ingenuità. Del metal ai tempi pensavo ancora che fosse musica per gente estrema che, se non faceva sacrifici umani, poco ci mancava: guardavo con timore e venerazione i manifesti di Iron Maiden e Metallica in camera di mio cugino, con cui ora lavoro in fabbrica), e a quell’impressione contribuirono particolarmente due video: quello di Black Hole Sun dei Soundgarden, con tutte quelle facce strane e il vortice che alla fine si porta via tutti, e quello di Heart-Shaped Box dei Nirvana, malatissimo collage di immagini che per il me di allora avrebbero potuto valergli la scomunica. Col tempo sarei passato oltre, dai boschi del Nord-Ovest ai deserti Stoner del Sud-Ovest, per poi cominciare a scavare nei meandri della musicachenormalmentenonsiinculanessuno, ma in tutto questo girovagare mi soffermai poco su una scena fondamentale per la musica indipendente d’oltre oceano (e non solo): quella che gravitava, e tutt’ora gravita, intorno a Chicago e alla Touch & Go, storica etichetta che ha fatto da culla a movimenti post-hardcore, noise, math-rock e industrial seminali per tutte le generazioni a venire. Come ideale e tardivo omaggio alla mia formazione musicale, e anche come sorta di messaggio di scuse alla scena di Chicago tutta, il racconto di questa settimana si ispira a una canzone scritta da colui che registrò In Utero dei Nirvana e che di quella scena è un guru sia a livello produttivo che musicale: quell’uomo è Steve Albini.

Riassumere l’importanza di Steve Albini nel panorama musicale odierno è impossibile in poche righe, si può andare solo a toccare parte di ciò che è stato e che ha fatto. Musicista dallo stile inconfondibile, con una chitarra tagliente e metallica e una voce urlata e abrasiva, in carriera ha prima fondato i Big Black nel 1982, rimasti in attività il tempo di registrare due album e influenzare un sacco di musicisti col loro miscuglio di noise, hardcore e industrial, quindi i Rapeman e infine, nel 1992, gli Shellac, band con cui ancora è in attività. Il primo album con la nuova band, formata insieme a Bob Weston al basso e Todd Stanford Trainer alla batteria, arrivò nel 1994 dopo due Ep: At Action Park porta nella musica di Albini un ulteriore elemento distintivo, il germe geometrico da cui esploderà il math-rock (che, in maniera diversa, cresceva già anche a Los Angeles coi Tool), stile che contraddistinguerà una larga fetta della scena di Chicago, dai Don Caballero ai June of ’44. Gli Shellac hanno al momento all’attivo sette album, un numero esiguo in confronto agli anni di permanenza sulle scene ma figlio di una precisa scelta: in netto contrasto con la voracità dell’industria discografica, Albini e soci registrano quando possono/vogliono (anche in base agli impegni lavorativi), gestiscono ogni aspetto della band in totale indipendenza (dai tour al merchandising, sulla scia dei Fugazi), privilegiano il vinile al cd e appaiono sulle scene quando hanno veramente qualcosa da dire. Steve Albini è una di quelle figure talmente famose che è incredibile come riesca a essere anche fieramente coerente con le sue scelte anti-establishment: non guadagna royalties dai dischi che ha inciso (di gente del calibro dei già citati Nirvana, Foo Fighters, Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Neurosis, Sonic Youth e pure gli italiani 24 Grana, Zu e Uzeda), ha scritto un libro nel 1993 contro l’industria discografica (The problem with music, di cui potete avere un assaggio qui), si è favorevolmente espresso verso il download gratuito e, particolare più bizzarro ma condivisibile, ha dichiarato di non voler mai incidere canzoni pop perché la ritiene “musica per bambini e idioti”.

Riding Bikes, la canzone che ho scelto come base del racconto della settimana, arriva dall’album del 2014 Dude Incredible e mi ha colpito per la vividezza con cui, in pochi minuti e con poche righe di testo, riesce a evocare un’atmosfera di difficoltà, scelte difficili e disagio. Cantore dei lati più disumanizzanti della società (coi Rapeman incise un Ep, Budd, la cui title track è una cronaca del suicidio in diretta del senatore repubblicano Budd Dwier), spesso veicolati attraverso esperienze autobiografiche, Albini coi suoi sodali mi ha portato con la mente in una periferia degradata, vista attraverso gli occhi di un gruppo di adolescenti a un passo dal perdere la propria strada, una storia che ho deciso di narrare con meno enfasi possibile per rendere giustizia a un brano che si concede emozioni forti solo nelle urla e distorsioni finali: lo trovate qui sotto, subito dopo il brano, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Tre pietre

C’eravamo solo io e Ted quel giorno, a ciondolare in bici per il quartiere, con tre pietre pronte per il Ratto, quello onesto, che ci aveva inguaiato per l’ultima volta.

Tic non era potuto venire. Aveva un braccio ingessato, non ce l’avrebbe fatta a lanciare e comunque aveva troppo male dappertutto per riuscire a pedalare. Ce l’aveva detto, Tic, che del Ratto non dovevamo fidarci, ma il mio vicino diceva che di quelli come Tic, che facevano versi strani e schioccavano le dita quando erano agitati, c’era da fidarsi anche meno.

Il mio vicino era cinque anni più grande di noi, aveva la moto e fumava erba davanti agli adulti. Mica potevamo non credergli, ma quella volta Tic non sparava cazzate.

Il Ratto doveva fare il palo. Eravamo entrati al minimarket con la grassona alla cassa, andavamo sempre quando c’era lei perché era mezza rimbambita e non si accorgeva di niente, ma con gli altri clienti era un’altra storia. Lui ha fatto il bravo, non ci hanno mica beccato lì, ma quella merda dopo si è preso male e ha confessato tutto alla mamma.

A Ted andò di lusso, lo misero solo in punizione per due settimane. A me papà ne diede tante con la cinta. A Tic il padre lo lanciò giù per le scale. Era uno che ci teneva alla reputazione, diceva che la sua era una famiglia perbene, ma se lanci tuo figlio giù per le scale io penso che magari delinquente non lo sei ma una merda sì, ed è inutile che cerchi di convincere gli altri del contrario.

La colpa vera comunque era del Ratto, lo sapevamo tutti. Lo sapeva anche lui, infatti era scappato subito dopo le lezioni. Noi ce ne siamo fregati della punizione, a scuola non potevamo fargli niente ma fuori era un’altra storia. Non poteva passarla liscia.

L’abbiamo cercato alla sala giochi, nella baracca fra i campi dove i ragazzi più grandi nascondevano i giornalini porno. Sapevamo che non era andato a casa, più a lungo scappava e più ne avrebbe prese. Era già quasi sera quando lo trovammo, sull’altalena nel parco. Non vedevo l’ora, perché a pedalare il maglione mi sfregava contro le croste sulla schiena. Papà la cinta la usava dalla parte della fibbia quando doveva farmela pagare cara.

Il Ratto non cercò neanche di scappare. Iniziai io a lanciare, perché avevo due pietre, una per me e una per Tic, a casa col braccio ingessato. Lo presi sulla gamba, così anche volendo non poteva più scappare. Ted fece un tiro da mammoletta, sfiorandogli un braccio. Era troppo gentile, Ted. Chissà se lo è ancora.

Non glielo avevo detto, ma all’ultima pietra avevo attaccato delle lamette da barba con la colla. Mentre mettevo la mano nella tasca del giubbotto potevo sentire i pezzi di lana che si erano staccati. Doveva averceli anche lui dei segni.

Tirai l’ultima pietra. Potevo ben capire che ci sarebbero state conseguenze, ma non mi importava. Lo presi in piena faccia. Rimanemmo non so quanto ad aspettare che si alzasse, mentre attorno faceva buio e i nostri genitori preparavano punizioni che avremmo rimpianto, da quel momento in poi.

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La poetica del mare nel primo Ep dei La Jacquerie

Saranno le notizie di cronaca riguardanti gli sbarchi di migranti, la visione negli ultimi mesi di un film come His House e la lettura del libro Appunti per un naufragio di Davide Enia che mi fanno pensare che un Ep che si chiama Il mare non possa parlare d’altro che del dramma dell’immigrazione. I La Jacquerie, che prendono il nome da un termine generico francese indicante una sommossa popolare spontanea (a sua volta storicamente legato a un’insurrezione contadina del 1358), hanno il merito di allargare la narrazione e, pur legando il proprio progetto al mondo degli ultimi e degli sconfitti, non limitarsi coi testi evocativi ma non espliciti di Simone Piccini (coadiuvato in due brani da Cristiano Lattanzi) a esplorare solo i drammi legati alla superfice acquatica.

Prodotto e distribuito da (R)esisto, Il mare rappresenta l’esordio discografico per la band perugina, formata da Simone Piccini (Voce e chitarra), Antonio Piccinni (chitarre, bouzouki, fender rhodes e acoustic loops), Michele De Musso (batteria) e Cristiano Lattanzi (basso). L’Ep è un’interessante commistione di rock, world music e cantautorato, anime presenti in diversa misura in ognuno dei cinque brani che compongono la tracklist: dal bouzouki che contraddistingue l’inizio della traccia d’apertura Io credo il mare ai fiati che si palesano nella conclusiva Passannante si delinea un percorso musicale che si affaccia tanto alle coste africane quanto a quelle sudamericane, non disdegnando puntate anche nel desert blues che, almeno geograficamente, è quanto di più lontano dalle atmosfere marittime.

La varietà stilistica nella musica dei La Jacquerie si sposa anche con una libertà compositiva piuttosto spinta. Il singolo Non si vola e Passannante sono i brani che concedono di più alla classica forma canzone, anche se la prima si distingue per una progressione continua cui la chitarra elettrica dona uno sfogo quasi salvifico, mentre i restanti brani spingono molto di più sull’ibridazione, particolarmente in Prima il tuo nome dove atmosfere stoner alla Yawning Man si mischiano con un drumming tribale prima di virare su un muscolare finale elettrico. La voce profonda di Simone è l’elemento che fa da collante tra tutte le varie influenze, enfatica ma non strabordante e capace di ricordare in qualche momento Fabrizio De André. Se sul fronte degli arrangiamenti la band dimostra già un’ottima maturità, altrettanto non avviene sul fronte delle sonorità: indeciso sulla direzione da prendere l’Ep suona come un compromesso tra le varie atmosfere che lo compongono, con la voce che si staglia troppo in primo piano nell’iniziale Io credo il mare e i suoni distorti che appaiono poco energici, particolarmente nella blueseggiante Chi si accontenta muore.

L’esordio dei La Jacquerie è strutturato come una vetrina in cui vengono messe in luce tutte le potenzialità della band, ma la registrazione non riesce a farle risaltare come dovrebbero. Manca ancora una personalità consapevole, capace di far compiere alla band il salto di qualità su tutti i fronti: per farlo servono testi che da interessanti si facciano illuminanti e un suono meno derivativo, elementi su cui lavorare partendo da una base che è comunque solida e promettente.

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Racconto in musica 42: Strano ma vero (Dri – Solo ad un esame dalla laurea)

Ed eccoci al primo racconto del 2021! Come avete festeggiato l’avvento del nuovo anno? Ok, probabilmente è la domanda sbagliata in questo momento, perciò lasciamo in standby le nostre aspettative per il nuovo anno e facciamo un salto indietro nel tempo, precisamente al 28 maggio 2018, quando i locali erano aperti e io suonavo in un’anacronistica band che ancora si ostinava a fare grunge: i S.I.N. (che stava per “Souls In Nowhere” ma siccome lo sapevamo solo noi, e forse manco tutti i componenti, io mi divertivo a cambiare il nome ogni volta che pubblicizzavo una data in cose come “Shinji Ikari’s Neighbours”, “Sad Ionesco Novel” o “Sorry Inga Nastedovjna”. Ovviamente non ricordo chi sia Inga Nastedovjna, e altrettanto ovviamente mi diverto con poco). Ci eravamo iscritti a un contest in quel di Spaziomusica a Pavia (che nel frattempo è stato fra le vittime del lockdown), avevamo passato la prima selezione (forse perché nessuno di noi era sbronzo, ma giuro che siamo riusciti a passare una selezione anche una volta che il bassista ha suonato scordato tre canzoni su cinque) ed eravamo così approdati a una delle serate finali. Facemmo probabilmente uno dei nostri migliori live (nessuno era sbronzo), salirono addirittura in due sul palco a pogare (probabilmente il momento più alto della carriera dei S.I.N., insieme al minitour di tre data in una settimana con Lo Stadio Animale andatesubitoasentirli) ma, al conteggio finale, non fummo tra quelli che si portarono a casa il premio…che non ricordo neanche in cosa consistesse. Il voto del pubblico, vero cancro dei contest musicali che li affossa più o meno alla validità di una scoreggia in un vaso ming, premiò chi aveva portato più gente, il voto della giuria invece premiò un cantautore giunto fin da Firenze e che meritava pure i voti del pubblico (venduto): tutta sta prosopopea piena di parentesi (ma avrei potuto fare ben di peggio, come testimonia quest’altra parentesi), insomma, per dire che il cantautore fiorentino in questione è Dri, che ha meritato a plebiscito la vittoria e che il racconto della settimana è associato a una sua canzone.

Usanza vuole però che presenti innanzitutto l’autore del racconto, ed è un piacere ospitare su queste pagine Dario Zizzo. Quarantottenne di Termini Imerese, Dario ha pubblicato i racconti Il mio piccolo cactus su Libreriamo, Un invitato speciale nella raccolta Le nozze di Cana pubblicata dalla Fondazione Il Pellicano e presto apparirà sulla rivista Snot con il racconto I ragazzi di ieri. Entro novembre uscirà il suo romanzo d’esordio Rivoglio i Matia, con Antonella Ruggiero, edito da Montag Edizioni, un particolare che tornerà anche all’interno del testo che pubblichiamo.

Torniamo ora a Dri. Jacopo pubblica il suo primo album, Ritagli di giornate, nel 2018, a cui fanno seguito una cinquantina di date in solo fra Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna. Cantautore ironico e solo apparentemente leggero, Dri sa giocare con le parole e piazzare con nonchalance frasi d’una certa carica poetica come “Ho fatto la barba stamani ed il sangue mischiato con l’acqua e la schiuma/ mi ha fatto pensare alle cose che scorrono e cadono giù” (Gommapiuma, canzone che mi aveva molto colpito anche live), passando poi senza colpo ferire a brani come [Le 4 del mattino] dove invece risalta tutta la sua anima divertita. A gennaio 2020 decide di mettere in piedi una band per accompagnarlo dal vivo, trovando come sodali Giovanni Mazzanti (chitarra solista), Dario Fischi (basso) e Oscar Gigli (batteria), e se la pandemia ha messo un freno ai live Dri non si è comunque fermato: “evolutosi” in Cantautuber, pubblica sul suo canale Youtube video girati e montati da lui stesso, associati alle canzoni che andranno a formare il suo prossimo disco, Dri viaggia e suona la chitarra.

Il racconto di Dario mi ha provocato da subito una spontanea associazione con la musica di Dri, non fosse altro che per l’ironia, cifra stilistica comune a entrambi. Solo ad un esame dalla laurea, la canzone che fa da ideale “colona sonora” alle vicende quasi surreali messe su carta da Dario, ha in comune col racconto anche alcuni elementi: se siete curiosi di scoprire quali non vi resta che ascoltare il brano e leggere il racconto, che trovate come al solito qui di seguito. Buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Strano ma vero, di Dario Zizzo

Sono stato un bimbo davvero strano, che andava in giro con un caschetto perché, come diceva mamma, “avevo la mancanza di calcio”, quindi non di rado cascavo a terra, mettendo sempre la testa avanti. Un giorno, stufo di quel copricapo, lo sostituii con un secchiello da spiaggia, pure se la stagione balneare si era spenta da un po’: il problema fu che io e mamma non riuscimmo a toglierlo, e visto che papà era a faticare andammo a bussare alla porta del vicino, il signor Potenza (un nome che invitava all’ottimismo), che con delle tenaglie mi liberò dall’oppressione di quella gabbia. L’esperienza non mi bastò e approfittai ancora di quell’uomo, il giorno in cui mi incastrai il pisellino nella zip.

Essendo mio padre a faticare (forse lo faceva solo per evitare di assistere alle mie cazzate) fu del tutto naturale richiedere l’assistenza del condomino, che vedendomi esclamò «Non ho mai visto niente del genere!»: come dargli torto, lo sapete in quanti muoiono senza aver visto una cosa così? Potenza andò in una stanza e ritornò con un paio di forbicioni da giardiniere, facendo diventare mia madre bianca come la biacca in viso, al che l’uomo, con letteralmente nelle mani la mia virilità, proruppe in un «Stia calma! Cosa crede, che scambi un pisellino per una cerniera? Lo sa quanti ne ho visti di pisellini io, con quattro figli?». Per fortuna Potenza ebbe ragione, ed io la scampai anche quella volta.

La mia vocazione per i comportamenti non ortodossi si confermò nell’adolescenza, quando al ginnasio, dopo un primo quadrimestre scintillante, ebbi un misterioso crollo. Mi colse un’apatia verso la scuola e ogni forma di competizione, simulai persino la febbre sfregando il termometro sulla gamba pur di stare a casa per un mese intero fino a quando, stufo dell’autoreclusione, rivelai l’inganno. Fuori non andava comunque meglio, a cominciare dalle ragazze, che per me erano come un libro dalle pagine bianche. Al minimo corteggiamento mi sbattevano in faccia l’immancabile «Ma io non potrei mai mettermi con te, tu sei un amico!», ma la beffa più bruciante fu quando una mi disse «Cosa vuoi, sciocchino? Tu sei un bravo ragazzo»: mi chiesi dove scegliesse i fidanzati, pensai di dirle «Scusami tanto se non sono Jack lo Squartatore», ma alla fine me ne stetti in silenzio.

Crescendo proseguii coi comportamenti strani: mi misi in testa di diventare uno scrittore. Di rifiuti, come con le ragazze, ne ricevetti tanti negli anni, un tale numero di vaffanculo da convincere chiunque ad andarci per davvero, ma non desistetti. Decisi di dar retta a chi dice che la vita è sognare, ovvero gli abitanti del pianeta Marzullo dove tutto l’anno è mezzanotte e dintorni, finché non giunse la proposta di un editore: il mio libro, “Rivoglio i Matia, con Antonella Ruggiero”, sarà pubblicato. Solo che il mio sogno ora mi lascia freddo; penso già a tutto quanto si dovrà fare dopo, alla promozione del romanzo, alla fatica; e mentre il sogno lascia il campo alla realtà, torna a cogliermi l’apatia.

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Racconti fantastici e dove trovarli: flash fiction edition

Sono trascorsi alcuni mesi dal primo articolo in cui ho provato a fare ordine nel vasto mondo delle riviste letterarie, e più passa il tempo più ne scopro. Per farvi un’idea di quanto è ampio questo sottobosco potete dare un’occhiata a questo articolo, in cui la giovane Rivista Blam ha chiesto a molte testate (fra cui Tremila Battute) di segnalare un racconto particolarmente meritevole apparso sulle proprie pagine nel corso del 2020, oppure potete consultare la sempre comoda mappa che Italians Book It Better ha stilato circa un anno fa…consapevoli che, nel frattempo, il panorama si è ampliato ulteriormente.

A seconda del tipo di letteratura di cui siete appassionati potrete di sicuro trovare qualcosa che vi colpisca, da riviste nate per dare spazio alla letteratura fantasy, fantascientifica e weird ad altre che si concentrano su narrazioni sperimentali, fino ad arrivare a riviste che nascono come costole di una casa editrice (Pidgin Edizioni ne ha addirittura tre di cui una, Split, nata per raccogliere testi di aspiranti scrittori). Ho deciso in questo secondo articolo di concentrarmi, un po’ per “affinità”, su quelle che si sono specializzate nella flash fiction, ovvero narrazioni brevi quando non brevissime: sono convinto che un limite stringente di caratteri dia modo di essere concisi e, allo stesso tempo, di sperimentare molto, e non vi resta altro da fare che proseguire con la lettura per rendervene conto voi stessi.

Pastrengo (Manuela Antonucci – Carapace)

Pastrengo è una realtà dalle due anime, agenzia letteraria e rivista. Fondata da Francesco Sparacino (già nel direttivo delle rivista Colla) e Michele Turazzi, Pastrengo ospita racconti con un limite massimo di 2500 battute, considerando la narrativa così breve un territorio ancora inesplorato, piena di incognite e potenzialità. Aperta per propria natura alla sperimentazione, la rivista affianca racconti di autori affermati a quelli di assoluti esordienti: per lo scrittore che è in voi l’indirizzo utile a cui mandare il materiale (in formato doc, corredato da una breve biografia) è rivista@pastrengolit.com.

Ora che gli occhi si sono abituati alle tonalità del chiaroscuro, nel buio vedi il suo corpo segnare il destino dell’orizzonte. Scosse improvvise sollevano la coperta coprendo a fasi alterne la spia rossa della televisione, quella piccola a schermo piatto che non accendete mai. Basta poco e il nero intenso del suo viso copre l’intera visuale.

Manuela Antonucci, Carapace

Tra i vari racconti che ho avuto il piacere di leggere all’interno della rivista ce n’erano molto validi, e visto che uno l’hanno già segnalato loro e di un altro ho parlato sul profilo Facebook di Tremila Battute la scelta è ricaduta in maniera naturale sul testo di Manuela Antonucci. In poche righe l’autrice riesce a introdurci in uno scenario domestico claustrofobico, a tratti inquietante, senza spiegare chiaramente ciò che succede ma lasciandocelo capire attraverso le sensazioni della sua protagonista: potete leggerlo a questo link.

Mirino (Massimiliano Maestrello – Infradito rosa)

Se Pastrengo è bendisposta verso la sperimentazione, Mirino ne fa una vera e propria missione. Literary blog giovanissimo (il primo contributo è di giugno 2020) creato dallo scrittore Ivan Ruccione, Mirino in questo nuovo anno ha dimezzato il limite massimo di lunghezza, fissato ora in 250 parole (parole e non battute, badate bene): l’intenzione è quella di proporre ai lettori narrazioni che siano come lampi, frammenti, istantanee di un attimo. A fianco di scrittori esordienti il blog propone anche contributi di ospiti celebri (tra i tanti lo scrittore e traduttore Riccardo Duranti, a cui si deve la traduzione dell’opera omnia di Raymond Carver, e Rossella Milone, scrittrice e creatrice dell’Osservatorio sul racconto Cattedrale) e traduzioni di autori esteri (spicca il racconto 1/3 1/3 1/3 di Richard Brautigan, inedito in Italia): se volete far parte del lotto il link utile è questo.

“…ha il tempo di ridere a battute che non fanno ridere, di parlare di lavoro, di chiedere Scusa, di andare in bagno per provare a chiamarla più volte (fino a sentire spegnersi il cellulare che lei non lascia mai squillare a vuoto); ha ancora tutto il tempo di dare un pugno al muro di quel cesso che profuma di lavanda, di tornare a sedersi, di ordinare altro da bere, di pensare Basta, adesso basta, e chiedere al cameriere ancora una bottiglia…”

Massimiliano Maestrello, Infradito rosa

Quasi ogni racconto presente su Mirino fa storia a sé, dato che si passa da “collage” di brevi narrazioni a esperimenti formali. La mia passione per le trame, anche quando c’è poco spazio per tesserle, mi ha portato a prediligere il testo di Massimiliano Maestrello, capace di dare i dettagli giusti per delineare una situazione che deve ancora avvenire (ma che, lo sappiamo, avverrà) e aggiungendo un particolare bizzarro, avulso dall’azione principale ma capace di donare un che di onirico e poetico alla storia: se volete scoprire quale andate qui.

Rivista Blam (Davide Ceraso – Pelé)

Fondata poco più di un anno fa da Antonella Dilorenzo, Rivista Blam è un contenitore multiforme in cui trovano spazio interviste a scrittori, recensioni di libri, approfondimenti su altre riviste e molto altro che vi invito a scoprire. La sezione racconti è divisa in due: lunghi a tema non specifico, che vengono pubblicati alla domenica, e brevi a tema non specifico, di massimo tremila battute, che vengono pubblicati al mercoledì, tutti accompagnati da bellissime illustrazioni. Per gli aspiranti scrittori ci sono anche call a tema fisso che vengono lanciate periodicamente sul canale Instagram della rivista, mentre per ulteriori informazioni trovate tutto a questo link: ricordatevi solo che i vostri racconti devono far emozionare ed esplodere il cuore alla redazione!

Noi giocavamo a calcio vicino alle mura, accanto ai morti dimenticati. Le lapidi del Commendator Ugo Cioni (1836-1899) e di Lapo Gorini (1844-1895) erano i pali della porta sinistra, quelle dell’avvocato Duccio Re (1855-1912) e di Leone Pucci (1856-1923) formavano l’altra porta. Io volevo stare in squadra con mio fratello Ascanio detto Pelé perché non perdeva mai.

Davide Ceraso, Pelé

Visto il tema dell’articolo mi sono concentrato sulla sezione di narrativa breve della rivista, e tra i numerosi racconti pubblicati dalla nascita quello di Davide Ceraso spiccava in modo netto. Non è facile riuscire a raccontare un’intera storia in così poche battute, ma Davide riesce a farlo illuminando gli eventi essenziali per delineare le gioie e i drammi di due fratelli, tra passato, presente e i legami più stretti. Potete leggerlo per intero qui.

Sguardindiretti (Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco – Double fantasy)

A metà tra il collettivo di autori e la rivista letteraria, Sguardindiretti è formata da un nucleo di artisti con base in Toscana (tra i quali la musicista Verdiana Raw) che condividono sulle sue pagine racconti, poesie, pensieri, immagini e persino suoni. Oltre a questo gruppo di collaboratori stabili sono ben accetti i contributi esterni che devono sottostare a due limiti, uno di lunghezza (tre cartelle da 1500 battute, all’incirca) e uno tematico: ogni numero (ne sono usciti finora ventiquattro) di Sguardindiretti è caratterizzato infatti da tre parole, le quali fungono da linee guida. L’ultimo numero è uscito a Dicembre (e ci troverete anche qualcuno dei nostri autori recenti), il prossimo uscirà il 31 di marzo e avrà come parole chiave Mani, Preghiere e Domani: se volete contribuire avete tempo fino al 20 di quel mese, trovate maggiori informazioni qui.

“Mario, per voglia di novità, ha deciso di unirsi al trio. Per lui i compagni di classe sono solo ragazzi con cui condivide sei mattine su sette. Non ha amici, forse qualcuno nel gruppo della parrocchia. In compenso ha un’infinità di complessi che gli tengono compagnia. Si sente brutto, grasso, goffo, crede di avere un pisello piccolo (anche se non se l’è mai misurato). Sogna frequentemente di diventare un artista come Klimt: è incantato dall’energia sensuale di Giuditta II, brama quel seno e quella bocca altera, niente a che vedere con i corpi modaioli delle sue coetanee.”

Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco, Double fantasy

Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco è uno degli habitué della rivista, e anche se il suo racconto Double fantasy non prevede balene (presenti, assieme a Catene e Mattine, tra le parole che contraddistinguono il numero Ventidue della rivista) sono rimasto piacevolmente colpito dalla sensibilità con cui l’autore tratteggia il suo protagonista, Mario, un adolescente insicuro alle prese coi propri turbamenti sessuali tra cinema a luci rosse e…Yoko Ono. Potete leggerlo a questo link.

Narrandom (Sonia Aggio – Storie al crepuscolo)

Quello di utilizzare parole come tema per i racconti non è un’esclusiva di Sguardindiretti: anche Narrandom utilizza lo stesso metodo per stimolare la fantasia degli autori, salvo che nel suo caso è solo una la parola che fa da linea tematica. Cambia anche il numero massimo di battute (in questo caso di 5400 battute, che permette una narrazione molto più incentrata sulla trama), e soprattutto Narrandom si distingue per un’importante caratteristica: tutti i testi ricevuti, anche quelli rifiutati, ricevono da parte della redazione un macro editing, in modo da far diventare la rivista anche un luogo di crescita per chi invia un proprio testo. L’ultima call, scaduta il 7 gennaio, riguardava i non luoghi (scelta multipla in questo caso, tra ascensore, aeroporto e autogrill), e in attesa della prossima gli aspiranti scrittori possono tenere d’occhio la pagina apposita.

Il fantasma che infesta questa casa si chiama lady Ellen Bassett, poi Ellen Poyntz. So che nacque il 19 maggio 1536, il giorno in cui Anna Bolena moriva nella Torre di Londra. So che sposò un gentiluomo che si chiamava Henry Poyntz, e che aveva una sorella maggiore che si chiamava Margery Bassett. So che Maria Tudor condannò a morte sia Henry Poynzt che Margery – decapitati, in virtù del loro rango, anziché squartati. So che Ellen sopravvisse. Diventò dama di compagnia di Elisabetta I e morì senza risposarsi e senza avere figli.

Da quasi cinque secoli gli abitanti di Beechfield House la chiamano Mosca.

Sonia Aggio, Storie al crepuscolo

Sarà per la propensione all’editing, ma mai come con questa rivista ho avuto difficoltà a scegliere un racconto che fungesse da “vetrina”: la qualità dei testi pubblicati su Narrandom è altissima, e posso dire dopo aver letto più di trenta racconti (e molti altri ce ne sono) di non averne incontrato uno brutto. Sul filo di lana (mi ero innamorato anche di questo, e di…no dai basta se no li metto tutti) la spunta Sonia Aggio, perché nella sua storia di fantasmi riesce a creare un’atmosfera rarefatta che è perfetta per questo tipo di narrazioni, oltre ad azzeccare un finale magistrale: leggetelo qui, e poi recuperateli tutti.

Avete altre riviste specializzate nella narrazione breve da suggerire? Segnalatemele nei commenti e leggete, leggete, leggete!

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