Racconto in musica 51: Magnolia (Kaufman – Magnolia)

Pensate a tutta la musica che avete scoperto grazie ai consigli di amici. A volte basta anche solo un po’ di tempo per approfondire e un link su un social network postato da qualcuno di cui vi fidate o, se proprio siete avventurosi, da qualcuno i cui gusti non corrispondono ai vostri. In questo blog cerco di essere quell’amico che pubblica link, e molto probabilmente sono più spesso quello dai gusti strambi, ma anche a me piace fare nuove scoperte. Le collaborazioni, oltre che a riempirmi il cuore con la passione di altri scrittori, servono anche a rendere Tremila Battute uno spazio di scoperta musicale per me stesso, e una bacheca musicale che rifletta gusti che non siano per forza sempre i miei. Ringrazio quindi questa settimana Davide Ceraso, per avermi donato un bellissimo racconto e dato modo di conoscere una nuova band, i Kaufman.

Davide nasce a Cuneo nel 1976, ha una moglie, due figlie di nome Cloe e Camilla e un cane, che lo segue ovunque vada. Scrive seduto sulle carrozze dei treni che lo portano a lavoro o nelle notti insonni, e scrive davvero bene: ve lo avevo segnalato già in un vecchio articolo, in cui suggerivo la lettura del suo Pelé pubblicato su Rivista Blam. Di racconti Davide ne ha pubblicati molti, uno nel libro Quartieri edito da La Feluca Edizioni, altri su svariate riviste letterarie: Crack, Marvin, Voce del verbo, Smezziamo, Spore, Malgrado le mosche, Neutopia, Bomarscé, La seppia, Mirino e prossimamente su Formicaleone. Collabora con il sito H.A.N.D. – Have A Nice Day e ha pubblicato il romanzo La direzione della coccinella per DZ Edizioni a luglio 2020: dove trovi il tempo per fare tutte queste cose non lo so, ma spero che mi riveli il suo segreto quanto prima.

Dopo due album in inglese (Modern sprawl nel 2007 e Interstellar college radio nel 2009) i Kaufman, band bresciana capitanata da Lorenzo Lombardi , incidono nel 2011 il primo album in italiano, Magnolia. È questo il momento in cui cominciano a ibridare le suggestioni indie col pop, e ad attirare l’attenzione di nomi importanti come Omar Pedrini, ospite nel singolo Improvvisamente tu. Passati all’etichetta Irma Records, nel 2014 i Kaufman pubblicano l’album Le tempeste che abbiamo, nel quale inizia un sodalizio con il cantautore Alessandro Raina che produrrà anche il loro album seguente, Belmondo, edito dalla casa discografica torinese Inri nel 2017 (curiosità: scopro solo ora che Raina nel 2013 conduceva su Radio Popolare un programma radiofonico in cui scriveva racconti basati su canzoni). Stabilizzatisi col tempo in una formazione che comprende Alessandro Micheli, Matteo Cozza e Simone Gelmini, i Kaufman (il cui nome omaggia il seminale comico statunitense Andy Kaufman) hanno fatto uscire da pochi mesi la canzone Lelaina, ultimo di una serie di singoli scaglionati fra il 2019 e il 2020 in attesa di uscire con un nuovo disco.

Magnolia, terzo singolo estratto dall’album omonimo, è una canzone delicata che, nelle parole di Lombardi, rappresenta un collage di immagini su una storia che potrebbe o non potrebbe finire, con New York sullo sfondo e la neve che si confonde coi fiori di magnolia. Davide Ceraso, forse influenzato anche dal video che potete vedere qui sotto, ne ha tratto un racconto in cui dolore e speranza hanno lo stesso spazio: per capire quale delle due vincerà non avete che da andare a leggere il racconto, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Magnolia, di Davide Ceraso

L’inverno prova a sopravvivere ancora qualche ora, scende all’alba da un cielo vestito di nuvole madreperla, in silenzio, annodato a una nevicata esangue, troppo fragile per battagliare con l’aria di primavera e per non dissolversi nelle crepe dell’asfalto.

Carlotta è in piedi, le braccia lungo i fianchi, immobile al centro del dehors che custodisce il suo corpo di bambina come una teca di cristallo protegge un tesoro. Osserva attraverso pareti trasparenti i fiocchi di neve annegare nella strada deserta mentre alla sua sinistra, impilati uno sull’altro, alla rinfusa, tavolini e sedie incastrano le rigide membra per non scivolare su assi di compensato impregnate dell’odore acre di nicotina. D’improvviso Carlotta si volta, gli occhi dalle sfumature smeraldo come quelli di sua madre fissano il mio viso stanco. Allora incurvo le labbra verso il soffitto buio del bar, appena appena, per un attimo accenno un sorriso, falso quasi quanto la voglia di ricominciare tutto daccapo, dall’inizio, ancora una volta. Lei però non ci fa caso, o quantomeno non traspare dallo sguardo, saluta con un cenno della mano prima di allargare le braccia, ali senza piume, e iniziare a ballare su di una musica che soltanto le sue orecchie sono in grado di percepire.

Socchiudo gli occhi e ripenso a ieri sera, all’ultimo giorno in quella casa, noi due, soli, stretti in un abbraccio, le parole sussurrate di un padre chiedono perdono alla figlia per ogni ferita che le ha regalato e che non avrà più indietro, singhiozzi sincopati che la notte ha poi coagulato in respiri leggeri e cuori che battono all’unisono.

«Papà…»

Sobbalzo, la voce di Carlotta dirada i miei pensieri.

«…andiamo a trovare mamma?»

Annuisco, chiudo la serranda che urla stridula nelle guide maculate di ruggine e come ogni domenica raggiungiamo il Monumentale, a piedi, senza fretta, Torino a spiare di spalle i nostri discorsi distratti, finché isoliamo i pensieri da ciò che li circonda difronte alla lapide di Martina. La sua immagine, impressa in una fotografia stondata, osserva un punto lontano, indefinito, pare ignorarci, come se fossimo esseri invisibili, contorni sbiaditi di ombre sconosciute. Carlotta si avvicina e anneghiamo nei ricordi, intrecciamo insieme le nostre dita, sento il calore della sua pelle e riaffiora dal nulla la voglia di continuare a lottare, una febbre lucida, il desiderio di risalire verso la superficie del mare vuoto che ha inghiottito l’anima, per mia figlia, un fiore sbocciato su di un ramo così nudo da sembrare morto ma al cui interno, nel profondo, scorre linfa al profumo di vita. Asciughiamo le lacrime e quando usciamo in strada, rallento il passo, Carlotta mi guarda, un paio di metri avanti, perplessa, la sciarpa al collo, i capelli mossi dal vento. Io sorrido, di nuovo, sorrido al mio fiore, al mio piccolo fiore di magnolia…

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Agenzia letteraria, rivista…e poi? Alla scoperta di Pastrengo

Un paio di mesi fa ho deciso di scrivere una piccola (e sicuramente incompleta) guida alle riviste letterarie che si occupano di flash fiction, ovvero narrazioni brevi quando non brevissime. Fra le realtà che ho presentato c’era anche Pastrengo, caratterizzata dall’avere la doppia natura di rivista e agenzia letteraria: ho deciso di contattarne i fondatori, Michele Turazzi e Francesco Sparacino, per scoprire qualcosa di più sul loro lavoro, sul futuro del racconto e sullo stato dell’editoria.

  • Come e quando è nata Pastrengo?

Abbiamo fondato Pastrengo nel settembre del 2016, a Milano, anche se prima dell’annuncio ufficiale c’è stato almeno un anno di lavoro preparatorio. Soprattutto per quanto riguarda lo scouting, in modo da avere, già al momento del lancio, un primo nucleo di autori con cui collaborare.

  • Agenzia e rivista sono nate insieme?

Sì, la nostra idea è stata fin dall’inizio quella di affiancare agenzia e rivista. Le due anime di Pastrengo riflettono le nostre esperienze precedenti: da un lato, professionisti del mondo editoriale; dall’altro, animatori di riviste letterarie. Nelle nostre intenzioni, la rivista contribuisce a dar voce a quegli autori che si stanno facendo le ossa nel mondo letterario, oltre a rappresentare una vetrina per un genere, quello del racconto, che ha pochi spazi nell’editoria tradizionale.

  • Leggo che avete interrotto gli invii spontanei in favore di uno scouting costante. Come cercate nuovi autori per la vostra agenzia?

Interrompere gli invii spontanei è stata una decisione sofferta, che abbiamo rimandato a lungo. A un certo punto, però, è stata inevitabile: avevano cominciato ad arrivarci semplicemente troppi manoscritti, troppe proposte per riuscire a dedicare a ciascuna la giusta attenzione. Abbiamo preferito chiudere quel canale e concentrare le nostre energie sullo scouting diretto: siamo noi ad andare alla ricerca di nuovi autori, scandagliando riviste, piccole e grandi pubblicazioni editoriali, social e internet. Capita poi che amici e collaboratori ci segnalino nuove voci interessanti che prendiamo volentieri in considerazione.

  • Fra gli autori che rappresentate ci sono un musicista (Cristò), una giornalista musicale (Giulia Cavaliere) e anche la fondatrice di un circolo culturale (Carolina Crespi), il Gagarin di Busto Arsizio, dove ho avuto il piacere di vedere numerosi concerti. Qual è il vostro rapporto con la musica?

Quello con la musica è un rapporto personale, non professionale. Siamo entrambi grandi appassionati di musica, anche se spesso non condividiamo generi e artisti di riferimento. Il fatto che alcuni autori che rappresentiamo condividono con noi questo legame è un aspetto che ci fa piacere, ma crediamo sia una casualità.

  • La vostra ricerca di racconti si concentra su un formato molto breve, da flash fiction. Pensate che possa essere il futuro del racconto?

Sulla rivista pubblichiamo solo racconti inferiori alle 2500 battute. Crediamo sia un formato dal grande potenziale, perché costringe l’autore a ragionare a fondo sulla sua scrittura, costringendolo ad andare all’essenzialità di quello che vuole raccontare e del messaggio che vuole trasmettere. Si tratta inoltre di una buona palestra, perché aiuta ad affinare la penna e a puntellare lo stile: contrariamente a quanto spesso si crede, rispettare limiti stringenti può essere di grande aiuto per chi scrive, soprattutto se alle prime armi. In un senso più generale, troviamo la flash fiction, come l’hai chiamata tu, particolarmente adatta al web e alla fruizione spezzettata tipica di questo medium. Difficilmente, si ha il tempo e l’attenzione per dedicare più di qualche minuto a un testo web: quelli presenti su Pastrengo sono racconti che si possono leggere in un’unica seduta, più brevi di una corsa in metropolitana.

  • Le riviste letterarie sembrano essere in un periodo di grande proliferazione, dove a quelle storiche continuano ad affiancarsene di nuove. Pensate che questo possa essere il preludio a un rinnovato interesse dell’editoria per i racconti?

Negli ultimi tempi sono nate molte riviste letterarie, spesso animate con grande professionalità, che sono andate ad affiancarsi a progetti storici che pubblicano regolarmente da oltre dieci anni. È effettivamente un periodo felice per questo settore, basti pensare che nell’ultima edizione in presenza del festival BookPride è stata organizzata una rassegna esplicitamente rivolta a tutti coloro che progettano di aprire una rivista. Sul fatto che questo fermento possa allargare lo spazio del racconto nell’editoria libraia, però, siamo scettici. Nel nostro lavoro di agenti ci scontriamo spesso, salvo poche e virtuose eccezioni, con un diffuso disinteresse per il racconto da parte degli editori.

  • Se poteste consigliare tre racconti fra quelli pubblicati dalla vostra rivista negli anni, quali scegliereste?

Con duecento racconti pubblicati in quattro anni e mezzo, per noi è quasi impossibile indicarne solo tre. Per motivi squisitamente sentimentali, però, possiamo dirti che siamo molto affezionati alla primissima uscita, “Capitan Serenissima” di Ginevra Lamberti.

Il lavoro dell’agente letterario è uno dei più sfuggenti tra quelli che popolano il mondo editoriale. Si tratta, soprattutto in Italia, di una professione giovane, non regolata da un albo e non soggetta a requisiti d’accesso particolari. Il risultato è che sono molti a non sapere in che cosa consiste il nostro lavoro e, di conseguenza, non sono in grado di riconoscere quali agenzie letterarie lavorano con professionalità. Adali riunisce trentasette agenti o agenzie italiane che aderiscono a elevati standard di competenze e ha elaborato un codice deontologico che ciascuno degli aderenti è tenuto a condividere. Gli obiettivi sono quelli tipici di qualsiasi associazione di categoria: promuovere e tutelare la professione, avere un portavoce unico presso le istituzioni, creare rapporti virtuosi tra gli aderenti…

  • La pandemia ha causato innumerevoli problemi all’editoria, portando a posporre l’uscita di numerosi libri. Come si è riverberato questo sul vostro lavoro?

Il discorso è ovviamente lungo e complesso. Oggi, un anno dopo i primi casi accertati in Italia, possiamo dire che tutto sommato il settore editoriale ha tenuto meglio di altri. Grazie al fatto che le librerie sono state chiuse solo nella primissima fase della pandemia, e al fatto che il sistema si regge su un gruppo ristretto, ma agguerrito, di lettori forti, che non appena è stato possibile tornare in libreria vi si è fiondato. I problemi comunque sono stati molteplici: dal rinvio, a volte persino di un anno, dell’uscita dei libri, alle difficoltà dell’attività promozionale, con l’impossibilità di organizzare eventi live. Per quanto riguarda più specificatamente Pastrengo, la nostra professione si basa molto su incontri, relazioni, chiacchierate anche informali: in momenti come questi spesso si creano le occasioni di confronto migliori, ed è di questo lato della nostra attività che abbiamo più sentito la mancanza. Trasportare tutto dietro uno schermo evidentemente non è la stessa cosa.

  • Quale consigli vi sentite di poter dare a un autore esordiente?

Leggere molto. Ovviamente classici e autori riconosciuti, per prendere ispirazione, ma anche novità editoriali, per sapere qual è la direzione verso cui sta andando la letteratura contemporanea. Bisogna poi essere consapevoli che la scrittura è un lavoro artigianale e, come tutti i lavori artigianali, necessita di molto, moltissimo allenamento. Quindi si deve scrivere, cancellare e riscrivere. E andare con ordine. Partire con testi brevi, affinare la penna. Inviare i propri racconti alle riviste, per ricevere i primi riscontri e cominciare a farsi conoscere. Via via che la penna sarà più allenata, si potrà poi alzare il tiro, passare al romanzo. In generale, è importante non avere fretta.

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Racconto in musica 50: Dal computer esce una musichetta pop (Les Fleurs des Maladives – Il rock è morto)

E siamo arrivati a 50! Sembra sia passato poco più di un anno da quando ho inaugurato il blog con questo racconto, ed è proprio così: tredici mesi e rotti a consigliare band meritevoli di attenzione, a inventare storie sulle loro canzoni e, con maggiore frequenza da qualche tempo a questa parte, ospitare altri appassionati di scrittura che mi hanno donato le loro tremila battute. Proprio per ringraziarli, sperando che continuino a togliermi spazio in questo angolo del blog, il traguardo dei 50 racconti in musica ho deciso di tagliarlo con un ospite d’eccezione: Ferruccio Mazzanti, autore del libro Timidi messaggi per ragazze cifrate, al cui contributo ho associato una canzone della band comasca Les Fleurs des Maladives.

Ferruccio è già stato ospite di queste pagine, rispondendo alle curiosità sul suo esordio letterario uscito a fine 2020 per Wojtek edizioni (leggetevi sul sito della casa editrice anche questo testo sulle transizioni nel montaggio cinematografico, non ve ne pentirete). Di sé dice che è cresciuto dopo essere nato e che ama moltissimo cantare a perdifiato e ballare nudo in salotto, anche se non ha tende alle finestra, per cui, se doveste passare davanti a casa sua, non pensate sia pazzo. Ha fondato ed è presidente di ben due riviste letterarie, In fuga dalla bocciofila e Il mondo o niente, di cui ovviamente vi consiglio di approfondire la conoscenza.

I Les Fleurs des Maladives (nome liberamente adattato dalla dedica iniziale di Charles Baudelaire a Théophile Gautier ne I fiori del male) li ho scoperti per caso dal vivo, ad un concerto del Primo Maggio in quel di…Vigevano, non Roma, anche se per ben due volte (2014 e 2016) sono arrivati in finale alla selezione per la manifestazione capitolina. L’energia che sprigionano dal vivo mi ha subito conquistato, tanto che ho comprato entrambi i loro dischi (ricordate, è il minimo che potete fare per supportare artist* che amate) e ne ho parlato di mia spontanea volontà, perché anche anni fa pensavo fosse doveroso consigliare la musica che mi emoziona. Formatisi nel 2002, la band comasca formata da Davide Noseda (chitarra e voce), Ugo Canitano (basso) e Alberto Maccarone (batteria) arriva all’esordio con l’Ep Antinomie nel 2007, dopo una demo che aveva attirato l’attenzione di Mauro Pagani: è destino che la loro musica venga notata da grandi nomi, perché il brano Novembre piace a Nada, che lo inserisce nel suo album dal vivo Nada live stazione birra e gira con loro l’Italia per vari concerti, showcase ed esibizioni radiofoniche. Il primo disco, Medioevo, esce nel 2013 per l’etichetta Zeta Factory, e fra gli innumerevoli brani degni d’attenzione va sicuramente sottolineato Dharamsala, canzone sul genocidio tibetano che Amnesty International premia all’interno del festival Voci per la libertà. Muscolari nei suoni, col loro alternative rock (si può usare ancora questa formula?) diretto ma tutt’altro che banale, all’energia degli strumenti i Les Fleurs des Maladives associano testi di alto livello, scagliandosi ironicamente contro il marcio che li circonda e non disdegnando aperture più poetiche: in Medioevo c’è spazio anche per un gioiellino semi-strumentale, Ennio, un sincero tributo a Morricone che non potrà lasciare insensibili gli amanti del compositore romano.

L’ultimo album per il gruppo comasco è Il rock è morto, uscito nel 2017 per Ostile Records e registrato da Max Zanotti, già membro di Deasonika, Rezophonic e Casablanca: fra i dieci brani del disco, degno erede del capitolo precedente sia per scrittura che per energia, appare anche una cover de Le tre verità di Lucio Battisti, eseguita insieme ad Alteria. Proprio durante il tour di questo disco ho potuto gustarmeli dal vivo, dove appaiono mascherati come scimmie spaziali e pestano ancor più di quanto non facciano in sede di registrazione, come è giusto che sia. Non si hanno ancora notizie sul prossimo passo della loro carriera musicale, ma qualcosa pare muoversi per un disco solista del cantante e chitarrista Davide Noseda: io sono già in attesa, e se non fossi riuscito a farvi capire il perché andate qui, ascoltate e diffondete.

Il racconto di Ferruccio va a parare su un’annosa questione: Spotify è un bene o un male? Io una certa idea me la sono fatta, almeno per quel che riguarda le briciole che lascia agli artisti, ma la domanda fondamentale è: quanto influenzano il mercato gli algoritmi, quelle stringhe di codice a cui penso ogni volta che vorrei dire all’app svedese che una canzone non mi piace, col terrore che poi mi rinchiuda in una bolla da cui ascoltare solo ciò che già conosco? Sull’annosa questione dell’originalità e della prostrazione alle mode i Les Fleurs des Maladives avevano già espresso la loro opinione nel brano Il rock è morto, quindi l’associazione fra musica e racconto mi è parsa ovvia: potete valutare se la scelta è stata azzeccata qui sotto, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Dal computer esce una musichetta pop, di Ferruccio Mazzanti

È sera e sono a cena da un mio amico. Il tavolo è apparecchiato in modo frugale come si addice alla classe del precariato esistenziale. La discussione che anima la serata non va oltre i metodi di controllo e di profilazione delle tecnologie contemporanee. Tutti siamo spaventati e pronti a combattere per riappropriarci della nostra identità digitale, anche se non sappiamo bene da dove cominciare, ma ogni teoria che sosteniamo vacilla non appena parliamo di Spotify, capolavoro del liberalismo svedese.

I nostri timpani hanno passato interi anni della nostra vita su Spotify. Non c’è giorno in cui io non acceda al mio account per scoprire nuovi gruppi musicali o per tornare con nostalgia su vecchi brani carichi di ricordi come solenoidi elettrificati.

La cena si è impaludata in un dibattito precario: da una parte XO (musicista) che ha rinunciato all’uso di Spotify, dall’altra io, tossicomane delle infinite opportunità offerte da un servizio a pagamento.

Per XO il principale problema è che l’algoritmo è calibrato sui tuoi gusti musicali, dunque non ci sarà mai un artista che non ricada nell’insieme di quello che ogni utente ha etichettato come bello. Ci sarebbe una omologazione generale della quarta arte, dato che non sarebbe più possibile scoprire brani che non rientrino negli schemi da noi prefissati. In sostanza non è più possibile pensare in modo differente la musica da come già la pensiamo. Spotify innescherebbe un meccanismo dove non ci verrebbe neppure in mente di immaginare melodie altre. Se la musica su cui ci formiamo è omologata a un canone estetico predefinito, allora anche la nostra formazione come artisti si omologherà.

Ogni canone è una maledizione – dice lui – pensa uno costruito a partire da una profilazione di massa.

Gli rispondo che nel momento in cui paghi, la profilazione non ti trasforma in merce. Molti servizi gratuiti usano i tuoi dati per rivenderli a terzi. L’obiettivo del sistema capitalistico è la massimizzazione del profitto e il suo reimpiego per l’allargamento dell’attività produttiva. Dunque se io non pago, allora il guadagno derivante dai miei dati viene reimpiegato per profilare più utenti possibili. Se invece pago Spotify non sono io la merce. In quanto compratore l’algoritmo deve lavorare per garantirmi piena libertà di scelta a prescindere dai miei gusti.

Certo, risponde lui, ma 1) chi ti dà le garanzie etiche sufficienti dopo Cambridge Analytica e Edward Joseph Snowden? Tu ti fidi di una multinazionale? E 2) l’artista si trasforma in un lavoratore salariato dai canoni definiti da Spotify, sgretolando la libertà creativa, perché per vendere la propria musica devi adeguarti a canoni predefiniti.

Come se ne esce? Nessuno accetta l’ipotesi di tornare a comprare i CD.

Addento la pasta al burro con una spruzzata di parmigiano, tipico cibo del precariato esistenziale, senza avere risposte. Dal computer esce una musichetta pop. Mentre mastico mi dimentico della piattaforma che la suona.

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Come gioca questa Heisenberg! Recensione di Lunazione come fosse una competizione calcistica

Iscritta al campionato emo/post-hardcore, sorretta da una società composta dalle etichette To Lose La Track, Shove Records e Controcanti, la formazione Heisenberg si presenta ai nastri di partenza del campionato con una formazione classica: Stefano Tamorri (basso) e Giovanni Lista (batteria) sulle linee arretrate ad impostare l’azione, Massimo Cardellicchio e Giorgio Vallone (chitarre) a correre sulle fasce e Matteo Cellini (voce) di punta, un falso nueve che alterna urla e spoken word per offendere ma non disdegna ritrarsi per lasciare spazio agi strumenti. Con alle spalle un Ep (Immaginarie linee tematiche tra cielo e terra, 2011) e un singolo (Caporetto, 2014), Heisenberg intende fare il salto di qualità con Lunazione, lo schema che nelle intenzioni dovrebbe aprire le difese avversarie: “pezzi che raccontano la ciclicità della vita”, “un concept legato alle fasi di congiunzione fra la Luna ed il Sole”, queste alcune delle dichiarazioni alla vigilia del primo match.

L’inizio di campionato (Nera era) è balbettante. Tanta energia fin dal primo minuto, ottimi fraseggi sulle fasce, ma la punta cerca di strafare e finisce per correre a vuoto, inanellando frasi che mal si installano coi tempi dettati dalla sezione ritmica e spoken word fin troppo frettolosi. Accelerazioni improvvise e cambi di tempo non riescono a imprimere una svolta, con la squadra che abbandona lentamente il campo mentre dagli spalti s’intona il coro “e con le dita in fondo ai polmoni, finalmente posso respirare”: aria di metà classifica purtroppo, per un pareggio a reti inviolate.

Nella seconda giornata (Hringvegur) l’allenatore imprime una svolta. Schema più semplice, partenza lenta e metodica ma alla prima accelerazione è gol: orchestrazione perfetta dalla difesa, la batteria si fa strada e infila con una sferzata delle sue, ben coadiuvata dal resto della squadra che apre gli spazi e segue brillantemente l’azione. Lo schema funziona, il raddoppio arriva con un’azione corale simile a quella della prima segnatura ma più ragionata: ritornelli, dirà qualcuno a fine partita, se tali si possono definire quei momenti simili in cui l’Heisenberg dà il meglio di sé. Lungo outro fino al novantesimo, ma non meno spettacolare: ritmo stabile e tanta garra, disimpegni fatti con la disinvoltura di chi ha il pallino del gioco e non intende mollarlo, voce che davanti punge con urla contropiediste e rullatona finale della batteria a sancire il fischio finale.

Squadra che vince non si cambia, recita l’adagio, ma l’Heisenberg ama sperimentare. Per il terzo incontro (Il destino non tradisce) inizia con una tattica alla Massimo Volume, accelera un po’ a ridosso dell’intervallo ma poi comincia a pretendere troppo, fraseggi complicati che non portano a soluzioni efficaci, stop & go forzati, voce che insegue gli strumenti senza trovare una coesione. La squadra osa troppo, e finisce per esporsi alle critiche.

Smaltita la delusione nell’incontro successivo (Nel nome del) la squadra entra in campo col morale alto, fa le cose semplici e le riescono bene. Poi la mossa a sorpresa, le ali chitarristiche cominciano a far impazzire i difensori avversari con fraseggi math rock sorretti dall’ossatura ritmica, gol e spettacolo. Il resto è gestione comoda del risultato, ritmi compassati ma senza che subentri la noia: qualche rischio nei secondi finali, quando addormentare ulteriormente la partita non sembra l’idea migliore.

Per il gran finale (A chi mise ricordi) lo stadio è pieno. l’Heisenberg entra in campo coesa, voce e strumenti dialogano efficacemente, poi lo spoken word apre ad una fase di accelerazioni e stop improvvisi, buon gioco ma manca il colpo del ko: la squadra sembra aver dato tutto, rallenta il ritmo, si chiude a riccio e dà l’impressione di non poter creare nuovi pericoli. È in quel momento che i cinque gettano il cuore oltre l’ostacolo, cavalcata trionfale con ordine, potenza e distorsione, scandita dal coro dei tifosi che cantano “noi non siamo quello che possediamo, ma ciò che immaginiamo”: solo cinque partite disputate, e l’inno della squadra è già pronto.

Mi perdoneranno (spero) gli Heisenberg per questa recensione bizzarra, ma la metafora calcistica mi sembrava adatta a definire la loro eccentricità. La band romana infila ottime cose, tuttavia manca ancora di certezze e questo la porta a esagerare dove basterebbe solamente gestire le energie, come un giocatore che ha degli ottimi guizzi ma si incaponisce nel voler dribblare tutta la difesa. Piacevoli i testi, intrisi di un romanticismo dolente ma fin troppo verboso: a volte la voce di Cellini mal si incastra con le strutture musicali, spezzettando frasi che avrebbero bisogno di maggior coesione o facendosi prendere dalla foga di infilare tutto ciò che vuol dire in uno spazio limitato, soluzione quest’ultima che risulta più efficace quando viene utilizzata la forma dello spoken word. Fosse un vero campionato l’Heisenberg arriverebbe a ridosso della zona Europa, come il Sassuolo di oggi o l’Atalanta di qualche anno fa: aspetto il prossimo episodio della loro carriera per capire se rimarranno una bella realtà incompiuta o se riusciranno a fare il salto di qualità.

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Racconto in musica 49: Verso l’infinito (Valerian Swing – Spazio)

Sarà capitato anche a voi di conoscere dei gruppi solo di nome, senza troppa voglia di approfondire per ragioni varie. Magari vi sarà anche capitato, in un secondo momento, di riscoprirli e chiedervi “ma perché non li ho ascoltati per tutto questo tempo?” A me è successo con la band di questa settimana (e non solo con loro, si avesse tempo di ascoltare per bene tutta la musica del mondo…), i Valerian Swing, un nome che ogni tanto rimbalzava sulla mia bacheca di Facebook e che ho finalmente ascoltato solo quando mi sono autoassegnato il loro disco A U R O R A a scopo recensione, al grido di “e ora vediamo cosa fanno”. E quel che fanno, ho scoperto, è spettacolare.

Li ho citati più volte, almeno a memoria (di certo parlando dei Mutiny on the Bounty), perché da allora sono state svariate le occasioni in cui li ho incrociati dal vivo. Un piacere per le orecchie e per il cuore, perché grazie ad un’intervista fatta ormai anni fa ho potuto scoprire delle persone straordinarie con cui è sempre bello poter scambiare quattro chiacchiere prima o dopo un concerto. Originari di Correggio, zona magica visto che da lì arrivano anche i Gazebo Penguins (e non solo, pensate che le due band anni fa condividevano una sala prove in mezzo alla campagna anche con Death of Anna Karina e Ornaments), attraggono l’attenzione di pubblico e critica già dal secondo album A sailor lost around the Earth del 2011 (prodotto da Matt Bayles, un guru del settore già attivo con band del calibro di Mastodon, Isis, Botch e Russian Circles), disco che mette in luce le caratteristiche che affineranno col tempo: arrangiamenti eclettici, suoni di chitarra fantasiosi e batteria indiavolata, oltre ad una coesione micidiale nei momenti in cui tutti remano all’unisono verso la creazione di un muro sonoro d’impatto. Math-rock, certo, ma virato in maniera personale e difficilmente paragonabile a qualcun altro: Stefano “Steve” Villani alla chitarra, Alan Ferioli al basso e Davìd Ferretti alla batteria sperimentano, osano, disegnano fuori dai bordi e si divertono un sacco a farlo. Con il già citato A U R O R A, sempre al lavoro con Bayles, affinano la miscela esplosiva, dandole una direzione più precisa ma senza sminuire il carico d’inventiva che sta alla base della loro musica: il disco convince, il mondo si accorge sempre più di loro e per la band, che già se la gira per l’Europa da tempo, arriva la consacrazione della chiamata all’edizione 2015 dell’ArcTanGent Festival di Bristol (qui un assaggio della loro esibizione), uno dei più importanti festival dedicati al rock sperimentale (facendo da apripista per gli anni successivi a ZEUS! e Zu).

Nel 2017 esce Nights, album che sancisce un cambio di formazione già avvenuto da tempo in sede di live (Alan lascia il posto a Francesco Giovannetti) e che si riverbera anche nell’approccio musicale: chitarra baritona al posto del basso, sperimentazione che si spinge verso atmosfere più dilatate e synth che rivendicano spazio. Ennesimo centro in un’evoluzione continua, con questo disco la band riesce a valicare anche i confini continentali, sbarcando in Giappone per un tour di quattro date nel novembre 2018. Ora sono al lavoro su un nuovo disco e, non serve neanche dirlo, aspetto ansiosamente di capire dove li porterà il loro cammino musicale.

Non poteva che portarmi invece che fra le stelle la loro Spazio, sesta traccia di A U R O R A, anche se la musica mi ci ha spinto prima del titolo. Per rendere onore con le parole ai saliscendi emozionali del pezzo ho cercato di immaginare le reazioni al lancio di uno shuttle, descrivendo le varie fasi con una perizia tecnica che probabilmente alla NASA farà sanguinare gli occhi. Per conoscere l’esito del lancio non vi resta che scorrere un po’ più in basso, subito dopo aver ascoltato la canzone: a me non resta che augurarvi buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Verso l’infinito

Sono tutti incollati agli schermi, a pendere dalle labbra dell’inviato dalla sala comandi, in attesa del conto alla rovescia a partire da dieci, nove, otto, accensione dei motori, sette, sei, la luce che illumina i retrorazzi, cinque, quattro, tre, il fumo che comincia a fuoriuscire, due, uno.

Zero. È il momento.

La navicella comincia a sollevarsi, una nuvola di fumo la copre alla vista ma è un attimo, il tempo di permettere alla telecamera di allargare il campo e vederla schizzare su, nel cielo, verso nuove conquiste.

I bambini la indicano stupiti, gli adulti stappano bottiglie, qualcuno cerca di frenare gli entusiasmi ma viene zittito da chi già brinda ed esulta, persino nella sala comandi ci si stringe la mano e l’inviato si lascia andare ad un Partiti che sa di liberatorio. Urla dalle finestre, clacson per le strade, petardi nelle piazze, abbracci e baci nelle case per sfogare la tensione trattenuta fino a poco prima.

E intanto la navicella vola, nel cielo calmo e azzurro, sprigiona fiamme avvolta dalle speranze di un popolo intero. Arriva alle nuvole, le supera di slancio, sparisce alla vista della folla che la accompagna col cuore e festeggia convinta che ormai è fatta, è proprio così, stiamo andando a esplorare lo spazio.

La voce dell’inviato riporta tutti coi piedi per terra. È il momento del distacco dei moduli. I secondi sembrano durare un’eternità. Le telecamere sulla navicella inquadrano la terra che si allontana, il bianco delle nuvole. Tutti attendono che i razzi vengano lasciati indietro, farsi piccoli mentre la navicella li abbandona. È una fase importantissima per il successo della missione, ricorda l’inviato, come se ognuno in cuor suo non stesse già pregando affinché vada tutto per il verso giusto.

Ed ecco che si staccano. Planano mollemente, attratti dalla forza di gravità da cui hanno liberato la navicella che prosegue nella sua traiettoria curva ed ascendente. Ogni minuto che passa porta un nuovo traguardo, stratosfera raggiunta, urrà nelle case e nelle strade, mesosfera raggiunta, cori preghiere canzoni bestemmie, termosfera raggiunta, pianti risate urla dita incrociate, esosfera raggiunta e poi fuori.

L’orbita terrestre abbandonata, il buio dello spazio profondo davanti. L’inviato parla di problemi di comunicazione, torna la paura. La quiete nelle case assomiglia a quella oltre l’atmosfera, dove ogni suono è annullato. Tutti attendono che da lassù qualcuno li tranquillizzi.

Arrivano brusii, scariche elettrostatiche. Ci sentite, chiedono dalla base, ancora scariche, interferenze, qualche parola disturbata e poi forte finalmente Mi sentite, la voce dell’astronauta, gli applausi in sala comando che possono finalmente deflagrare mentre dalla navicella festeggiano, con loro, con tutti. Prima che il collegamento si interrompa si possono sentire le voci di chi dall’alto guarda giù, verso il pianeta che stanno lasciando, colme dell’ansia di fare ritorno.

Non ho mai visto mai niente di così bello, dicono, prima di volgere gli occhi oltre.

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Narrazione attraverso i corpi: le raccolte di racconti di Francesca Mattei e Rita Bullwinkel

Ciò che succede al nostro corpo, e il modo in cui questo ci limita o ci apre nuovi orizzonti, è un motore narrativo potente. Pensate al Gregor Samsa protagonista de La metamorfosi di Kafka, che si ritrova la vita sconvolta nel ritrovarsi dalla sera alla mattina trasformato in un enorme insetto, o alla fortunata fase body horror di un regista come David Cronenberg, che ci ha regalato perle come Videodrome e La mosca. Ci sarebbero esempi anche meno inquietanti da fare, ma questi mi sembravano azzeccati per introdurre due raccolte di racconti che, seppur in maniera diversa, fanno dei corpi dei propri personaggi i veicoli per parlarci di altro, sì, ma anche per inquietarci un po’. I due libri in questione sono Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa di Francesca Mattei, appena uscito per la casa editrice napoletana Pidgin, e Lingua nera di Rita Bullwinkel, edito nel 2019 dalla casa editrice fiorentina Black Coffee.

Ferite, ossessioni e autodistruzione

La raccolta di racconti di Francesca Mattei rappresenta il suo esordio letterario e, allo stesso tempo, il primo libro italiano ad uscire per Pidgin (realtà molto interessante di cui avevamo parlato a proposito della raccolta Viscere di Amelia Gray). Caratterizzato da vicende a tratti morbose e da una scrittura asciutta e senza fronzoli, i diciassette racconti de Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa non potevano trovare approdo migliore, visto l’occhio attento dell’editore Stefano Pirone per narrazioni al di fuori del consueto.

Come ha detto la stessa autrice in una presentazione (purtroppo online, sa signora coi tempi che corrono…) i protagonisti abitano corpi votati all’autodistruzione, feriti dall’esterno o automutilati, portati al picco della fatica o allo stremo delle forze. Già il racconto iniziale, Muta, lascia presto i confini dello sballo privato di due amiche in un parco per mostrarci una metamorfosi, reale o allucinatoria non ci è dato saperlo, che sembra rappresentare un’ansia di fuga dalla propria condizione.

Ma lei insisteva, voleva mettere in evidenza quanto fossi fortunata ad avere tutte quelle energie, come le chiama lei. Avrei potuto spiegarle che le mie energie derivano dall’insonnia, dall’adrenalina e dall’ansia che mi crea la sensazione di non aver fatto abbastanza. Per chi, non si sa. Invece le ho sorriso, le ho servito le patate al forno e ho bevuto con moderazione, fintanto che ho avuto ospiti in casa. Ho capito subito cosa stava cercando di fare: stava cercando di competere su chi avesse meno vantaggi e più problemi. Non ho accettato la sfida, però. Mi sta bene sembrare qualsiasi cosa, pur di non sembrare me stessa.

My only sunshine

Le protagoniste (e più raramente i protagonisti) dei racconti sfogano le proprie frustrazioni su sé stesse, ingurgitando croste (Croste) o lasciandosi dimagrire fino a rischiare la morte (Smalto), ossessionate dal proprio cranio (Struttura ossea) o dalle voci che vi abitano dentro (Ma tu non la senti), e quando non sono loro a farsi del male c’è qualcun altro che ci pensa (come il padre del racconto Nata per questo, uno dei migliori del lotto nel suo delineare una storia irreale eppure tremendamente verosimile).

I personaggi di Francesca cercano di sfuggire a una realtà senza prospettive, un mondo di provincia dove l’alternativa a un’esistenza vuota è data dalle dipendenze, siano esse alcool, droga o sesso. La volontà di andarsene e fuggire, magari anche solo di compiere un atto catartico di rivalsa (come quello che compie la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta), è ostacolata dalla paura di non essere all’altezza delle aspettative, di non riuscire a trovare altrove niente di più di quel poco che hanno.

Al bancone ci sono Muffa, Dado e la Maga, tuffati nei rispettivi bicchieri di birra. E poi Zorro, Tonto, Spalla, la Gemma e non ce n’è uno che abbia un nome vero qui, sono tutti personaggi o elementi o sagome o tipi, sono tutti qualcosa di breve e finto e anche io, che gioco con la cerniera, che mi annoio come sempre, a vederli tutti così, morti dentro e fuori e magari pieni di brillantina in faccia, ma non cambia nulla; anche io ho un nome che non è il mio nome, ho un nome che è quello che mi hanno dato queste persone qui, che mi incontrano in un bar e poi in un altro, mentre pizzico la zip e poi la barba, mentre bevo birre birre e birre e ascolto le storie di gente che beve birre birre e birre e racconto le mie storie di birre e birre perché non si può fare nient’altro qua, forse al massimo ogni tanto pippare o fumare qualcosa. O forse tormentarsi la cerniera.

Salvo

Guardando i loro errori e i loro tentativi di riscatto, che raramente hanno un lieto fine, viene spesso voglia di abbracciarli, anche se sono gli stessi che per strada eviteremmo o con cui non vorremmo avere niente a che fare nella vita reale. La magia della penna di Mattei è anche questa, farci vedere dall’interno la vita degli sconfitti, dei balordi, farci capire che dietro quei corpi martoriati ci sono delle persone che soffrono e che è così triste non riuscire a colmare il divario che ci divide, anche nei rari casi in cui dovremmo avere tutto per essere felici.

Corpi come oggetti, oggetti come corpi

Anche quello di Rita Bullwinkel è un esordio, pescato nel calderone infinito della narrativa nordamericana dall’occhio sempre attento della casa editrice Black Coffee (dal cui catalogo vi consiglio di recuperare anche Happy hour di Mary Miller, ne abbiamo parlato qui). Lingua nera parla di corpi già nel titolo, ma rispetto alle realtà allucinata dei racconti di Mattei qui il velo del reale viene spesso divelto del tutto, mostrandoci squarci di mondi perturbanti ma sottilmente simili al nostro.

«Che problema c’è?» domandò Frank. «Cos’hai di tanto grave?»

«Una cosa dentro» risposi.

«Sei giovanissima».

«Esiste forse un’età precisa in cui il corpo è autorizzato a iniziare a odiarti?»

«Ti sembra che il mio corpo non mi odi?»

«No, però guardati». Ero furibonda. «Il mio corpo non ne ha alcun diritto».

Pesce in bocca

Nei diciassette racconti della raccolta Bullwinkel sfora a volte apertamente nel fantastico, illustrandoci una Florida abitata da soli morti e in cui la nascita di un bambino vivo è un evento innaturale (I veri zombi di Dio), la vita quotidiana di un uomo che allontana i fantasmi dei mariti morti dalle vedove (Bruciato) o quella di un serpente che crede di essere una pera (Umani preoccupati). Uno dei principali fili conduttori fra i racconti è il legame fra corpi e oggetti, labile confine che i personaggi superano, affascinati dalle arpe tanto da volersi circondare dei loro suoni per sempre (Arpa), costretti dalla crisi a diventare reggiseni umani (Ingobbirsi), pronti a confondersi con i mobili del negozio di lusso in cui lavorano (Arredamento). Con una fantasia che a volte ricorda i futuri inquietanti dipinti con sarcasmo da George Saunders l’autrice ci racconta storie in cui gli esseri umani sono sostituibili, come pezzi di ricambio, e non ci trovano niente di strano.

Per quanto il mondo sia un posto di cui non comprendono più le dinamiche, i personaggi di Bullwinkel non sono persi dentro di esso. Non gli interessa l’opinione altrui, sanno cosa vogliono (come le ragazzine protagoniste di Le braccia sopra la testa, che si identificano con delle rose e discorrono amabilmente sul mangiare ed essere mangiate) e non hanno paura di andare incontro alle conseguenze delle loro scelte. Ne è un esempio perfetto la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, pronta a leccare un filo elettrico solo per sperimentare l’effetto che fa, sperando forse di uscirne in grado di ripartire da zero.

Mio fratello non ha mai sopportato la vista del sangue. Quando la moglie ha dato alla luce la loro bambina, è svenuto non appena l’ha visto sgorgare fuori. Con gli uomini è così, dicono, non è insolito che anche qualcosa di meno sanguinoso del parto gli dia fastidio. Sarà perché le donne sono talmente abituate a sanguinare che reagiscono meglio, sono più brave a intuire di cosa si tratta di fronte a una fuoriuscita di fluidi corporei. Non credo sia questo il punto per mio fratello. Credo solo che non pensi mai a tutto quello che potrebbe andare storto. Ci sono persone che per esempio si immaginano in continuazione come sarebbe essere decapitati, e altre no. Mio fratello fa parte di queste ultime. È molto soddisfatto delle proprie vene e del compito che svolgono per mantenere il sangue al loro interno. Non pensa mai a cosa succederebbe se un giorno esplodessero e la situazione precipitasse.

Lingua nera

Preparati al crollo di ogni certezza, capaci di reinventarsi di fronte alle tragedie (come fa la protagonista di Che cosa sarei se non fossi ciò che sono alla morte del marito), l’unica cosa che sfugge ai personaggi dei racconti di Bullwinkel è la sensazione di far parte di qualcosa. L’identificazione con gli oggetti forse riguarda proprio quello, l’entrare a far parte di una realtà fissa e immutabile, un’esperienza che a volte fa paura (in Navata un bambino teme di essere ingoiato dalla chiesa che ha amorevolmente nutrito) ma che può rappresentare anche la fine di un percorso.

La prosa dell’autrice è varia, si adegua alla storia e non teme di sperimentare soluzioni diverse. Afferma Andrés Neuman, in uno dei suoi dodecaloghi di uno scrittore di racconti, che “l’estrema libertà di un libro di racconti risiede nella possibilità di cominciare da zero ogni volta. Pretenderne l’unità, sarebbe come chiudere con un lucchetto il laboratorio”: Rita Bullwinkel ha fatto sua questa massima, consapevolmente o meno, e ogni storia della sua raccolta è una scoperta.

Uniti da un tema comune (e dallo stesso numero di racconti), ma caratterizzati da una sensibilità diversa nell’affrontarlo, Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa e Lingua nera sono due ottime raccolte che ogni amante della forma breve dovrebbe avere nella propria libreria. Se questo consiglio spassionato dovesse convincervi ad aprire il portafoglio (non sono pagato per parlarne, sappiatelo) ricordatevi di comprarli nella vostra libreria di quartiere, o alla peggio da Bookdealer: sosteniamo le piccole realtà!

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Racconto in musica 48: La fine non è la fine (La Quiete – La fine non è la fine)

Qualche mese fa ho avuto il piacere di ospitare in questa rubrica Riccardo Fumagalli, autore di ottimi racconti, appassionato di musica e a sua volta musicista. In quell’occasione profuse la sua passione per entrambe le arti sia con un racconto che con una breve presentazione della band che lo aveva ispirato, i Metz. Sono felice che l’ospite di questa settimana, al suo pari scrittore e musicista, abbia deciso di fare lo stesso, parlando brevemente di una band appartenente a un genere che in Italia è riuscito a crearsi un notevole seguito underground, frutto di una scena attiva e collaborativa: la band sono i La Quiete, la penna che sta dietro al racconto della settimana è invece quella di Stefano Tarquini.

Nato a Roma nel giugno del 1978, il rapporto di Stefano con la scrittura comincia grazie a due incontri segnanti: quello con la poesia, durante gli studi classici, e quello con la beat generation, grazie alla lettura di On the road di Jack Kerouac. Da lì è tutta un susseguirsi di scoperte: conosce Fernanda Pivano e Lawrence Ferlinghetti a Firenze prima di venire folgorato da Charles Bukowski, poi inizia a divorare Emidio Clementi, Claudio Piersanti, Ivano Ferrari, Antonio Moresco, Giuseppe Casa…e nel frattempo scrive. Un suo rapporto epistolare col poeta Maurizio Cucchi lo porta a pubblicare alcune poesie nella rubrica Specchio di Repubblica, ne presenta altre su tantissimi blog di settore e su riviste, online e non, oltre a partecipare a manifestazioni poetiche, concorsi e laboratori di scrittura creativa. Poi inizia a lavorare, mette su famiglia, fa una figlia e una nuova passione entra nella sua vita: la musica. Pubblica cinque album con i Palkosceniko al neon, band crossover con cui si esibisce in più di 300 concerti fra Italia ed Europa, collaborando nel frattempo con tantissimi gruppi della provincia romana. A tutto questo si aggiunge l’organizzazione del Pecora Nera Festival a Guidonia (fra i partecipanti nelle cinque edizioni anche vecchie conoscenze di Tremila Battute, come Juggernaut e Vintage Violence).

Amante dello sport, della montagna e della buona cucina, da un paio d’anni ha ripreso a scrivere a pieno regime. Potete leggerlo le sue poesie su Poetry Factory, L’Ottavo, Leggere poesia, Poeti del parco, Poesia ultracontemporanea e Cartoline volanti, i suoi racconti su Romanagua, Voce del verbo (occhio ai protagonisti della narrazione) e Smezziamo.

Questo è quel che Stefano stesso ci dice della band che lo ha ispirato. “I La Quiete rappresentato per l’underground italiano una vera e propria folgorazione. Un crocevia. Sfornano pochi album/split alla velocità della luce, tutti in presa diretta, low fi e suonano ovunque. Ovunque inteso come in tutto il mondo conosciuto. La loro forza è in assoluto l’ambito live, la presenza scenica, il fuoco che brucia. Portano il genere, lo screamo, all’ennesima potenza, arricchendolo con testi di una bellezza eccessiva, uno dei quali citati proprio nel racconto, che ruba al gruppo il titolo di una delle loro canzoni più belle, La fine non è la fine, appunto. Consiglio vivamente l’ascolto e la lettura dei testi!”

Nel suo racconto Stefano ci immerge nella vita di una coppia, Dolly e Sancho, nella loro quotidianità fatta di gesti semplici, errori, incomprensioni e chiarimenti, con un linguaggio fra prosa e poesia che cita apertamente la canzone dei La Quiete fino a farla diventare un vero e proprio filo conduttore. Potete trovare il racconto subito dopo il link al brano, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

La fine non è la fine, di Stefano Tarquini

La verità.

Quando ti schiaccia come un macigno che porti sulle spalle.

Che ti spinge il petto sull’asfalto rovente all’ora di pranzo.

Che ti piove addosso come un uragano.

Che ti porta via come un monsone.

Più forte di un uppercut.

Più veloce del lampo.

Dolly guarda fuori piovere i suoi pensieri.

Ha pulito i vetri del bagno il giorno prima ed è intrattabile.

Sancho pulisce i broccoletti e non gli va di parlare.

Allora canta. Sottovoce.

Cedere alle onde del destino, ora in piena, mentre il sole in cielo inciampa su se stesso

Il destino. Il loro destino.

Una cosa che li accompagna. Mentre vivono. Mentre ridono.

Mentre si lanciano le cose solo per il gusto di prenderle al volo.

Sono onde.

Mentre mangiano. Mentre fanno l’amore il pomeriggio.

Mentre litigano. Quando si mandano le foto nudi.

Sono onde.

Quando mandano le foto sbagliate.

Alle persone sbagliate.

A quelle giuste al momento sbagliato.

Ma intanto non smette di piovere e Dolly prende i biglietti per Dublino. Farà freddo. Ma si scalderanno una Guinness dopo l’altra. Pub dopo pub.

Voglio addormentarmi e non sentirti

Dire che il tempo ha avuto la meglio su tutto

Nomi senza casa, senza meta, mezzi senza fine…”

Sancho si stappa una Peroni.

E mentre cucina trova la sua quiete.

Passa la bottiglia a Dolly che gli si avvicina stringendogli le braccia al collo.

E tornano le onde…

L’odore della pioggia si mischia a quello dei broccoletti e riempie la casa.

Tutti e due hanno scritto sulla pelle che…

la fine non è la fine“.

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Ma quindi la scrittura si insegna o no? Riflessioni sui consigli di Vanni Santoni

Fra il 2017 e il 2018 ho frequentato il corso serale di una scuola di scrittura, la Belleville di Milano. Scrivevo già da un po’, racconti e qualche timido tentativo di fare qualcosa di più lungo abbandonato strada facendo, fra cui una sorta di Memento al contrario (invece di essere il protagonista ad avere un problema di memoria breve era il resto del mondo a dimenticarsi di lui ogni dieci minuti o giù di lì: non rubatemi l’idea, sia mai che ne tragga prima o poi qualcosa). Il mio intento, più che di imparare a scrivere, era di capire se lo sapevo già fare almeno decentemente: dopo poco più di un anno passato lì posso dire di non avere ancora la risposta, ma ho imparato più di quanto pensassi su cosa volevo scrivere e come scriverlo, sia dal confronto con gli insegnanti (gli scrittori Marco Balzano, Marcello Fois e la editor e agente letteraria Cristina Tizian) che da quello con gli altri corsisti. Cifra per arrivare a questa consapevolezza? Di preciso non ricordo, ma stiamo di sicuro intorno ai 1500 euro.

Possono essere ritenuti soldi ben spesi o soldi buttati nel cesso, a seconda di quale sia la vostra disponibilità pecuniaria, di quanto ritenete interessante il fatto di confrontarvi con gente che i libri li pubblica (o lavora per farli pubblicare) e di quanto per voi sia importante ottenere qualcosa di tangibile a fronte dei soldi spesi (in parole povere ottenere un aggancio per pubblicare: io sono ancora senza libri pubblicati se ve lo state chiedendo). Per chi decidesse, per una o per tutte queste ragioni, che il gioco non vale la candela posso suggerirvi un’alternativa: il libro La scrittura non si insegna di Vanni Santoni, edito da Minimum Fax. Ma come, starete dicendo, ci stai consigliando un libro per imparare a scrivere meglio che già dal titolo ammette che non è possibile insegnarci niente? Se vi può consolare sappiate che non è l’unica contraddizione in cui incapperete leggendolo, visto che Santoni da anni tiene vari corsi di scrittura.

Due regole fondamentali, semplici e dirette

Questo non è il primo “manuale di scrittura” che leggo. Sono passato attraverso On writing di Stephen King, uscendone con la consapevolezza che i rifiuti sono toccati a tutti e bisogna farci il callo, che il suo modo di fare l’editor di sé stesso è basilare ma efficace (almeno se avete già un minimo di idea su come si costruisce una trama) e che pure le letture brutte servono (almeno per rincuorarvi dopo aver letto, che ne so, Manganelli); ho attaccato poi Il mestiere di scrivere di Raymond Carver, apprendendo che è meglio scrivere di ciò che si conosce e che anche le limitazioni possono essere utili (nel suo caso di tempo, non ha mai scritto un romanzo perché fra lavoro e famiglia non riusciva a concentrarsi su trame troppo lunghe). Mi aspettavo di più? Onestamente sì, soprattutto dal libro di Carver visto che, in fondo, quello di King è per larga parte una biografia più che un vero tentativo di insegnare per bene qualcosa. Mi ha deluso anche il libro di Santoni? No, e ora vi spiego perché.

A differenza di un corso vero e proprio, dove di solito è presente la sensazione che troveranno un modo per dirti che sei bravo anche se non lo sei (hai speso una certa cifra per essere lì, hai diritto almeno a un contentino), in La scrittura non si insegna quel che l’autore vuol far capire subito è che molto probabilmente non sei ancora abbastanza bravo. I primi due capitoli, Dieta e Disciplina, sono lì per farti dubitare dei tuoi mezzi e farti capire che di strada ne hai ancora tanta da fare prima di poter dire “so scrivere bene”: il primo illustra i libri che DEVI aver letto prima di prendere una penna in mano (o di appoggiare le mani sulla tastiera), il secondo il metodo da seguire per migliorare.

Santoni non ci va giù leggero, dato che i primi due libri che classifica come imprescindibili sono Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust e Ulisse di James Joyce. Potete fidarvi o meno delle sue scelte (le motiverà in una maniera che ho trovato coerente e valida), per quel che mi riguarda io dovrei essere ancora a leggere visto che il primo non l’ho mai preso in mano, mentre il secondo mi guarda dalla libreria da più di tre anni e ancora non ho trovato il coraggio di affrontarlo (una cosa che ho in comune con Dylan Dog). Più va avanti con la lista più vi sentirete rincuorare quando cita un libro che avete letto (Infinite Jest! Meridiano di sangue!) ma soprattutto sprofondare quando ne tirerà fuori un sacco che non avete mai sfogliato e magari mai sentito nemmeno nominare: è una scrematura necessaria, perché per Santoni un lettore pigro non avrà mai una base su cui poggiare per prendere la sua strada, e la varietà di libri che propone serve a darvi un’idea piuttosto ampia di come possa essere usata la parola scritta.

Si tratta di una selezione operata attraverso l’esperienza: se non “darwinianamente”, almeno per tentativi. Il fatto è che l’aspirante scrittore deve anzitutto cambiare il proprio approccio alla lettura. Così come un neonato che viene alla luce deve prendersi un paio di schiaffi sul culo (o, in tempi moderni, una gratta sulla schiena) onde aprire i polmoni, allo stesso modo questi macroromanzi saranno i primi schiaffi sul culo dell’aspirante scrittore.

Vanni Santoni, La scrittura non si insegna

Una volta stabilita la dieta (potete farvene anche una personalizzata, ma non pensate di poter saltare troppi “pasti”) Santoni passa a insegnare la seconda regola fondamentale, tanto semplice quanto frustrante, almeno agli inizi: scrivere tutti i giorni. Sapevo, anche grazie a On writing, che King scrive tutti i giorni a parte quello del suo compleanno (o Natale, perdonatemi la poca voglia di andare a controllare), e con questo esempio in mente a fine 2019 avevo provato a fare lo stesso: penso di essere durato meno di un mese, giustificandomi con cose tipo “devo farlo quando sono ispirato” o “devo farlo quando ho già delle idee in mente” (che mi vengono di solito quando guido o mentre lavoro in fabbrica: sfruttare le limitazioni, Carver docet). Per Santoni non ci sono giustificazioni, ma consiglia di iniziare a piccole dosi: duemila o, ancora meglio, tremila battute, l’ideale per sciogliersi senza finire anzitempo frustrati…a meno che non siate di quelli che, come in un famoso aneddoto che si racconta di Joyce (chissà se vero), a fine giornata hanno scritto solo sei parole, e neanche in ordine. In questo modo arriverete in un anno a scrivere abbastanza materiale da farci due romanzi, e anche se la maggior parte di quelle pagine poi finiranno al macero avrete comunque capito che la costanza premia, avrete imparato dai vostri errori e, probabilmente, la vostra scrittura sarà migliore rispetto al primo giorno.

Suggerimenti a corollario, ovvero il “cosa dovete sapere una volta acquisiti i fondamentali”

Di cosa parliamo quando parliamo di editing…o forse no

Santoni non fa mistero di poter concludere il suo libro già al secondo capitolo, chiamando il terzo ironicamente proprio Intermezzo: questo libro potrebbe finire qui.  Risponde da solo alla domanda “ma quindi cosa fai per il resto del tempo nei tuoi corsi da venti o quaranta ore?”, parlando del lavoro sui testi che, per forza di cose, un libro non può assolvere al posto del suo autore.

Quel che può fare è segnalare invece gli errori più comuni in cui può incorrere uno scrittore alle prime armi, tenendoci a sottolineare che se cadete in alcuni dei più banali probabilmente avete letto troppo poco (e dovete quindi tornare al primo capitolo). Quali sono? I cliché innanzitutto,  rintracciabili a livello macro (vicenda e contenuti), intermedio (singole scene e personaggi) e micro (singole frasi, accostamenti di parole, ciò che concerne lo stile insomma). Degli ultimi stila un’ampia tabella, divertente fintanto che non ci trovate qualcosa che avete scritto anche voi.

A folle velocità, a intervalli regolari, acre odore, ampio salone, arcana bellezza, attesa snervante, barlume di razionalità, basso muro a secco, bestemmie irriferibili, biancore spettrale, bizzarra sensazione…

Vanni Santoni, La scrittura non si insegna

Altro errore da cui Santoni cerca di mettere in guardia l’aspirante scrittore è quello di scrivere cose noiose, illustrando alcuni principi per evitare che il vostro manoscritto sia, per usare un francesismo (mio), una palla al cazzo tremenda. I libri privi di interesse, spiega, finiscono per assomigliarsi tutti, e di solito hanno almeno uno di questi difetti (quando non tutti e tre): assenza di necessità, assenza di specificità e assenza di conflitto. Una volta capito come raccontare anche la noia senza essere noiosi potreste sentirvi già arrivati, per questo Santoni mette sulla strada dell’aspirante i temi dell’editing (da non evitare, ma allo stesso tempo da non fare troppo presto) e del confronto con gli altri. Riguardare il proprio testo, correggerlo e migliorarlo è un principio fondamentale, ma senza confronto con gli altri (non valgono amici o parenti troppo accomodanti, così come gente che non prende mai in mano un libro) non capirete mai quando il vostro libro-raccolta di racconti-silloge poetica è pronto per la…

Pubblicazione, la grande chimera

Una delle parti più interessanti di La scrittura non si insegna è sicuramente quella finale, a cui si suppone tutti vadano a dare un’occhiata prima ancora di aver finito i primi due capitoli (o dopo aver letto il terzo, dove l’autore stesso intima di non farlo col tono del tentatore professionista). Santoni, oltre che scrittore, è anche curatore della sezione di narrativa della casa editrice Tunué, e se c’è uno che può parlare a più livelli di pubblicazione dall’interno dell’industria questo è sicuramente lui.

Io mi fido di uno che ha pubblicato un libro come questo

Come arrivarci quindi? Ovviamente non ci sono formule valide in toto, ma come nell’arco di tutto il libro solo suggerimenti utili: entrare a far parte di una rivista ad esempio, per poter ottenere un confronto gratuito e cominciare a far girare i vostri testi (ma ricordate che mandarli a una rivista significa conoscerla, non inviate a caso a chicchessia perché è sminuente per chi si fa il mazzo per mandarla avanti), evitare l’editoria a pagamento, non essere ossessionati dall’idea di avere un agente e molti altri, utili per evitare errori e incoraggiare quelli a cui manca quell’ultimo passo. Anche gli aneddoti sul modo in cui sono arrivati alla pubblicazione gli autori sotto la sua ala protettrice in Tunué sono interessanti, visto che hanno avuto tutti un percorso diverso e solo uno (il primo, Dettato di Sergio Peter) è stato pescato dal mucchio degli elaborati che quotidianamente arrivano alla casa editrice (lui li legge tutti, assicura, ma evitare di mandare il proprio libro a chiunque indiscriminatamente sarebbe un altro bel gesto). Quello che ci tiene a sottolineare però Santoni è di fare i passi uno per volta, senza pensare solo al grande bersaglio. Ad esempio collaborare con una rivista potrà essere una bella vetrina, ma lo dovete fare per voi e perché ci credete, non solo per sfruttare quella visibilità: sarà un concetto romantico, ma mi trova completamente d’accordo.

L’importante è dire di sì alle riviste (e a tutto ciò che mette assieme più potenziali scrittori), e non tanto per trovare un luogo in cui allenarsi o una scorciatoia per arrivare all’editoria. L’importante è dire sì per entrare in contatto con una società letteraria. Solo così sarà possibile capire davvero cosa si vuole scrivere e arrivare a farlo nel modo che si vuole, e allora neanche ci premerà troppo di pubblicare: sarà una cosa che arriverà da sola, quando sarà il momento.

Vanni Santoni, La scrittura non si insegna

Questo breve manuale non poteva chiudersi meglio che citando le prime righe de I detective selvaggi di Roberto Bolaño. Come, non le conoscete? Tornate a leggere allora, che è uno dei testi della lista alternativa stilata nel primo capitolo! E se volete tenervi in tasca 1500 euro, desiderio più che lecito coi tempi che corrono, spendetene almeno 13 per questo libricino: non avrete Vanni Santoni in casa a correggervi i testi, ma avrete un bagaglio più ampio di suggerimenti e, minimo minimo, qualche ottimo consiglio di lettura. Io mi sono già recuperato Marguerite Yourcenar dalla sua lunga lista (ok, per l’Ulisse non sono ancora pronto), e finito questo articolo mi butto sulle mie due-tremila battute giornaliere: stavolta ho proprio intenzione di durare più di un mese.

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Racconto in musica 47: Fenditure (Devendra Banhart – Rats)

Qualche settimana fa ho scritto un articolo in cui esploravo alcune riviste letterarie, accomunate dal farsi portavoce della cosiddetta flash fiction, citando un racconto per ognuna di esse. Per presentare Sguardindiretti ne scelsi uno dal numero 22 della rivista, Double fantasy, la storia di un adolescente in preda ai primi turbamenti sessuali fra scioperi a scuola, sortite in un cinema porno e i mugolii di Yoko Ono. Sono felice che l’autore di quel racconto, Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco, abbia deciso di contribuire con un suo testo a questo blog, associandolo ad una canzone del bizzarro folk singer Devendra Banhart.

Nato a Catania il secolo scorso, Giuseppe Fabrizio Ernesto sfoggia tre nomi e, a suo dire, altrettante personalità. Firenze è la sua città di adozione, la scrittura una passione che coltiva con ottimi riscontri: oltre a Sguardindiretti, con cui collabora di frequente, suoi racconti sono apparsi su Pastrengo, Voce del verbo, Rivista Blam, Spazinclusi e Grande Kalma. Ha inoltre scritto alcuni testi saggistici e divulgativi sull’alimentazione etica per la casa editrice Infinito edizioni, fra cui Sowa Rigpa (in collaborazione con il cantautore Franco Battiato) e Il pasto gentile.

Di Devendra Banhart, come di molti altri artisti trattati in questa rubrica, è impossibile dire tutto quel che ci sarebbe da dire in un breve articolo (lo hanno fatto più approfonditamente su Ondarock, da dove ho tratto molte delle informazioni). Nato nel 1981 a Houston ma trasferitosi in seguito al divorzio dei genitori con la madre in Venezuela, Devendra cresce in un ambiente in cui “si rischiava la pelle anche soltanto a uscire di casa” ma grazie al quale impara lo spagnolo, lingua che utilizzerà molto nel corso della sua carriera. Questa comincia per caso in California, dove era approdato in seguito al secondo matrimonio della madre, ed è frutto dell’incontro a un suo concerto con Siobhán Duffy, fidanzata di Michael Gira, cantante degli Swans e fondatore dell’etichetta discografica Young God: Siobhán è colpita da quell’eccentrico folk singer, tanto da comprarne una cassetta e farla ascoltare a Michael, il quale non ci mette molto a farlo entrare nel suo roster e licenziare il suo primo album nel 2002. Oh me ho my…the way the day goes by the sun is getting dogs are dreaming lovesongs of the Christmas spirit è il lunghissimo titolo del suo esordio (se si esclude The Charles C. Leary, uscito pochi mesi prima per l’etichetta francese Hinah), in cui convivono il folk arcaico degli anni trenta e il songwriting lo-fi e sbilenco di Daniel Johnston in canzoni che Banhart stesso anni più tardi definirà come “frammenti di una seduta dallo psicanalista”. Voce vibrante e acuta, influenze hippie e un amore spassionato per la psichedelia e per la natura, Devendra Banhart ha pubblicato negli anni nove album (di cui due, Rejoicing in the hands e Niño rojo, pubblicati a pochi mesi di distanza nel 2004), collabora frequentemente con la band Vetiver, il cui leader Andy Cabic è parte integrante del gruppo che lo accompagna dal vivo (un nucleo stabile di artisti che si dà un nome diverso ogni quando gli pare, solo nel tour statunitense del 2007 si sono chiamati Spiritual boner, Brain taint, Celestial pesto, Octopus attack, The fat boys, Sorry we’re not pancakes e, infine, Sorry, we’re pancackes), ha esposto alcune sue opere pittoriche al MOMA di San Francisco (tutte le cover degli album sono sue), è apparso nel film Nick & Norah – Tutto accadde in una notte e, per gli amanti del gossip, ha avuto una relazione con Natalie Portman (apparsa nel video della sua canzone Carmensita) ed è sposato con la fotografa serba Ana Kras, a cui ha chiesto la mano la prima volta che l’ha vista. Col tempo Banhart ha perso parte della sua follia creativa, diventando più hipster che hippie, ma questo non gli ha impedito di registrare l’ultimo album Ma in quattro lingue (portoghese, giapponese, inglese e spagnolo), scelta di certo estrosa: nato dalle riflessioni sulla genitorialità, il disco affronta il discorso dal punto di vista materno, una scelta in fondo coerente per un artista che ha sempre dichiarato di ispirarsi a modelli femminili, prima fra tutte l’icona folk inglese Vashti Bunyan con cui ha collaborato fin dagli inizi della carriera.

Rats proviene dal disco del 2009 What will we be che certificò il passaggio di Banhart ad una major (la Warner, dopo che già aveva abbandonato la Young God per accasarsi alla XL Recordings per cui uscivano anche i White Stripes), ed è un brano in cui le influenze più elettriche della psichedelia sixties si palesano pienamente. Giuseppe permea il suo racconto di un’atmosfera ambigua, più perversa di quella sensuale evocata dal folk singer statunitense ma accomunata ad essa da un finale a sorpresa, in cui i topi del titolo hanno un ruolo fondamentale. Potete leggerlo subito dopo il link al brano, a me non resta che augurarvi al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Fenditure, di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco

Il collega si è cambiato il camice raggrinzito: è un segno. Lo sento incespicare sullo sgabello, nonostante conosca a memoria quello spazio: è impaziente.

«Tony, tutto bene?»

«Sì, sì» borbotta.

Mi attardo a rimettere in ordine i macchinari della terapia fisica ed ecco finalmente il suono basso e omogeneo delle ruote spinte sul linoleum, si fermano nel suo box. Sbircio dalla fenditura tra le due lastre di cartongesso che formano la parete divisoria dei nostri loculi lavorativi, da qui ho la stessa visuale del visitatore difronte alla Lezione di Anatomia del dottor Tulpl. Lei mi ricorda la Klara di Heidi, ma più vecchia e appassita. Prima i soliti convenevoli, poi la culona brasiliana con decisione la trasferisce dalla carrozzina al lettino, le toglie scarpe e pantaloni e la sistema in modo simmetrico come su un letto operatorio.

«Ci vediamo tra 45 minuti». Saluta ed esce.

Metto a fuoco e avvio. Tony deglutisce, gira le mani tozze e unte sull’addome fermo, poi dalla caviglia sinistra inizia il linfodrenaggio: lento sale sulle gambe lunghe e atoniche. L’odore dolciastro dell’unguento arriva fino a qui. Dopo 15 minuti passa al lato destro e sicuro che non ci sia nessuno dice:

«Oggi è il terzo trattamento del terzo ciclo.»

«Sì. Dammi un guanto.»

A tentoni ne afferra uno dalla scatola che cade a terra. Resta immobile e ascolta, solo silenzio. Lei indossa il guanto di polietilene. Lui, con una certa difficoltà, le toglie la mutanda assorbente. Scosta le cosce, una per volta, di pochi centimetri, giusto lo spazio per introdurre la sua mano destra unta. Faccio una zoomata sulle dita che perlustrano ardenti la vagina insensibile della vizza Klara. Con la sinistra si abbassa la cerniera e tira fuori il pene eretto, sposto il primo piano sulla mano inguantata di lei che inizia a masturbarlo, mentre guarda le doghe metalliche del controsoffitto. Spero di tirarci parecchi soldi, i video amatoriali vanno forte tra quei pervertiti.

Ma guarda come ansima il ciechino.

Metto a fuoco la nuca china sul sesso di lei, speriamo non si giri altrimenti mi tocca tagliare la scena. Annusa estasiato, mentre tutte le dita si muovono come vermi nella carne putrefatta. Lo scricchiolio del legno del lettino è una colonna sonora perfetta. C’è però qualcosa di strano, uno scalpiccio metallico arriva dal soffitto. Lei agita le braccia, pare una sirena che nuota, poi urla:

«Aiuto, aiuto ci sono i topi sul soffitto, che schifo.»

«Dove sono non li vedo» grida lui.

Cazzo no! Premo stop e vado ad aprire il soffietto. Non fingo stupore nel vederlo con l’uccello moscio fuori dalla patta e le macchie di saliva cremosa ai bordi delle labbra. Lei mi guarda a bocca aperta, non si capisce se voglia mettersi a piangere o urlare. È ancora senza mutande. Senza dire nulla gliele rimetto e la copro con un telo. Alzo gli occhi e vedo il muso di due topi, annusano l’aria e guardano indagatori: mi vergogno ed esco. Sono fuori orario.

Caring about something utterly useless, musica fra inquietudine e introspezione per i FLeUR

Se siete dei buoni lettori potreste avere presente il racconto Casa occupata di Julio Cortázar, o magari aver letto qualcosa di Shirley Jackson o Amparo Dávila. Se non l’avete fatto sappiate che sono tre esempi di letteratura capace di inquietare in maniera sottile, attraverso la creazione di un’atmosfera claustrofobica o tramite elementi esterni e anomali che arrivano silenziosamente a cambiare la vita dei protagonisti. Ascoltare Caring about something utterly useless, secondo disco dei FLeUR, mi ha lasciato sensazioni simili, quasi una colonna sonora perfetta per storie barocche in cui l’inaspettato si manifesta in maniera lenta e inesorabile.

Duo torinese composto da Enrico Dutto e Francesco Lurgo (quest’ultimo ormai milanese d’adozione), i FLeUR arrivano a questo disco dopo un percorso che li ha portati a esordire con l’Ep Supernova, urgent star sette anni fa ed è proseguito con il primo album, The space between, tappa che li ha portati alla Bosco Rec. che licenzia anche il loro ultimo parto creativo. Tutti i brani di Caring about something utterly useless sono sospesi fra due anime, suoni elettronici da una parte e chitarre e tastiere dall’altra, una coesione tutt’altro che forzata che porta a creare quell’atmosfera di cui parlavo in precedenza. Ce ne si accorge già con The lowest tide (for Matteo G.), traccia che apre il disco e primo singolo estratto (il cui video è stato girato da Lurgo, film maker oltre che musicista), in cui un giro di chitarra malinconico, affiancato dai fiati, viene inesorabilmente soppresso col passare dei minuti da sonorità sempre più sintetiche e distorte: come se i Goodspeed You! Black Emperor si incontrassero/scontrassero coi Sunn O))).

“La musica è in effetti inutile, quando non ha voci umane alle quali aggrapparsi, eppure ci teniamo tanto, alla musica, perché ci aiuta a raccontare quello che non è raccontabile”. Questa frase, espressa dagli stessi FLeUR, fa capire molto di ciò che si trova all’interno del disco. Nessuna voce innanzitutto, con l’unica concessione di alcuni inserti in secondo piano nella conclusiva The highest tide, e l’impressione continua di trovarsi di fronte a un mondo che non si può raccontare ma solo esperire. Musica come quella dei FLeUR si valuta attraverso le sensazioni che provoca e le atmosfere che tesse, come l’inquietudine barocca che emerge dal piano di Unnatural Grace, un tappeto sonoro su cui lottano per portarci in un altrove percussioni riverberate e inserti elettronici divisi fra l’oscuro e l’angelico. For Pierre Brasseau (alter ego di uno scimpanzé spacciato per artista francese da un giornalista svedese nel 1964) usa invece toni industrial per catapultarci in un incubo distopico, lasciando spazio a rade note di piano solo per lenirci le ferite, in attesa di un ritorno ineluttabile dell’oscurità che prende la forma di un finale ascendente ma tronco, proprio come quei racconti in cui non serve aggiungere parole per capire che le cose andranno male.

Caring about something utterly useless è un disco crepuscolare, coi suoni che si agitano come ombre al limitare del proprio spazio visivo, portatore della nostalgia per un mondo che non abbiamo conosciuto ma di cui abbiamo percepito qualcosa proprio attraverso le note: ascoltando My battery it’s low and it’s getting dark, testo dell’ultimo messaggio inviato dal rover della NASA su Marte prima di spegnersi, non si può evitare di pensare ad un requiem in cui la musica fa proprie nel miglior modo possibile le parole del titolo. Sembra di sentire qualche eco di Vangelis in alcuni punti, soprattutto nel duo conclusivo composto da The Philadeplhia experiment (for Gwydion) e The highest tide, e come un cerchio perfetto il disco si chiude sulle stesse note con cui era iniziato, intrise di speranza più che di malinconia grazie ad un tappeto sonoro leggiadro.

Prodotto da Emilio Pozzolini dei port-royal, autore anche dell’alt mix del secondo singolo Narcissus scream (for Sarah K.), Caring about something utterly useless è un album complesso sotto la sua scorza quasi minimalista. Al loro secondo disco i FLeUR sono già riusciti a creare un proprio suono riconoscibile, forse non adatto a tutti ma di cui nessuno può negare il valore: come l’ottima letteratura, che per quanto ostica o addirittura ostile possa essere riesce comunque a trasmettere qualcosa. Buon viaggio.

 

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