Racconto in musica 91: Resistere (Northway – Hope in the storm)

Voi ci pensate mai alla vita dell* Influencer? Io sì. A volte penso a come fanno a tirar fuori qualcosa da dire ogni giorno, tipo che mi metto nei panni dei Me Contro Te e immagino che anche oggi dovrò fare un video con montaggio epilettico parlando di niente con una vocina odiosa; più spesso, però, mi chiedo come si fa a stare dietro a community di follower sterminate, e ok che una volta che hai fatto i soldi puoi anche permetterti di avere qualcuno che risponde per te ma non è un tradimento? Segui me o il mio ufficio stampa? Come potrei io, in quei panni, guardarmi ancora allo specchio sapendo di tradire la pletora di gente che mi segue? First world problem, come potete intuire (aggiungiamoci che quanto scritto sopra non segue la regola del tre, avendo fatto solo due esempi di “a cosa penso quando penso agli Influencer”, e questo scombussola il mio relativo bisogno d’ordine).

Per fortuna a me e a questo blog ci s’incula quasi nessuno, altrimenti sai lo stress? Io già mi sento in colpa quando non rispondo per due giorni alle mail di chi mi contatta, quando faccio passare sotto silenzio un comunicato stampa dando per inteso che “ci sentiamo se ne parlo” e quando finisco per non parlare di dischi interessanti perché ho voglia di parlare anche di, che so, peni su grande e piccolo schermo (prima o poi lo farò, anche se nel frattempo mi hanno già anticipato), figurati se mi arrivassero migliaia di dischi! Al racconto di questa settimana ci pensavo già da tempo (ho usato il verbo pensare un po’ in tutte le salse fino a questo punto eh?), per dare il giusto spazio a una band di cui non ho parlato all’uscita del loro bel disco, poi sta settimana mi è partita l’ispirazione e così anche i Northway entrano finalmente nella grande famiglia di Tremila Battute.

I Northway sono solo l’ultima band che mi capita di scoprire nel panorama post-rock bergamasco, terreno fertile di suoni buoni che ha già dato alla luce negli anni band come Verbal, Teich e, andando poco più in là, quei matti dei Bangarang!. Nati nel 2014 attorno a un nucleo composto da Antonio Tolomeo (chitarra), Andrea Rodari (batteria) e Matteo Locatelli (basso), già militanti precedentemente in una band alternative rock, con l’ingresso della seconda chitarra di Giuseppe Procida i Northway iniziano a sperimentare coi suoni e decidono che per far questo non hanno bisogno della voce: se vi state chiedendo “ma stai per caso parlando di un altro gruppo strumentale?” sappiate che sì, è proprio così. Il primo album, Small things, true love, vede la luce nel 2017 ed è un affresco in cinque brani di ciò che il post-rock dovrebbe essere: evocativo, a volte brutale, musica che ti porta altrove e libera la tua mente. Registrato in quel gran posto che è il Trai Studio di Fabio Intraina (ci hanno registrato anche amici miei, e ne sono venuti fuori sempre con dischi della madonna), il primo album dei Northway inserisce nei titoli suggestioni cinematografiche (Arrival, The Martian, anche se quest’ultima si apre con registrazioni di uno sbarco sulla Luna) e letterarie (Jules Verne, e vogliamo forse non pensare che quel The King che dà il titolo alla seconda traccia non sia Stephen King? Con quel basso possente e vagamente inquietante in apertura?), mostrando ottime qualità ancorate però ancora a stilemi poco personali.

Successivamente alla pubblicazione Procida esce dal gruppo a causa del trasferimento in Puglia, sostituito da Luca Labo: con questa formazione la band ricomincia a calcare palchi e creare nuovi brani, arrivando al 2019 con abbastanza materiale per chiudersi nuovamente in studio di registrazione. Per The Hovering non cambia il luogo prescelto (sempre il Trai), ma cambia il supporto produttivo, visto che il disco esce per la benemerita etichetta I Dischi del Minollo i cui gruppi hanno spesso trovato spazio su queste schermate: i sei brani ruotano attorno a un concept marittimo e allargano gli orizzonti sonori della band, mantenendo inalterato quell’equilibrio fra momenti riflessivi e sfoghi elettrici che fanno dei Northway forse non la più originale band del panorama, ma sicuramente una delle più abili a coinvolgerti nel loro mondo sonoro. The Hovering esce nel settembre 2020 e, va da sé, la situazione concerti era quella che era: speriamo che il 2022 li porti a suonare più spesso per dare a quei brani il respiro della dimensione live, dove li si potrà vedere in una formazione che, al posto di Labo, ora vede alla seconda chitarra Luca Laboccetta.

Ho ragionato spesso, nei mesi trascorsi da quando ho ricevuto il disco, su come trasporre in forma di racconto le suggestioni che mi arrivavano dalla seconda traccia di The Hovering, Kraken. Alla fine però è stato Hope in the storm, il brano seguente, a donarmi l’ispirazione per il racconto di questa settimana, facendo germogliare un’immagine che già mi girava in testa da tempo: quella di una donna anziana che, mentre un’evento climatico devastante si avvicina (una tempesta? Un uragano? Poco importa), decide di restare dov’è e non fuggire. Come va a finire (forse) questa breve storia lo potete scoprire più in basso, subito dopo il brano che ne ha dettato lo svolgimento: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Resistere

Il cielo è ancora sereno ma dicono che pioverà. Non dicono esattamente così, parlano di disastri ed evacuazioni, ma lei ne ha viste tante nella vita e non sarà un po’ di pioggia a smuoverla da qui.

Gli anni creano legami di parentela. Passa il tempo, e le tue ossa scoprono insospettabili affinità coi materiali di cui sono composte le pareti. Più invecchi, più la gente tende a identificarti col posto in cui abiti.

Qualcuno passa con un furgone e rallenta davanti alla sua veranda. Una donna grida dal finestrino e chiede se ha qualcosa da donarle. È come chiederle se ha intenzione di morire, restando qui con tutta quella roba di cui poi non se ne farà niente. Lei si alza e la manda affanculo, poi rientra in casa portandosi dietro la sedia. Il furgone riparte, lento e pesante, fermandosi poche case più in là.

Partire o restare. La mettono giù come se fosse una questione etica, come se abbandonare la propria vita possa essere un concetto assimilabile al bene. L’appartenenza è un equilibrio fra limiti e identità, e lei ha sempre preferito la seconda ai primi.

Quando arriva il disastro, le foto delle vacanze e dei figli bruciano anche da sole. Ammirare il fuoco mentre arde, però, è una decisione personale e non spetta a nessuno giudicarla.

Le assi alle finestre le ha messe. L’ha aiutata un vicino di casa, l’unico che non le ha parlato di futuro e rinascita. Avranno spiccicato un centinaio di parole negli anni, ma sono bastate a intendersi. Mentre si alza il vento guarda la casa buia accanto alla sua, impacchettata come un regalo che si spera di scartare al ritorno: se ci sarà ancora, lei arriverà con la torta e le candeline per festeggiare.

Il rumore dei tuoni fa tremare la terra, ma la terra c’è. Andarsene significherebbe sentirsela levare da sotto i piedi, perdendo in un solo colpo la dignità e l’autonomia. C’è da qualche parte un pasto pronto per lei, un letto in cui riposarsi, un bagno caldo per riscaldarsi le ossa: quello che non c’è è la possibilità di rifiutarsi di sottostare a certe condizioni, la libertà di sentirsi ancora in cammino e non alla fine della corsa.

Che senso ha morire di noia e tristezza? Meglio la musica delle assi che ballano, del vento che ulula la sua gioia. Meglio sentire il battito del cuore che si agita al ritmo delle gocce per un’alternativa vera.

Partire o restare, o anche resistere.

La pioggia scema il suo battere, il vento soffia calmo e invita a uscire. Lei si alza senza fretta, come ha fatto tutto nella vita. Non rimpiange chi se l’è lasciata alle spalle, né chi ha cercato di starle dietro per un po’: la pace all’esterno è simile a quella che prova dentro di sé.

Il sole la illumina. Guarda in alto proteggendosi con una mano, le nuvole la circondano vorticando minacciose. È uno spettacolo incredibile. Sorride: quando gli altri torneranno, pensando di non trovarla più, lei sarà lì a raccontargli che cosa si sono persi.

C’è ancora speranza.

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Possiamo vincere La scommessa psichedelica? Qualche pensiero sulla raccolta di saggi curata da Federico di Vita

(Foto di cottonbro da Pexels)

Provate a formarvi in mente quattro immagini: la classica visione che abbiamo dello studio di psicanalisi, psicoterapeuta alle spalle di qualcun* sdraiato su una poltrona; la folla al concerto di Woodstock nel 1969; persone che ballano di notte all’interno della struttura multicolore di un Festival Goa; l* programmator* di un’azienda hi-tech della Silicon Valley davanti al suo computer.

Cosa unisce tutte queste immagini? Le sostanze psichedeliche.

Non solo questo, insomma (Foto di KoolShooters da Pexels)

Questa è già una limitazione, perché riflette solo una parte (recente e occidentale) dell’immaginario che ruota attorno alle sostanze psichedeliche, ma possiamo già moderatamente festeggiare che si stia allargando il campo a narrazioni che vadano oltre l’hyppie strafatto e il raver impasticcato. Se tutto questo è possibile lo si deve a un’onda di riscoperta dell’utilità delle sostanze psichedeliche, messe al bando dagli Stati Uniti (seguiti a ruota da tutti gli altri paesi occidentali) dopo la Summer of Love e rimaste nell’illegalità fino ai primi anni duemila, quando la ricerca ha potuto ricominciare in alcuni paesi portando fino al Simposio mondiale sull’LSD di Basilea del 2006, inaugurato il 13 gennaio in occasione del centenario del “padre” dell’acido lisergico Albert Hofmann. Come si è arrivati sino a lì, cosa si è sviluppato da quel momento e cosa questo potrà voler dire per il nostro futuro sono gli interrogativi a cui Federico di Vita cerca di rispondere in La scommessa psichedelica, una raccolta di saggi curata dall’autore per Quodlibet Studio.

Il libro inizia con una ricostruzione storica della psichedelia, a partire dalle prime testimonianze al riguardo, databili a 7000 anni fa in Algeria grazie a delle pitture rupestri rinvenute in una grotta del Tassili n’Ajjer, fino all’iniziativa di coming out psichedelico Thank You Plant Medicine. Lose the Stigma (organizzata fra gli altri dal visionario regista britannico Jonathan Glazer e volta a sensibilizzare, attraverso testimonianze dirette, sugli effetti benefici di piante ancora oggi vietate), concentrandosi particolarmente sul ‘900 e sulle tappe che hanno portato sostanze come LSD, psilocibina, ketamina, peyote, MDMA e compagnia a essere viste dalla società, a seconda del contesto storico, come mezzi di liberazione individuale, farmaci o droghe. È un’introduzione necessaria ed efficace, capace di proiettarci nel contesto che poi i singoli saggi approfondiscono da molteplici punti di vista, ampliando enormemente l’immaginario legato alla psichedelia.

Medicina per il mondo…O per i mercati?

Rubo il titolo al saggio di Vanni Santoni, contenuto all’interno del volume, perché è capace di riassumere molte delle contraddizioni riguardo il rinascimento psichedelico. Testi come quelli di Francesca Matteoni (Piante sacre: ayahuasca, sciamanesimo e coscienza ecologica) e Ilaria Giannini (Rompere gli schemi: la cura psichedelica alla depressione), posti all’inizio della raccolta, aiutano a smontare vari preconcetti che legano le sostanze psichedeliche allo sballo fine a sé stesso, mostrando gli effetti benefici sia a livello fisico che sociale dell’ayahuasca o l’utilità di LSD e psilocibina nella cura della depressione, ma le criticità non tardano a essere messe in evidenza già da Agnese Codignola, che nel saggio L’antidepressivo di Donald Trump mostra come l’ex Presidente degli Stati Uniti abbia spinto per far approvare un farmaco psichedelico (lo Spravato, prodotto dalla Johnson & Johnson e basato su un derivato della ketamina) da somministrare ai veterani vittime di depressione, il tutto senza che i protocolli tradizionali fossero rispettati. Uno dei primi pericoli riguardo alla rinascita dell’interesse per le sostanze psichedeliche è proprio dovuto al loro potenziale economico: se la comunità scientifica, nei tempi e nei modi in cui ha potuto agire, ha sempre cercato di fare ricerca con uno spirito inclusivo, ben diversa è l’intenzione delle grandi multinazionali farmaceutiche che, come dimostrato dalla Johnson & Johnson, sono pronte a passare sopra la salute dei loro stessi consumatori pur di prendere al volo il treno economico della psichedelia.

Il vero nemico dell’opportunità di un ritorno degli psichedelici come catalizzatori politici ed ecologici potrebbe allora essere proprio quel capitalismo che sta cominciando a fiutare l’affare: sia chi si è già arricchito con la canapa, sia la cosiddetta “big pharma”, sia grossi investitori lontani da questo mondo […] Hanno cominciato a scommettere sugli psichedelici, e al di là del rischio che questi possano diventare una commodity per le élite, o che si arrivi al paradosso degli “psichedelici non-visionari” (c’è già chi è al lavoro per “togliere la psichedelia” dalla psilocibina nel tentativo di farne un farmaco ordinario).

Vanni Santoni, Medicina per il mondo… O per i mercati?

Sembra paradossale come una sostanza che negli anni ’60 era assunta per risvegliare la coscienza ora possa essere autosomministrata per diventare più performanti al lavoro, ma il paradosso è doppio: a portare a questa diversa visione è stata proprio l’opera di diffusione propugnata da Timothy Leary, arrivata sino ai programmatori visionari che nel corso dei decenni avrebbero creato dal nulla la Silicon Valley. Molti dei saggi che compongono La scommessa psichedelica puntano allora il dito su una questione fondamentale, cioè che non siano state le sostanze psichedeliche a innestare le idee che hanno mosso le proteste per i diritti civili degli anni ’60, ma che siano state semplicemente il carburante che ha alimentato un immaginario preesistente, un sentire comune che guardava alla liberazione individuale e sociale. In una società radicalmente differente come quella in cui viviamo non si può che ripartire da un’analisi attenta dei mezzi e degli scopi, perché per ogni depresso guarito a colpi di LSD e psicoterapia rischiamo di non indagare le cause sociali che hanno provocato il disagio mentale, per ogni psiconauta consapevole che cerca l’illuminazione ci sarà un consumatore interessato a far “performare” meglio il suo cervello (magari ispirato da Come cambiare la tua mente di Michael Pollan, uno dei testi cardine del crescente interesse verso gli psichedelici, etichettato nel volume con una gamma di giudizi che va da “utile” a “ingenuo e potenzialmente dannoso”) o semplicemente felice di farsi sedare e sfruttare come una pedina intercambiabile.

Abbiamo ormai prove su prove di ciò che è già ovvio a chiunque l’approccio aneddotico l’abbia arrischiato: funzionano, sono “antibiotici psichiatrici” (così li chiama Ben Sessa), ansiolitici sul lungo periodo, antinfiammatori, aiutano a superare dipendenze e paure, accrescono apertura, connettività, senso di comunione, innescano esperienze estatiche, morte dell’ego.

Funzionano, ma non si sa su cosa. Infatti modificano la coscienza, ma noi non sappiamo cos’è, la coscienza. Come possiamo allora capire veramente cos’è uno psichedelico?

Gregorio Magini, Pseudoglossario

Psichedelia e letteratura

L’immagine di un mondo di drogati “di stato”, sereni e sfruttati nel migliore dei mondi possibili, per dirla con le parole del Candido di Voltaire, è stata evocata dallo scrittore Aldous Huxley nel suo Il mondo nuovo, distopia creata nel 1932 e che ha saputo prefigurare le derive a cui la nostra società potrebbe arrivare: un altro paradosso sulle sostanze psichedeliche vuole che però lo stesso Huxley sia stato uno dei primi promotori dell’LSD dopo averne sperimentato gli effetti, narrando la sua esperienza in un saggio, Le porte della percezione, talmente influente da suggerire il nome ai The Doors. Il rapporto della letteratura con la psichedelia è lungo e affascinante, ed è soprattutto Carlo Mazza Galanti a occuparsi di mettere in (relativo) ordine un vasto catalogo che comprende le visioni di Philip K. Dick e quelle di William Burroughs mischiate ai contributi di scrittori e saggisti meno noti alle masse, tra un Roma senza Papa di Guido Morselli e gli scritti dedicati alle esperienze con mescalina e psilocibina dello scrittore e saggista francese Henry Michaux.

Altri però si infilano in questo spazio, portando all’attenzione il modo in cui un Antonin Artaud, psiconauta della prima ora e uno dei primi occidentali a partecipare al rito del peyote fra i Tarahumara, viene snobbato quando si parla di cultura psichedelica (lo fa Andrea Betti in Perché un rinascimento non si faccia restaurazione), come se ad oggi fosse solo la parte medica delle sostanze a dover essere messa in luce, relegando in un angolo tutte le narrazioni che possono mettere in “imbarazzo”. Un simile dilemma aveva diviso Huxley e Al Hubbard da Timothy Leary, coi primi interessati a veicolare una lenta scoperta degli psichedelici da parte della popolazione guidata da “saggi illuminati” e il secondo impegnato a innervare il più possibile l’LSD nella società americana: dicotomie su dicotomie, come quella sottolineata da Galanti (e giunta fino a noi dal Fedro di Platone attraverso Jacques Derrida) del pharmakon come cura e veleno, o quella che vuole l’utilizzo medico più giusto di quello che ne fa un raver.

Musica e sostanze per una rinascita spirituale

Certo, per quanto azzardato possa sembrare paragonare i festival moderni a fenomeni religiosi nati in contesti culturali lontani, i nostri festival potrebbero in ogni caso essere visti come un’eco di quei fenomeni, una loro versione forse radicalmente trasformata, snaturata e distorta, ma anche modernizzata, riadattata e aggiornata. D’altronde le feste psytrance sono scaturite dalle esperienze di persone occidentali rifugiatesi in India a partire dagli anni ’60, proprio per ritrovare quella spiritualità che nell’Occidente secolare – come notò giustamente lo zio – era andata perduta. Certo, né i praticanti della cultura di Dioniso, né i primi Goa freaks si sarebbero potuti immaginare che questa nuova pratica spirituale si sarebbe reinventata in forma di rave parties, conditi da molecole psicotrope prodotte in laboratorio e scanditi dal martellare incessante di suoni digitali, in templi eretti per una settimana in onore di ciò che non muta mai: il fatto che siamo ancora figli della Grande Madre.

Chiara Baldini, Tramonto al tempio

Se l’idea che ci siamo fatti della musica psichedelica ha molto a che fare con la Summer of Love, è pur vero che a mantenere vivo il ricordo di quella stagione è stato, in epoca più recente e in contesti e modi completamente differenti, la cultura rave. Lo fa notare già Federico di Vita nell’introduzione storica, citando anche un estratto del Muro di casse di Vanni Santoni che, insieme agli scritti di Mark Fisher, mi ha aperto gli occhi su una realtà che da giovane imberbe avevo liquidato come “roba da truzzi”, lo esplicita pienamente poi Chiara Baldini, nel suo saggio Tramonto al tempio, dove analizza le connessioni fra pratiche spirituali come i culti misterici e i moderni festival psytrance come il Boom Festival portoghese. Più che luoghi dove lo sballo è il fine viene fuori l’immagine di un contesto creato ad arte per veicolare la funzione delle sostanze psichedeliche verso una riscoperta spirituale, come un vero e proprio rituale dove le persone, la musica (diversa per ogni ora della notte e del giorno) e l’ambiente aiutano a riconnettersi con gli altri e col mondo: l’ego dissolution, che negli studi psicanalitici aiuta a liberarsi da dipendenze croniche come quella dell’alcol, ma raggiunta attraverso pratiche estatiche. L’ambiente che viene creato in questi contesti ha un ruolo fondamentale, capace attraverso le sostanze di portare a esperienze non dissimili dalla Sindrome di Stendhal (come fa notare ancora di Vita nel suo saggio La sindrome di Stendhal nell’era della sua riproducibilità tecnica) ma totalmente diversa dal ritrovarsi, rimanendo in tema artistico, a osservare le opere di un museo sotto effetto delle stesse sostanze, esperienza riportata dallo scrittore statunitense Daniel Tumbleweed nel suo volumetto The Museum Dose.

Mi affascina l’ipotesi di una specie di polismo, approccio metafisico che starebbe al monismo (la metafisica del “tutto è uno”) come il politeismo sta al monoteismo: non esiste una realtà, ne esistono molte reciprocamente incompatibili; a seconda del tipo di esperienza in campo, alcune prendono il sopravvento, altre retrocedono. Non c’è alcuna tavola della legge che obbliga a tifare per l’una o per l’altra; ciascuno è libero di indossare i propri amuleti.

… E se stai pensando “ma non possono avere tutti ragione, non può essere tutto vero, la realtà oggettiva è una e le altre sono fantasie oppure errori, punti di vista soggettivi”, rimando con maggiore insistenza alla Enquête (Enquête sur les modes d’existence di Bruno Latour, ndr), in particolar modo alla discussione sul demonietto razionalista Doppio Click – che Latour chiama così proprio perché è ossessionato dalla necessità di sdoppiare tutto ciò che esiste in una parte oggettiva e in una soggettiva.

Gregorio Magini, Pseudoglossario

C’è molto altro all’interno del volume, dall’analisi delle connessioni fra cultura psichedelica e comunità dei meme nel saggio Oltre la realtà: Internet e memetica tra magia, estasi e distruzione, curato da Silvia Dal Dosso e Noel Nicolaus alla raccolta di esperienze dirette catalogate da Peppe Fiore in Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio, tanto che è impossibile riassumerne il contenuto senza citarlo quasi in toto. Se v’interessano le ripercussioni che questa rivoluzione potrà avere sulla nostra vita come società, o più “semplicemente” aprire gli occhi su una realtà molto più sfaccettata di come ci è stata da sempre proposta, La scommessa psichedelica è una lettura incredibilmente approfondita sul tema e che vi aiuterà a capire da quale parte stare, ammesso che nel frattempo non abbiate zittito il demonietto razionalista Doppio Click che limita la vostra visione del mondo.

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Racconto in musica 90: Dicono sia pazzo (Rio Mezzanino – White bones)

Più di una volta ho parlato della difficoltà a ritenermi esperto di qualcosa: mi ripeterò. Lo faccio perché mi ritrovo a parlare di una band di cui so ben poco, perché il racconto ispirato al loro brano tratta un tema, quello della malattia mentale, che ho provato ad affrontare parecchio tempo fa col timore di piazzarci qualche castroneria e, infine, perché ogni settimana mi metto davanti alla tastiera a parlare di musica con la speranza che nessuno si accorga che ne so molto meno di quel che sembra e che, nel caso qualcuno se ne accorga, abbia pietà. La cara, vecchia Sindrome dell’impostore è sempre lì in agguato, penso ne soffrano un po’ tutti e va anche bene così almeno finché non diventa patologica: ci mantiene coi piedi per terra ed evita la nostra trasformazione in individui egoriferiti che pensano di saperla lunga solo loro, in pratica ci mantiene esseri umani decenti e fallibili.

Sono riflessioni che vengono fuori quando ti inviano un racconto e scopri che il suo autore la sa molto più lunga di te. Emanuele Tarchi, il gradito ospite di questa settimana, ha infatti conseguito una laurea in Popular Music presso Sonus Factory dell’University of Chichester (la tesi, sullo sviluppo di un pedale effetto per chitarra, scommetto interesserebbe un sacco al mio cantante e chitarrista, sempre felice quando può spippolare fra cavi e suoni), ha collaborato con un paio di testate online realizzando interviste e recensendo dischi e concerti, ha un suo progetto musicale (i Medemo, di cui potete ascoltare qualcosa qui) e attualmente lavora nel mondo dell’editoria, come editor e grafico impaginatore per BE Edizioni e come redattore e grafico impaginatore per lo studio editoriale NEWT. Fiorentino doc, Emanuele ha già fatto tutto questo pur essendo nato nel 1995, quindi sedici anni dopo di me: ce n’è abbastanza per chiedersi cosa avevo realizzato io alla sua età (risposta: meno della metà di quelle cose) e, passata la momentanea crisi dei quarant’anni (più tre), accoglierlo all’interno di queste pagine con un caloroso abbraccio.

Merito di Emanuele è anche quello di avermi fatto scoprire i Rio Mezzanino, band fiorentina d’adozione attiva sin dai primi anni duemila. La loro prima demo, nel 2007, attira già l’attenzione tanto da vincere il Demo Award di Radio Rait, consegnato al Meeting delle Etichette Indipendenti a Faenza, poi l’anno dopo Antonio Bacchiddu (voce e autore dei testi), Federica Fabbri (chitarra), Leonardo Baggiani (basso) e Oretta Giunti (batteria) (cui si aggiungerà nel tempo il percussionista Giuseppe Viesti) escono col primo disco, Economy with upgrade. Prodotto dall’etichetta Danza Cosmica e dalla stessa band, illustrato dal fumettista Igort, l’album è un concentrato di polvere blues ed echi cantautorali, aperto alle contaminazioni (come nel finale insospettabilmente elettrico di Lies) ma omogeneo nel suo dipanarsi fra atmosfere dilatate e piene di pathos: se ascoltandolo vi viene in mente il compianto Mark Lanegan non siete distanti dal bersaglio. Sempre nello stesso anno la band collabora con Andrea Montagnani e Dimitri Chimenti alla realizzazione dello spettacolo teatrale The sky underground. Songs for the living and the dead, un’originale fusione di musica, cinema e teatro che esemplifica l’interesse dei Rio Mezzanino per ogni forma di arte: nel 2010 infatti realizzano la colonna sonora del film-documentario Cancelli di fumo di Francesco Bussalai, storia della manifattura tabacchi di Cagliari dal 1800 al 2001 raccontata da chi lì dentro si occupava della salute di operai e operaie fra lavoro, scioperi e il definitivo abbandono. Lo stesso anno li vede tornare con un Ep, Together to get out, preludio al secondo album che vede la luce nel 2012.

Love is a radio mantiene intatta la patina blues che permea la loro musica, sacrificando le dilatazioni oniriche del primo disco in nome di un approccio più diretto ma non meno viscerale: edito da A Buzz Supreme, il disco si fa forza di arrangiamenti sapienti in cui agli strumenti classici della band si uniscono spesso archi, sax e wurlitzer. Attenti alle questioni inerenti ai diritti civili (sono fra i firmatari della carta d’intenti dell’Indie Pride), la band realizza in seguito la colonna sonora del docufilm Lei disse sì, storia del percorso che ha portato due donne a coronare il loro sogno d’amore in Svezia nel 2016 e della campagna di sensibilizzazione che Ingrid e Lorenza hanno portato avanti sin dal 2012. Sempre nel 2016 i Rio Mezzanino lanciano una campagna di fundraising che porterà alla realizzazione di quello che è attualmente il loro ultimo disco, Black mamba, uscito a fine 2017: i loro canali social da allora tacciono, i miei tentativi di trovare il disco si sono rivelati fallimentari e non ci resta che sperare che la band goda ancora di buona salute, in modo da poterci ritrovare tutti insieme a un loro concerto con una buona birra in mano.

White bones è una delle tracce che compongono l’album d’esordio dei Rio Mezzanino, una ballata dolente a cui gli archi donano ancora più enfasi. Dall’atmosfera generale e dalle parole di Bacchiddu è partito Emanuele per portarci nella vita di Filippo, un ragazzo rinchiuso dai familiari in un ospedale psichiatrico la cui vita si riduce alle funzioni essenziali: unico passatempo, la vista di una piccola porzione di mondo dalla finestra della propria prigione. Potete leggere il suo racconto subito dopo la canzone che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Dicono sia pazzo, di Emanuele Tarchi

Guarda le foglie cadere, ogni giorno.

Non può fare molto di più, lo tengono legato a una sedia da quando è arrivato. Una grossa finestra sul parco è tutto ciò che gli è concesso.

Ogni tanto qualcuno viene a fargli visita. Sono i suoi familiari.

Come avete fatto a mandarmi qua, io non sono pazzo, non lo sono, dice.

Se non fosse legato gli salterebbe addosso.

Filippo caro, rispondono, Per noi è una gioia vederti stare meglio, qui riesci a essere seguito ventiquattr’ore al giorno, tutta la settimana.

Portatemi a casa, portatemi a casa! urla, ed è su tutte le furie.

Mentre si agita, i familiari chiedono aiuto al personale. Alcuni infermieri accorrono infilandogli una grossa siringa nel braccio, quindi perde i sensi.

Ogni volta va così, e i parenti se ne vanno convincendosi sempre più che sia davvero pazzo. Non stanno mai più di cinque minuti con lui.

Il colloquio per farlo prendere in cura all’ospedale fu abbastanza rapido.

Nostro figlio è pazzo, finirà per suicidarsi, disse il padre.

Ci deve aiutare, non sappiamo più a chi rivolgerci, aggiunse la madre.

Siete nel posto giusto, li rassicurò il dottore.

Due ore dopo i genitori salirono in macchina e tornarono verso casa lasciando il figlio nelle mani di qualcun altro.

Sono fortemente convinti. Dicono sia pazzo, o forse lo sono loro?

Da quel giorno gli fu negata la libertà di compiere ogni singolo movimento.

Lo accompagnano in bagno, sempre tenendogli le braccia legate dietro la schiena affinché non crei confusione. Lo imboccano con un cucchiaio. Lo lavano. Gli cambiano i vestiti. Lo mettono a letto. Lo addormentano. Lo fanno sedere. Lo alzano. Lo fanno bere. Alle volte chiede di essere masturbato, ma gli viene negato.

L’unico diversivo consiste nel dottore che al risveglio viene a visitarlo. Prende delle pasticche da un bicchiere e gliele infila in bocca, si accerta che le abbia ingoiate, gli punta una fastidiosa luce negli occhi, scrive qualcosa su alcuni fogli. Due volte alla settimana gli fa il prelievo del sangue. Prima di uscire, si gira sempre a chiedergli come si sente. È l’unico che sembra interessarsi a lui.

Sento le mie ossa sotto la neve, gli risponde ogni volta.

Poi riprende a osservare fuori dalla finestra. Lo fa tutte le mattine, per tutto il giorno.

Se mai doveste fermarvi davanti alla porta numero 206, sarete in grado di percepire un’incessante litania.

Non uccidono la mia anima, canta senza speranza.

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L’uomo invisibile, o di come il femminismo ha (quasi) salvato un universo

C’era una volta, e forse c’è ancora, un universo narrativo che da anni non veniva sfruttato a dovere. Ai tempi d’oro i suoi protagonisti erano sulla bocca di tutti, ma un lungo periodo di oblio (con poche eccezioni) li aveva relegati fra i personaggi su cui non era più il caso di puntare. Un bel giorno, però, la fatina del capitalismo pensò che era il caso di rispolverarli, quegli eroi, e di creare un universo condiviso con cui dargli lustro e attentare al portafogli di vaste platee di spettator*. Sembra la storia del Marvel Universe, vero? E invece no.

Questa bella storiella riguarda la Universal e come ha cercato, prima con Dracula untold nel 2014 e poi con La mummia nel 2017, di assemblare in un universo condiviso tutti i mostri storici di cui deteneva i diritti. Il Dark Universe era il sogno proibito che, nei piani dei dirigenti, avrebbe dovuto riunire Dracula, Frankenstein, Dr. Jekyll e compari in un’unica ambientazione, sventagliando negli anni un buon numero di film con l’ambizione evidente di fare lo stesso lavoro uscito così bene alla Marvel. Alla prova dei fatti, però, entrambi i film si sono rivelati dei flop, portando al triste declino un progetto che aveva coinvolto grossi nomi come Tom Cruise e Russell Crowe e ne avrebbe dovuti coinvolgere molti altri.

La faccia di Russell Crowe quando l’hanno avvisato che dei dodicimila film in cui sarebbe dovuto apparire non se ne faceva più nulla

La mestizia in casa Universal è arrivata a livelli tali che si è finiti addirittura per subappaltare il franchise, delegando a qualcun altro il compito di portare a termine uno dei film. È qui che entrano in scena Jason Blum, il Re Mida dei film che costano poco e incassano un sacco con la sua Blumhouse, e Leigh Wannell, attore e sceneggiatore da poco passato alla regia e noto soprattutto per aver creato, insieme a James Wan, la saga di Saw l’enigmista e un altro universo condiviso, quello che gira intorno a Insidious. Il duo si prende in spalla uno dei personaggi del Dark Universe, l’Uomo invisibile portato sugli schermi l’ultima volta da Paul Verhoeven nel 2000, con il cuor leggero di chi sa che peggio di così non potrà andare, poi con lo stesso cuor leggero decidono che quello che gli interessa raccontare non è esattamente la storia dell’uomo invisibile.

La protagonista e, sulla sinistra, il fiato di quello che doveva essere il protagonista

Leigh Wannell, qui sia sceneggiatore che regista, ha l’intuizione geniale di cancellare dalla storia tutto o quasi ciò che riguarda Adrian Griffin (Oliver Jackson-Cohen), lo scienziato che trova la formula dell’invisibilità, concentrandosi invece sul punto di vista di Cecilia Kass (Elisabeth Moss), costretta da anni a rimanergli al fianco in una relazione che più tossica non si può. Il film comincia col suo tentativo di fuga, settando già in alto il registro della tensione, per poi seguirla nel suo tentativo di crearsi una nuova vita grazie all’aiuto della sorella e di un suo amico poliziotto: inutile dire che le cose cominceranno presto ad andare male.

La genesi dell’uomo invisibile vuole che la sanità mentale gli venga portata via come conseguenza dell’esperimento cui si è sottoposto, ma nel film di Wannell quel prima non c’è: Griffin è un manipolatore egocentrico che vede la compagna come un possedimento, un maschio alpha che non sa accettare un rifiuto e che, come i peggiori stalker di cui leggiamo sui giornali, quando sembra essere uscito di scena torna a perseguitare la vittima con rinnovata foga. L’uomo invisibile del 2020 non mostra la follia di un uomo che si è spinto troppo in là e ne è uscito alterato, ma le conseguenze di una follia che non ha niente a che fare con la scienza, ma con la società patriarcale di cui tutti facciamo esperienza ogni giorno: e, come capita nella realtà, nessuno è disposto a credere alla vittima.

La pellicola di Wannell è un congegno ad orologeria quasi perfetto: inizia col botto, lascia rifiatare un attimo e poi comincia lentamente ad aumentare la tensione, prima attraverso piccoli dettagli (un coltello che cade dal tavolo, il fiato dell’immagine più in alto) e poi con un’escalation che rischia di far impazzire la già provata Cecilia, illusasi di essere tornata libera dopo aver ricevuto la notizia della morte di Griffin. A differenza di chi le sta intorno noi spettatori non abbiamo mai il dubbio che qualcuno la stia perseguitando, una scelta ben precisa che serve a metterci nei suoi panni e provare la sua stessa paura, quella di una donna la cui vita diventa un inferno a causa di un No. Molto del merito per la buona riuscita del film è di Moss, bravissima a caratterizzare la sua Cecilia con la giusta dose di fragilità che, una volta messa alle strette, si trasforma nel coraggio di chi non ha più nulla da perdere: la telecamera la segue costantemente, senza lasciarle pace, mostrando il progressivo frantumarsi e ricomporsi della sua psiche man mano che la persecuzione si alza di livello.

Jason Blum si mantiene anche in questo caso fedele alla sua politica low budget-high quality: L’uomo invisibile è un film che, per precise scelte di trama, non ha bisogno di utilizzare spasmodicamente gli effetti speciali, ma quando li utilizza lo fa in maniera ottima e con scelte visive originali. È un peccato che Wannell a un certo punto si faccia prendere la mano, dando alla pellicola una svolta adrenalinica che spreca un po’ la tensione creata fino a quel momento, ma il regista ha l’abilità di tirare fuori dal cilindro un twist inaspettato che porta verso un finale coerente con quella che è l’evoluzione di Cecilia, da vittima a padrona del proprio destino.

Assieme a Una donna promettente (di cui avevamo parlato qui) L’uomo invisibile rappresenta un modo intelligente di parlare di maschilismo tossico, senza eccesivi patetismi ed evitando di edulcorare la realtà. La Blumhouse ha vinto la scommessa sia dal punto di vista qualitativo che da quello finanziario, visto che a fronte di un budget di soli sette milioni di dollari è riuscito a incassarne ben centoventidue, ma questo pare non sia bastato a risollevare le sorti del Dark Universe: il femminismo sta cambiando il nostro mondo in meglio (con buona pace di Pio e Amedeo), ma non può ancora fare niente per la fame di guadagni dei dirigenti della Universal… E va benissimo così.

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Racconto in musica 89: Guardateci (NYOS – High five)

Da quanto è che non vi ammorbavo con un po’ di musica strumentale? Non starò a linkare le innumerevoli volte che ho cavato fuori una storia dalle pieghe sonore di musica elettronica, post-rock, math-rock e miscugli di tutto questo, ma quell’influsso continua ad agire e dubito si fermerà tanto presto. In fondo l’assenza di voce permette di andare oltre a un testo definito, lasciarsi trasportare dall’atmosfera e finire dove probabilmente neanche l’artista in questione pensava di portarti, tipo in un bar fighetto dove sicuramente non passerebbero mai la musica dei NYOS.

Questo duo me lo sono andato a pescare fino in Finlandia (in realtà, ma non ditelo troppo in giro, lo ha pescato per me qualche mese fa la discover weekly di Spotify), dove nel 2014 il chitarrista inglese Tom Brooke si trasferisce e, per meglio acclimatarsi alla nuova situazione, inizia a suonare con il batterista Tuomas Kainulainen. Il comune amore per le band rumorose, il caffè e la voglia di suonare dal vivo li porta già nell’inverno dello stesso anno a registrare e autoprodursi il loro debutto, Vltava, una sola traccia di ventisei minuti che devono essere riusciti a far girare in maniera decisamente efficace visto che fino a metà 2015 i NYOS girano ben venti nazioni, in un tour costante che arriverà intorno alle duecento date: con la mia band, al primo Ep autoprodotto, ad andare bene ne avremo fatte dieci di cui almeno la metà nello stesso locale di Cassolnovo, provincia di Pavia. Vltava mischia insieme le atmosfere dilatate del post-rock con un’attitudine agli incastri di sapore math (quanti paroloni), un connubio che ricorda molto i Russian Circles (di cui vi avevo parlato qui) ma con sprazzi di una propria personalità vagamente schizofrenica.

L’episodio successivo nella discografia del duo è Nature (2016) un’altra autoproduzione che spalma su sei brani il minutaggio del primo disco (più o meno) e riesce ad alternare efficacemente le rasoiate elettriche alle divagazioni ariose, poi neanche il tempo di respirare e nel 2017 esce già il terzo disco, Navigation: non cambia il lavoro alla cabina di regia, affidato sempre in autonomia a Brooke, ma questa volta i NYOS hanno un’etichetta alle spalle (la tedesca Meta Matter Records) e il mastering viene affidato a Mandy Parnell, uno che in carriera ha collaborato con nomi tipo Björk, Aphex Twin e i Sigur Rós. È però con il quarto disco, Now, che i NYOS escono con decisione dalla loro zona di comfort. Otto brani che viaggiano su più fronti, una sperimentazione sonora in espansione che rende il disco (uscito per Pelagic Records) molto vario e più sbilanciato verso il lato math, con qualche influsso dei Battles che non stona per niente. Se il prossimo episodio sfrutterà la scia per portare i NYOS verso orizzonti inesplorati lo scopriremo presto: è uscito a inizio 2022 un nuovo singolo, Gold vulcan, preludio all’uscita del secondo album sotto Pelagic.

High-five è una delle canzoni più strambe contenute in Now, ossessiva nella ritmica impostata dalla batteria e da una chitarra fissata in loop mentre Brooke se la viaggia con suoni ultrariverberati, in attesa di un finale che porta l’ascoltatore ancora di più in oscuri meandri. A me, vai a capire come, l’ascolto ha fissato in testa l’immagine di una rissa in un locale sciccoso, uno di quelli che non frequento e che normalmente non frequentano nemmeno i protagonisti della vicenda, fissati all’apice di uno scontro dal finale meno scontato del previsto. Trovate il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Guardateci

Potessero farci una foto ora, bloccarci all’apice della tensione. Abbiamo attirato l’attenzione di tutti, io e lui, con la nostra pantomima fatta di parole grosse e qualche spintone, improvviso e violento, per poi alzare le braccia con l’intento evidente di scannarci a vicenda. Potessero farci una foto e immortalare noi, l’adrenalina che ci scorre nelle vene e le facce di tutti i presenti in questo bar fighetto, la cui calma istituzionale stiamo violentando con il nostro atteggiamento inappropriato.

Ci si fanno addosso, a me e a lui, prima con gli occhi e poi coi corpi, circondandoci di aspettative. Coi nostri movimenti volgari facciamo saltar fuori cubetti di ghiaccio da cocktail realizzati con il non plus ultra degli alcolici in circolazione, i nostri corpi rozzi si scontrano con quelli di persone troppo curiose di vedere l’evolversi della vicenda per mettersi in mezzo. Un ragazzetto con la faccia paonazza urla Fagli il culo, vai a capire se a me o a lui.

Una barista ci fissa con le mani sulla bocca, novellina con gli occhi colmi di paura mentre i colleghi continuano a lavorare, concedendoci giusto l’occhiata annoiata di chi non si stupisce più di niente. Ma la nostra rabbia è troppo animalesca per i ricchi viziati, che fanno rissa a suon di pugni mancati quando sono troppo ubriachi per capire chi vogliono menare e perché: siamo nel pieno delle nostre facoltà mentali, io e lui, per questo siamo così affascinanti ed esotici da meritarci il tifo delle ragazze di un tavolo a distanza di sicurezza.

Al limitare del cerchio che creiamo col sudore e le urla si fanno largo mani che non vedono l’ora di stringersi su di noi. Vedo brillare anche attraverso gli occhiali scuri il desiderio del buttafuori di ingraziarsi il jet set dell’alta borghesia qui riunito, i suoi muscoli pronti a sfogarsi su qualcuno che non ha il potere di farlo pentire per le proprie azioni. Fossimo meno magnetici nella nostra rabbia, lui e io, probabilmente ci avrebbe già agguantato, ma la folla apprezza lo spettacolo e si fa densa, lo frena, richiedendo qualche goccia di sangue come lasciapassare.

Ma perché non li fermi, urla una ragazza a un tizio di fianco a lei, e l’espressione che fa quello è così comica che quasi mi scappa da ridere. Lui mi vede distratto e me lo ritrovo addosso, alza il braccio in alto così capisco che sta per finire tutto e lo alzo anch’io, caricando il colpo a preparandomi all’impatto.

Potessero farci una foto ora, bloccati all’apice della tensione, quando nessuno sospetta che io e lui siamo d’accordo e invece di schiantarci un pugno contro la mascella ci diamo un cinque alto e iniziamo a ridere di loro.

E loro ci guardano, a me e a lui, col sorriso di sufficienza che si riserva alle scimmie allo zoo. Non ridono con noi ma di noi, del nostro gesto inutile volto a scandalizzare, ad attirare un’attenzione di cui ora sento la mancanza. Mi sento solo e inutile e farei di tutto per tornare al centro di quel mondo, anche umiliarmi o iniziare a odiarlo davvero.

Amatemi!

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L’amore non esiste, viva l’amore: Mi commuovo, se vuoi di Mario Pigozzo Favero

Recensire questo disco è un’esperienza strana. Lo è perché, come mi è capitato troppe volte, la band da cui Mario Pigozzo Favero proviene, i Valentina Dorme, li ho scoperti troppo tardi, giusto in tempo per vederli live una volta e consumare (eufemismo per dire “l’ho ascoltato un sacco di volte dopo averlo messo su chiavetta perché la mia autoradio si rifiutava di leggere i ciddì”) il loro ultimo disco La estinzione naturale di tutte le cose. Lo è soprattutto perché, orfano della band poco dopo averla conosciuta (e avergli dedicato un racconto), ho deciso di contribuire al crowdfunding con cui Pigozzo Favero si è lanciato nella prima esperienza solista. Il distacco necessario per valutare a mente fredda l’album, insomma, è decisamente compromesso.

Prodotto da Martino Cuman e uscito il 28 gennaio per Dischi Soviet Studio, Mi commuovo, se vuoi è un disco in cui l’amore è il sentimento più presente. Per chi conosce la penna di Pigozzo Favero, però, non sarà una sorpresa vederlo affrontato con spirito dissacrante: la galleria di personaggi che scorre lungo i tredici brani comprende un divorziato fissato con le pornostar, un fedifrago alle prese con una complicata relazione sul luogo di lavoro e varie coppie male assortite, giunte al capolinea o arrese all’idea che “amarsi è un atto ignobile di carità”. L’inizio con Pornostar è fulminante, col suo andamento musicale tranquillo e riflessivo e la voce calda e profonda di Pigozzo Favero che illustra, in un progresso inaspettatamente drammatico, la parabola verso il baratro di un uomo dagli eccessi inusuali che lo porteranno a Sparta sul “punto più alto della rupe”, ma lungo tutto il disco la penna dell’ex frontman dei Valentina Dorme dimostra di non aver perso il proprio smalto.

L’abilità più grande di Pigozzo Favero è sempre stata quella di costruire storie originali e terribilmente realistiche, brutali nella sincerità con cui illustrano i sentimenti che di solito si tengono nascosti. È un viaggio nel lato oscuro delle relazioni quello intrapreso in Mi commuovo, se vuoi, fatto di “bambini sdentati rigorosamente online” (L’inferno siamo noi) e impulsi indicibili come quello di “lanciarti dalle scale” (E la nave va), con protagonisti dai “fianchi sciupati grassi cadenti in bilico” (Latakia), caratterizzati dall’essere “neppure troppo intelligente” (Uno dei tanti Orfei) e intrappolati “nelle feste negli amplessi a orari fissi”. Anche quando ci si discosta dal tema principale Pigozzo Favero non smette di rimestare nel torbido, concentrandosi sui defilati, i miserabili e i bipolari (Ai defilati) o su bizzarri rituali fra il sacro e il profano (Le preghiere della sera), ma affronta questo viaggio negli orrori quotidiani con un misto di ironia, fatalismo e sensibilità che mitiga sensibilmente il dramma, evocando una risata a denti stretti più che un pianto.

Musicalmente Mi commuovo, se vuoi è caratterizzato da una grandissima varietà, pur rimanendo sempre nell’alveo di un cantautorato che non disdegna svecchiarsi un po’. L’allegria di Le preghiere della sera ha qualcosa di Rino Gaetano, in Ai defilati la classicità di piano e tromba si mischia perfettamente con la batteria elettronica, echi degli anni ottanta emergono grazie ai synth nei ritornelli di Avvoltoi, in Uno dei tanti Orfei il pop sbilenco e vagamente psichedelico porta alla mente alcune cose dei Mariposa di Enrico Gabrielli e c’è spazio anche per la drammaticità minimale voce-piano-basso di El sbrego, tutta cantata in dialetto veneto (non chiedetemi quale dialetto, la mia conoscenza non arriva a tanto). Pigozzo Favero è accompagnato nella sua “missione” da musicisti di prim’ordine, capaci di rendere al meglio le asperità della “noireggiante” Un tale singhiozza così come la gioia vitale con cui il protagonista di Franchino ’57 si lascia piacevolmente andare all’adulterio spedendo “a farsi fottere quella stronza della moglie”, mantenendo la giusta enfasi anche quando si tratta solo di accompagnare con rade note di piano un monologo.

Quel monologo Pigozzo Favero aspetta a recitarlo sin quasi all’ultimo, svelando inaspettatamente il suo bluff. Tutto il disincanto con cui guarda all’amore si scioglie in Il metro del sarto, penultima traccia del disco, un testo di rara poesia in cui le immagini di quotidiana banalità evocate lungo il percorso assumono una valenza diversa, perché “le macchie di piscio”, le “poesiole ai compleanni” e “il disastro, cioè noi da vecchi” nulla possono contro una passione che resiste al tempo, che porta ancora a cercare “i capezzoli con i polpastrelli e con i palmi i seni” consapevoli che non tutti “riescono, come noi, a trovare questa pace di koala abbracciati”. Sull’onda dell’emotività, ma con l’originalità che lo contraddistingue, Pigozzo Favero conclude il disco con una sorta di incrocio fra una ninna nanna e una fiaba, resa più lieve dall’oboe e più bizzarra dalla promessa di raccontare al figlio tanto della “gioia delle formiche” quanto di Berlinguer.

Il primo album solista di Mario Pigozzo Favero conferma quanto di buono fatto nel suo ventennale percorso con i Valentina Dorme. Mi commuovo, se vuoi è un disco di rara bellezza, intenso e sfacciato, un modo originale di celebrare l’amore senza le ipocrisie che rendono lucidi e splendenti anche i momenti più cupi. Non dirò che è un capolavoro, perché quella parola la spenderei per il disco dei VD citato in apertura, ma certo è bello ritrovare l’artista veneto in gran forma e fa sentire un po’ orgogliosi l’aver contribuito, anche solo in minima parte, a far sì che un album del genere vedesse la luce: eh sì, un po’ di parte lo sono.

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Racconto in musica 88: Cose difficili (Casino Royale – Cose difficili)

Nell’ultimo articolo pubblicato ho parlato della mia fascinazione, nei primi anni 90, per il pop radiofonico di quegli anni. Se ci penso meglio nell’arco di quel decennio, complici la giovinezza e la suggestionabilità, mi sono più o meno appassionato a qualunque genere andasse in voga. Grunge? Ce l’avevo. Post-grunge? Mioddio, sì. Brit-pop? Eccomi! Hardcore melodico? Altra figurina sull’album. Ho saltato a più pari giusto le boy band, lo stoner (che avrei recuperato nel decennio successivo) e tutti i suoni che sembravano troppo fuori da quelli classici del rock (non che quelli delle boy band fossero rock, eh!), perché fondamentalmente di quello ero invasato al momento e mi sentivo troppo alternativo per recuperare il passato (ancora oggi non ho mai ascoltato un disco intero di Led Zeppelin, Rolling Stones o Beatles, madre perdonami per i miei peccati) ma abbastanza addentro da ritenermi esperto di tutto lo scibile musicale che valesse qualcosa. Non era così.

Fra le cose che mi sono perso negli anni 90 e che hanno solo sfiorato le mie orecchie, più che altro grazie a Radio Lupo Solitario e Videomusic/Tmc2, c’era anche un genere troppo riflessivo e sonoricamente distante dai miei standard estetico-musicali dell’epoca: il trip-hop. Ancora adesso non è che ne sia fomentato, ma ne ho rivalutato l’importanza all’interno del panorama musicale e l’influenza che ha avuto nell’ampliare gli orizzonti. Di quel tipo di sonorità, e non solo, negli anni della mia formazione musicale erano alfieri i Casino Royale.

A portarmi a parlare di loro è il benemerito Alessio Barettini, alla sua terza presenza in questo blog. Professore di storia e letteratura, appassionato di scrittura e musica, ogni volta che mi approccio a lui ne scopro nuove sfaccettature: eccovelo nelle vesti di critico letterario su SenzaDieci, mentre parla di Il francese di Massimo Carlotto e di La promessa di Damon Galgut. Tornerà di sicuro da queste parti, e mi chiedo cosa scoprirò la prossima volta.

Ne ho parlato come di alfieri del trip-hop, ma i Casino Royale partono da tutt’altra direzione musicale, associabile però alla stessa nazione: l’Inghilterra. Formatisi a Milano nel 1987, gli inizi della band formata, fra gli altri, dai vocalist Alioscia Bisceglia e Giuliano Palma e da Michele Pauli (chitarra) e Ferdinando Masi (batteria) sono all’insegna dello ska e del reggae, tanto che il nome “jamesbondiano” del gruppo (Casino Royale, come abbiamo imparato tutti grazie alla pellicola in cui Daniel Craig impersona per la prima volta l’agente segreto al servizio di Sua Maestà, è il primo romanzo della saga creata da Ian Fleming) è ispirato dalla canzone Sock it to ‘Em J B degli Specials, band storica del panorama musicale britannico. Il primo album Soul of ska , uscito per l’etichetta Der Nagel nel 1988, e il successivo Jungle jubilee (1990, Kone Records) settano il tono, ma è difficile vedervi quella che sarà l’evoluzione successiva (se non in brani dove emerge prepotente il dub, come White sun). Dal cantato in inglese e le sonorità tipiche dello ska i Casino Royale passano successivamente alle liriche in italiano, le linee vocali affini al rap di Bisceglia mischiate a quelle melodiche di Palma e una varietà di suoni che, pur non abbandonando i ritmi in levare e i fiati, spaziano dall’elettronica al rock. Questo è il mix che i fan del gruppo si trovano di fronte in Dainamaita, disco che nel 1993 li proietta in una situazione a metà fra l’etichetta indipendente e la major (la Black Out, ancora oggi attiva, agiva sotto egida Polygram/Universal facendo le sue scelte in maniera indipendente ma producendo coi fondi permessi da una multinazionale della musica) e che può essere visto come un punto di passaggio. Gli album successivi, Sempre più vicini (1995, prodotto da un nome grosso del suono di Bristol come Ben Young) e soprattutto CRX (1997, prodotto da Tim Holmes, cofondatore dei Death In Vegas e già al lavoro coi Primal Scream), vedono l’ingresso del tastierista Patrick Benifei “Pat Cosmo” ed espandono ulteriormente questa ricerca sonora, portando la band al loro picco di notorietà: brani come Sempre più vicino, Anno zero, CRX, Là dov’è la fine e Là sopra qualcuno ti ama entrano nelle case anche di non è interessato a quelle sonorità, la band apre le date italiane del PopMart Tour degli U2, ma la Universal ritiene insoddisfacenti le vendite di CRX e di lì a poco dà il benservito al gruppo che, come contraccolpo, comincia a perdere i pezzi. Palma si concentra sui suoi Bluebeaters, fondati nel 1994 con un ensemble di musicisti che comprende anche altri Casino Royale, gli altri si prendono del tempo e concentrano le energie su progetti paralleli (Royalize) e sulla propria etichetta Royality, che produrrà negli anni progetti dalle sonorità più svariate come Sud Sound System, Alien Army e Gente Guasta.

Il momento del ritorno arriva nel 2002, inizialmente con alcuni brani scaricabili dal sito ufficiale della band e poi con la ripresa dell’attività live, preludio a un ritorno su disco che però arriva solo nel 2006. Reale, prodotto da Howie B (che si occuperà anche della controparte dub-dance del disco, Not in the face, uscita l’anno seguente), esce per V2 Records (etichetta che di lì a poco, scherzi del caso, verrà assorbita proprio dalla Universal) e continua sulla stessa linea inaugurata negli ultimi dischi, con Bisceglia ora unico vocalist. Passano altri cinque anni prima del successivo album, Io e la mia ombra, anni inframmezzati dalle Reggae Sessions con cui nel 2008 i Casino Royale rielaborano dieci dei propri brani in chiave reggae roots anni settanta aggiungendo l’inedita Cosmic sound con la collaborazione del conduttore radiofonico, cantante e produttore giamaicano Mickey Dread: poi la band dirada le proprie uscite discografiche fra live e la riedizione per il ventennale di CRX, che vede la presenza di un secondo disco con ospiti del calibro di Edda, Levante, Demonology HiFi e Paolo Baldini. La storia recente ha visto Bisceglia farsi promotore nel 2020 del progetto Quarantine scenario, un lungometraggio sperimentale diretto da Pepsy Romanoff (nome d’arte del regista Giuseppe Domingo Romano) cui si associa un disco di ventotto brani uscito per Aldebaran Records e che, attraverso la collaborazione di svariati artisti e performer, racconta in maniera sonora inusualmente “classica” per gli standard della band ciò che è stato il periodo peggiore della pandemia, poi nel 2021 vede la luce il primo vero disco da dieci anni. Influenzato dal lavoro fatto con Quarantine scenario, gli otto brani di Polaris portano ancora più in là il percorso sonoro, verso territori più ariosi (basti ascoltare Contro me stesso e al mio fianco, realizzata con l’Orchestra ad Alta Felicità): in questa intervista Bisceglia promette per il 2022 un ideale “lato B”, rimaniamo ad attenderlo mentre, perlomeno, è finita l’attesa per un loro live.

Cose difficili è la sesta traccia di Sempre più vicini, una canzone morbida e a tratti sensuale cui si associa però un testo riflessivo, di quelli in cui si fa i conti con sé stessi (e non solo) e si capisce che il conto è in perdita. L’immobilità di fronte a quella presa di coscienza permea il breve testo di Alessio, caratterizzato da quei pensieri ricorsivi che ti ossessionano quando ti accorgi che “queste stanze è solo un altro luogo della mente”, come canta Palma nella canzone. Lo trovate subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Cose difficili, di Alessio Barettini

Quando c’eri il mondo era. Quando c’eri credevo che ogni cosa ne portasse altre. Quando c’eri, le altre cose mi spaventavano perché non ne vedevo il senso, ma al loro palesarsi mi ripetevo come un rituale che il senso lo avrebbero trovato da sole, prima o poi. Nel loro accadere le cose non trovano sempre il proprio senso, del resto?

Ma ora che non ci sei quel senso non riesce più a emergere, il mondo si è improvvisamente cristallizzato e mi muovo in questa casa come se fossi un personaggio vivo intrappolato in una fotografia. Vivo poi, se ci penso, è una parola che non si addice ai miei passi, a questi vuoti, a questo ritmo che non c’è.

Decodifico, smantello, ricamo, impugno ogni millimetro dei miei pensieri come se fosse assolutamente necessario spiegare tutto, aspettando che diventi un’abitudine. So che niente di tutto questo è superfluo, né la luce che entra dalle finestre abbagliando e illuminando solo la polvere, né il grigio del cielo che i meteoropatici trovano sia in perfetta sintonia con i propri sentimenti bui. Tutto questo mi mostrerà qualcosa: quando, non lo so.

Resto vigile, come un animale che percepisce l’arrivo di una preda o di un pericolo. Per il momento non so se sono la vittima o il cacciatore, e per scoprirlo farei troppo rumore.

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Pop suonato bene nel disco d’esordio di Prim

Il mio amore per la musica ha attraversato diverse fasi. In famiglia il massimo dell’avanguardia erano delle musicassette (parentesi vecchiaia fase uno) delle edizioni di Sanremo degli anni 60 (parentesi vecchiaia fase due), per cui la prima indipendenza sonora l’ho ottenuta ascoltando la radio con un walkman (parentesi vecchiaia fase tre): in quel momento mi ero un po’ innamorato del pop che andava di moda all’inizio degli anni 90 (sì, c’era già il grunge a cui mi sarei appassionato di lì a poco, ma giuro che in radio non lo sentivo da nessuna parte), tipo le prime cose di Mariah Carey, questa canzone dei New kids on the block e via di questo passo (c’è qualcuno che ha mai sentito nominare Jon Secada? Se sì, mi sa che ha passato i quaranta come me). Sembrerà strano visto le cose storte di cui mi piace parlare, ma quella fase non l’ho mai rinnegata.

Mi è tornata in mente quella musicalità, che si lasciava alle spalle le tastiere e le batterie che suonavano come fusti del detersivo degli anni 80, ascoltando Citylights, la canzone che apre When monday comes, il disco d’esordio di Prim uscito il 14 gennaio per l’etichetta We were never being boring. C’è molto di quel periodo in questa canzone, un pop allegro e ben suonato dove c’è spazio per tutti gli strumenti e tutto sta al posto giusto, con la voce che si appoggia in maniera soffusa sulle note. Il viaggio nel tempo è durato poco, giusto il tempo di passare alla canzone successiva, ma l’impressione di trovarmi di fronte a un disco che nobilita la parola pop è rimasta.

Dietro al moniker Prim c’è Irene Pignatti, giovane songwriter modenese autrice dei testi e di quasi tutte le musiche dell’album, che nel dare forma alle sue idee si è avvalsa dell’aiuto di Matteo Mugoni (chitarra elettrica, pianoforte e tastiere), Davide Severi (basso, synth e omnichord) e Diego Davolio (batteria e pad). Con un Ep alle spalle (Before you leave, uscito nel 2020) e una pandemia in corso durante la stesura delle canzoni, la band è riuscita a concepire un lavoro vario in cui brani solari si alternano a pezzi più malinconici e introspettivi.

Tocca già alla title track oscurare l’atmosfera, affidandosi per il compito a suoni più contemporanei e digitali nel suo delineare in poche righe una storia d’amore ormai conclusa, e anche il secondo singolo Bathtub e Roots ci mettono del loro, sfruttando arrangiamenti minimali che si affidano principalmente alla voce di Pignatti (le parti vocali utilizzate come coro fungono da vero e proprio strumento) e ad un utilizzo massiccio dei riverberi. Il lato più ironico e solare del progetto esce invece in brani come She, she, she, indie-folk coinvolgente a cui l’ukulele dona ulteriore allegria, e I love cats, un ritorno a certe atmosfere di inizi anni 90 dove a una musica sensuale e ammiccante si appoggiano liriche di tutt’altro spessore, descrivendo con semplicità le dinamiche tossiche del cat calling. Con lo stesso spirito Pignatti, appoggiando le proprie armonizzazioni vocali e l’ukulele sulle note del piano di Mugoni in Thanatophobia, affronta un tema non facile come quello della paura di morire, creando una canzone che spicca per leggerezza e sensibilità e che accompagna verso il finale, affidato alla breve ballata chitarra-voce Thank you for the flowers.

Fra suggestioni dream pop, contaminazioni folk e arrangiamenti semplici ma curati è facile giudicare When monday comes un disco riuscito, realizzato con competenza e varietà, eppure qualcosa manca e forse mancava anche a quel pop che mi aveva catturato quando ancora facevo le scuole medie: un certo coraggio di osare, di andare oltre l’orecchiabilità e strafare, anche a costo di sbagliare. Prim è un progetto sicuramente interessante, ma nel futuro vorrei più brani come Ireland, a cui basta l’ingresso improvviso della batteria di Davolio nei ritornelli per cambiare intenzione e far drizzare le antenne: cose semplici anche queste, ma che lasciano intuire un potenziale ancora da esprimere pienamente.


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Racconto in musica 87: Pensa alla salute (I’m not a blonde – Happy face)

Nel 2012 mi capitò in mano (si può dire “in mano” se in realtà mi arrivò in forma digitale?) un disco di cui ancora oggi mi viene da canticchiare la maggior parte dei brani. Si chiamava Retronica, lo aveva sfornato il duo 2Pigeons ed era un disco di musica elettronica fortemente influenzato da qualunquecosa: ritmi, tempi e atmosfere variavano in maniera caleidoscopica, c’erano ospiti di primo piano (Giovanni Gulino dei Marta sui tubi, Pierpaolo Capovilla di One dimensional man e Il teatro degli orrori e Roy Paci, tanto per dire) e la cantante, mioddio, che gran voce! Come capita troppo spesso sperai di vederli dal vivo e non escludo che l’occasione sia capitata, ma non la colsi: i 2Pigeons durarono lo spazio di un album, e io rimasi orfano dell’ennesima band.

Torniamo ai giorni nostri, precisamente all’anno scorso. Per vie traverse mi arrivò fra le mani (si intende sempre le mie mani digitali) un disco, XX di Stefano Giovannardi aka Structure (potete trovarne la recensione qui), in cui ogni canzone era cantata da una vocalist diversa: indovinate un po’ (rullo di tamburi) di chi era la voce in uno dei brani? Chiara Castello, ex metà dei 2Pigeons, con quel tono e quella fantasia inconfondibili che me l’avevano fatta amare quasi dieci anni prima. Da lì a cercare di capire cosa avesse fatto in quei dieci anni (perché non lo avevo fatto prima? Mistero) il passo è stato breve, ed è così che arrivo alla band, ancora una volta un duo, protagonista del racconto della settimana: le I’m not a blonde.

Conosciutesi nel 2014 per un progetto musicale fra elettronica anni 80 e punk naufragato poco tempo dopo, Castello e Camilla Mattley decidono di continuare a collaborare e si ritrovano presto con molto materiale. Già nel 2015 escono ben tre Ep, i cui brani confluiscono l’anno dopo nell’album d’esordio, Introducing I’m not a blonde, che le fa entrare nel roster dell’etichetta torinese INRI. Sound elettronico che si fa forza di chitarre catchy e di una spiccata vena ironica (il nome del duo fa riferimento al classico stereotipo riguardante la stupidità delle bionde ma, in termini più ampi, gioca anche col maschilismo imperante nel mondo della musica, come afferma Castello in questa intervista), i brani prendono dagli anni 80 e 90 il giusto per creare un’atmosfera divertente e divertita: come bonus nel disco sono presenti anche alcuni remix fra cui quello di Stop tempo ad opera di Kole Laca, una sorta di chiusura del cerchio visto che era il compagno di viaggio di Castello proprio nei 2Pigeons.

Nel 2018 arriva il secondo disco, The blonde album, e la formula viene ulteriormente raffinata. L’inizio con Daughter (scritta come altri tre brani con Gian Maria Accusani, voce e chitarra di Prozac+ e Sick Tamburo) è già fulminante, con le sue tematiche sulle aspettative della società che spesso ritornano nei testi di Castello, ed è specchio di un lato malinconico che qui si fa più pervasivo ma rimanendo come sottotraccia, insinuandosi nella pelle mentre muovi la testa a ritmo. Prodotto da Matilde Davoli con la collaborazione, nel brano A reason, di Daniel Hunt dei Ladytron, The blonde album è un ulteriore gradino di consapevolezza per il duo che nel frattempo macina concerti in Italia e non solo, visto che particolarmente Germania e Austria diventeranno un loro terreno di conquista (sarà che noi italiani facciamo ancora fatica con l’inglese? Va be’ io sono il primo, per cui facciamo che sto “j’accuse” me lo faccio da solo). Per il terzo disco, Under the rug, bisogna aspettare solo un anno, e qui Castello e Mattley affrontano tutto ciò che sta sotto al loro tappeto, ma anche sotto il tappeto della società (basta far caso ai testi semplici ma efficaci di Happy face e Latin boys, quest’ultimo ironicamente vicino a Girls just wanna have fun di Cindy Lauper), rimanendo fedeli al loro sound ma acquisendo sempre più sfaccettature e capacità di variare atmosfera all’interno di quella formula.

Il 2020 è ovviamente un anno di stop, anche se nemmeno la distanza ferma completamente le I’m not a blonde: esce un Ep acustico di tre tracce, Songs from home, in cui vengono rivisitati alcuni brani dal disco precedente e nel frattempo si lavora sotto traccia per un nuovo progetto che si concretizza a fine 2021. Welcome shadows, recentissimo Ep del duo, rappresenta la prima parte di un lavoro che vedrà il suo compimento in primavera con l’uscita di un secondo Ep, This light: i cinque brani già usciti rappresentano la parte più oscura del progetto, canzoni in cui Castello e Mattley hanno racchiuso le emozioni provate in questi ultimi due anni e hanno ragionato su temi come la paura e il senso della perdita, filtrando il tutto attraverso l’accettazione dell’inevitabile come parte integrante della propria vita. Oltre a questa buona notizia c’è anche quella della ripresa dei live, e le I’m not a blonde hanno già girato parte del nord Italia per fare quello che riesce loro meglio, portare le emozioni emerse in sede di scrittura su un palco: ovviamente io me lo sono perse, ma stavolta cercherò di rimediare con prontezza.

Di Happy face, terza traccia del disco Under the rug, ho già accennato qualcosa nell’articolo: nella canzone Castello fa emergere, senza bisogno di complicati giri di parole, l’essenza dell’oppressivo carico di aspettative che la società contemporanea ci scarica addosso, chiedendoci di sorridere anche quando non è lecito aspettarselo. L’intensità crescente del brano mi ha suggerito il ritmo delle parole, la consapevolezza che questo è un problema comune a entrambi i sessi mi ha spinto invece a lasciare anonimo (e questa non è una novità) e agender l* protagonista della storia: non ignoro che nella società contemporanea le donne soffrano maggiormente di quel carico, ma voglio lasciarvi liber* di immaginare chiunque in quelle dinamiche. Al solito trovate il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Pensa alla salute

Me lo ripetono da anni e così io gli do ascolto, li ascolto e obbedisco quando mi dicono che il segreto per una bella vita è sorridere. Davanti allo specchio la mattina mi piazzo la riga della bocca all’insù, con le mani se serve, sorridendo escono quelle fossette adorabili a cui devo la mia relazione. Sorridere fa questo effetto, permette che tutti ti vogliano bene.

Continuo a sorridere in metropolitana, sorrido ai mendicanti che mi chiedono l’elemosina, sorrido alle persone che si piazzano davanti alle porte e pretendono di salire prima di far scendere gli altri. Mamma mi ha insegnato l’educazione e la cortesia così sorrido di fronte ai piccoli soprusi, perché essere felici è un’arte che si impara evitando di dare troppo peso alle cose. A lavoro sorrido a colleghi e superiori che forse non rivedrò quando il mio contratto scadrà, ma con l’ottimismo e il giusto atteggiamento ogni problema si può risolvere così sorrido quando mi chiedono un favore, sorrido quando mi chiedono di fermarmi oltre l’orario di chiusura e anche quando mi chiedono di portare dei documenti da compilare a casa, durante il weekend, io mantengo la mia bella espressione felice e dico di sì.

Qualcuno ogni tanto mi suggerisce che dovrei impormi, farmi sentire, ma come si fa? Ogni no è una finestra chiusa sulle opportunità, ogni rifiuto provoca risentimento e il mondo è già pieno di gente arrabbiata, delusa dalla vita. Quando ci penso mi viene da piangere, così cerco di pensarci il meno possibile e quando proprio non ce la faccio, a non pensare, prendo le pastiglie che mi hanno prescritto e tutto torna sereno.

Sorrido mentre faccio la spesa, sorrido mentre cucino e sorrido mentre faccio le pulizie. Sono l’anima della casa e non mi pesa questo lavoro aggiuntivo, così rispondo con un sorriso a chi insinua che io mi faccia sfruttare. Voler bene a qualcuno non è un reato, voler bene a qualcuno è una scelta consapevole e bisogna passare sopra ai problemi superficiali per andare all’essenza di cosa vuol dire stare insieme. Farsi compagnia, avere qualcuno su cui contare. E poi non faccio tutto io, come dicono, non porto mai fuori il cane per la passeggiata serale durante il fine settimana.

Sorridere fa bene alla salute e lo dicono tutti, quando ci parli, che nella vita l’importante è la salute. Ora sto bene e sono in salute ma una volta non era così, stavo male e piangevo e sorridere mi ha fatto riprendere, le pillole mi hanno aiutato a ritrovare il sorriso e col sorriso è arrivata la salute che mi permette di sperare in una vita bella e lunga. Ecco perché ogni mattina mi convinco che tutto andrà per il meglio, scaccio i pensieri riguardanti i piccoli soprusi la fatica il futuro la felicità e ricompongo davanti allo specchio quella faccia felice che chissà perché, proprio non me lo so spiegare, di notte assume i contorni della disperazione.

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Show and tell: la fantascienza intimistica di The vast of night

Da appassionato di fantascienza, ma ben lontano dal potermi definire un esperto, ho sempre diviso la cinematografia di genere in due macrosezioni: quella caciarona e più interessata all’azione che agli argomenti (se non si considera come argomento il patriottismo) e quella che ragiona sul presente e/o sulla condizione umana a partire da suggestioni futuristiche. Fra un Indipendence Day e pellicole come 2001: Odissea nello spazio o Stalker c’è una distanza concettuale enorme, che sfuma poi in mille derivazioni che prendono elementi dall’una e dall’altra sponda creando ibridi più o meno soddisfacenti.

In quella zona di mezzo io ho trovato la mia nicchia ideale fra pellicole che, pur partendo da un presupposto fantascientifico, preferiscono concentrarsi sulle storie di persone comuni che incidentalmente finiscono per avere un ruolo importante o che si ritrovano semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ho adorato District 9, una riflessione sull’immigrazione portata avanti seguendo le vicende di un eroe per caso (e per forza), il modo in cui un film come Predestination sfrutta i viaggi nel tempo per imbastire una vicenda umana folgorante e apprezzato l’idea, pur realizzata con qualche tempo morto di troppo, da pseudo road-movie in una zona “contaminata” da presenze aliene di Monsters. The vast of night, come dovreste aver intuito, è un orgoglioso esponente di questa sottocategoria.

Se per guardarlo non avessi dovuto sovvenzionare Jeff Bezos sarebbe stato ancora più bello

New Mexico, anni 50: in un piccolo paese la centralinista Fay (Sierra McCormick) e il radioamatore Everett (Jake Horowitz) cercano di capire la natura di uno strano segnale intercettato dalla prima mentre sta ascoltando il programma radiofonico del secondo. Da questa premessa semplice e non particolarmente originale il regista esordiente Andrew Patterson (che ha anche co-sceneggiato e co-prodotto la pellicola) è riuscito a creare una storia che mantiene sempre alta la tensione narrativa, e lo fa principalmente attraverso le parole.

Una delle regole auree della narrazione è il famoso “show, don’t tell”: mostrare una situazione, facendo parlare le azioni, è sempre preferibile a spiegarla in maniera didascalica. Patterson sembra rispettare appieno questa regola, presentandoci Fay ed Everett attraverso le loro interazioni con gli altri cittadini, riuniti tutti o quasi nel palazzetto dello sport per la partita della squadra di basket locale: è un inizio folgorante, caratterizzato da un ritmo nella scrittura dei dialoghi che ci dice già tutto dei rispettivi caratteri e delle dinamiche superficiali della cittadina, mettendoci a nostro agio in attesa di arrivare al cuore pulsante della vicenda. Ed è qui che, inaspettatamente, il film rallenta.

Subito dopo aver intercettato il segnale Fay ed Everett decidono di trasmetterlo per radio alla ricerca, senza troppe speranze, di qualcuno che ne sappia di più al riguardo. Una chiamata arriva, e da qui inizia un racconto che privilegia le parole, tanto da oscurare nel vero senso della parola l’immagine. Affidandosi a quelli che normalmente verrebbero liquidati come “spiegoni” Patterson si prende un bel rischio, ma il regista riesce a inframmezzare queste sequenze ad altre in cui dimostra che le virate al nero non sono un modo per evitare di mettersi in gioco, riuscendo inoltre a mantenere sempre alta l’attenzione sui personaggi.

Con “virata al nero” intendo proprio una cosa così

The vast of night è un collage di diversi pezzi di bravura, amalgamati insieme a formare una pellicola intensa e non solamente messi lì per dimostrare il proprio talento. I personaggi reagiscono alle situazioni che si trovano di fronte in maniera plausibile e coerente coi loro caratteri (mi viene in mente una scena in cui Fay scatta in strada correndo per raggiungere un altro luogo, nonostante Everett possa darle un passaggio in macchina), i lunghi monologhi riescono ad essere avvincenti nonostante la totale staticità dell’azione, le trovate scelte da Patterson per passare da una zona all’altra della cittadina sono sempre interessanti e ottimamente girate: non contento il regista butta lì en passant anche il tema del razzismo nella società statunitense, lasciandolo emergere in maniera discreta e senza abusarne.

Dove vada a parare il film è facile da intuire mettendo insieme i pezzi “New Mexico” e “esperimenti militari segreti”, ma è il modo in cui ci arriva a rappresentare una ventata di freschezza nel genere. Ci si affeziona a Fay ed Everett, si fa il tifo per la loro indagine (sempre meno dilettantistica man mano che prosegue) e si teme per la loro incolumità quando le cose iniziano a farsi pericolose: un traguardo niente male, contando che l’affiatamento fra i due è stato trovato nel corso di soli diciassette giorni di riprese. Ci sarebbe da parlare anche del finale, ma comprometterebbe l’esperienza: facciamo che, se deciderete di vederlo, ne parliamo insieme nei commenti. Un bell’applauso a Patterson, speriamo che mantenga le promesse e non si perda come un Neil Blomkamp qualsiasi.

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