Giovedì ho avuto il piacere e l’onore di essere ospite della rassegna organizzata dall* amic* di Read And Play ai Bagni Elsa N°3, dove ho approfondito il tema di questo articolo e parlato di musica indipendente, calcio e, incidentalmente, di comunismo, anarchia e antitatcherismo. Non so dire esattamente quale sia stata la resa dall’esterno, d’altronde come dicevano i Butthole Surfers “You never know just how to look through other people’ eyes”, ma quegli accenni a temi un minimo politicizzati hanno convinto una signora che parlava solo inglese (e che pertanto non so cos’abbia capito di tutto il reading) a venirmi a parlare una volta finito il tutto, instaurando una conversazione stentata (il mio inglese fa schifo) che è finita su manifesti anarchici, salute mentale e legge Basaglia. Quanto è fantastico nella sua bizzarria il mondo?
E pure la locandina fatta da Alessandro Baronciani!
Ma sta premessa ha un senso o serve solo a permettermi di tirarmela perché sono stato in spiaggia tra Fano e Pesaro a parlare alle genti e mi hanno pure offerto da bere? Il senso c’è, ed è relativo al fatto che la band di cui parliamo questa settimana è uno di quei gruppi belli politicizzati come piacciono a noi: diamo il benvenuto perciò agli AJJ.
A permettermi di parlarne è ancora una volta Simona Lazzaro. Ve la ricordate? È stata ospite di Tremila Battute giusto un mesetto e mezzo fa, ma da allora ha fatto in tempo a uscire il suo racconto per la rivista Gargolla e abbiamo rintracciato anche una sua microfinzione uscita su Coven Riunito. Se non vi basta questo potete seguirla anche su Lasettimanatv, dove parla di serie televisive, o su NanoTv, dove collabora al salotto letterario.
AJJ quindi, acronimo di coloro che una volta si facevano chiamare Andrew Jackson Jihad. La band si forma come trio nel 2004 a Phoenix, ma quando un anno dopo registra il primo album il trio, causa sparizione del batterista, è già diventato un duo: Candy cigarettes, capguns, issue problems! and such esce così per l’etichetta Audioconfusion Manifesto (label improvvisata dietro cui si cela lo studio di registrazione Audioconfusion di Jalipaz Nelson, che rimarrà collaboratore di lunga data della band) registrato dai soli Sean Bonnette (voce e chitarra acustica) e Ben Gallaty (contrabbasso, basso e cori), l’ossatura che rimarrà sempre stabile degli AJJ. I primi lavori del duo sono prettamente acustici con brani raramente sopra i due minuti, anti-folk dall’estetica punk che permea anche il secondo disco People who can eat people are the luckiest people in the world (2007), album che oltre ad avere uno dei migliori titoli nella storia della musica li porta anche sotto il cappello della Asian Man Records, sotto cui rimarranno a lungo. È la stessa etichetta a pubblicare, dopo una scappatella con la Plan-it X Records per registrare l’Ep Only God can judge me, il terzo album Can’t mantain (2009), dove le cose a livello musicale iniziano a cambiare: il lato punk prende spazio, appaiono altri strumenti (al disco collaboreranno una quindicina di musicisti) e il suono si fa più vario e sfaccettato. Ciò che non cambia sono i testi, incentrati su temi sociali, politici, religiosi ed esistenziali, spesso concisi e ironici ma capaci di cogliere comunque il punto.
Gli AJJ parlano molto di odio, di gente sbandata e incapace di trovare una direzione, non indorano la pillola e fanno vedere entrambi i lati della medaglia, perché se la rivalsa è possibile non sempre questa avviene. Forse il miglior modo di illustrare la loro poetica, più che proseguire il banale elenco dei dischi, è il trittico composto da People, People II: the reckoning (ironicamente contenuta nello stesso disco di People, ma la precede nella tracklist) e People II 2: still peoplin’, in cui affrontano la meraviglia di avere a che fare con le persone nonostante i loro difetti, l’odio che ti fanno salire le persone che hai attorno per finire con un campionario di umanità sconfitta, persone che non vogliono sentirsi dire che è tutto nella loro testa perché i problemi possono essere personali ma le soluzioni devono essere collettive, perché come recita il testo “We’re all two or three bad decisions away from becoming the ones that we fear and pity”. La musica degli AJJ è auto-aiuto brutale mascherato con una musica trascinante e vitale, ti illustra quanto la vita fa schifo mentre ti insegna a riprenderne il controllo (“‘Cause I think you deserve much more/ than a smoke and fifty cents/ you deserve to be self-sufficient/ and buy your own cigarettes” recitano in Zombie by The Cranberries by Andrew Jackson Jihad, dimostrando anche quanto sono il miglior gruppo del mondo quando si tratta di trovare un titolo a un disco o ad una canzone). La loro coerenza non può avere miglior marchio della decisione, nel 2016, di adottare l’acronimo con cui li trovate citati, smettendo di usare Andrew Jackson Jihad come nome non volendo più fungere da “living reminder” dell’ex Presidente USA Andrew Jackson (definito “un’interessante figura storica ma una persona odiosa per il quale è scemata la fascinazione”) e in quanto il termine jihad usato da loro, non musulmani, sarebbe irrispettoso e irresponsabile. La carriera degli AJJ prosegue ancora oggi, in una formazione che dall’album Knife man del 2011 vede in pianta stabile Preston Bryant (chitarra elettrica, tastiere e cori) e Mark Glick (violoncello e chitarra baritona), e di album e tour (nel 2012 girarono gli States con i Future Of The Left, che qui a Tremila Battute conosciamo bene) da allora ne sono passati parecchi: l’ottavo, Disposable everyting, è uscito a maggio di quest’anno per Hopeless Records (curiosamente la label che hanno appena lasciato le Destroy Boys, di cui abbiamo parlato da pochissimo), e anche se nel frattempo la velocità è calata e i suoni si fanno fatti un poco più morbidi la carica dissacrante polemica della loro musica continua a rimanere intatta.
Body terror song è la terza traccia dell’album del 2020 Good luck everybody, e pur partendo da una riflessione sul suo stesso corpo di Bonnette riesce ad assumere una valenza universale: l’ha colta bene Simona che tratteggia una storia di anoressia a cui bastano poche immagini e nessun semplice stereotipo per risultare potente, dimostrando ancora una volta di saper usare chirurgicamente le parole. Potete leggere il suo testo subito dopo il link al brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Scarica il numero Zero della fanzine di Tremila Battute a questo link!
Hai fame?, di Simona Lazzaro
Mattino
Sale sulla bilancia.
Il colore del suo corpo nudo è violento, una ferita nel candore del bagno. Le curve alla fine si sono arrese, come ogni volta, e hanno ceduto il passo agli spigoli. Le ossa disegnano sulla pelle una linea sporgente e lei ci passa e ripassa le dita.
–
Pomeriggio
J. sorride e le offre una fetta di pizza. L’odore le fa girare la testa. Sorride anche lei, non ne ho voglia, gli dice, e questa non è proprio una bugia. La fame è una voragine, un tormento che erode la carne – ma lei non vuole riempirla. Deglutisce a fatica. Rinunciare è una delizia.
J. apre la bocca – un’altra ferita – ma poi la richiude in fretta. Le lancia uno sguardo ed esce dall’aula.
–
Sera
Già quella sera lei non sa che farsene di quel ricordo, di quegli occhi e della sua bocca suturata. La pietà non si mangia, non riscalda e non riempie. Solo la fame sazia la fame.
Sale sulla bilancia.
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Ok, non ci faccio una grande figura a paragonare questo blog a uno dei programmi che ha avuto il più drastico calo di qualità degli ultimi anni, però quando ho proposto ad Antonio Vangone (che su queste pagine è apparso più e piùvolte) e Alfonso Lentini di rispondere ad alcune domande relative ai loro libri usciti per pièdimosca edizioni, la prima cosa a cui ho pensato è stata “facciamo un’intervista doppia come Le Iene!”. Questo significa che Tremila Battute sta andando incontro allo sfacelo? Dovrei alzare l’asticella del mio livello culturale invece di guardare Temptation island al lunedì? Solo il tempo darà tutte le risposte, intanto approfondiamo un po’ il contesto.
Attribuzioni di Vangone e Noi siamo i lupopesci di Lentini sono il terzo e quarto volume pubblicati, il 21 aprile, all’interno di glossa, la collana a margine “dirottata” da Carlo Sperduti. I più affezionati fra di voi ricorderanno questa intervista a Sperduti, in cui presentava brevemente quel grande spazio virtuale che risponde al nome di multiperso: da lì a contattare pièdimosca per pubblicare un’antologia delle migliori microfinzioni del blog il passo è stato breve, come quello successivo che ha portato alla creazione di una collana specializzata nelle narrazioni brevissime, i cui primi volumi (l’antologia stessa e Statue linee di Marco Giovenale) sono usciti a novembre 2022. Da affezionato frequentatore del multiperso già sapevo che anche Vangone e Lentini ne erano a loro volta invischiati, la prima domanda mi è sorta quindi spontanea.
Come sei entratto in contatto con il multiperso?
V: “Ho conosciuto il multiperso per caso. Sono anni che scrivo sulle riviste letterarie indipendenti, è così che ho cominciato. Il panorama che vanno a costituire è tanto stimolante quanto instabile: riviste e blog aprono e chiudono in continuazione e non è facile tenere traccia delle loro iniziative. Io ci provo, però, e se ricordo bene è frugando tra i suggerimenti di una rivista su cui avevo pubblicato in passato che ho trovato il multiperso. L’idea alla base del progetto e i riferimenti letterari proposti da Carlo Sperduti mi hanno molto entusiasmato e il riscontro ai miei testi è stato altrettanto positivo; ne è nata quindi una collaborazione vivacissima.”
L: “Semplice: tutto inizia dal mio rapporto con Carlo Sperduti, che seguo da anni avendo letto e apprezzato moltissimo alcuni suoi libri. Con lui per un certo periodo ho mantenuto un rapporto occasionale, ma quando sono venuto a conoscenza del multiperso e del progetto sulla scrittura breve ad esso collegato, non ho esitato a inviargli alcune mie microfinzioni. Quello della scrittura breve e frammentaria è infatti un percorso che sento come congeniale e che pratico da tempo. Alcuni miei libri precedenti (in particolare “Tre lune in attesa” del 2018) sono raccolte di testi brevi o brevissimi e in generale la mia ricerca espressiva ruota attorno alla brevità da intendere però non necessariamente in senso strettamente quantitativo, ma come rifiuto della narrazione organica e compiuta a vantaggio della frammentarietà. Cosi quando Carlo ha deciso di progettare per pièdimosca la collana glossa, l’unica in Italia interamente dedicata alla scrittura breve, mi è sembrato naturale proporgli un mio inedito.”
La comunità che si è creata attorno a multiperso e, come naturale evoluzione, intorno a glossa è variegata per età, esperienze e, soprattutto, stile. Quello che non cambia è lo spazio entro cui convogliare la propria fantasia: massimo 2500 battute per microfinzione, un numero ridotto di caratteri che però è diventato uno stimolo per scrittori e scrittrici e, ovviamente, anche per Vangone e Lentini.
Qual è il tuo rapporto con la microfinzione?
V: “La amo molto. Condensando in poco spazio intere realtà si lascia modo a chi legge la possibilità di riempire i vuoti come meglio crede. Trovo che quest’ambiguità sia un grande atto di fiducia verso il lettore, che di fiducia e ambiguità vive, o almeno dovrebbe. La brevità della microfinzione permette poi cambiamenti repentini di genere, umore, punto di vista; altro aspetto per me cruciale è che in testi di poche righe si possono sperimentare meccanismi linguistici che a lungo andare diverrebbero insostenibili. Insomma, ci si diverte.”
L: “Ti rispondo partendo dal fatto che la mia formazione risale agli anni settanta, quando vivevo a Palermo e – giovanissimo – sono entrato in contatto con un’area di autori che faceva capo alla neoavanguardia e a Gaetano Testa (scrittore che aveva partecipato al Gruppo 63 ed aveva già pubblicato con Feltrinelli). In quest’area si praticava con spirito anarchico un tipo di scrittura aperta, spiazzante, volutamente disorganica e spesso i testi che uscivano in riviste come Fasis o Per Approssimazione (che poi diventò un casa editrice molto trasgressiva) erano frammenti molto brevi. Uno dei miei primi libri, L’arrivo dello spirito (pubblicato nel 1991 insieme a Carola Susani), uscì con questa casa editrice ed era in sostanza una raccolta di microracconti piuttosto spiazzanti. Anche dopo il mio trasferimento a Belluno ho mantenuto un rapporto con quel tipo di sperimentazione e in particolare sono rimasto legato a uno di quegli autori palermitani, Francesco Gambaro. Più recentemente, poco prima di morire, Gambaro aveva dato vita al quotidiano di scrittura online Il Cucchiaio nell’Orecchio che in un certo senso è un’ideale derivazione di quella nostra ormai lontana esperienza. Ancora oggi Il Cucchiaio nell’Orecchio continua a uscire, diretto da Gaetano Altopiano, ed è diventato un importante punto di riferimento per molti autori che, pur diversi fra loro, sono accomunati da un’idea di scrittura non riconducibile ai canoni tradizionali. Il Cucchiaio, insieme al multiperso, rappresenta per me una specie di palestra che mi mantiene in allenamento. E non è un caso che Noi siamo i lupopesci sia dedicato proprio a Francesco Gambaro, amico di sempre e compagno di tante avventure culturali: senza la sua affettuosa complicità e senza i suoi decisivi incoraggiamenti, davvero, ‘senza di lui non scriverei così’.”
C’è un adagio già ripetuto svariate volte su queste pagine: le raccolte di racconti non vendono. Pare che il mercato stia mutando, e probabilmente anche collane come glossa stanno aiutando a “diffondere il verbo”, ma per ovviare a questa profezia autoavverante sempre più spesso vediamo raccolte che hanno un filo conduttore (spesso scelto a posteriori) o i cosiddetti “romanzi di racconti”. Non che ci sia per forza qualcosa di sbagliato in queste scelte (di un romanzo di racconti abbiamo parlato giusto poche settimane fa), ma sembra quasi che il mercato editoriale più che i lettori stessi siano spaventati dall’anarchia che incarna una raccolta in cui l’unico legame fra le storie sia la voce di chi li ha scritti. Attribuzioni e Noi siamo i lupopesci sovvertono a loro modo questo diktat non scritto: Vangone riunisce le sue microfinzioni in tre sezioni, i cui titoli sono però cancellati per, usando le sue stesse parole, lasciare “a chi legge la libertà di scegliere cosa unisce o separa le finzioni qui raccolte”; Lentini invece è apparentemente più diligente, ordina le proprie microfinzioni in quattro sezioni di cui le prime tre mantengono una bizzarra unità di significato (Scale presenta una famiglia ossessionata dall’idea di salire, scalare, scalire, scalere; Del dormire viene definita “un’appassionata requisitoria contro i fanatici esaltatori della veglia”; Nani di mente si focalizza su una comunità affetta, causa sostituzione di una consonante, da una condizione che riduce la sanità mentale al nanismo), per poi lasciare briglia sciolta alla fantasia nell’ultima sezione, Il viaggio sulla luna, un viaggio che però si svolgerà… all’incontrario.
Cosa pensi della necessità di trovare un filo conduttore in una raccolta di racconti?
V: “Per me non è una necessità, ma una delle possibilità a disposizione. Impernare una raccolta su un’idea dichiarata esplicitamente non toglie e non aggiunge nulla al discorso, di suo. Certo è più facile catturare l’attenzione del pubblico se gli si garantisce un argomento a cui è già interessato, ma credo che un’organizzazione mentale venga comunque a formarsi naturalmente, sia in chi scrive sia in chi andrà poi a leggere, e che immergersi nell’opera senza riferimenti precisi possa rivelarsi molto interessante. È un processo che ho tentato di esplorare in Attribuzioni.”
Se il diciannove giugno dello scorso anno avessi risposto al tuo messaggio e continuato la conversazione in modo arguto, presto o tardi saremmo andati a bere un caffè e avremmo fatto una passeggiata sul lungomare, ma senza farla diventare un’abitudine. C’è sempre troppa gente, lì.
Ti avrei presentato i miei amici più simpatici e se fossimo andati davvero d’accordo anche quelli un po’ meno simpatici, ma mai quelli a cui ormai vogliamo bene solo per tradizione. Siamo cambiati.
Universo parallelo in cui io e G. diventiamo amici, Attribuzioni
L: “Non vedo una necessità particolare. Questo libro è come un mazzo di carte intercambiabili che volendo si può leggere senza rispettare l’ordine delle pagine, perché ogni testo ha una sua autonomia. Se vi si vuole cercare un filo conduttore, questo non può che essere il lavoro sulla lingua, la ricerca, che del resto è la base costitutiva di qualsiasi libro. Tuttavia, per rendere più fruibile la lettura, ho cercato di creare quattro sezioni con una loro omogeneità tematica. Questa omogeneità in particolare mi sembra più evidente nella prima sezione (‘Scale’) e nella terza (‘Nani di mente’). Vi è poi un gioco di simmetrie rovesciate che collega l’inizio e la fine del libro. I personaggi di ‘Scale’, cercano nei modi più bizzarri di dirigersi verso l’alto, mentre il microracconto che chiude il libro parla di un viaggio sulla luna che però si svolge dall’alto verso il basso (perché la luna, contrariamente alle apparenze, non è in cielo, ma si nasconde nel centro della terra). Dunque si comincia con un movimento verso l’alto e si finisce con il movimento opposto, verso il basso.”
La particolarità dei libri di Vangone e Lentini si desume anche dai titoli scelti. Attribuzioni e Noi siamo i lupopesci appaiono inizialmente solo bizzarri (soprattutto nel caso di Lentini visto che, escluso il racconto iniziale, di lupopesci non c’è traccia nel libro), ma tramite gli autori stessi è possibile carpire gli inside joke che hanno portato a questa decisione.
In che modo hai scelto il titolo del tuo libro?
V: “Nella raccolta è presente un testo intitolato ‘Il racconto che mi è stato attribuito postumo’, che è stato uno spunto importante. L’atto di dare significato a un evento, di riferire un qualcosa a un qualcuno è ricorrente nel libro e ne costituisce anche l’ossatura: Attribuzioni è infatti diviso in tre sezioni i cui titoli sono però stati cancellati; chi legge è quindi libero di inventare i propri e comunicarmeli tramite un QR code che rimanda al mio sito internet, determinando così il libro secondo una lettura personale. Cercavo un titolo che non direzionasse troppo i lettori, ma trasmettesse comunque la mia visione dell’opera.”
L: “‘Lupopesci’ è una parola inventata che però proprio per la sua stranezza spero possa attrarre i lettori più curiosi e disponibili verso la scrittura non convenzionale. Il microracconto a cui si riferisce il titolo è quello che apre il volume: parla di certi esseri immaginari che di notte guizzano in un lago ed essendo in qualche modo consapevoli della loro ‘non esistenza’, si rivolgono al lettore chiedendogli di ‘percepirli’ con la sua fantasia e in tal modo farli esistere ‘anche solo per qualche minuto’. È una storiella apparentemente leggera (e forse divertente) che però, se letta con attenzione, può ricordare il pensiero filosofico di Berkeley e il suo ‘esse est percipi’ (cioè ‘esistiamo se siamo percepiti’). Ottimo spunto per introdurre un libro che invita il lettore a interagire attivamente con le pagine attraverso un suo personale sforzo di fantasia.
Mi sveglio in un altro letto. Sono al dodicesimo piano di un condominio in via delle Mille Libertà. Un sole nuovissimo sta per sorgere su questa città che non ho mai abitato. Ho dormito per trecentonovantotto anni, mi dicono. Come avranno fatto a contarli, tutti questi anni, uno per uno mentre io dormivo? Chi vegliava al mio capezzale e contava gli anni? Però è sicuro: questo non è il letto dove mi ero coricato. Questa non è la mia città. Questa non è la mia voce.
La mia voce, Noi siamo i lupopesci
Certo, le interviste de Le Iene prevedono che l* intervistat* rispondano alle stesse domande, ma perché non prendersi delle libertà rispetto al formato? D’altronde le differenze fra Attribuzioni e Noi siamo i lupopesci sono maggiori dei punti di contatto, per cui ho deciso di approfondire alcuni elementi singolarmente: fate finta che lo schermo non sia più diviso in due, ammesso che riusciste veramente a vedere lo schermo diviso in due nel qual caso bravi, avete molta fantasia o siete vicini a smarrire la vostra nanità mentale.
Antonio, in alcuni tuoi racconti sembra riflettersi una passione per la mitologia: cosa puoi dirci al riguardo?
V: “La mitologia mi appassiona moltissimo: i miti esprimono la percezione del mondo condivisa da una civiltà. Trovo affascinante come i nostri avi arrivassero a interpretazioni della realtà tanto distanti dalle nostre, pur condividendo con noi la stessa realtà anatomica e obbedendo alle stesse leggi fisiche. L’essere umano tende per natura a cercare significati nelle cose, e penso sia importante non dimenticare che i risultati a cui arriviamo tanto faticosamente sono solo alcuni tra gli infiniti possibili: questo vale anche e soprattutto per la letteratura.”
Il deserto di Lubanikkara è un invito al vuoto. Un invito che non andrebbe accettato. Ma c’è chi lo fa.
Perdersi tra le sabbie significa essere ospiti e prigionieri dei dervisci di pietra, la cui pelle è grigia e dura come arenaria.
Chiederete: cosa porta ad amarli?
Hanno voci profonde e occhi gentili. Mangiano poco e bevono molto tè; i loro ampi abiti bianchi profumano di menta. Sono goffi in ogni movimento, finché non producono musica. Allora pregano danzando magnificamente, e nel danzare inseguono in eterno l’annullamento di un sé già più sottile di un filo di lino.
Chiederete: cosa spinge a odiarli?
Usi e preghiere dei dervisci di pietra del deserto di Lubanikkara, Attribuzioni
Alfonso, in alcuni tuoi racconti, particolarmente nelle sezioni Scale e Del dormire, ci sono suggestioni che rimandano al mondo delle fiabe. Sei influenzato da questo tipo di immaginario?
L: “Il fiabesco mi rimanda alla Sicilia di quando ero bambino, a quando mia zia Giuseppina, detta Pepé, tenendomi sulle ginocchia mi leggeva ad alta voce le fiabe di Capuana, che ancora oggi amo moltissimo perché è da quelle lontane letture che ho imparato a immaginare dimensioni alternative. Nella mia scrittura però cerco di utilizzare il fiabesco negandolo come genere letterario in sé e immettendolo in un diverso contesto narrativo, di apparente normalità, in modo da accentuare l’effetto di straniamento. Se sei dentro a una fiaba non è strano che a un certo punto compaia un orco, ma se un orco compare in un racconto ambientato in un grattacielo di Londra, beh, allora l’effetto è ben diverso. Ed è questo effetto di radicale spiazzamento che distingue la letteratura fantastica da altri generi meno ‘turbativi’, come ad esempio il fantasy.”
Un’orda zampettante di topini viene fuori dai cassetti riversandosi sul pavimento. Sono i piccoli pensieri di mia cugina che fuoriescono a frotte e chiedono udienza. Ma il primo topino che riesce a fuggire dalla stanza si lancia sulle scale in cerca di respiro e subito tutti gli altri lo seguono. La stanza si svuota e mia cugina resta sola, tristissima. Immobile sulla sua sedia, si guarda tutt’intorno sperando che un topino ritardatario sia rimasto nascosto da qualche parte, ma niente, sono fuggiti tutti, topi e pensieri; su per le scale, verso il solaio, in cerca di respiro.
E lei, tristissima, sola, senza pensieri né respiro.
Mia cugina, Noi siamo i lupopesci
Uno dei racconti più originali della tua raccolta è sicuramente La guerra dei polpi, in cui ogni verbo dà l’impressione di non essere lì per caso. Ti sei immaginato ogni scena per progettarlo?
V: “Certo, ho costruito una vicenda e l’ho filtrata tramite un’intelligenza disumana, ovvero quella del polpo: per farlo ho voluto ridurre il linguaggio a una serie di verbi all’infinito. Il risultato è di conseguenza molto ambiguo e spaesante, tanto che di rado due lettori immaginano la vicenda allo stesso modo; non nascondo di essere molto felice della cosa. In un testo come questo trovo che il punto di arrivo sia la sensazione evocata nel lettore, che ho curato imprimendo al testo diverse velocità, più che lo svolgimento di una trama riconoscibile.”
Alfonso, in che maniera sono nati i Nani di mente e come ti è venuto in mente di raccontarne le vicende?
L: “I Nani di mente sono una popolazione che vive in una dimensione limitata (una specie di Flatlandia, tanto per dare un’idea). Il loro nanismo però non è legato all’altezza (Nani di mente ce ne sono di tutte le misure, anzi: la loro dimensione è il tempo), ma sta nel loro modo di essere. Differenti dai ‘sani di mente’ solo grazie a uno scambio di consonante, sono perigliosamente simili ai cosiddetti normali: ad esempio, sono assoggettati a un misterioso ‘regista’ e, se devono votare, votano il ‘partito del ventilatore’, se devono trasgredire lo fanno in modo infantile e confuso, e soprattutto ‘credono solo in quello che vedono’. Perciò se mi chiedi come sono nati i Nani di mente, ti rispondo che sono nati semplicemente guardandomi attorno. I Nani di mente sono dappertutto, forse anche dentro ciascuno di noi.”
L’altezza dei nani di mente non è misurabile. Si dice che ce ne siano di tutte le dimensioni, in effetti. Sembra che alcuni superino i due metri, e sono bestioni enormi come orsi. Altri, al contrario, sono smilzi e bassi che sembrano pinguini. Ci sono donne di coscia slanciata che neppure una svedese e altre con la spina dorsale di un gattino. Tuttavia i nani di mente non sono misurabili. Non li puoi misurare perché sgusciano, non stanno mai fermi, perciò è quasi impossibile acchiapparne uno e metterlo accanto a un metro.
L’altezza dei nani di mente, Noi siamo i lupopesci
Attribuzioni e Noi siamo i lupopesci sono stracolmi di invenzioni (come avrete notato leggendo gli estratti sparsi qua e là), dalle vicende spesso ironiche della famiglia di scalatori e dei Nani di mente orchestrate da Lentini agli elenchi sotto cui Vangone nasconde storie che sanno di vita vera, con le sue nostalgie e i suoi drammi. A tutt* voi consiglio di leggerle tutte (magari acquistandole qui), ma un’intervista non è completa se non si chiede agli intervistati i piani per il futuro: dividete di nuovo lo schermo con la fantasia o la follia, vi saluto lasciandovi all’ultima domanda.
Quali sono i tuoi prossimi progetti editoriali?
V: “L’anno prossimo uscirà un mio libro per déclic (casa editrice fondata da Carlo Sperduti che esordirà nel 2024). Più in generale progetto di scrivere cose di ogni tipo: videogiochi, fumetti, giochi di ruolo. Mi interessa molto esplorare le possibilità offerte dai diversi mezzi narrativi.”
L: “Dato che non scrivo per mestiere né per diventare ricco, posso permettermi di pubblicare solo quando si presentano situazioni adatte al mio genere di scrittura (come nel caso di glossa dove sono approdato, per così dire, ‘spontaneamente’). Avrei a portata di mano diversi inediti che continuo a ritoccare (qualcuno anche da molti anni), ma non ho fretta. I miei libri hanno una gestazione imprevedibile. Germogliano secondo il loro capriccio. Scrivere per me è un bisogno, un misto di piacere e sofferenza, dunque l’attività che mi coinvolge di più è quella compositiva, che del resto alterno da sempre alla pratica espressiva nel campo delle arti visive. Scrivere o realizzare opere visuali è per me una forma del respiro. Pubblicare o non pubblicare è un passaggio successivo che mi interessa meno. Tanto più oggi che la pubblicazione di un libro cartaceo ha ormai perso la ‘sacralità’ di cui un tempo godeva. Il libro tradizionale non è più il principale mezzo di trasmissione della comunicazione culturale, di conseguenza il concetto stesso di ‘progetto editoriale’ sta mutando forma. Vedo che in certi casi un racconto pubblicato in un blog può raggiungere molti più lettori potenziali di un libro cartaceo, specialmente se di difficile reperibilità. Ma, naturalmente, pubblicare un libro per me è sempre una grande, bellissima emozione che spero di poter ripetere appena si creeranno le condizioni giuste!”
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Ogni luogo di lavoro ha le sue problematiche: nel mio, ad esempio, qualche anno fa eravamo piuttosto in crisi e ci siamo ritrovati con tre stipendi arretrati. Col tempo le cose si sono messe a posto, grazie anche all’intervento dei sindacati, ma proprio questo intervento non è andato giù alla dirigenza che ha operato alcune ripicche tipo il vietare la musica all’interno del capannone in cui lavoriamo. Niente radio, niente lettore mp3 (ai tempi del diktat andavano ancora di moda), niente qualunque cosa vi venga in mente per ascoltare musica. Questo divieto è durato anni, ma finalmente da pochi mesi siamo riusciti a ottenere nuovamente la possibilità di ascoltare quel che vogliamo, vietati solo gli auricolari per ragioni di sicurezza: e così, finalmente, posso farmi una bella cultura sui tormentoni estivi.
UO-O-O-O-OOO!
Possiamo giustificare in mille modi l’improvvisa caduta di neuroni che sembra colpire chiunque cerchi di creare una hit estiva. Possiamo dire che lo scopo di quelle canzoni è intrattenere, non far pensare, perché d’estate bisogna divertirsi; possiamo tirar fuori la regola per cui per fare le cose semplici ci vuole molto più talento che per fare le cose difficili; possiamo dire “prova te a far cantare la tua canzone a milioni di italiani”. Fatte queste premesse, però, ogni stagione estiva porta con sé canzoni che dovrebbero far vergognare le orecchie di chi le ha create, e questo anche ammettendo che il ritmo della canzone di Mark & Kremont (quella in cui cantano Marracash e Tananai, per intenderci) è coinvolgente, che il duetto fra Marco Mengoni ed Elodie è stato arrangiato con una mole di impegno anni luce superiore a qualsiasi altra hit del periodo (e dà la merda alle rispettive canzoni sanremesi), che Max Gazzé non sarà quello di Vento d’estate ma fa la sua porca figura anche in un featuring piuttosto tamarro. Ascolti strofe come “tu sai di ginger beer, non di Ginger Rogers” o “mi parte il basso dei Righeira se vado incontro agli occhi tuoi” e ti accorgi che no, non ce la si può fare neanche quest’anno, che non dovrebbe essere ammissibile passare in continuazione il delitto perfetto rappresentato da Disco paradise di Fedez, Articolo 31 e Annalisa, una canzone che sarà pure un capolavoro di paraculaggine ma rappresenta tutto ciò che la musica non dovrebbe essere: il minimo sforzo possibile per trovare la melodia più orecchiabile, e possibilmente anche un po’ retrò che adesso va (ancora) di moda la nostalgia per gli anni 80.
L’immediatezza è dunque un delitto? Muoiano i tormentoni e facciamo tornare il progressive rock? Non per forza, basterebbe solo fare le cose con un approccio artistico e non solo economico. Si può essere semplici E anche elaborati, basta pensare alla musica come a un mezzo per veicolare un messaggio non per forza immediato in maniera sufficientemente mediata: più facile a dirsi che a farsi ma, guarda un po’, sembra proprio ciò che hanno tentato di fare le Trust The Mask col loro primo disco Idiom, uscito il 16 giugno per Bronson Recordings.
Duo electro-pop formato dalla compositrice Elisa Dal Bianco e dalla vocalist Vittoria Cavedon, le Trust The Mask cercano nei dodici brani del loro disco d’esordio una formula alchemica di difficile realizzazione: non quella per piacere a tutti a scapito della qualità, bensì quella che coniuga sperimentazione e immediatezza. La voce di Cavedon è sicuramente il grimaldello migliore per ottenere facile accesso alle orecchie del maggior numero di ascoltatori possibile, la porta della semplicità: melodiosa e ammaliante, raramente si avventura in terreni divisivi ed è l’elemento pop catalizzatore. Detto così può sembrare sminuente, invece è essenziale per l’architettura musicale impostata dal duo, perché va ad ammorbidire con fantasia e capacità un comparto tecnico meno docile di quanto sembri, indottrinando l’ascoltatore fingendo di distrarlo: una finzione nella finzione, portata avanti senza che lo stratagemma appaia disonesto.
Il tappeto sonoro che Dal Bianco dipana dopotutto è di prim’ordine. Pop senza essere banale, sperimentale senza sforare nel cerebrale, la musica delle Trust The Mask non lesina elementi caratteristici anche in brani ammiccanti come Otaku, ballabile e retrò ma infarcita di un’esotismo sotterraneo (merito di Giuseppe Dal Bianco, che nel disco utilizza strumenti tipici di paesi come Armenia, Indonesia e Paesi Baschi). La mia lacunosa cultura elettronica non mi concede molti punti di riferimento, ma se dovessi azzardare un paragone citerei i Röyksopp come una delle influenze principali: ritmo non eccessivamente sostenuto, atmosfere vagamente malinconiche, suoni che spaziano fra le epoche senza fissarsi su un decennio in particolare. Va ammesso che gli anni 80 hanno la loro influenza anche su Dal Bianco, ma se i The Kolors hanno Moroder nell’anima giusto perché non sapevano cosa dire in quel punto della loro hit estiva i synth di Idiom riescono ad andare oltre, ad esempio in una Loaded gun dove sono filtrati attraverso la tradizione dei figli sporchi di quel decennio come Trent Reznor.
Le Trust The Mask alternano con sapienza le atmosfere, lasciano spazio all’allegria scacciapensieri con Will you come? per poi sprofondare l’ascoltatore nello spigoloso scenario distopico di Frontiers, fra voci modificate elettronicamente e suoni che, come in una megalopoli futuristica, mischiano freddi ritmi sintetici a pulsioni esotiche. Anche il lato più pop della loro musica non è mai ancorato a un solo schema, si permette la libertà di associare lunghe digressioni a ritornelli contagiosi come nell’iniziale Juniper e assume poi la forma di una lenta ascesa scarnamente basata sul duetto synth-voce nell’intensa Unsaid, mentre il fronte sperimentale esce in pieno soprattutto nell’ipnotica It’s a matter of fact e nel liquido affastellarsi di glitch di Murder flashback, forse l’unica vera concessione a un approccio da musica dance “intelligente”, in cui la band esplora nuove forme espressive o chissà, forse solo il modo di rendere quei suoni digeribili ma non comodamente masticabili in un prossimo futuro.
Una ciambella riuscita col buco quindi? Non del tutto, ma per trovare difetti ci si deve concentrare sulle sottigliezze, come le chiusure un po’ frettolose di brani come Frontiers e Our fault (ma quanto è deliziosamente ingannevole l’allarme che suona in sottofondo in quest’ultima, talmente amalgamato nel flusso sonoro da farmi credere che provenisse dall’esterno?): il passo ulteriore forse sarà soddisfare il corpo tanto quanto la mente, aumentando i bpm mantenendo comunque la stessa presa magnetica sull’ascoltatore. E a chi giustifica le hit estive decerebrate con la motivazione che non è mica facile far cantare milioni di italiani chiedo: e se passassimo in radio in heavy rotation Otaku invece dei Pinguini Tattici Nucleari? Perché non facciamo a cambio?
Eh sì, un uomo può almeno sognare.
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L’estate è arrivata ufficialmente e la produttività di questo blog sta cominciando a scemare. Fa caldo, si sta in giro, le energie sono quelle che sono e ogni articolo non scritto alimenta (oltre alla nostra voglia di non fare un cazzo) la battaglia contro la necessità di essere sempre produttivi e all’altezza delle aspettative. Non è per questi motivi però se l’introduzione a questo articolo è più breve del solito, ma semplicemente perché lo avevamo annunciato meno di un mese fa che avremmo parlato di una band che mi aveva colpito allo Slam Dunk Festival: sono le Destroy Boys, e arrivano dritte dritte dalla California.
È nella regione più punk degli Stati Uniti che Alexia Roditis e Violet Mayugba iniziano a fare musica nel 2015, con le idee non ancora così chiare né sul genere (partono come duo acustico) né sul cosa suonare: Roditis avrebbe dovuto suonare la batteria, Magyuba suonare la chitarra e cantare, ma il primo Ep Mom jeans (di cui non sono riuscito a trovare traccia da nessuna parte, né sul loro profilo Bandcamp né sul loro sito ufficiale) lo registrano con la prima alla voce e la seconda alla chitarra acustica. Come nelle migliori tradizioni di band che si formano alla cazzo di cane e poi ti ritrovi a girare il mondo il batterista lo trovano in maniera rocambolesca e casuale: la madre di Eric Knight si è stufata di pagargli le lezioni di batteria per vederlo suonare da solo e lo spinge a trovare una band, pena il taglio dei fondi, lui contatta Magyuba (che in tutto questo è figlia di musicisti, visto che la madre cantava nella band Skirts e il padre suonava la chitarra nei Phallucy, noti più che altro per aver avuto come batterista un membro dei Deftones, Abe Cunningham) e lei gli invia Mom jeans, che lo colpisce abbastanza da decidere di entrare nella band.
Il primo parto creativo del trio arriva nel 2016: Grimester è un Ep grezzo e pieno di energia, punk rock senza troppi fronzoli animato dalla voce a tratti isterica di Roditis, ma sono già presenti elementi che lasciano intuire sviluppi diversi in Goldilocks spot, il brano più morbido e strutturato dell’Ep. Le Destroy Boys nel frattempo vanno incontro a una notevole girandola di componenti, soprattutto al basso dove fra il 2017 e il 2021 si alternano Enzo Malaspina, Blake Eithel, Falyn Walsh e infine David Orozco (chissà se ha qualche legame di parentela con questo Orozco): più semplice il passaggio che porta Narsai Malik dietro le pelli una volta che Knight decide di lasciare la band, visto che eredita il posto nel 2018 da Chris Malaspina (fratello del bassista Enzo). In mezzo a questo tourbillon di componenti le Destroy Boys riescono a registrare ben due dischi, Sorry, mom nel 2016 e Make room nel 2018. Se il primo recupera dal precedente Ep il suono e un paio di brani, il secondo rappresenta una prima evoluzione: più rifinito, più consapevole, più vario come influenze e come arrangiamenti, merito anche dell’aggiunta di Roditis alla seconda chitarra. Le Destroy Boys suonano parecchio, vengono nominate anche per alcuni premi nella zona di Sacramento e attirano l’attenzione della Hopeless Records, che nel 2021 pubblica il loro terzo disco, Open mouth, open heart: senza abbandonare l’energia degli esordi, ben esemplificata dal fulmineo singolo di un minuto scarso Muzzle, le Destroy Boys smussano ancora di più gli angoli e aprono a qualche commistione col pop, dosandolo sapientemente in modo che non faccia storcere il naso (e per quel che mi riguarda l’operazione può dirsi riuscita). Il 2023 porta in dote il singolo tiratissimo Beg for the torture, in cui qualche influenza elettronica li avvicina a quella bomba atomica che sono stati i Mindless Self Indulgence: non so se l’intero album di là da venire manterrà queste premesse, intanto la riedizione dei vecchi dischi da parte di un’istituzione del punk rock statunitense come la Epitaph sembra aprire ad un futuro ancora più roseo per una band partita dal classico garage e da una scritta su una lavagna, quel “destroy boys” scritto per frustrazione da Mayugba dopo una serie di storie finite male e diventato simbolo di successo.
Cherry Garcia è la quinta traccia di Open mouth, open heart, un brano in cui si sposano alla perfezione l’anima più diretta e quella più pop della band. La canzone racconta di una storia d’amore complicata dall’indecisione, la presenza di un altro lui che scompagina le carte e finisce per rovinare tutto: ho cercato di rendere la difficoltà di trovare la felicità in una relazione attraverso una struttura a librogame (se avete presente ciò di cui parlo probabilmente avete passato i quaranta), limitando le “scelte” per ovvie ragioni di spazio ma lasciando intatta la scintilla iniziale che porta Roditis a cantare “my head splits in two”. Procuratevi due dadi e divertitevi col racconto, a me non resta che augurarvi buon ascolto buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
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Bivi
Conosci una persona. Cominciate a uscire, vi piacete, iniziate a fare coppia fissa. Andate a convivere, conoscete i rispettivi genitori. Pensate di avere dei figli: se sarà una lei la chiamerete come una tua zia morta giovane, se sarà un lui come il suo cantante preferito. Le cose procedono bene, ma a una festa conosci un’altra persona. Affascinante, dotta, tutto quello che pensi di volere in quel momento. Tempo dopo finite in una stanza insieme, senza nessun altro.
Se tradisci vai al paragrafo 7.
Se non tradisci vai al paragrafo 3.
Vorresti dire che non è cambiato niente, ma quando guardi la persona con cui vivi pensi all’altra. A quello che hai perso. Non parlate più di figli, la vita si trascina ma restate insieme, per noia o per paura di restare soli.
Vai al paragrafo 12.
Nessuno fa il primo passo, torni a casa e tutto è come prima. Ma ci ripensi. La persona con cui vivi sembra non notare niente. Lancia due dadi.
Se il risultato è da 2 a 6 vai al paragrafo 2.
Se il risultato è da 7 a 12 vai al paragrafo 11.
Dov’è finita quell’elettricità? Mille cose che ti infastidiscono, non vedi l’ora di uscire di casa. Fai tardi a lavoro per non vedere chi ti ha rovinato la vita, e tu odi il tuo lavoro. Perché hai mandato tutto a puttane?
Vai al paragrafo 12.
Il senso di colpa scema: è stata un’avventura, un errore o forse no. Continui ad amare la persona che hai accanto e a vivere con lei. Ogni tanto ripensi a quella sera, ma senza rimpianti o rimorsi.
Vai al paragrafo 12.
Pianti, dolore, urla: andarsene non è così semplice, ma era doveroso. L’altra persona ti accoglie in casa sua, ora avrai tempo di conoscerla veramente. Lancia due dadi.
Se il risultato è da 2 a 6 vai al paragrafo 4.
Se il risultato è da 7 a 12 vai al paragrafo 8.
Tutto è come avevi fantasticato, anche meglio. Mentre rientri senti ancora l’elettricità attorno ai vostri corpi, ma a casa la persona con cui convivi è sveglia. Senti di essere a un bivio.
Se resti vai al paragrafo 10.
Se lasci tutto vai al paragrafo 6.
Per un po’ ti senti in colpa, ma la vita è fatta anche di sofferenza. Con la nuova persona vi intendete a meraviglia, auguri il meglio a chi hai lasciato. Forse un giorno vi sentirete, ridendo dei vostri piani per il futuro.
Vai al paragrafo 12.
Il senso di colpa ti lacera, non riesci più a guardare negli occhi la persona con cui vivi. E la cosa più brutta è che non sai se hai fatto bene a rimanere qui. Pensi ogni giorno di confessare, ma non lo fai.
Vai al paragrafo 12.
Lancia due dadi.
Se il risultato è da 2 a 6 vai al paragrafo 5.
Se il risultato è da 7 a 12 vai al paragrafo 9.
Ripensi a quella sera, ma presto razionalizzi: era solo la voglia di avventura, di evadere dalla quotidianità. Continui la tua vita amando chi hai accanto, a volte di più, a volte di meno.
Vai al paragrafo 12.
La vita è fatta di scelte: sta a noi accettarne o meno le conseguenze, senza moralismi. Ma se pensi che basti un lancio di dadi a darti un finale migliore, ricomincia pure dal paragrafo 1.
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Non so se lo ricordate (dipende probabilmente dall’età che avete) ma qualche anno fa era esplosa la moda dei Secret Concert. Per quel che ricordo in Italia la lanciarono i Marta Sui Tubi, che ci fecero un’intero tour passando di casa in casa da nord a sud (io li vidi a Garbagnate Milanese, e vi agevolo un contributo di quella serata), poi la cosa si estese a macchia d’olio e iniziarono ad organizzarne privati e associazioni. Fu proprio in quel periodo che entrai in contatto, anche se per altri motivi (toh, un concorso letterario che associava racconti a canzoni: dove l’ho già sentita questa cosa?), con l’associazione Asap – As Simple As Passion, tramite la quale trasformai varie volte il salotto di casa mia in una sala concerti. Purtroppo le mode vanno e vengono, l’attenzione del pubblico finisce per scemare e a Milano non ho lo spazio in casa per smontare la sala e stiparla in camera da letto (e ci staremmo anche in meno, altro che i trenta pressati a vedere MusicaPerBambini), ma nel 2014 ricordo che eravamo una delle CINQUE realtà che organizzavano concerti casalinghi et similia a NOVARA, città dove per la pelle del culo esiste un circolo Arci (ma, per dare a Cesare quel che è di Cesare, organizzano importanti festval Jazz e Gospel). Proprio a uno degli eventi della “concorrenza” (sì, c’era della competizione, e non sempre sana) riuscii a fare due chiacchiere con una band che seguivo già da tempo, una di quelle cose divertenti che non faccio da un sacco di tempo (ma in questo caso mai dire mai): si trattava dei MasCara, e oggi sono loro la resident band.
Se c’è una cosa che va riconosciuta a Lucantonio Fusaro (voce e chitarra), Claudio Piperissa (chitarra), Marco Piscitello (basso), Nicholas Negri (batteria) e Simone Scardoni (piano, synth e violoncello) è di essere riusciti a partire da un genere ed averlo rinnovato e innovato sempre più. Quel genere è la new wave, non esattamente nativa di Vergiate nel varesotto diciamo, ma è qui che dal 2007 la band inizia a sperimentare e ibridare le proprie influenze. Ci mettono un paio d’anni per arrivare all’esordio, e il loro primo Ep autoprodotto L’amore e la filosofia li fotografa già come una realtà consapevole dei propri mezzi: saranno gli arrangiamenti ariosi di brani come l’iniziale Il gesto di Ettore, sarà la voce di Fusaro che si impone all’ascoltatore con personalità ed ecletticità, sarà quel che sarà ma i primi sei brani dei MasCara mi capitano in mano chissà in quale maniera e io me li gusto con piacere, anche se capisco fin da subito che il bello può e deve ancora venire. Che il potenziale ci sia lo riconosce anche l’etichetta Eclectic Circus (guarda un po’, la stessa dei primi dischi dei Marta Sui Tubi!), che li mette sotto contratto e produce nel 2012 Tutti usciamo di casa, il primo di una serie di concept album: in questo caso i testi di Fusaro si concentrano sulla crescita, l’emancipazione che ognuno di noi deve affrontare, alternando la morbidezza di brani come I gironi di Urano contro alla corsa a perdifiato di La stanza, dimostrando di aver aumentato le frecce nella propria panoplia musicale e di sapere dove scagliarle, aiutati anche dal lavoro di Matteo Cantaluppi che, dopo aver lavorato con loro al primo Ep e al primo disco, rimane al loro fianco anche quando, per divergenze artistiche, la band torna all’autoproduzione.
La consapevolezza di una band la si riconosce dalle strade che decide di percorrere anche se il buonsenso (o l’opportunismo) direbbero tutto il contrario: con distribuzione Universal in atto e un’etichetta che spinge per valorizzare i lati pop del loro sound i MasCara decidono di fare da sé (come spiegano, fra le altre cose, nell’intervista di cui parlavo in alto), perché col disco nuovo l’intenzione è di andare da un’altra parte. Lupi (2014) lo dimostra bene, perché il suono della band acquisisce nuove sfumature, si fa più aggressivo ma senza sacrificare la fantasia degli arrangiamenti: è un piccolo miracolo di concretezza e fantasia, capace di creare anche un nuovo immaginario che si apre all’ibridazione fra umanità e tecnologia, un futuro in cui andremo a pregare in Cattedrali al neon. I MasCara vanno per la loro strada, sperimentano sia col sonoro che con l’immagine (i loro video sono tutti dei piccoli gioielli) e non si fanno problemi di tempo se devono ottenere quello che vogliono ottenere: ecco perché ci vogliono ben sei anni per rivederli alla ribalta, un percorso che li porta ancora più nel futuro ad esplorare quel discorso di ibridazione cominciato con Lupi. Questo è un uomo, questo è un palazzo è il risultato, esce nel settembre 2020 per RcWaves e, lo ammetto, sulle prime mi ha lasciato spiazzato: la posta in gioco si alza ancora, i brani sono meno immediati e ci ho messo parecchi ascolti per digerirlo, capirlo e rendermi conto che sì, anche in questo caso i MasCara hanno fatto la scelta giusta. Basterebbe il modo in cui nell’iniziale Scorpioni una voce modificata e la tastiera avanzano placide per poi lasciare spazio a una rincorsa guidata dal sax e conclusa dalla batteria ed un coro di voci ad affascinare, ma per entrare in questo mondo fatto di Carne e pixel bisogna lasciarsi andare, lasciarsi avvolgere dall’armonia rotta dalle urla di Fusaro nel ritornello di 22+1, vibrare al ritmo della batteria spezzettata di Heavy soul, entrare nelle atmosfere vagamente R&B di Domino. Inutile dire quanto era difficile fare musica nel 2020 e oltre, quanto sia stato difficile portarla in giro: i MasCara non li vedo da un bel po’ di tempo su un palco (in compenso li ho scoperti come produttori del disco dei mitici Lo Stadio Animale, che vorrei costringervi fisicamente ad andare a cercare), ma spero di recuperare presto.
Il racconto di questa settimana non è inedito, ma è uscito anzi sulla rivista Cedro.Mag: quando ho ascoltato Glitch, sesta traccia di Questo è un uomo, questo è un palazzo, non ho però potuto non fare un parallelo con la storia che avevo creato, ispirato in particolare dalla frase “il nostro amore è soltanto una serie di errori, una sorta di glitch”. Qual è l’Errore di sistema alla base della storia ve lo lascio scoprire da soli, a me non resta che augurarvi buona ascolto e buona lettura.
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Errore di sistema
La prima volta che incontrai l’amore non lo riconobbi. Guidavo a velocità folle un’auto rubata, inseguito dalla polizia, quando sentii una sorta di paralisi, una sensazione mai provata prima. Nemmeno mi resi conto di averla vista, pochi istanti e tutto finì: una macchina mi tagliò la strada, mi schiantai contro un muro e fu tutto buio.
Quando la incontrai la seconda volta seppi subito che era lei. Mi trovavo in una via affollata del centro, circondato dalle urla e da persone che fuggivano, e mentre alzavo la pistola per rispondere al fuoco degli assalitori mi immobilizzai col braccio alzato. Anche lei stava fuggendo, col suo casco di ricci biondi perfettamente in ordine anche nel terrore: provai vergogna per quello che stavo facendo, per la mia vita basata su istinti moralmente deprecabili, e il proiettile che mi trapassò il cranio lo accolsi come una giusta punizione.
Provai a incontrarla di nuovo, esplorando la città palmo a palmo, ansioso di trovarla. Come mi ero sentito spinto da una forza superiore a commettere ogni sorta di crimine adesso era l’amore a muovermi, ma con esso arrivò la delusione. Quando la trovai non mi riconobbe, né io riuscii a parlarle: mi si bloccarono le parole in gola. Rimasi a fissarla mentre proseguiva il cammino, con le stelle in cielo che facevano risplendere il suo tailleur bianco.
Non so quante volte tornai a cercarla. La vidi all’osservatorio in cima alla collina, sulla camminata che circondava la spiaggia, la incontrai di notte e di giorno e una sola volta al tramonto, in un bar affacciato sull’oceano, col sole calante che si divertiva a creare ombre sulla sua pelle abbronzata. Provai una frustrazione sempre più grande, maggiore di quella che mi coglieva quando una rapina perfettamente architettata andava a rotoli proprio all’ultimo momento. Io, l’uomo da cui dipendevano i destini di tutti gli abitanti della città, paralizzato dagli occhi blu di una donna.
Non fece mai cenno di notarmi, persa nelle sue inutili azioni quotidiane, e alla fine mi stancai di lei. Tornai alla mia vecchia vita, insensibile al dolore altrui, col cuore di nuovo immune da sentimentalismi inutili. Come ogni altra ferita si rimarginano anche quelle d’amore: quando la incontro per la strada passo oltre, non cerco nemmeno la vendetta.
Mi convinco che non è stato niente di nuovo, niente di diverso da quando mi bloccai, in seguito, di fronte a una berlina blu, alla casa del mio trafficante d’armi, alla barca con cui avrei dovuto assaltare quella nave al largo. È stato un test, solo più piacevole, perché è meglio perdere il controllo di fronte a una bella donna piuttosto che davanti a una mitragliatrice. Ma la ripetizione alla fine ti rende insensibile a ogni cosa, e in fondo il controllo, nella mia vita, io non l’ho mai avuto.
Presto sarò completo. Farò tutto ciò che devo, senza tentennamenti. La contemplazione non è nella mia natura, sono stato creato per l’azione: il nostro amore era solo un errore di programmazione, ed ora è stato sistemato.
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Nella vita il tempismo è una qualità utile. A volte essere il primo a dare una notizia può essere la discriminante per farsi notare (sempre che tu non faccia come quelli che, per informare tempestivamente della morte di Nelson Mandela, scrissero “Morto Mandela, leader dell’apartheid”), spesso lo è se parli in anteprima di qualcosa. A Tremila Battute siamo lenti e disinteressati a queste questioni, per cui parliamo di cose che ci interessano quando ormai ne hanno parlato anche i pesci, o di cose che non interessano a nessuno quando… Va be’, se non interessano a nessuno il tempismo è l’ultima cosa di cui preoccuparsi. Una volta però ci è andata di culo: siamo stati i primi a pubblicare un racconto di Mattia Grigolo.
Io quasi non me ne ero reso conto, poi me lo ha ricordato lui ad una presentazione di La raggia, il suo esordio letterario uscito circa un anno fa per la benemerita Pidgin. Se parlo di culo è perché in realtà Grigolo era già in parola per pubblicare racconti con altre Riviste con la R maiuscola, e se questa aspirante rivista (con la r minuscola) è arrivata per prima è solo perché ci ho messo poco a capire che quella storia fatta di pochi dettagli messi al posto giusto (che potete leggere qua) meritava la pubblicazione. Di racconti poi non ha certo smesso di scriverne, suscitando l’attenzione di più di una casa editrice: così, a un anno di distanza dall’esordio, è Terrarossa Edizioni a pubblicare il suo secondo libro, Temevo dicessi l’amore.
Se La raggia era una novella (basata a sua volta su questo racconto uscito su Split, che Stefano Pirone ha avuto l’intuizione di far espandere) Temevo dicessi l’amore si inscrive nel florido panorama dei cosiddetti “romanzi di racconti”. Tutto ruota intorno a Ofelia, ragazza misteriosa che nell’arco delle pagine ritroveremo donna, anziana e bambina, in un flusso di storie cronologicamente sparso di cui, ad aumentare lo spaesamento, non è ben specificato nemmeno il periodo. Siamo in un generico presente, come dimostrano alcuni punti di riferimento quali due audiocassette di Dalla e De Gregori che emergono dai ricordi d’infanzia di uno dei protagonisti, ma Grigolo non sente la necessità di evidenziare nulla (anzi, una semplice citazione di Adventure Time confonde ancora di più le acque): lui è della scuola che preferisce lasciar parlare i fatti, e l’essenzialità della prosa traspare da ogni riga.
Una sera eravamo in un bar, c’era anche l’amica di Ofelia che avrebbe dovuto ospitarci mesi prima. Un ragazzo ci aveva raggiunto al tavolo. Reggeva una pinta di birra nella sinistra e con l’indice della destra indicava il mio parka avvolto allo schienale della sedia. Avevo sfilato l’imbottitura esterna per renderlo meno pesante.
Aveva detto qualcosa e io non avevo capito. Aveva ripetuto e Ofelia, sottovoce, mi aveva spiegato che l’accento era di Liverpool. Nessuno dei tre aveva compreso una sola parola.
Il tipo aveva atteso una nostra reazione, poi aveva appoggiato la sua birra di fianco alla mia e si era inginocchiato. Aveva un falco tatuato sul bicipite e gli occhi lucidi, forse per via dell’alcool. Le ali nascoste dalla manica arrotolata della camicia a quadri.
Aveva afferrato un lembo della mia giacca e così era rimasto, a guardarla e basta.
Ofelia aveva detto: «Forse dovresti darglielo». E io le avevo risposto che non volevo dare via il mio parka.
Il ragazzo, con il polpastrello, seguiva il perimetro della macchia di sangue rappreso.
Ofelia si era alzata e gli aveva appoggiato una mano sulla spalla. Lui non si era mosso, ancora accovacciato di fianco alla mia sedia. Eravamo quasi abbracciati.
Si era messo a piangere. Le lacrime scendevano tanto lente che avrei voluto spingergliele fuori.
E allora ci eravamo abbracciati davvero e qualcosa era sparito intorno a noi: la nostra amica, il resto della gente. Persino il bar. Restavamo solo io, lui e Ofelia. Il ragazzo aveva appoggiato la testa al mio braccio e bagnato il parka singhiozzando, per un po’ la macchia di sangue si era confusa con il suo dolore. Eravamo rimasti così, avvinghiati e maldestri.
Ofelia aveva preso la chitarra e, delicatamente, aveva cominciato a cantare la sua canzone.
Regent’s Canal
Se c’è un libro con cui mi viene più facile spendere un paragone, questo è Sofia si veste sempre di nero di Paolo Cognetti. Al pari della raccolta pubblicata nel 2012 da Minimum Fax anche qui il personaggio principale funge da raccordo, lo strumento attraverso cui riusciamo ad indagare più i sentimenti di chi le ruota attorno che quelli di lei stessa, una figura sfuggente di cui abbiamo raramente la possibilità di indagare i segreti. Ofelia è una calamita, tutte le persone che entrano nella sua orbita faticano a staccarsene, dall’amica Chiara, innamorata non ricambiata, alla sorella Marie, legata da un rapporto simbiotico come i pappagallini inseparabili. Proprio gli animali assumono grande importanza nelle storie, a volte simbolici come i cavalli dei caroselli che un’Ofelia quarantenne costruisce per lavoro, più spesso reali, come i fenicotteri che nel rapporto con l’energica Adamare assumono un’aura misteriosa che non viene sciolta.
Fra tutti i racconti pubblicati su riviste da Grigolo quello che preferisco è probabilmente Dei gabbiani stanno morendo, pubblicato sul numero 36 di ‘Tina. In quella storia ci sono molte delle caratteristiche che rendono Temevo dicessi l’amore così affascinante: dialoghi asciutti, personaggi realistici, qualche elemento soprannaturale e, soprattutto, una tensione sotterranea che rimane costante. Mischiando sapientemente questi elementi i quattordici racconti, o capitoli se li si vuol considerare così, riescono a creare un’atmosfera misteriosa che rende il risultato globale maggiore della somma delle sue parti, perché se è difficile tirare le fila tra presenze fantasmatiche, segreti che rimangono tali e rapporti che risultano enigmatici anche a chi li vive, è innegabile che di ottenere risposte chiare si riesce ben presto a fare a meno.
«Perché i cavalli?» Chiede Maddalena.
«La domanda giusta credo sia: “Perché i cavalli da carosello?»
«Ok.»
«Guardali. Sono sempre al galoppo ma in realtà sono immobili, non vanno da nessuna parte, non possono. Gli si crea l’illusione di correre facendoli girare intorno a una pedana, cavalcati da bambini. Girano all’infinito senza mai muoversi. Non ho mai visto niente di più rassegnato e inconsapevole.»
«Sono come te?»
«No, io posso andare dove voglio. Loro no.»
Maddalena si avvicina di un passo. Si spostano delle ombre e con le ombre gli equilibri.
«Loro sono delle cose, Ofelia. Cose che non decidono.»
«Noi decidiamo? Possiamo davvero farlo? Allora questi cavalli sono meglio di me, perché non riescono a sbagliare.»
Ecco qualcosa di riduttivo
Recentemente è uscito un libro dello scrittore e docente Gianluigi Simonetti che si intitola Caccia allo Strega, in cui l’autore analizza i libri candidati al famoso (o famigerato) premio negli ultimi venti anni per desumerne l’identikit del “libro da Strega”. Una delle caratteristiche, come ho appreso da questa puntata del podcast Comodino, è la scrittura paratattica, frasi brevi e poco complesse che risultano più digeribili per il lettore, una scelta stilistica che spesso è dettata da motivi commerciali e di “posizionamento strategico”. Anche Grigolo è un paratattico (pure Hemingway, come ci tengono giustamente a precisare le autrici del podcast), ma Temevo dicessi l’amore è tutto tranne che un libro furbo o semplice: anzi, è nel suo apparente disinteresse a farsi comprendere appieno che risiede molto del suo fascino, perché quando si ha qualcosa da dire e si sa come dirlo non servono formule, basta la sincerità dell’autore che emerge da ogni parola.
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Normalmente i concerti a cui vado costano poco. Sono dell’idea che un concerto a San Siro possa essere sicuramente un’esperienza (o meglio, sarebbe un’esperienza se suonasse qualcuno di decente e non i Pinguini Tattici Nucleari, ma sicuramente qualcuno di decente c’è), ma con ottanta euro (se va bene) posso farmi quattro live di band che si incula meno gente in buone location, otto live di artist* che si incula ancora meno gente o addirittura sedici live gratis in cui devo pagare solo il costo della birra (qui è già più dura coi tempi che corrono). Non si tratta di taccagneria, è che diventa pure difficile trovare chi riempie San Siro senza essersi fatto venire il culo molle con gli anni, aggiungeteci che io ho i miei gusti del cazzo (per la massa) e fortunatamente (o sfortunatamente) chi adoro musicalmente al massimo può suonare nel parcheggio dello stadio. Però.
Però negli ultimi dieci giorni sono andato a ben DUE concerti che costavano mediamente più di quanto penso sia legittimo spendere, che certo c’è da pagare la coreografia ma a me basta la gente che suda con un telo nero dietro e vaffanculo. Ieri, ad esempio, ho visto Tenacious D in un Carroponte di Sesto San Giovanni mai così stracolmo di gente, e devo ammettere che la coreografia aveva il suo perché, così come le invenzioni di Jack Black e Kyle Gass (quando è entrato IL METAL sono morto); venerdì scorso invece, ero a Bellaria allo Slam Dunk Festival a godermi un sacco di gruppi come Rancid, Anti-Flag, Less Than Jake etc. etc., e tutto quel punk mi ha fatto venire voglia di parlare, come non faccio troppo spesso, appunto di punk. La mia compagna mi ha fatto notare come il festival fosse in maniera preponderante una sagra della salsiccia, problema annoso in generi considerati “estremi” (la cosa più estrema che ho visto era un padre nel pogo con il bambino sulle spalle: col mio equilibrio, sulle mie spalle quel bambino sarebbe già in ospedale), e conscio che anche qui su Tremila Battute c’è una netta disparità di genere riguardo ai sessi dell* artist* di cui parlo vado a presentarvi una band che, pur non essendo totalmente al femminile (allo Slam Dunk ne ho vista esibirsi una che probabilmente apparirà su queste pagine fra non molto), è perlomeno paritaria nella sua composizione: The Bobby Lees.
Le The Bobby Lees non le ho conosciute da molto (forse devo pure ringraziare Spotify per questo), ma ci hanno messo poco a tirarmi dentro nel loro mondo fatto di distorsioni, alcool e sudiciume. D’altronde non è da molto che sono attiv*, dal 2017 per la precisione, quando in quel di Woodstock (che non ho idea se sia QUELLA Woodstock, ma la contea è la stessa, quella di New York, per cui probabile sia la stessa anche la città) Sam Quartin (voce e chitarra), Kendall Wind (basso), Macky Bowman (batteria) e Nick Casa (chitarra e cori) uniscono le forze per tirare fuori qualcosa che unisca il blues del lontano sud degli States, il punk più cupo e viscerale e pure un po’ di sano garage rock. Il primo parto creativo arriva già a febbraio del 2018, Beauty pageant, in cui è presente anche la canzone che dà il nome alla band e che certifica la principale fonte d’ispirazione per i testi: Bobby Lee parla di un fantasma che va a trovare Quartin durante una notte di bagordi, e proprio gli eccessi e gli episodi di schizofrenia indotta dall’alcool della frontman fanno da sfondo a molte delle storie narrate nelle loro canzoni. Beauty pageant è un’ottima introduzione al sound delle The Bobby Lees, lascia la sensazione di trovarsi in qualche oscuro locale perso fra le paludi col peggior alcool a disposizione, la band che si esibisce con una rete protettiva per non prendersi addosso le bottiglie lanciate dal pubblico e, magari, pure il diavolo che ti aspetta al primo incrocio a disposizione come da tradizione blues da Robert Johnson in avanti.
Sopravvissuta a quella simpatica disavventura che consiste nel vedersi fottere gli strumenti durante il tour (succede a Tulsa, in Oklahoma, ma loro riescono a suonare grazie al prestito degli strumenti da parte delle band locali: quanto è bello il mondo del punk?), evento che presumo gli abbia portato non pochi scazzi, la band a furia di live adrenalinici attrae l’attenzione di un certo Jon Spencer e della Alive Naturalsound Records: il primo produce il nuovo disco, la seconda lo distribuisce, ed ecco che nel luglio 2020 è già pronto Skin Suit. Il punk prende più spazio, virato in una sorta di punkabilly che mantiene ancora molto di quell’aria sudicia da periferia disagiata, e non periferia intesa come quartieri alle porte delle metropoli ma periferia intesa come buco del culo del mondo, posti dove bere per dimenticare di vivere lì è quasi l’unica possibilità che hai: The Bobby Lees quel disagio lo veicolano con ogni nota, nella storia di abbandoni trainata da un basso distortissimo di Guttermilk, nella descrizione di figure tanto affascinanti quanto inquietanti come la Mary Jo dell’omonima canzone, persino nell’allegria sempre e comunque veicolata dall’alcool di Drive. L’evoluzione del loro sound non si ferma qui, e serve un cambio di etichetta a portarlo a ulteriore maturazione: dopo un tour di supporto agli Helmet la Ipecac Recordings di sua maestà Mike Patton li mette sotto contratto, fa uscire a giugno 2022 l’Ep Hollywood junkyard e a ottobre dello stesso anno il terzo disco in meno di un quinquennio, Bellevue.
Bellevue è la concretizzazione della frase “più veloce più violento” che sentivo ai concerti degli Skruigners, accelera ancora rispetto ai dischi precedenti e riesce a essere dirompente anche quando si prende qualche pausa, come nell’ipnotica Strange days. L’album è la fotografia di una band coesa, energica, in forma smagliante e decisa a non farsi prendere da quella sindrome del culo molle che ti porta a suonare a San Siro: infatti lì non li vedrete, almeno per ora, e nemmeno in Italia in generale, ma se volete fare una capatina in Francia fra giugno e luglio ci sono due o tre posti che vi consiglierei di visitare, che potete trovare elencati direttamente sul loro profilo Bandcamp.
Hollywood junkyard è la canzone che dà il titolo all’omonimo Ep, nonché la seconda traccia di Bellevue, ed è una di quelle canzoni che non ha bisogno di accelerare per far arrivare tutta la sua potenza. Nelle sue strofe si specchia il classico sogno americano all’incontrario, la gloria e la fama che sfuggono di mano e lasciano spazio solo alla miseria, un tema che probabilmente Quartin (che, come Wind, è anche attrice, e di suo posso consigliarvi per passare una serata strana da cui uscirete dicendo “ma questo film mi è piaciuto?” Let me make you a martyr, in cui c’è pure Marylin Manson che fa il killer) sente particolarmente vicino. Detto fatto ecco che il racconto di questa settimana vi porta direttamente a Los Angeles, fra le sue strade che ospitano corpi scolpiti e tende di senzatetto e le sue colline su cui ogni attore sogna di andare ad abitare, magari all’ombra della scritta Hollywood (od Hollywoo, se BoJack Horseman è passato da quelle parti): fatevi un viaggio senza pagare il biglietto andando più in basso, subito dopo il brano che ispirato la storia, io intanto vi auguro buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
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Cimeli
Ha scoperto della sua morte solo perché ha avuto l’accortezza di morire in mezzo a una strada, piuttosto che in un vicolo isolato o in una tenda piantata sul marciapiede come qualunque barbone in città. Alla gente è venuta per questo la curiosità di frugargli nelle tasche, alla ricerca dei documenti, trovando invece la falange del pondulo quasi mummificata, ma con ancora lo smalto rosso splendente sull’unghia. Ci è finito così sul giornale.
Lei ripensa al giorno in cui l’ha incontrato, all’Einstürzende, col faccione pallido per il cerone. Era stato lui a proporre lo scambio, qualche settimana dopo, al termine di un giro di cocktail pagati con lo stipendio di uno dei pochi lavori decenti trovati da uno di loro, chissà chi. Era una sorta di assicurazione, disse: se qualcuno ce la fa, gli altri hanno in mano qualcosa con cui riempirsi le tasche.
Pensa a quello che le ha lasciato mentre attraversa il corridoio, dirigendosi alla stanza dei cimeli. Osserva distrattamente la città al di là della vetrata, i grattacieli del centro e l’idea della spiaggia, là in fondo, nascosta dalla nebbia di smog. Da qui non si vede la scritta che ha alimentato per anni prima i sogni di tutti e poi gli incubi di chi non ce l’ha fatta. Tutti, a parte lei.
Apre lo sgabuzzino, accende la lampadina che penzola dall’alto. Apre la cassettiera mangiata dai tarli e dall’umidità ed eccoli lì, i suoi cimeli. Un anello in ferro con la R stampata sopra; un portafoglio da uomo con le iniziali ricamate nella fodera interna; la foto di una ragazzina col broncio, racchiusa in una cornice di legno da quattro soldi; un guanto lungo di seta, con una macchia di rossetto che una volta era una dedica. Prende in mano il portafoglio e pensa a quello che ha lasciato, le parti di sé donate al branco di disperati che pensava bastasse quello a renderli ricchi, la gloria riflessa in un orecchino da quattro soldi o in una foto con autografo da rivendere ai collezionisti. Se ci fosse rimasta lei, in mezzo a una strada, da quel mucchio di cianfrusaglie non ci avrebbe tirato fuori un pasto.
Richiude la cassettiera, attraversa il corridoio e ritorna nel salotto del pianterreno. Si versa una dose generosa di rum che vale più delle loro bevute di un mese, poi alza il bicchiere a mo’ di saluto e lo butta giù in un sorso. Tu sì che avevi capito tutto, dice a sé stessa, poi si versa un altro bicchiere. Ricorda il suo sorriso enigmatico dopo la proposta, il modo febbrile in cui le aveva chiesto una parte di lei unica, autentica, lontano dagli altri che altrimenti avrebbero capito l’inganno sotteso a quel gioco.
Guarda la sua faccia sul giornale, invecchiata dagli anni, dalle notti al freddo anche qui dove splende sempre il sole, dall’alcool scadente. Beve, raggomitola le gambe sul divano, accarezza distrattamente la cicatrice sul piede sinistro.
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Se volete farmi felice, fatemi scoprire qualcosa che non conosco. Ma se volete farmi DAVVERO felice, fatemi scoprire qualcosa che assomiglia a ciò che conosco già e che prova a superarlo a destra.
In fondo ognuno di noi ha una sua comfort zone, e le mie non funzionano in maniera così dissimile da quelle degli altri. La differenza, forse, è che a stimolarmi sono i paragoni non tanto con artist* che adoro, ma con artist* con cui ho un rapporto più complicato, gente che fa cose che mi piacciono magari la metà delle volte ma in cui vedo il potenziale di creare ciò che sarà la mia personale next big thing (oh, quanti termini stranieri oggi! Va a finire che il governo mette fuori legge Tremila Battute). Ça va sans dire (aridaje) la maggior parte delle volte resto deluso, ma non mi arrendo. Capita ad esempio ogni volta che esce un disco dei The Mars Volta, o che qualcosa viene paragonato a loro.
Leo Di Caprio, fan numero uno dei The Mars Volta
Quando mi è arrivato il comunicato stampa dell’album dei Klidas, band marchigiana attiva dal 2014 ma giunta solo oggi all’esordio discografico, il nome della formazione diEl Paso campeggiava fra le influenze insieme a gente del calibro di Radiohead e Swans (ammetto di non conoscere né i Secret Chiefs 3 né i Pirate, altri punti di riferimento citati), e amen se l’ultimo disco di Bixler Zavala, Rodriguez-López e soci non mi aveva proprio entusiasmato: io questo ensemble di musicist* dovevo ascoltarlo.
No harmony, uscito il 2 giugno per l’etichetta australiana Bird’s Robe, è un disco bizzarro. La band (Emanuele Bury chitarra e voce, Francesco Coacci basso e voce, Samuele De Santis sassofono, Alberto Marchegiani tastiere e synth e Giorgio Staffolani batteria, cui si aggiungono live la voce e la chitarra di Lisa Luminari e il sax di Francesco Fratalocchi) spazia in maniera agile fra tempi dispari, atmosfere noir, sfoghi elettrici e momenti riflessivi, amalgamando bene il tutto senza che si avvertano scossoni in corsa. Dal jazz alla psichedelia, dal rock alternativo al prog, proprio come recita il comunicato stampa: ma c’è anche l’ispirazione?
All’inizio del disco, onestamente, sembra latitare un po’. Per un gruppo che fa musica quasi esclusivamente strumentale (la voce appare solo in brevi momenti di Shine e Arrival) l’atmosfera è fondamentale, ma Shores come apripista fallisce nel crearla: gli strumenti ci si dannano, evocano una malinconia che si fa forza delle note dolenti del sax e del phaser sulla chitarra, intessono alchimie efficaci, ma a conti fatti quando arriva la tempesta finale dopo la quiete ci si accorge che la tensione non è mai veramente montata. Shine, la seconda traccia, fa un po’ meglio, evocando inizialmente immagini di locali equivoci dove andare a bere il bicchiere della staffa con persone a cui la vita non ha tolto solo la dignità, poi però si fa prendere dalla frenesia di dire qualcosa in più e, pur intrattenendo fra continue rincorse e momenti di pausa, perde il fascino fin lì acquisito. Dimostrano di essere ancora acerbi i Klidas con questa mezza falsa partenza, parzialmente anche nei suoni perché la chitarra distorta che parte ad accordoni sul finale di Shine è una rasoiata di frequenze alte che ammazza dinamiche e poesia, e si fa notare (spesso negativamente) anche in altri punti del disco. Poi però arriva Not to dissect, e il discorso cambia.
La terza traccia di No harmony è la più breve del lotto, ma riesce comunque a dire tanto. Jazz-prog trascinante, non ha bisogno di cambiare pelle perché ne ha già una splendida: il sax si tira dietro la baracca gigioneggiando su una base ritmica e armonica coesa, efficace nei punti in cui deve spingere e capace di un’accelerazione finale che finisce di botto, lasciandoti sulla punta della lingua un “ancora” che fin lì non sapevi di voler pronunciare. È il primo asso nella manica che si giocano i Kildas, ma non l’unico.
Arrival gioca la carta della morbidezza, scorre placida cullando le orecchie ma rischia di passare inosservata finché nel finale il jazz non prende il sopravvento, lasciando ad una voce giapponese (quella di Manami Kunitomo) e a rade note di chitarra il compito di chiudere un conto sostanzialmente in pareggio. Circular, contrariamente alla traccia precedente, parte subito con un giro di chitarra che setta un ritmo indiavolato, farcito di pause che riescono a mantenere il mood anche quando a tirare avanti la baracca si trovano solo synth, tastiera e una batteria minimale: l’ascesa finale si prende i tempi giusti sia come volumi che come velocità e quando la butta in una caciara che sa di post-hardcore (che a me ha ricordato certe cose dei discioltissimi Triclops!, giusto per citare una band che da queste parti mi sa che ho ascoltato solo io) tutto esplode proprio come ti aspetti che dovrebbe fare. Partire con un arpeggio che ricorda un po’ i Tool nella conclusiva The trees are in misery a quel punto sembra un po’ un azzardo, invece basta che entri la batteria a ribaltare il giro di chitarra e ti ritrovi come il Di Caprio del meme di cui sopra: quando entra la distorsione/rasoio temi che tutto vada sprecato cercando la soluzione più facile, invece i Klidas hanno il coraggio di rallentare, alternare con precisione certosina chitarra e tastiera nella fase centrale mentre basso e batteria continuano a tessere la loro tela ritmica, rispolverare il sax in tempo per un assolo da applausi e chiudere ritornando con nonchalance a un giro esplorato cinque minuti prima. Ora gli assi sono tutti calati, e la partita è vinta.
Vinta sì, ma con riserva. I Klidas sprecano quasi mezzo album a far vedere cosa sanno fare prima di farlo sul serio, come la demo di un programma di cui devi saggiare le potenzialità. Non superano a destra i The Mars Volta, a ben guardare ci hanno a che fare solo marginalmente, ma mi sa tanto che il prossimo disco lo ascolterò sperando nel the next big thing: non deludetemi raga.
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Quanto deve essere lungo un racconto? Qui su Tremila Battute sapete che, nomen omen (che è una delle due frasi che so in latino), la lunghezza massima è proprio di tremila battute, ma esiste una lunghezza minima da rispettare? Non mi sono mai effettivamente posto il problema, perché se c’è una minima (microscopica) prova che l’allenamento in scrittura serve è data dal fatto che ormai, quando stendo un racconto per il blog, riesco abbastanza facilmente a capire se sto sforando oltre il limite. Raramente però mi sono venute in mente storie che potessero risolversi in poche righe, almeno non per Tremila Battute.
Della massima brevità si è fatto in qualche maniera portavoce addirittura Ernest Hemingway, con la famosa scommessa sullo scrivere il romanzo più breve in assoluto. Il risultato fu “For sale: baby shoes, never worn” (Vendesi: scarpine per neonato, mai indossate), un capolavoro di sintesi il cui regno incontrastato, almeno nella mia testa, è stato intaccato di recente solo dalla microprosa scritta nel 1959 dall’autore guatemalteco Augusto Monterroso, Il dinosauro: “Quando despertó, el dinosaurio todavia estaba alí” (Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì). Il mistero che sia Hemingway che Monterroso creano attorno alle loro parole è denso di domande che rimarranno senza risposta, lasciano vagare con la mente a tutte le possibilità di tono (il bambino è morto o hanno solo sbagliato a comprare le scarpe? Il dinosauro è un temibile velociraptor o un pacioso brachiosauro?), genere e sviluppo, uno sviluppo che rimarrà per sempre solo potenziale… A meno che la Disney o qualche altra major non decida di acquisirne i diritti per un film, d’altronde se l’hanno fatto con Tetris chi può fermarli?
Ma perché tutta questa premessa? Perché Simona Lazzaro, pur non entrando in diretta competizione coi due mostri sacri di cui sopra, è riuscita a condensare in pochissime battute una storia che lascia intravedere solo il giusto, e lo ha fatto prendendo ispirazione da una canzone dei Crywank.
Parliamo di Simona innanzitutto. Autrice, editor e articolista, collabora con diverse testate giornalistiche, studia psicologia e, ovviamente, scrive anche per diletto e lo fa con ottimi risultati sia nella forma breve che in quella lunga. Ha pubblicato con Milena Edizioni due romanzi, Euterpe (2013) e Sirene (2014), racconti e riflessioni nelle raccolte curate da Antonio Schiena e Beniamino Soprano del sito Roba da scrittori, Roba da scrittori e Roba da scrittori – L’ombra dell’ignoto (il titolo del suo testo in quest’ultima, Onironauta, mi rimanda a questo splendido e viscerale disco dei purtroppo disciolti Kaleidoscopic) e, ovviamente, anche racconti sparsi nella lit-web: ne trovate uno sulla mai dimenticata Split di Pidgin, un altro sul sempre lodato multiperso e presto la troverete anche su Gargolla. Diversity ambassador, Simona ha anche vinto con un suo racconto un concorso indetto dall’Università Federico II di Napoli: si definisce una persona bizzarra che legge di tutto, scrive e, talvolta, morde, tanto che sui social la trovate come @mordescrive.
Che si può dire invece dei Crywank? Duo anti-folk di Manchester, nascono nel 2009 come progetto solista di Jay Clayton, che con la chitarra a tracolla e un bagaglio di disagio e rabbia nella voce comincia a registrare i primi album, James is going to die soon (2010) e Narcissist on a verge of a nervous breakdown (2012), settando già il tono di quello che sarà il progetto da lì in avanti: carica punk, autoproduzione, testi che parlano di tristezza, paranoia, miseria e tanto, tanto humor per farci una risata sopra. Nel 2013 a Clayton si affianca il batterista Daniel Watson e la formazione si completa, rimanendo stabile per tutti gli anni successivi (nel biennio 2015/2016 si aggiunge anche il bassista Tom Connolie, giusto il tempo di registrare il disco Don’t piss on me, I’m already dead e di partecipare al relativo tour, anche se un suo contributo alla chitarra è rintracciabile anche nell’Ep precedente Shameless valentines money grab), anni fatti di tour in tutto il mondo e di dischi rilasciati a ciclo continuo: al momento ne hanno registrati otto, a cui si affiancano una galassia di Ep e progetti paralleli di Clayton (fra cui l’album Following the lizard queen, pubblicato come Langdon Algier, una sorta di dichiarazione d’amore in sette canzoni a Lisa Simpson che sfiora l’ossessione).
Ma che fanno i Crywank? Potrei descriverveli come dei punk posseduti dal folk, dall’animo più bizzarro dei Butthole Surfers, dalla teatralità dei Tenacious D e dall’umorismo più macabro di Matt Groening (il titolo dell’album Don’t piss on me, I’m already dead è una citazione sempre dei Simpson, se non sbaglio a tradurre presa di peso dal finale del sorprendente corto di Barney Gumble), ma non renderebbe l’idea. La loro è una follia controllata, orecchiabile finché non fai caso ai testi o ai titoli (ce ne sono di infiniti, tipo When you eat yourself, first start with your head up your arse o The only way I could save myself now is if I start to firebombing), viscerale nel suo urlare la propria incapacità di trovare un posto nel mondo e comica nel riderci immancabilmente sopra. Non c’è una nota nei loro dischi che risulti meno che sincera (vabbé, non li ho ascoltati DAVVERO tutti, ma spero di rendere l’idea), sono come dei folletti usciti da un regno fatato di scherzi bizzarri, giunti a noi per ricordarci che la musica la si fa per esprimere qualcosa e non per vendere dischi. Insomma, come si fa a non amarli?
Per farmeli (e farveli) conoscere Simona ha scelto una delle canzoni forse più strambe del duo, Song for a guilty sadist, seconda traccia del disco Tomorrow is nearly yesterday and everyday is stupid. La confessione di un riluttante sadico diventa, nelle mani di Simona, una storia più ampia eppure sempre in equilibrio su quel labile confine fra il dire troppo e il dire troppo poco, su quella linea che, una volta conclusa la lettura, lascia un sacco di domande in testa e la voglia di saperne di più. Potete farvi avvolgere dalla sua narrazione subito dopo il brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
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Passione, di Simona Lazzaro
Aveva già estratto i molari e gli incisivi, quindi si dedicò ai canini.
Sputò l’ultimo insieme a un grumo di sangue e saliva.
La trovarono così: le braccia piene di morsi freschi e cicatrici, le pinze insanguinate accanto a sé.
–
Aveva fatto l’attrice in un passato non troppo remoto e per questo la notizia era rimbalzata rapida sulle pagine dei giornali locali.
Quando K. la lesse, ripensò per giorni alla luce obliqua dei pomeriggi che avevano trascorso insieme. Non disse nulla alla moglie; nascose il viso nella sciarpa che gli aveva regalato al compleanno e salì sul primo autobus.
–
Erano decenni che non si incontravano, almeno due vite, ma la riconobbe da lontano; prima ancora che chiamasse il suo nome, lei si era voltata nella sua direzione.
Dopo un po’ K. le chiese perché l’avesse fatto. “Perché” gli rispose, mentre accartocciava il viso in un sorriso sdentato “a volte ho desiderato morderti.”
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Per anni ho considerato fine maggio come l’inizio ufficiale dell’estate, perché c’era il Mi Ami. Adoravo in particolare il venerdì, il rituale della mezza giornata di ferie per arrivare all’apertura e godermi ore e ore di gruppi conosciuti e sconosciuti, il riposo in collinetta col sottofondo della musica o appoggiato a un albero a leggere, cosa che un anno ha attirato un sacco di gente con la macchina fotografica manco fossi una specie rara (ci ho scritto un racconto su questa cosa). Ci sono tornato a volte anche il sabato, persino la domenica (ricordo una lavata sotto il palco a guardare una reunion dei CCCP, o forse dei CSI, o forse me la sono sognata e non voglio svegliarmi), perché la fetta di parco dell’Idroscalo a disposizione del Magnolia era un posto accogliente dove era bello passare il tempo anche se magari non tutta la selezione musicale ti piaceva, anche se quasi tutta la selezione musicale non ti piaceva: era l’inizio dell’estate, l’inizio della stagione dei festival.
Io parlo al passato ma il Mi Ami non è morto, anzi si sta svolgendo proprio in questo fine settimana. Vive e lotta ma non sono convinto che lo faccia più insieme a noi, non insieme a me almeno che, potendo dare una pacca sulla spalla al me del passato, riderei delle mie lamentele sull’ingresso alzato a venti euro a fronte del costo di 49 EURO PER SINGOLA SERATA di quest’anno (poi ok, l’abbonamento per l’anno prossimo è già fuori e ne costa 63 per tutte le serate, ma non è che per risparmiare devo pianificare il fine settimana da un anno all’altro). Rimangono però tanti festival più accessibili, alcuni ad ingresso gratuito come il Big Bang Music Fest di Nerviano o il Solidar Rock di Cassano D’Adda (scusate se mi mantengo sull’area attorno a Milano, e anzi segnalatemi quelli nelle vostre zone), altri a pagamento e immersi in belle situazioni, come il Woodoo Fest a Cassano Magnago o il Diluvio Festival nel piccolo borgo di Ome: in questi ultimi (e anche al Mi Ami, per onore di cronaca) ho trovato nella line-up finora rivelata un nome interessante che nelle ultime settimane ha cominciato a risuonare nelle casse della mia macchina, che poi è quello che ha ispirato il racconto di questa settimana. Tutti pronti a ballare con Whitemary?
Di Biancamaria Scoccia, alias Whitemary, ho scoperto molto grazie a questa intervista rilasciata a Rolling Stone. Abruzzese d’origine, romana d’adozione, inizia come cantante jazz e arriva all’elettronica per vie traverse, fulminata (anche se non istantaneamente) da un pezzo di Justice che le fa ascoltare il suo fidanzato (con cui collabora o collaborava nei Concerto, duo dal nome che non aiuta nelle ricerche su Google). Da lì a giocare con quel tipo d’immaginario il passo è breve, anche se giocare non è la parola giusta: in poco tempo Whitemary crea un suo mondo musicale, con la stessa serietà dedicata agli studi jazz in precedenza, e il primo risultato è l’Ep Alter Boy!, dove a una musica da club vagamente oscura si associano testi in italiano sintetici e graffianti. Avete presente quando Stromae ha fatto successo con la sua Alors on danse? Non vi sto dicendo che le due cose si somiglino, ma ascoltando i testi di Whitemary mi sono ricordato di quando scoprii che la canzone di Stromae aveva una valenza politica: anche i testi di Whitemary, pur nella loro brevità, danno da pensare, veicolano una disillusione tardo capitalistica (anche attraverso i titoli, penso a Sentimenti echonomy) che si sposa in maniera agrodolce con un impianto sonoro che normalmente parlerebbe solo al corpo.
Nel 2022 Whitemary alza la posta, viene inserita nel roster della benemerita 42 Records e fa uscire il primo disco, Radio Whitemary. Abbandonati (o quasi) gli effetti sulla voce, la sua musica continua a sposarsi alla perfezione con le parole, mantiene un alone cupo che avvolge e proietta in club dove rinchiudersi nell’oscurità rotta solo dalle luci stroboscopiche fino al mattino seguente, persi nell’illusoria tranquillità delle strofe di Radio che esplode poi come la tensione del nodo in gola che Scoccia si sente, nel movimento convulso delle membra a ogni Chi se ne frega recitato nell’omonima canzone, nello sfogo catartico solo apparentemente trattenuto di Credo che tra un po’ mi metto a urlare, nel giro di basso ipnotico di Numeri e basta. Non me ne intendo abbastanza di musica elettronica per proporvi similitudini fra ciò che fa Whitemary e ciò che potreste aver già sentito, quello che posso lodare ulteriormente nel suo disco è però l’estrema varietà d’approccio alla materia, le armonie e le metriche vocali che vanno in direzioni che non ti aspetti, tutto un insieme che funziona alla stragrande: se niente mi mette i bastoni fra le ruote il 22 luglio sarò fra gli alberi a Cassano Magnago a ballare, se volete ci vediamo lì.
Chi se ne frega è il pezzo che più mi ha colpito al primo ascolto, condensa in poco meno di quattro minuti e in pochissime frasi le dinamiche di una relazione che si basa più sull’attrazione che sulla ragione, o perlomeno questo è il film che mi sono proiettato io nella testa ascoltandola e muovendo la testa a ritmo mentre guidavo. Da lì a rendere protagonista del racconto una coppia il passo è stato breve, evidenziarne il rapporto fino a un certo punto problematico anche, ma che si può fare se l’attrazione funziona come una specie di magia? Per capire come affrontano la questione l* protagonist* della storia non vi resta che leggerla subito dopo il brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
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Male non può fare
Ti faccio tre esempi, così magari capisci la situazione.
Il martedì ho crossfit, non faccio manco in tempo a tornare a casa da lavoro per riuscire ad andarci e ok che poi lì sudo ma mi fa anche un po’ schifo andarci con i vestiti che puzzano. Te non hai mai niente da fare di martedì, stai lì sul divano ad ammazzarti di canne e guardare film che manco capisci. Non che me ne freghi niente eh? Fai bene, potessi lo farei anche io e giuro che mentre sono lì ad ammazzarmi di flessioni ci penso e mi dico “ma non potevo starmene sul divano?” Per cui cazzi miei se voglio faticare e ok, dico ok, che tocca a me lavare i piatti perché tu ti occupi dei pavimenti e gli accordi sono questi, ma se un cazzo di martedì che io sono a crossfit ti trovi il lavello pieno ti costa davvero così tanto lavarli, quei cazzo di piatti, invece di impilarcene sopra altri in una pila instabile che ancora un po’ e crollano?
La carta igienica serve a pulirsi il culo. Lo so che lo sai, è una delle basi della vita moderna. I nostri antenati se lo pulivano con le foglie di betulla o di sa il cazzo quale albero, che manco so come sono fatte le foglie di betulla, ma noi abbiamo la carta igienica. E un’altra delle basi della vita moderna è l’aiuto reciproco, anche la democrazia in fondo in fondo funziona grazie a questo principio. E allora com’è che io la carta igienica nuova te la faccio trovare sempre ma mai una volta che te sei capace di cambiare il rotolo quando sta per finire?
Lo sai che alla mattina io odio il mondo. Fosse per me dormirei tutto il giorno, e lo capisco che a un certo punto bisogna svegliarsi e magari abbiamo pure qualcosa di bello da fare e pensandoci poi mi riprendo. Però ho i miei tempi, mi serve spazio e se qualcuno mi parla devo trattenermi per non azzannarlo. E tu, ripeto, tu lo sai. E allora come cazzo è che appena apro gli occhi ne approfitti subito per farmi il resoconto di quello che hai sognato durante la notte, che non è mai manco interessante?
Ora, lo so che pure io sono insopportabile. Ce li ho i miei difetti, penso a tutte le volte che rischio di sboccarti in macchina perché bevo troppo, o a quanto dev’essere odioso sentirmi usare il sarcasmo ogni volta che apro bocca. Ma questo non fa che avvalorare la mia tesi: noi non possiamo stare insieme. È già un miracolo che siamo ancora in vita, altre persone le avrei ammazzate per molto meno.
E allora com’è che ogni volta che ci guardiamo negli occhi, anche quando pensiamo davvero che stavolta litigheremo di brutto perché lo abbiamo già fatto con altre persone, facendo anche volare i piatti e le sedie, allora com’è dicevo che invece alziamo le spalle e diciamo chi se ne frega? Secondo me è stregoneria.
Ecco perché c’è qua un prete. Non è che deve fare un esorcismo, mica arrivo a tanto, ma una benedizione ci sta. Mica voglio che ci molliamo eh, non sia mai, ma a me sta storia puzza. E ok che non ci credo a queste cose, che non ci credi neanche tu, ma male non può fare no? No?
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