Come il racconto, ma con più traumi: Spiderhead

Qualche anno fa ho frequentato un corso di scrittura creativa alla scuola Belleville di Milano, a conclusione del quale ho presentato un progetto editoriale a un editore e ad un agente letterario. Il mio progetto partiva già con una pecca: era una raccolta di racconti. Per la precisione una raccolta di Storie d’amore andate in merda (questo il nome in codice), che a me sembrava una gran bella idea ma evidentemente a chi ha letto la mia presentazione e la sinossi no. Nel prepararmi a comunicare il mio progetto la editor Cristina Tizian mi suggerì di trovare un secondo filo conduttore da aggiungere a quello dell’amore (finito in merda), perché a quanto pare sono l’unico a cui non frega niente che una raccolta di racconti non presenti legami specifici fra una storia e l’altra, e visto che le mie storie avevano molti spunti surreali e fantascientifici mi suggerì un libro da cui trarre ispirazione: Nel paese della persuasione di George Saunders.

Dalla lettura di quel libro ammetto di essere uscito, a livello puramente editoriale, con la convinzione che se hai la supercazzola pronta puoi convincere la gente di legami inesistenti, perché nel libro di Saunders non ho trovato chissà quale unità (anzi, l’ho apprezzato proprio per questo). Ho scoperto però un autore con una fervida fantasia, la capacità rara di variare tono e stile con efficacia e il gusto per il meltin pot di generi, tutte cose che ho adorato fin da subito. Non ho ritrovato nelle sue altre raccolte lette finora (Pastoralia e Dieci dicembre, nell’ordine precedente e successiva a Nel paese della persuasione) lo stesso equilibrio fra critica sociale, sarcasmo ed empatia, ma qualche sprazzo di quella verve sì: ad esempio nel racconto Fuga dall’aracnotesta, inserito in Dieci dicembre, da cui ho scoperto con una certa sorpresa che è stato tratto un film prodotto da Netflix.

Io non so che gusto abbia Netflix nel confezionare immagini di lancio e locandine in cui gli attori fissano il vuoto, possibilmente da angolazioni diverse, ma il caso ha voluto che ad attirare la mia attenzione fosse il faccione di Chris Hemsworth, un nome abbastanza grosso da alimentare la speranza che questo fosse un progetto più interessante della media (non come la mia raccolta) e pertanto meritevole di un approfondimento. Appena partito il trailer ci ho messo poco a fare due più due, meno del tempo che ci è voluto per veder spuntare il nome di Saunders come ispiratore della sceneggiatura, e a quel punto mi è scattata la curiosità anche se, a leggerne in giro, non sembravo proprio perdermi granché. Ma che ci volete fare, per fortuna un uomo può sognare, e siccome non avevo nient’altro di cui parlare e non volevo saltare l’appuntamento per la seconda settimana ho deciso che guardare il film tratto da un racconto che non sembrava offrire abbastanza spunti per un film poteva essere una buona idea.

Spiderhead mi ha fatto tornare in mente due cose. Una è un film, Ex Machina, una delle pellicole più riuscite degli ultimi anni a tema fantascientifico; l’altra è questo articolo (che forse avevo già citato in precedenza), in cui si parla di come il trauma sia una parte ormai essenziale del background dei personaggi di finzione e di come finisca per appiattirne la caratterizzazione. La pellicola di Joseph Kosinski mette infatti i suoi personaggi in una situazione potenzialmente simile a quella di Ex Machina (pochi personaggi concentrati in una località isolata, un esperimento in corso e il mistero riguardante le vere intenzioni di chi lo ha progettato), ma il confronto è reso impari (anche) da un abuso del trauma.

Qui c’è stato un trauma

La trama vede Jeff (Miles Teller), un detenuto che si è volontariamente iscritto a un progetto sperimentale pur di sottrarsi al carcere, prestarsi come cavia per gli esperimenti di Steve Abnesti (Hemsworth), un loquace e carismatico tecnico di laboratorio che attraverso alcune fiale, inserite in un meccanismo alla base della spina dorsale, influenza le percezioni sensoriali ed emotive delle persone: con una dose di Luvactin™ una persona qualsiasi ti appare la più bella sul pianeta, con il Verbaluce™ ti esprimi in maniera più precisa e raffinata e ci sono altre fiale che stimolano l’appetito, l’ilarità o, al contrario, la tristezza. Il racconto di Saunders stava tutto qui: una situazione ristretta, un esperimento apparentemente bizzarro le cui connotazioni morali e materiali si fanno sempre più complicate e lo strano rapporto fra carcerieri e carcerati che fa alternativamente sorridere e riflettere, fino a quando non si fa inquietante.

«Basta, mi sono rotto», disse Abnesti. «Verlaine? Come si chiama? Quello che do un ordine e lui obbedisce?»

«Docilflex®», disse Verlaine.

«Ce l’ha il Docilflex® nel MobiPak®?», disse Abnesti.

«Il Docilflex® è in ogni MobiPak®», disse Verlaine.

«Deve rispondere “Affermativo”?» disse Abnesti.

«Il Docilflex® è di classe c, quindi…», disse Verlaine.

«Ecco, io mi domando e dico», disse Abnesti. «A che serve un farmaco per l’obbedienza se bisogna chiedergli il permesso di usarlo?»

George Saunders, Fuga dall’Aracnotesta

Come si crea un film da un racconto che al massimo potrebbe dare materiale per una puntata non troppo lunga di Black Mirror? Aggiungendoci cose e, possibilmente, estremizzandole. Così quando su Jeff viene sperimentato il Luvactin™ non si trova più di fronte due ragazze passabili con cui all’improvviso ha voglia di fare sesso (e lo fa) come se avesse di fronte le donne più belle del pianeta, ma una ragazza effettivamente bella e una donna scheletrica più anziana di lui; la struttura dell’Aracnotesta è più delineata e complessa, tanto da permettergli di dividere la sua stanza con Lizzy (Jurnee Smollett), una ragazza arrivata da poco che si delinea chiaramente fin dalle prime scene come il love interest del protagonista (e che nella locandina, senza un senso logico, ha la posa sinuosa della classica femme fatale che non è) e da permettere a noi di vedere gli altri “ospiti” della struttura, utilizzati perlopiù come macchiette comiche; Abnesti (SPOILER) non è più un semplice operatore (cosa che nel racconto si evince chiaramente dal dialogo riportato sopra), bensì il capo del progetto che è oltretutto dipendente dagli stessi prodotti che testa sulle sue cavie; i personaggi vengono caricati di un passato traumatico, usato alla bisogna per spiegare perché agiscono come agiscono, e la trama si concentra più su quello che sull’esperimento in sé le cui implicazioni passano sostanzialmente sotto traccia: succedono cose, muore della gente e fatichi a capire perché e, soprattutto, perché dovrebbe fregartene qualcosa.

Ma ci tengono a specificare la fonte: tutto questo è molto metanarrativo

Ritornando al paragone con Ex Machina, nel film di Alex Garland tutto funzionava perché non spiegava niente di più di ciò che era necessario: il passato dei personaggi rimaneva fuori dal contesto, i loro rapporti erano tutti incentrati sul “qui ed ora” e tutto era collegato a filo strettissimo con l’esperimento alla base della trama. Spiderhead è invece un film confuso, che vira dal comico al thriller senza una direzione precisa, che aumenta sempre di più la dose di traumi con l’avanzare degli eventi (emblematico il caso di Jeff, condannato al carcere per un incidente da ubriaco le cui conseguenze ci vengono svelate in almeno tre distinti flashback sempre più approfonditi) per… Boh, giustificare le azioni di chi le compie? Davvero? Davvero il fatto che (SPOILER) Abnesti sia stato abbandonato a otto anni dal padre presso una famiglia adottiva (dicendogli che lo avrebbe portato al campo estivo) lo giustifica nel creare sostanze con cui vuole avere il controllo sulla mente delle persone? Non ci crede neanche lo sceneggiatore, che infatti liquida quello che poteva essere un dialogo pieno di pathos come scena di intermezzo fra una scazzottata e una fuga.

Non voglio mettere più croci addosso a Spiderhead di quante se ne meriti, perché esiste ben di peggio, ma lo spreco è una cosa che mi fa incazzare. Gli sceneggiatori Rhett Reese e Paul Wernick hanno preso una storia con del potenziale e, nello stiracchiarla per farla stare nella cornice di un’ora e quaranta, hanno deciso di concentrarsi su caratteristiche da pilota automatico invece di espandere le domande insite nella fonte (si può cambiare la natura umana? Dove ci si può spingere per farlo? Ha senso farlo? Potrebbe davvero portare a un mondo migliore?), che rimangono solo abbozzate. Il risultato finale è una discreta performance attoriale (Hemsworth si sarà divertito molto a girarlo), condita un bombardamento di musica fra ogni scena (un trucco per camuffare la sceneggiatura tentennante? Gli esce sicuramente meglio che a Cinquanta sfumature di nero, ma non è che sia un paragone nobilitante) e una trama con colpi di scena perlopiù telefonati a cui non manca un happy ending che, guarda un po’, era assente nel racconto di Saunders: una concessione a quello che Netflix pensa voglia il pubblico (e magari lo vuole veramente), esattamente ciò che le pellicole che vogliono davvero dire qualcosa di memorabile non fanno.

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Racconto in musica 106: Fantasmi di provincia (L’Orso – Baci dalla provincia)

Foto di copertina di Valeria Pierini (http://valeriapierini.it/?page_id=1406)

Avete mai pensato all’obsolescenza tecnologica associata alla fruizione della musica (che frase eh? Si vede che sono un perito elettrotecnico)? Non intendo il fatto che se avete una musicassetta in casa probabilmente non avete nessun mezzo per ascoltarla, ma il fatto che i server su cui vengono caricati i nostri contenuti possano essere cancellati, che i siti (e social network) che siamo abituati ad usare possano un giorno sparire con tutto ciò che abbiamo affidato alla memoria digitale, e magari solo a quella. Questa domanda ha cominciato a circolarmi nel cervello a partire da questo articolo (scoperto con soli tre anni di ritardo), in cui si parla della cancellazione di tutti i contenuti antecedenti il 2019 su MySpace, social ante litteram in cui erano custodite ben cinquanta milioni di canzoni. Cinquanta milioni! Pensate a quante band che nel frattempo si sono sciolte e di cui magari le uniche tracce erano riscontrabili proprio lì, tipo i miei [progetto morosa], la copia degli Offlaga Disco Pax che mettemmo in piedi io e un amico con testi che parlavano di apocalissi, Voltaire, violenza domestica e serial killer giapponesi. In questo blog cerco di parlare prevalentemente di gruppi che sono ancora attivi (e che pertanto potete ancora sovvenzionare per fare in modo che continuino a fare musica), ma un salto nel passato ogni tanto è cosa buona e giusta per tenere traccia della storia della musica indipendente: quindi oggi parliamo di L’Orso, band scioltasi nel 2016 e scelta da Antonio Vangone come musa ispiratrice per il suo racconto.

Antonio l’ho scovato in quel bellissimo luogo che è il multiperso creato da Carlo Sperduti, di cui siamo entrambi assidui frequentatori (qui trovate tutte le sue microfinzioni), rimanendo affascinato dalla sua eclettica fantasia. E proprio con la narrativa brevissima lo vedremo esordire prossimamente con pièdimosca, casa editrice molto interessante di cui vi abbiamo già parlato (e continueremo a parlare molto presto). Classe 1995, Antonio è stato finalista al Premio Raduga nel 2017 e ha sparso i suoi racconti su molte riviste letterarie: potete leggerlo su Split, Firmamento, Pastrengo, Clean, Ammatula, Risme (sul numero 3), COYE (al momento in stato “gatto di Schroedinger”: forza!), Bomarscé e altre. Ricordate: i link sono fatti per essere cliccati, non fate i timidi!

Il progetto L’Orso nasce invece a Ivrea nel 2010 da un’idea di Mattia Barro, che già nell’anno successivo autoproduce il primo Ep L’adolescente, cinque brani costruiti perlopiù sul binomio chitarra-voce (o anche ukulele-voce) che parlano della realtà di provincia, un tema caro a Barro che infatti, già preso sotto l’ala dell’etichetta Garrincha Dischi e unitosi artisticamente a Tommaso Spinelli (basso e voce), chiamerà proprio La provincia il suo secondo Ep, uscito sempre lo stesso anno. È un periodo molto prolifico per L’Orso, che nel biennio 2011-2012 partecipa anche a due compilation di Garrincha (Il cantanovanta, con la cover di Serenata Rap di Jovanotti, e Il calendisco, con la cover di Luglio di Riccardo Del Turco), fa uscire un terzo Ep (La domenica) e approda infine, nel 2013, al primo album omonimo. L’Orso (il disco) si divide equamente fra brani dei precedenti Ep e canzoni nuove, tutti immersi in una cornice indie-pop-folk che passa dall’introspettivo allo sbarazzino, mischiando esperienze personali e riferimenti alla cultura pop (splendida la canzone semi-dedicata a James Van Der Beek con ospiti i Magellano). Parte un tour di svariate date in giro per l’Italia (e qualche puntata anche in Europa), L’Orso si trasforma sempre più in una band con l’ingresso di Gaia D’Arrigo (synth, violino, tastiere e cori) e Giulio Scarano (batteria) e nell’autunno dello stesso anno una riuscita campagna su Musicraiser li porta a suonare con un’orchestra alle spalle al Teatro Oscar di Milano.

Si fermano dopo questa serie inarrestabile di soddisfazioni? Manco per idea! A fine 2013 esce un quarto Ep di outtakes e inediti (Il tempo passa), nei primi mesi del 2014 collaborano con Mecna (ospite in una versione alternativa di Quanto lontano abiti, b-side del singolo Ti augurerei il male) e a febbraio 2015 esce il secondo disco, Ho messo la sveglia per la rivoluzione, cui collaborano nel brano Baader-Meinhof anche i compagni d’etichetta Lo Stato Sociale. Nel frattempo si sono divise le strade con Spinelli e Scarano, sostituiti da Omar Assadi (chitarra e voce), Francesco Paganelli (basso e voce) e Niccolò Bonazzon (batteria), la musica si è fatta più elaborata e più tendente al pop elettronico e qualcosa, fuori dai riflettori, comincia a scricchiolare. Il pubblico se ne accorge solo a cose fatte, quando nel 2016 la band annuncia sui social prima una pausa a tempo indeterminato e poi, qualche mese più tardi, lo scioglimento definitivo, ma Barro rimuginava probabilmente già da un po’ su quel che stava facendo e su quanto aderisse ancora alla sua visione della musica e della vita: “non stavo pensando a chi fosse davvero Mattia”, dirà in seguito, quando dopo tre anni di silenzio tornerà all’attività musicale cambiando completamente. Splendore, il moniker (derivato dal cognome della madre) con cui è conosciuto oggi, è un progetto completamente nuovo per genere musicale (sperimentazione elettronica, condita sempre da un certo retrogusto pop) estetica e narrazione di sé, visto che Barro fa coincidere la svolta di carriera con l’annuncio della sua pansessualità e la rivendicazione di essere un artista bi+. Ci sarebbe molto da dire anche su Splendore e sul collettivo Ivreatronic di cui è parte integrante, e chissà che non lo faremo un giorno…

Baci dalla provincia è una delle prime canzoni de L’Orso, ed è uno dei brani migliori per definire la poetica della band: il racconto di alcuni episodi di vita lungo gli anni, un lui e una lei che si sfiorano fra lavoro, università, concerti e feste con un’unica consapevolezza, “la provincia ci ha uccisi”. Antonio sfrutta questa ambientazione per mostrare il rapporto fra due persone, il bancone di un bar e le scelte fatte nella vita a dividerli, mentre in un’anonima serata si raccontano aneddoti strani ed inquietanti prima di lasciarsi nuovamente. Potete leggere il racconto come al solito subito dopo la canzone che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Fantasmi di provincia, di Antonio Vangone

Raccontami la cosa più strana che ti sia mai capitata, gli dice, una sfida negli occhi chiari.

Dal bancone, con la testa pesante e le narici piene d’alcol, la guarda, mente.

Una volta da bambino mi sono perso. Ero in campeggio con i miei genitori dalle parti di Rimini, una sera dopo cena loro stavano assistendo a non ricordo quale spettacolo, cabaret mi pare, comunque sia mi allontanai. Seguivo una luce, tipo, una luce piccola più grande di una lucciola ma non una luce del tipo stai morendo, non la luce in fondo al tunnel, capito no? Sferica, velocissima, pensa un alieno o una fata, oppure uno di quei fulmini globulari di cui parlano tanto su Internet, boh. Dopo un po’ la persi di vista. Ricordo solo la tristezza di non vederla più e che mi ritrovai mano nella mano con una signora anziana, mi sorrise e mi disse ora ti porto da mamma e papà, ma quando arrivammo all’ingresso del campeggio mi salutò. Mi chiamò per nome, ma non ricordo di averle mai detto come mi chiamavo e neppure che i miei genitori fossero lì. Ero piccolo, è vero, a quell’età i ricordi non sono affidabili, però fu stranissimo comunque. Per quanto ci rifletta non so darmi una spiegazione normale.

Silenzio. È bella mentre pulisce attenta un bicchiere, fischia piano.

Bella storia. Ti meriti un premio, ti va un altro gin tonic?

Certo. Però raccontami qualcosa anche tu.

Posso provarci, ma dubito di averne alla tua altezza. Ti ricordi di Giacomo, no?

Purtroppo.

Già. Ai tempi abitava con i genitori in quel palazzone rosa in via Emilia. Una notte prendo l’ascensore, viveva all’undicesimo piano, a me gli ascensori non piacciono di base ma insomma ero obbligata, si ferma ed entra un tizio, completo marrone, abbastanza in là con gli anni e già lì mi cago sotto, erano tipo le tre di notte e questo tizio è un armadio. Non sembra prestarmi attenzione, quindi un po’ mi calmo. A un certo punto però si gira e il suo volto è cambiato, cioè quando è salito mi era parso normale, ora è orribile, non so come descrivertelo, come quello di un demone giapponese, paonazzo, tutto zanne e cattiveria. La sua espressione non la dimenticherò mai, era di rabbia pura, terrificante. Non so come abbia fatto a non urlare… Rimaniamo così fermi per un paio di minuti, poi per fortuna l’ascensore si ferma al secondo piano e lui scende. Poi chiesi a Giacomo se per caso il condominio fosse infestato. Se la rise, mi disse che avrebbe chiesto ai suoi genitori o alla nonna, solo che ovviamente non lo fece mai. Non era il tipo da interessarsi a cose del genere.

Capisco. Che roba, mamma mia.

Sì, eh.

Che fine ha fatto Giacomo?

Boh, ha trovato lavoro a Torino. Ora vive lì, credo. Preferisco non interessarmene troppo.

Fai bene.

Tu?

Io?

Quand’è che riparti?

Ah, martedì.

Ti sei fermato poco, stavolta.

Sì, ho un sacco da fare con gli esami.

Capisco, capisco. Ah, è ora di chiudere. Ti serve un passaggio?

No, grazie mille, non c’è bisogno, faccio due passi.

Va bene.

Attenta ai vecchi demoniaci.

Tu alle strane luci.

Mi raccomando.

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Racconto in musica 105: Questione d’efficienza (White Hills – No will)

Milano, 10 giugno 2017. In quel della Santeria si svolge la seconda edizione di un festival, l’OOOM, che dal nome e dalla line up sembra promettere davvero bene in quanto a esperienza psichedelica… Anche se in realtà io conosco solo uno dei gruppi che suona, sono lì principalmente per loro e, parlandoci, gli confesso che non so mica cosa facciano gli altri. Il chitarrista della band mi dice “tranquillo, dopo ci droghiamo e ci facciamo un bel viaggio”, quindi dopo la loro esibizione… Ci facciamo una canna. Sì, niente LSD o chissà che. Siete delusi? Vi aspettavate un racconto tipo Paura e delirio a Las Vegas? Mi spiace, sarà per la prossima, ma l’esperienza psichedelica c’è comunque.

La crea, già con la sola presenza sul palco, la terza band in cartellone, dopo Valerian Swing e In Zaire e prima dell’esibizione di Paolo Spaccamonti e Föllakzoid. Il batterista, camicia rossa elegante, amplifica il suo colorito cadaverico che, vuoi anche per le dimensioni, lo fa sembrare una specie di Frankenstein agghindato per le grandi occasioni; la bassista sembra uscita da Matrix, fasciata da capo a piedi in abiti di pelle nera aderente; il chitarrista, per rimanere in tema, arriva dritto dritto pure lui da un film degli anni ’90, perché è una copia sputata del lercissimo produttore discografico Philo Gant in Strange days. Quando iniziano a suonare, condendo i suoni acidi dei loro strumenti con riverberi sulle voci (degli ultimi due) e tappeti di synth lisergici (suonati sempre dagli ultimi due), il mio cervello va in corto circuito e se ne innamora seduta stante. La band sul palco in quel momento erano i White Hills.

Probabilmente la band newyorkese formata da Ego Sensation (voce, basso, synth) e Dave W. (voce, chitarra e synth), fondatori e unici membri stabili dal 2003 ad oggi, è una di quelle per cui usare la formula rock psichedelico aiuta a dirimere in fretta la questione su “che genere fanno”? E lo so che vuol dir tutto e vuol dir niente, ma provate ad addentrarvi nella loro sterminata discografia e ci troverete di tutto: elettronica, hard rock, stoner, post-punk, industrial, il tutto spesso ammantato di riverberi ed echi che rimbalzano nelle orecchie fino allo stordimento di ogni capacità intellettiva. Fare una cronistoria della loro carriera è un’impresa, significa sgomitare fra album, Ep, live, split (con GNOD e Heartless fra gli altri), tutti editi dal 2009 dall’etichetta Thrill Jockey, che ogni tanto spuntano fuori come funghi allucinogeni, quindi meglio concentrarsi sulla descrizione che danno di loro stessi su bandcamp:

White Hills are proponents of transformation through sound. The music made by Dave W. and Ego Sensation is risky and cutting edge, while being hyper-conscious of society’s constant desire for a new and better drug.

Il desiderio di una “nuova e migliore droga” doveva essere presente anche nel regista Jim Jarmusch, che dopo averli scoperti live li ha voluti a tutti i costi all’interno della sua personalissima rilettura del vampirismo Only lovers left alive, nel 2012, immortalandoli live mentre eseguono la canzone Under skin or by name. Ipnotici, selvaggi, Dave W. e Ego Sensation dal vivo rilasciano la stessa carica sensuale e prorompente che emerge nel film (che vi consiglio) e che mi ha portato a godermeli dal vivo ancora nel 2019, grazie al Circolo Gagarin di Busto Arsizio, dove anche in duo e con Ego Sensation costretta dietro la batteria (e col basso registrato) hanno comunque dimostrato di essere una furia che si sfoga in ogni direzione consentita, basta che ti lasci alla fine l’impressione di una bella botta.

No will è la traccia che apre Walks for motorists, album del 2015 che rimane fra i miei preferiti. Il ritmo incalzante, il titolo (più che il testo) e lo sfogo finale mi hanno fato immaginare una storia ambientata principalmente in un ufficio dove si svolge un lavoro non ben definito, con una figura sfuggente la cui mancanza di volontà sembra occultarla alla memoria e improvvise sparizioni a fare da contorno: la trovate come al solito dopo il brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Questione d’efficienza

Facci caso. Sta sempre a qualche sedile di distanza dal tuo, sulla metropolitana, ma se ti giri anche solo per un attimo fatichi a ricordarne il volto. Si può essere completamente anonimi? Sì.

Lavora nel tuo stesso ufficio, te ne sei accorto solo dopo qualche mese. Sta lì davanti allo schermo del computer come in attesa di una rivelazione, le mani che si muovono lente sulla tastiera. Chiedi, durante una pausa caffè, se la risorsa allocata alla postazione 118 è produttiva. Chi?, ti chiedono. Nessuno, rispondi, e parli d’altro.

Sapere che esiste a volte ti innervosisce. Come si fa ad andare avanti per inerzia? Sgobbate tutti per un avanzamento di carriera, una casa più grande, una macchina più veloce. Tutti. Passare accanto alla postazione 118 è come trovarsi vicino a un’idrovora che assorbe la volontà: pochi secondi e non sei più sicuro di quello che vuoi ottenere dalla vita. Vorresti parlarne davanti al gin tonic del venerdì in ufficio, alle nove di sera, ma te ne scordi. Non era importante.

Siete efficienti, ma non abbastanza. Dall’alto arriva un richiamo generico: qualcuno non produce come dovrebbe. Vi guardate con facce stupite, sorridi dentro perché sai che non si parla di te. Sei una risorsa essenziale, non come 217 o 72, vecchie, fuori mercato: sacrificabili. Poi passi davanti alla postazione 118 e ti ricordi chi è l’anello debole: eppure resiste. Cosa fa tutto il tempo? Cosa non fa? Forse bisognerebbe non fare per ottenere una promozione? Sei qui da quasi due anni, avrebbero già dovuto accorgersi di te, il panico ti stringe la gola ma sulla scrivania c’è un nuovo documento da analizzare e torni efficiente, risoluto. A cosa stavi pensando poco fa?

97 non c’è più. Avresti pensato a tutti, ma non a 97. Anche per il resto dell’ufficio è così, lo percepisci. Le chiacchiere alla macchinetta del caffè sono meno spontanee, più veloci: hanno tutti fretta di tornare al lavoro. Pensi che forse lo hanno promosso, dev’essere così.

No, dice una voce vicino a te.

118. Sta lì con una postura gobba che ti sembra stranamente familiare, le mani immobili sul tastierino numerico. La sua massima concentrazione confina con la noia. Non può aver parlato, sarebbe uno sforzo troppo grande.

Una sera a casa ti accorgi di una figura fuori dalla finestra. La guardi, ti sembra di conoscerla. Sorride. Sbatti le palpebre, ti volti e torni in cucina. Cosa mangerai stasera?

42. 237. 69. Manca sempre più gente in ufficio. Evitate di parlarne, vi scambiate falsi sorrisi di circostanza. Per distrarti pensi a una macchina veloce, un giardino con piscina.

Arrivi il lunedì e le postazioni sono deserte, gli schermi spenti, nessuno che batte sulle tastiere. Percorri i corridoi tre volte prima di accorgerti che non sei solo.

118 ti aspetta. Fa segno con la mano di avvicinarti, questa volta non puoi fare a meno di prestare attenzione. Sullo schermo c’è un numero, lo riconosci. È il tuo.

E 118, con calma, come se l’operazione fosse troppo noiosa per metterci impegno, schiaccia il tasto delete.

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Sull’arte del fare quel cazzo che ti pare: Requiem dei Verdena

Se fossi un giornalista serio questo articolo inizierebbe con un disamina su ciò che funzionava nel 2007, un’analisi attenta sulle mode musicali e su ciò che c’è stato prima: e invece no. Non che io non prenda seriamente quello che scrivo, ma la mia memoria ha parecchi buchi e se si parla di datare un disco buonanotte, figuriamoci ricordarmi cosa ascoltavo in un dato anno o, ancora peggio, pensare a cosa andava per la maggiore: vi posso cantare a memoria tutte le canzoni di Dall’impero delle tenebre de Il Teatro Degli Orrori, ma l’informazione che è uscito nell’aprile 2007 non so per quanto resisterà nella mia mente, ed è un album che ho adorato. Era il momento del noise? Boh. So solo che, facendo qualche rapida ricerca, la classifica degli album più venduti in Italia fa venire una tristezza infinita.

Primo posto? Davvero? Ma io torno ad ascoltarmi i Plasma Expander piuttosto

Non ricordando ciò che è venuto prima e ciò che c’era in quel momento (e, se proprio vogliamo, manco ciò che è venuto dopo, ma scartabellando fra i miei dischi ho scoperto che nel 2008 era uscito l’omonimo esordio dei Fake-P, uno dei gruppi italiani più sottovalutati della storia e che vi consiglio di recuperare in qualche maniera) è utopico pensare che io sappia entrare nella testa dei Verdena per capire cosa li ha portati a concepire Requiem, ma di certo il quarto album della band bergamasca è stato una bella sorpresona per tutti. Che Alberto Ferrari, Roberta Sammarelli e Luca Ferrari non si fossero accontentati dell’etichetta di “Nirvana italiani” era già chiaro da Solo un grade sasso, ma ascoltando i primi tre album si percepiscono, a livello di suoni e atmosfere, più similitudini che differenze: un certo gusto per le melodie malinconiche e disagianti, arrangiamenti che spesso privilegiano la ripetizione di determinati riff, il tutto espresso con più fantasia col passare degli anni. Requiem cambia tutto, pur non disconoscendo quanto fatto fino a quel momento.

Lo si evince già dal primo singolo estratto, Muori delay, che pure non è per niente la traccia più rappresentativa. Breve rispetto alla durata media degli altri brani del disco, presa bene rispetto ai loro soliti standard, la canzone che fa da apripista all’album fa già capire che le sonorità sono più grosse e grezze, che Alberto ha voglia di sperimentare con la voce e che gli arrangiamenti si preannunciano più elaborati: in neanche tre minuti infilano un riffettino hard rock che ti si appiccica addosso, un ritornello stoner con un effetto tellurico che aumenta col passare dei secondi e un assolo dai toni vagamente psichedelici. Tre cose distinte che messe insieme funzionano parecchio, e capiterà spesso che le associazioni nei brani siano tutt’altro che scontate.

Tralasciando Marti in the sky, introduzione sui generis che se non altro testimonia della voglia di giocare (e in parte inquietare, con quelle voci che si affastellano sul finale), Don Calisto è il punto in cui si capisce quanto il suono dei Verdena è cambiato. Ed è la traccia numero due. È tutto più sporco, grezzo ma in maniera personale, la voce tirata indietro rispetto agli strumenti e più sguaiata, l’arrangiamento semplice e dritto è l’unico elemento che fa sentire un po’ a casa ma l’energia che si respira è diversa, più libera e selvaggia, come se la band si fosse liberata di qualche freno inibitorio che ancora inconsciamente resisteva. Non prendere l’acme, Eugenio non rappresenta il punto più lisergico del disco, ma arrivati qui abbiamo già la certificazione che i Verdena hanno deciso di fare il cazzo che gli pare e di fregarsene di qualsiasi discorso riguardante la vendibilità della loro musica.

La traccia numero tre di Requiem è un continuo ritorcimento su sé stesso degli stessi elementi che suonano sempre nuovi, alza e abbassa il livello della tensione emotiva con istinto più che calcolo, sembra già esplodere tutto al minuto 2:32 e invece torna con naturalezza al riff iniziale, prosegue incantando per un altro minuto abbondante e poi diventa un macigno grosso e lento il cui unico scopo è frantumarti le orecchie col suo incedere, un destino che ti avevano già suggerito ma che stupisce comunque dispiegandosi in tutta la sua potenza. Sei minuti di magnificenza che passano veloci come un lampo e che allo stesso tempo sembrano durare un’eternità, un’eternità che a livello discografico è rappresentata da canzoni come Il Gulliver e Sotto prescrizione del dott. Huxley, più di dieci minuti di durata a testa. Lo avevo già detto che con questo disco il trio ha deciso di fare il cazzo che gli pare?

Sono i dettagli a fare grande un disco, le cose che ti lasci alle spalle con noncuranza inanellando subito dopo qualcosa che non ti fa rimpiangere quell’abbandono. Come quando parte Isacco nucleare e ti dispiace che il riff granitico con cui inizia venga abbandonato dopo cinque secondi, ma tanto dopo hanno modo di sballottarti il cervello nel cranio con tanta irruenza che dici va be’ amen, chi ci pensa più dopo che le urla nel ritornello si fanno strumento e ti mettono dentro ansia e voglia di pogare contro le pareti, e invece il finale è tutto per quel riff che ti avevano fatto subodorare all’inizio. Come quando Il caos strisciante gioca a riproporre stilemi più conosciuti, malinconia e distorsioni più accomodanti, alternandoli a momenti in cui parte per la tangente e si insinua malevola come le creature di Lovecraft infettavano gli incubi dei malaugurati che ci avevano a che fare. Come quando Angie, la traccia più radiofonica (non a caso scelta come secondo singolo) insieme a Trovami un modo semplice per uscirne, abbandona la placida tristezza in cui si è crogiolata per sprofondare nel finale in un’inquietudine sottile, fatta di frammenti sconnessi di frasi e di vagheggiamenti elettronici che si chiudono di botto, lasciandoti confuso. Come quando (e poi la smetto) Canos butta nel calderone suggestioni folk, psichedelia e un’atmosfera al contempo sensuale e oppressiva.

L’inquietudine, Alberto Ferrai 2007

I membri della band hanno spiegato che, diversamente dai precedenti dischi in cui le cose più sperimentali venivano lasciate da parte per poi trovare spazio negli Ep, qui le lunghe jam in sala prove hanno avuto un’importanza fondamentale per la costruzione dei brani. È un modo di lavorare che risulta evidente nelle due lunghissime canzoni citate prima, talmente dense di spunti da meritare un articolo a parte (e contate che già questo articolo nasce come costola di un discorso più generale, per cui non esageriamo). Il Gulliver piazza dentro di tutto, si apre con una melodia bella ariosa che quando viene ripresa, dopo un terremoto di frequenze basse, ti stupisce per quanto due cose apparentemente agli antipodi possano funzionare insieme, poi quando ti aspetteresti la fine parte in gita nel deserto con i Kyuss di Spaceship landing e poi muta ancora e ancora, fra saliscendi emozionali e almeno uno stop & go che ti lascia col cuore sospeso; Sotto prescrizione del dott. Huxley ha invece una progressione più ordinata, e nel finale si apre a una psichedelia più orientaleggiante (o, se vogliamo, a ciò che in occidente è stato influenzato dall’oriente), chiudendosi con un coro di voci al contrario che sono state registrate mentre una processione passava fuori dalla loro Henhouse, lo studio di registrazione ricavato da un pollaio che è da anni la loro casa base: diversamente da Tuco ne Il buono, il brutto e il cattivo, in questo caso anche Dio era dalla loro parte.

Verticalità allucinate

Che dire di più? Insomma, azzeccano pure i video: la gioia nonsense di Muori delay a base di nuoto sincronizzato e impiegati tuffatori; la lenta deriva sensual-horror di Angie, con la band che fa le veci dell’orchestrina su un battello retrò (gli sguardi fra l’allucinato e il perverso che fa Alberto negli attimi finali mi fanno pensare che qualcuno dovrebbe dargli una parte in un film); l’appuntamento a gravità zero di Canos, che a livello estetico mi ricorda alcune parti di Under the skin (ma con sette anni di anticipo); l’allucinata verticalità di Isacco nucleare, nata all’interno di un contest con cui i Verdena hanno coinvolto direttamente i fan. Requeim è un disco che, a quindici anni di distanza, non ha perso niente del suo fascino, della sua bizzarria, della sua estrema libertà: ti vien da dare il merito alla fantasia percussiva di Luca, ma poi ti accorgi di quanto sono cambiati i suoni della chitarra di Alberto e quanto è versatile la sua voce (sui testi non mi esprimo, non è che li abbia mai capiti ma posso esprimere un roboante chissenefrega se qualcuno mi tocca nel profondo cantando del fatto che “non cresce più poesia”. Però mi chiedo: perché un hare krishna non dovrebbe prendere l’acme?) e finisci per ricordarti che senza il basso granitico di Roberta tutto questo non suonerebbe così grosso, così stoner. Se ho una speranza per il nuovo disco, annunciato qualche giorno fa, è che vada dove gli pare ma con l’effetto spiazzante che, ancora oggi, Requiem mi lascia ad ogni ascolto.

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Racconto in musica 104: Luna (Verdena – Luna)

C’è un momento per tutto, anche per affrontare gli argomenti controversi. Che controverso, per Tremila Battute, significa addentrarsi in quella zona d’ombra dove indipendente si confonde pesantemente con commerciale, dove le major ci mettono lo zampone e l’innocenza dell’arte fatta per sé stessa sembra perdersi. Me lo sono pianificato, il momento in cui parlare dei Verdena, nominandoli di sfuggita settimana scorsa come il gruppo a cui A. A. Bondy fregò il nome, ma non mi aspettavo che per una volta sarei stato perfettamente sul pezzo, azzeccando la settimana in cui la band bergamasca ha finalmente annunciato l’arrivo di un nuovo disco.

Questo momento non sarebbe però arrivato senza il racconto di uno degli habitué di queste pagine, Alex Roggero, che arriva alla terza presenza e conquista la vetta della classifica in coabitazione con Stefano Tarquini e Alessio Barettini. Alex è fresco fresco di uscita del suo primo romanzo, Non farlo, edito da Ortica Editrice: un libro dal ritmo frenetico, intriso di citazioni pop, con una trama che continua a spiazzare il lettore prendendo svolte inaspettate, portando il protagonista a vagare per il mondo alla ricerca di un senso per la propria vita che sembra sempre più difficile da trovare. Lo trovate qui, e non vi pentirete dell’acquisto.

I Verdena, quindi. Una band da sempre associata al rock alternativo, alla musica fuori dai canoni consueti, eppure fin dal primo disco legata a doppio filo con la Universal (o meglio con la sua sussidiaria Black Out, fondata nel 1992 da Giuseppe Galimberti con l’ambizione di farne una label indipendente per gestione e scelte ma sfruttando i budget delle grosse produzioni: mica male come equilibrismo). I fratelli Alberto (voce, chitarra, pianoforte, tastiera e basso) e Luca Ferrari (batteria, percussioni, synth e tastiere) non immaginano probabilmente quell’approdo quando iniziano a far musica nel 1992, in una sala prove ricavata all’interno di un pollaio, né quando formano la band inizialmente chiamata Verbena nel 1995, nome cambiato per i motivi già esplicati. Dopo aver cambiato alcuni bassisti (fra cui vale la pena di ricordare Maurizio Brazzoduro, che suona sulla primo demo e ad oggi unico parto musicale in inglese della band, Froll sound) il trio si stabilizza con l’ingresso di Roberta Sammarelli (basso, tastiere e cori): incidono un’altra demo, compaiono in una delle mitiche compilation Soniche avventure della Fridge Records (negli anni ci passarono anche i Wolfango, ovvero una parte del mio cuore), attirano l’attenzione di un po’ di etichette indipendenti ma alla fine Luca Fanticone riesce a portarli alla Black Out, dando inizio alla storia che li proietta, solo fino a un certo punto, fuori dal pollaio di Albino.

Esiste un prima e un dopo, secondo me, nella carriera dei Verdena. Il prima è ciò che accade dal 1999 al 2007, gli anni in cui il trio viene etichettato piuttosto velocemente come “i Nirvana italiani” e cerca faticosamente di affrancarsene invece di cavalcare l’onda. D’altronde ascoltando Verdena (prodotto da Giorgio Canali, un altro pezzo del mio cuore), il disco d’esordio, ti viene da pensare proprio a quello: pezzi semplici e tirati, un certo disagio di fondo, la struttura verse-chorus-verse che Cobain stesso prese in giro con una certa autoironia in una b-side, testi stralunati che un mio amico odiava a morte (me lo ricordo che dice “ma cosa cazzo vuol dire Stenuo?)… Ma il tutto funziona. Verdena me lo sono ascoltato allo stremo, sapevo a memoria le canzoni, sarei anche voluto andarli a vedere ma trovai il Circolone di Legnano pieno per la loro data (mi capitò anche coi Matrioska, ma le due band non hanno fatto proprio la stessa carriera). Due anni dopo, con la produzione di Manuel Agnelli (e la collaborazione di vari Afterhours all’interno del disco), esce Solo un grande sasso e già quella semplicità che caratterizzava l’esordio muta sensibilmente: brani mediamente più lunghi, stratificati, la prova che il trio ha una forte personalità e non ha intenzione di essere una meteora. Il suicidio dei samurai (primo album registrato integralmente all’Henhouse, ovvero il pollaio delle origini riconvertito in studio di registrazione, che negli anni diverrà meta di pellegrinaggio per molti artisti indipendenti) nel 2003 consolida questa impressione ma si comincia anche a intravedere altro, una furia sin lì un po’ trattenuta che esplode impetuosa in Elefante e si insinua fra le pieghe di Balanite. Fra un album e l’altro esce anche una galassia di Ep che espandono ulteriormente il mondo musicale del trio, ma fino a quel punto i Verdena mi sembrano (vado a ricordo mio, per cui sicuramente fallace) una band a metà del guado: nella memoria collettiva sono ancora quelli di Valvonauta, e non hanno ancora creato qualcosa che riesca a farli percepire come una delle avanguardie più importanti in Italia.

Il dopo è ciò che succede dal 2011 ad oggi, quando i Verdena hanno fatto quel salto che fa coniugare al loro nome la qualità con la Q maisucola, qualunque cosa facciano. E loro non hanno la minima intenzione di non sfruttare quel momento per fare il cazzo che gli pare. Wow è l’apoteosi di questo concetto, un doppio album di ventisette canzoni talmente pieno di roba da darti le vertigini, talmente pieno di idee che è impossibile non trovare qualcosa di cui innamorarsi (ma anche di cui rimanere deluso eh, e ci sta): esce dopo quattro anni di silenzio e certifica che i Verdena sono una di quelle band che ormai vende perché sì, perché magari va di moda ma alle mode non si piega, al massimo le crea (e certi suoni di Wow secondo me hanno creato danni, ma nella loro opera funzionano eccome), che si può permettere come primo singolo una canzone come Razzi, arpia, inferno e fiamme che è spiazzante e non ti dà nessuna coordinata chiara per capire ciò che troverai all’interno dei due dischi… Anche perché una coordinata fatichi a trovarla anche dopo l’ascolto. Passano di nuovi quattro anni e ti puoi aspettare che si siedano sugli allori, come tante band arrivate che ora piazzano la commercialata perché tanto ormai non hanno niente da dimostrare: loro buttano fuori un altro doppio disco, fatto uscire in momenti separati (Endkadenz vol.1 il 27 gennaio 2015, Endkadenz vol.2 il 28 agosto dello stesso anno), selezionando un turnista per il tour (Giuseppe Chiara) con un annuncio sotto pseudonimo su Villaggio Musicale come una band qualsiasi e io, che pure trovo meno vari e coinvolgenti questi due dischi, non posso che continuare ad adorare il loro essere completamente fuori dagli schemi. Nel 2016 giocano con Iosonouncane a coverizzarsi a vicenda con uno split Ep, poi spariscono dalle scene per un periodo enorme per il mercato discografico: sette anni di silenzio (durante i quali non sono rimasti comunque inattivi, partecipando a progetti come Dunk, I hate my village e Animatronic), interrotto a gennaio 2022 dall’uscita della colonna sonora che realizzano per America Latina dei Fratelli D’Innocenzo e, qualche giorno fa, dall’annuncio di un nuovo disco che siamo pronti ad accogliere a orecchie aperte.

Ah, fra il prima e il dopo nel 2007 ci sta Requiem, ma riascoltandolo lo ritengo uno di quegli album talmente clamorosi che facciamo che ve ne parlo con calma giovedì o venerdì in un articolo a parte, se no qui facciamo notte.

Non vorrei poi adombrare ulteriormente il racconto di Alex ispirato a Luna, il primo singolo estratto da Il suicidio dei samurai. La luna evocata dai Verdena diventa per il protagonista della storia uno dei pochi punti fermi nella propria vita, che conosciamo attraverso momenti disconnessi che testimoniano del suo rapporto complicato col tempo e la memoria: potete addentrarvi nella sua mente subito dopo aver ascoltato il brano da cui è ispirato, qui sotto, mentre a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Luna, di Alex Roggero

Nelle notti di luna piena succedono sempre cose strane. Io, ad esempio, il mese scorso ho piantato un seme di avocado. Ora è alto tre metri.

Ultimamente non sono più sicuro che quello che mi succede sia davvero reale. Mi sembra sempre che manchi qualcosa.

Tutti mi chiedono costantemente come sto, ma a me sembra di stare benissimo. Mi sono disegnato una buffa faccina sorridente sul petto, mi fa stare bene guardarla ogni mattina allo specchio mentre mi lavo.

Ieri ho passato il pomeriggio con tutti i miei amici. Sono finalmente venuti a trovarmi, non li vedevo da mesi. Abbiamo mangiato una pizza, ascoltato un po’ di musica. Ero felice.

Il tempo sta scorrendo in modo davvero strano. È instabile, come se tutto crollasse su sé stesso. Penso sia colpa della luna.

Ogni mattina mi taglio i capelli.

Ho visto un gatto ieri pomeriggio nella mia stanza, non so proprio come ci sia finito qui dentro. Sembrava conoscermi.

Tutto invecchia troppo velocemente, non riesco a starci dietro. In frigo quello che voglio mangiare è sempre già marcio quando decido di mangiarlo.

So che qualcosa non sta andando come dovrebbe.

Un tizio qualche giorno fa mi ha detto che sono simpatico. Era molto anziano ma indossava una maglietta davvero buffa. Mi piacciono le persone come lui.

Quando chiudo gli occhi mi sembra di poter vedere lo scorrere del tempo. Va velocissimo e gira su sé stesso come se fossi seduto su una giostra di un luna park.

Penso di essere una brava persona, perché allora sono sempre così solo?

I miei genitori sono ancora in viaggio, ma mi hanno scritto che torneranno a trovarmi tra qualche giorno. Non vedo l’ora di rivederli, mi mancano davvero tanto.

Quando penso al futuro mi sento bene, voglio viaggiare anche io in tutto il mondo.

C’è un libro sul mio comodino, ma non l’ho comprato io. Succede spesso che qualcuno dimentichi cose sul mio comodino, nessuno sa però mai dirmi di chi sono, così alla fine le tengo tutte io.

Negli ultimi tempi ho la sensazione che le mie mani siano malate, penso sia dovuto a qualche forma di allergia. La pelle è sempre più dura, ruvida e rugosa. Quando tocco le pagine di un libro ho una strana sensazione, quasi di fastidio. Dovrei usare qualche crema forse.

Va tutto troppo in fretta, mi perdo dentro le giornate, non so come faccia la gente a restare concentrata sulle cose pratiche quando tutto scorre così velocemente. Per fortuna c’è la luna. La vedo crescere e riempirsi di luce. Guardando la luna riesco a percepire il tempo.

So che sto invecchiando, ho visto troppe lune crescere e scomparire ormai. Chissà quanti anni ho ora, chissà quante cose sono successe che non ricordo. Magari ho anche dei figli.

Non so cosa succederà domani, niente conta in fondo. Probabilmente dimenticherò nuovamente tutto.

L’unica cosa che posso fare ora, è ringraziare la luna.

Illumina, annulla le paure, o luna. Nulla è uguale.

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Fantascienza e antropocentrismo: la terza stagione di Love, Death & Robots

La mia memoria storica fa abbastanza schifo (spero di non diventare, da anziano, uno di quelli che dice “erano meglio i politici di una volta!”), ma ricordo che quando, nel 2019, uscì la prima stagione di Love, Death & Robots la serie antologica di Netflix venne lanciata in pompa magna. Fece parlare tanto di sé, anche per questioni poco chiare riguardo all’algoritmo di riproduzione casuale degli episodi (si pensò che il sistema basava l’ordine sulle preferenze sessuali degli utenti, fatto smentito dall’azienda che, a ogni buon contro, già con la stagione due evitò di riproporre l’idea), ma soprattutto perché doveva essere una ventata d’aria fresca nel mondo dell’animazione. Lo è stata? Boh.

Se parliamo di yogurt, la risposta è sì

Magari sono un eterno insoddisfatto, ma mi aspettavo decisamente di più dalla serie creata, fra gli altri, da David Fincher e Tim Miller, perché al netto di qualche episodio che punta sulla simpatia e qualcuno che tira fuori idee niente male (su tutti Il dominio dello yogurt, ma meritano una menzione anche La testimone e Zima Blue) una fetta molto consistente delle storie puntava su testosterone, battaglie e conquiste… E ok che la parole Death nel titolo avrebbe dovuto farmi subodorare qualcosa, ma di modi originali per morire se ne possono inventare un sacco. Se parlando di animazione il livello è piuttosto alto, insomma, quando si passa sul fronte narrativo la soddisfazione cala sensibilmente, e questo nonostante siano stati adattati racconti di scrittori anche piuttosto quotati come Joe R. Lansdale. La seconda stagione, uscita nel 2021, riduceva la quantità a soli otto episodi invece dei diciotto della prima, abbassando la media sanguinolenta della serie ma senza riuscire a infilare nessuna chicca: i migliori risultano quelli che fanno ridere di più, ovvero Servizio clienti automatico ed Era la notte prima di Natale, ma la malinconica storia de Il gigante affogato (tratto da un racconto del maestro J. G. Ballard) rappresenta un imperfetto tentativo di spingersi un po’ oltre e provare a far pensare un po’ di più lo spettatore. Perché in fondo è questo che speravo facesse Love, Death & Robots: che mi desse storie con cui interrogarmi, sulla scia di una certa fantascienza che soprattutto negli settanta (con romanzi capolavoro come Solaris di Stanislaw Lem o Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij) riusciva a guardare allo spazio non come una frontiera da conquistare ma come un luogo da cui imparare ad andare oltre, magari anche oltre il concetto di umano.

All’uscita della terza stagione (che mi pare aver avuto meno battage pubblicitario, ma potrebbe essere solo un’impressione) mi sono quindi approcciato alla visione con questa speranza, continuando ad ignorare che la serie è stata partorita come “progetto parallelo” ad un mai concretizzatosi sequel del film d’animazione del 1981 Heavy Metal, ovvero non esattamente la cosa più profonda mai partorita. Sono rimasto soddisfatto stavolta?

Io che spero nel superamento dell’antropocentrismo narrativo

La risposta è, ancora una volta, sì e no. Sì perché c’è almeno un episodio che vale l’intera stagione, Jibaro (scritto e diretto dallo stesso Alberto Mielgo che aveva già griffato La testimone), che a livello di ritmo, estetica e originalità narrativa riesce a rendere estremamente coinvolgente la vicenda di una sorta di sirena sudamericana e dei conquistadores da lei irretiti; sì perché ho trovato le svolte di trama di Un brutto viaggio (diretto da Fincher con una computer grafica che mi ha ricordato quel gran pezzo di videogioco che risponde al nome di Dishonored), una sorta di problema del carrello ferroviario che coinvolge l’equipaggio di un vascello e un enorme crostaceo che vuole un passaggio per un’isola da trasformare in buffet, fresche e non scontate; sì perché è impossibile non intenerirsi di fronte all’apocalisse zombie di La notte dei minimorti, isterica e pucciosissima deriva in flash forward della classica resurrezione dei morti a cui siamo abituati (con tanto di scopata in territorio consacrato a fare da causa scatenante). No, invece, per almeno un paio di motivi.

Uno è la continua mancanza di veri spunti di approfondimento. Se non potevo aspettarmela da Morte allo squadrone della morte, battaglia a colpi di humor da action anni ’80 fra un gruppo di soldati e un orso cyberpunk, dalla missione di liberazione ostaggi in territorio ostile che finisce per trovare (SPOILER) un parente di Chtulu imprigionato sottoterra in Sepolti in sale a volta o dalla quota simpatia, rappresentata in questo caso da un Mason e i ratti che porta nel futuro l’annoso problema delle infestazioni di roditori nelle fattorie, ben altro sembravano promettere La pulsazione della macchina e Sciame.

La pulsazione della macchina vede due astronaute, Kiverson e Burton, finire vittime di un incidente durante l’esplorazione di Io, una delle lune di Giove: solo la prima sopravvive ed è costretta a trascinare il cadavere della seconda per rifornirsi di ossigeno, nel disperato tentativo di arrivare al punto in cui potrà mettersi in contatto col comando della missione. Le ferite riportate la costringono ad assumere prima della morfina e poi dell’anfetamina, per lenire il dolore e per aumentare la resistenza, ma quando il satellite comincia a parlarle attraverso il cadavere della collega per Kiverson è difficile capire se il tutto è frutto di un’allucinazione o meno. Lisergico nella messa in scena, inutilmente sboccato nei dialoghi/monologhi, l’episodio pone effettivamente domande simili a quelle del già citato Solaris, ma quando (SPOILER) Kiverson scopre che Io è in realtà un’enorme macchina non può fare a meno di chiederle qual è il suo scopo, il che mi ha un po’ mortificato perché riduce tutto alla necessità di una funzione… E infatti Io risponde che la sua missione è conoscere Kiverson, il che fa molto circolarità ma anche “volemose bene”, e poi si chiude tutto lì con una certa frettolosità che non manca di affliggere parecchi episodi. Chissà se anche il racconto di Michael Swanwick, che gli valse nel 1999 il Premio Hugo per il miglior racconto breve, aveva lo stesso finale.

Ma se La pulsazione della macchina riesce comunque a mettere da parte l’antropocentrismo per la maggior parte della sua durata, Sciame (adattato dal racconto di un altro calibro da novanta, Bruce Sterling) sembra poterlo superare agilmente e invece si schianta in vista del traguardo in maniera più fragorosa. Raggiunta dal dottor Simon Afriel, la ricercatrice Galina Mirny illustra al nuovo arrivato l’ecosistema dello Sciame, una colonia aliena in cui varie razze coabitano in armonia. Ovviamente l’avidità degli esseri umani causerà un patatrac, ma l’ecosistema troverà il modo di ribaltare la situazione a suo favore: nel finale (ALTRO SPOILER) a Simon viene lasciata la scelta di fungere da “riproduttore libero” (Galina è già stata assorbita da nuove entità sviluppatesi come elemento di difesa), per creare una razza ibrida che possa fungere da protezione alla probabile invasione umana, oppure essere assorbito, e lui accetta di rimanere indipendente sfidando l’entità che gli parla attraverso Galina con frasi di una retorica senza senso come “noi non diventeremo parassiti, gli umani sono diversi”. Già, peccato che lui è andato lì proprio con l’intenzione di sfruttare per fini economici (lavoratori che non si lamentano! Il capitalismo perfetto!) le scoperte di Galina! Ma in fondo l’uomo da certe dinamiche non riesce proprio a uscire, come ci suggeriscono in maniera sottile i creatori della serie…

Siamo qui per guardare il peggio degli esseri umani

Il secondo grande difetto della terza stagione di Love, Death & Robots è proprio quello di guardare spesso all’umanità in maniera cinica e sarcastica. Le dinamiche fra i membri dell’equipaggio in Un brutto viaggio non spandono ottimismo sulla collaborazione reciproca e l’empatia, i motivi che spingono l’umanità ad entrare in contatto con lo Sciame sono capitalismo allo stato puro, ma niente è più mortifero dell’analisi compiuta dagli androidi in gita su una terra post-apocalittica in Tre robot: strategie d’uscita. Seguito di un episodio della prima stagione, scritto come il precedente da John Scalzi (uno degli autori più presenti: anche Il dominio dello yogurt è frutto della sua mente), Strategie d’uscita mette in scena un tour per le ultime comunità in cui l’umanità si è rifugiata nel tentativo di sopravvivere all’apocalisse climatica, fra survivalisti, magnati informatici e politici edonisti. I commenti dei tre androidi mettono alla berlina i comportamenti autodistruttivi che già ben conosciamo, con un tono di insopportabile superiorità che non penso convincerà nessuno ad adottare uno stile di vita più sostenibile, portandolo al massimo a pensare “guarda quanto facciamo schifo” prima di andare a fare la spesa all’Esselunga invece di servirsi, che so, degli Alveari di quartiere (escludendo il commento sul nostro fare schifo quello sopra sono io, parlo molto di sociale ma poi i miei grossi difetti è bene che si sappiano). Alla fine si torna sempre lì, all’antropocentrismo: lo diceva già George Carlin quarant’anni fa, con tutti gli enormi difetti che può avere un discorso ambientale fatto allora, che alla fin fine noi stiamo cercando di preservare il nostro habitat e che ciò che la Terra vuole difficilmente riusciremo a comprenderlo (Marte è deserto, ma anche quello è stato creato dalla natura), ma ci piace considerarci elementi esterni, parassiti, virus, per poi sfoggiare improvviso orgoglio e tornare a mortificarci subito dopo. Forse il miglior commento alla nostra supposta importanza nell’economia dell’Universo è la piccola scoreggia che fa il nostro pianeta esplodendo, nel finale di La notte dei minimorti, se non sapesse anche quello un po’ di mortificazione autoassolutoria (e con queste due parole in fila sono pronto per il Pulitzer dei poveri.

Quindi la prossima stagione non la guarderò? Andiamo, sono un essere umano, sono vittima della coazione a ripetere (questa frase invece volevo giocarmela a un cocktail party) sempre gli stessi errori: la sto già aspettando al varco, con l’incrollabile speranza che riesca a parlarmi di speranza… Ma forse sto guardando dalla parte sbagliata, meglio che mi vada a rivedere Arrival.

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Racconto in musica 103: L’elenco dei rimpianti (A. A. Bondy – Oh the vampyre)

“Non essendo una forma di vita basata sul Carbonio-14 il rock non può essere morto, perché tecnicamente non è mai stato vivo”. Questa frase l’ho letta anni fa (e la riporto a memoria, perché figurati se Google mi aiuta a rintracciarla) e magari l’ha detta qualcuno di importante, ma io la ricordo collegata a una band di Birmingham (quella in Alabama) che per un breve periodo riuscì a ritagliarsi un posto al sole per poi scomparire velocemente dai radar: i Verbena. Me ne innamorai nel mio oscuro periodo post-grunge, pieno più di delusioni che di vere scoperte, grazie al successo che ottennero col secondo disco Into the pink sotto una major come la Capitol Records e con la produzione di un certo Dave Grohl: la band a quel punto aveva già cambiato tre nomi, alcuni componenti e persino il ruolo di alcuni componenti (Anne-Marie Griffin iniziò come chitarrista e passò al basso proprio nel secondo album, Les Nuby lasciò la chitarra a Griffin uscendo dalla band per poi rientrarvi come batterista), ma sembrava bella solida, energica e dotata anche di momenti malinconici più interessanti rispetto alla media… O forse ero io che avevo deciso che loro erano bravi e gli altri no. Durarono solo un altro disco, La musica negra, che mi deluse perché se n’era andata Griffin (le dedicarono comunque l’album, scopro solo oggi), in molti punti flirtava col pop e col folk e c’era addirittura un featuring con Ambrosia Parsley degli Shivaree, che mi sembrava una mossa commerciale fatta solo perché questi ultimi erano sulla cresta dell’onda: si sciolsero poco dopo, io mi recuperai le loro vecchie cose con la mia lentissima connessione dei primi anni duemila (grazie Soulseek!) e non ne seppi più niente per anni (fun fact: pare che i Verdena volessero chiamarsi Verbena, ma scoprirono che qualcuno gli aveva fregato il nome. A conti fatti non gli è andata così male).

Ma perché vi ho fatto tutto questo preambolo su una band sciolta e che, ve lo dico subito, non si è mai più riunita? Perché A. A. Bondy, l’ospite musicale di questa settimana, di quella formazione era cantante, chitarrista e principale songwriter.

Non so se fu una ricerca casuale o cos’altro a mettermi di nuovo sulle sue tracce, ma scoprii che Auguste Arthur “Scott” Bondy aveva continuato la sua carriera musicale solo nel 2007, a quattro anni di distanza dallo scioglimento dei Verbena e a due dal suo debutto solista con American hearts (Superphonic Records/ Fat Possum Records). Nel frattempo avevo dato qualche chance in più al folk di entrarmi nelle orecchie e così il suo secondo album When the devil’s loose, uscito come il resto della sua discografia per la Fat Possum, riuscì a farmi innamorare soprattutto perché è un capolavoro: minimale, intenso, testi ispiratissimi e la voce di Bondy che carezza l’ascoltatore, me lo ascoltai a ripetizione e penso lo recensii pure nella rubrichetta di recensioni brevi che al tempo monopolizzavo su Indie-Zone. Due anni dopo, forse perché a Bondy piace cambiare o forse perché gli piace spiazzarmi, la sua formula musicale muta ancora: ritmi di batteria più statici, qualche inserto elettronico, riverberi a pioggia e un risultato che strizza l’occhio all’alt-folk, questo è ciò che emerge nel 2011 con il terzo disco Believers, l’ultimo prima di una scomparsa dalle scene che dura per otto anni. Quando esce dal silenzio, Bondy lo fa con un disco che amplifica le suggestioni elettroniche del precedente, lanciandoci in un vortice di viscerale glacialità: Enderness, uscito nel 2019, è essenziale, freddo nei suoni quanto la realtà che vuole evocare, quella della vita ai margini degli Stati Uniti (come dice Gianfranco Marmoro nella sua bella recensione su Ondarock, dalla quale scopro anche che al povero Bondy è andata a fuoco la casa subito dopo le registrazioni del disco). Evidentemente schivo di natura, da allora è nuovamente scomparso dai radar (salvo intraprendere due tour europei nel 2019 che, come capita troppo spesso, non hanno toccato l’Italia), ma me lo aspetto riproporsi in una nuova veste all’improvviso e sono curioso di scoprire quale sarà (un album a cappella magari? Chi può dirlo).

Oh the vampyre è la quinta traccia di When the devil’s loose e parla, guarda un po’, di vampiri, ma lo fa attraverso alcuni flash della vita di un neo-vampirizzato che, un po’ come il Louis de Pointe du Lac interpretato da Brad Pitt in Intervista col vampiro quando scopre il cinema, sembra riflettere malinconicamente su ciò che ha perso più che su ciò che ha guadagnato, il tutto su un tappeto sonoro di rara dolcezza. Ho deciso di trarne un racconto in forma di elenco, punto per punto alcune delle cose che difficilmente ci mancherebbero se non fossimo costretti a vivere solo di notte nutrendoci di sangue: potete trovarlo al solito dopo lo splendido brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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L’elenco dei rimpianti

  • Il traffico della metropolitana all’ora di punta, la sensazione claustrofobica della pressione fra un mare di persone con cui condividere unicamente un pensiero: Ma tutta questa gente proprio adesso doveva salire?
  • Le scottature dopo il primo sole al mare, immancabili nonostante la protezione 50 applicata con cura, e il piacere di staccare la pelle abbrustolita a piccole strisce durante la doccia.
  • Le domeniche passate a ripetermi Adesso mi alzo per poi lamentarmi, una volta in piedi, di aver sprecato l’ennesimo fine settimana dormendo.
  • La tristezza dei tramonti in inverno, che arrivano sempre troppo presto.
  • Trovarmi di troppo a un picnic in cui sono l’unico single, lasciato da poco, mentre tutti dimenticano quanto possono far soffrire una lieve carezza o un bacio distratto.
  • La paura del buio.
  • La croce con cui mi hanno insegnato a barrare il rigonfiamento della pelle dopo una puntura di zanzara, e lo schiaffo che mi infliggo cercando di scacciarle nel dormiveglia.
  • Il timore dei pipistrelli, al passaggio sotto i lampioni del viale alberato vicino a casa, ridendone con gli amici ma proteggendo comunque i capelli fatti crescere con tanta dedizione.
  • Il risveglio in un bagno di sudore, in campeggio, quando scopro di aver piazzato la tenda dove il sole picchia già alle sette del mattino.
  • Le palpebre che calano durante il viaggio in macchina, a notte fonda, con la convinzione insopprimibile che anche questa volta ce la farò a non schiantarmi.
  • Il risveglio del lunedì mattina.
  • La fatica con cui, per il trentesimo compleanno, ho fatto l’alba con gli amici di una vita, senza che nessuno avesse il coraggio di dire Ma chi ce lo fa fare?
  • La paura di investire qualcuno al ritorno da lavoro, in primavera, col sole negli occhi e le persone pronte ad attraversare, come sempre, senza guardare.
  • La perdita di sensi alla vista del sangue, che non ho mai capito perché mi facesse tanta impressione.
  • Il continuo gorgogliare dei piccioni sul balcone di casa dei miei e mia mamma che con i soliti, inutili gesti, cerca di evitare che ci facciano i loro bisogni.
  • La fila di due ore, in pieno agosto, per la nuova attrazione in un parco divertimenti che si rivela, con somma delusione nostra e scherno di chi ci ha aspettato al bar, una nuova versione del solito cinema 4D.
  • L’ultimo bacio, la passione e l’urgenza nelle tue labbra prima del morso che mi ha reso ciò che sono: aspetto al buio il tuo ritorno, confondendo ogni notte il bisogno d’amore con la fame.

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Introspezione ed energia nel concept album Picturesque degli Amalia Bloom

Una mattina qualunque, al centro di un incrocio, una ragazza cade improvvisamente dalla bicicletta. Si forma un capannello di gente, fra curiosi e conoscenti, ognuno perso nei propri pensieri e con questi allo stesso tempo veicolati da quanto appena successo: scattano così riflessioni sulla vita e sulla morte, sulle scelte non fatte e sul tempo che ci rimane per invertire la rotta.

È questo lo stratagemma che gli Amalia Bloom utilizzano per legare insieme le canzoni di Picturesque, il loro secondo disco pubblicato il 13 maggio da Engineer Records. Immaginando le reazioni all’evento degli abitanti di una città di provincia come la Vicenza da cui provengono, la band composta da Tommaso Capitello (voce), Ettore Pernigotti (seconda voce e chitarra), Federico Ceretta (chitarra e cori), Antonio Donà (basso) e Stefano Rigo (batteria) crea una sorta di flusso di coscienza su un tema non nuovo ma su cui l’umanità probabilmente non smetterà mai di interrogarsi: il nostro rapporto con la morte e, pertanto, l’inevitabile confronto con ciò che stiamo facendo della nostra vita. Lo fanno sfruttando un genere, l’emocore, che con questo tipo di riflessioni ha un rapporto privilegiato (consiglio a tutti di leggere cosa racconta del The black parade dei My Chemical Romance il giornalista musicale Hanif Abdurraqib nel suo libro Finché non ci ammazzano, di cui vi avevo parlato qui), ma lo condiscono con un piglio spesso hardcore e una voce che passa facilmente da momenti melodici a sfoghi screamo.

Il filo conduttore dell’album è affrontato allo stesso tempo in maniera approfondita e limitante. Vengono esplorati vari punti di vista, da quello di chi di fronte alla morte capisce che deve vivere il momento (Violet) a quello di chi invece non riesce a smuoversi da una sorta di apatia che lo spinge ad adeguarsi alla folla (At a crossroads), ma sono tutti pensieri che riflettono una profonda sensibilità: ciò che manca è la prospettiva di chi, anche di fronte a un evento che dovrebbe fargli scattare qualcosa dentro, tira dritto senza porsi domande, di chi è perso nel ritmo sincopato e confuso del mondo moderno evocato in Whimsical. Se i testi sembrano ruotare un po’ sugli stessi elementi (in maniera, va rimarcato, comunque molto abile), la musica riesce invece a brillare per varietà.

La voce di Capitello è sicuramente l’elemento di spicco della band, in grado da sola di cambiare completamente l’atmosfera di un brano passando da un tono intimo a grida che esprimono rabbia e sofferenza insieme. Ascoltatela in Sleeping beauty, uno degli episodi migliori del disco, un brano che non inventa niente di clamoroso ma che riesce a trovare un equilibrio perfetto fra momenti melodici e sfoghi urticanti, un risultato a cui contribuisce la grandissima coesione fra tutti gli elementi della band. Picturesque è un album maturo e consapevole, caratterizzato da una forte personalità che mischia sapientemente l’emopunk di matrice statunitense a derive hardcore (At a crossroads su tutte) che sfiorano a volte il metal, gli arpeggi riverberati della chitarra con il doppio pedale della batteria. Emblematico di questa cura è il finale di Memorial, con un ritmo lento e incalzante che già di suo fa drizzare le orecchie ma su cui gli Amalia Bloom costruiscono una stratificazione di voci, fra cori e controcori, che non è creata per essere esibita come pezzo di bravura ma semplicemente come elemento necessario a creare l’atmosfera… Ed è questo, secondo me, uno degli elementi che divide una band consapevole di sé stessa da chi deve ancora trovare la propria strada: la capacità di mettere la musica davanti al proprio ego, di creare opere complesse perché così devono essere e non per vantarsi della propria abilità.

Picturesque è un disco che convince appieno a livello musicale e un po’ meno a livello narrativo, ma scavando un po’ più in profondità anche questo secondo elemento assume valore così com’è: siamo oberati da narrazioni che ci vogliono divisi, incapaci d’empatia, e che una band concepisca, in maniera solo fino a un certo punto innocente, che la maggior parte delle persone che vede una ragazza cadere dalla propria bicicletta (per poi rialzarsi, come ci viene svelato nel finale) riesca a fare di questo evento non così eccezionale uno spunto di riflessione evidenzia, per me, una certa fiducia nel genere umano che va coltivata. Continuate così!

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Racconto in musica 102: La bellezza è verità, ma la vita è anche merda e sangue (Erlend Apneseth Trio – Trollsuiten)

Non è che Tremila Battute voglia diventare una guida turistica, ma un pochetto in giro per il mondo ci siamo andati. Se il Regno Unito e gli Stati Uniti erano tappe ovvie dove portarvi a scoprire nuova musica (e va da sé che siamo andati in lungo e in largo per l’Italia), meno lo erano luoghi come la Finlandia, l’Islanda, la Danimarca o il Lussemburgo: in attesa di andare anche verso posti caldi continuiamo l’esplorazione della fascia nordica dell’Europa, planando in Norvegia con l’Erlend Apneseth Trio.

A guidarci lungo i fiordi è Luca Cassarini, già apparso su queste pagine qualche mese fa. Nel frattempo Luca non se n’è stato con le mani in mano, pubblicando altri racconti sul web su riviste come Liminamundi, Smezziamo e CrunchEd, ma era rimasto in debito con noi di una storia ispirata ad un brano strumentale: eccolo quindi di nuovo qui, a infoltire la lunga schiera di racconti che potete comodamente leggere senza che nessuna parola vi distragga dalla vicenda.

Cercare informazioni su un gruppo norvegese e trovarmi di fronte fra i primi risultati la parola Novara è stato abbastanza strano, ma inserito in un contesto lo è molto meno: la città piemontese, nella cui provincia sono nato, è infatti da anni sede di una rassegna jazz di livello internazionale (Novarajazz appunto, che guarda caso sta proprio per partire settimana prossima), e Erlend Apneseth col suo trio (Stephan Meidell chitarra ed effetti, Øyvind Hegg-Lunde batteria e percussioni) ne è stato ospite nel 2019. Di formazione classica, virtuoso del violino di Hardanger, uno strumento tipico della tradizione norvegese, Apneseth si affaccia sulla scena discografica nel 2013 con il suo primo album solista, Blikkspor, pubblicato dall’etichetta Grappa che, attraverso il marchio Hubro, ha finora pubblicato la sua intera discografia. Negli album solisti emerge il lato più folk del musicista, ma già nel 2016 Apneseth decide di espandere il suo universo musicale e di associarsi con Meidell ed Hegg-Lunde per registrare Det andre rommet, il primo disco sotto il marchio di Erlend Apneseth Trio: quello che ne viene fuori è un connubio sperimentale, che parte dalle suggestioni folk del violino di Apneseth e si fa forza delle ritmiche minimali di Hegg-Lunde e del lavoro chitarristico-rumoristico di Meidell, portando verso atmosfere che lambiscono il jazz per andare oltre e ricordare, in certi punti (tipo in Magma), gli episodi più ariosi della discografia dei canadesi Godspeed You! Black Emperor. Il disco ottiene un notevole successo, fruttando al trio un Norvegian Folk Music Award e una nomination al Spellemannsprisen, che scopro oggi essere la versione norvegese di Grammy.

I tre pubblicano insieme altri tre dischi, Âra (2017), Salika, molika (2019, con il fisarmonicista Frode Haltli) e Lokk, uscito nel 2021, caratterizzato da aperture elettroniche e ritmi esotici che portano avanti il carattere sperimentale del progetto. I musicisti continuano poi a essere attivi singolarmente, e per quel che riguarda Apneseth c’è da segnalare un’altra uscita sempre nel 2021, il disco Slåttesong con la cantante Margit Myhr, una collaborazione caratterizzata dalla… Non collaborazione: quattordici tracce divise fra canzoni in cui è il violino protagonista ed altre in cui è presente solo la voce di Myhr, un esperimento bizzarro ma dotato di un certo fascino.

Trollsuiten è la traccia che apre il primo disco dell’Erlend Apneseth Trio, Det andre rommet, ed è un brano in cui le note dolenti ma energiche del violino sono accompagnate da un sottofondo minimale e sottilmente angosciante, che lascia spazio verso la fine a una rincorsa di alto impatto emotivo. Luca ha tratto da queste note una storia che vede protagonista un clochard, immagini di una notte qualsiasi nella sua vita scandite da una parola che ripete come un mantra: pazienza… Trovate il racconto subito dopo la canzone che o ha ispirato, come al solito: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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La bellezza è verità, ma la vita è anche merda e sangue, di Luca Cassarini

“[…] La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere.”

(John Keats, Ode su un’urna greca)

Pazienza, biascica il clochard tra un boccone e l’altro, mentre guarda con attenzione il movimento delle persone attorno a lui. Una volta non era un senzatetto, ma una volta era l’incipit delle fiabe e la sua non era una favola. Era il dramma in cui si era trovato suo malgrado, il labirinto oscuro in cui era entrato con una mappa e poi aveva perso l’orientamento. Da qualche parte aveva racimolato del tabacco stantio, che sapeva di vecchiume e sporcizia, ma una sigaretta è una sigaretta è una sigaretta è una sigaretta. Ne era geloso, era il suo tessoro. Chiunque può approfittarsene, cogliendoti quando abbassi la guardia, ed allora meglio pregare un qualche dio anziché affidare le speranze alle proprie misere forze. Soppesa ostile tutti gli altri, che lo ignorano saggiamente. Il mozzicone di sigaretta è diventato un filtro consunto, lo mastica in bocca con tedio. Ogni mattina cerca mozziconi lungo il suo infinito peregrinare, arriva a sera con una mezza presa di tabacco in tutto. Piuttosto che niente…

Pazienza, ripete come un mantra, un rosario laico prima di andare a dormire, ovviamente altrove, ovviamente lontano da sguardi indiscreti, purtroppo distante dal tepore di un focolare, ma il rischio di non svegliarsi il giorno dopo è maggiore stando assieme agli altri che per conto proprio. Forse esagerava nelle sue paure, ma sapeva di altra gente uccisa per molto meno e in pieno giorno. In qualche modo trova un riparo nell’antro di un vecchio edificio. Si rannicchia sul selciato, dorme sonni agitati abitati da incubi lucidi.

“Brutto bastardo, bugiardo, infame”, gli grida qualche ora dopo un manipolo di sbandati che, per la noia in corpo dopo una serata alcolica, decidono di sfogarsi con gli intralci della strada. Le urla si sommano alle botte e i calci. Si accaniscono su di lui, lo prendono a sberle, vogliono scacciarlo dal portone del palazzo. “Vattene”, gli urlano come squadristi. Intimorito, raccatta i suoi stracci, si alza, si allontana. Biascica qualcosa, li osserva di sbieco, nel suo dormiveglia gli paiono tutti brutti, mostruosi, abietti. La città è un ammasso di vomito e spazzatura. Claudicante, si allontana più che può. Bestemmia contro divinità cieche e sorde. Sputa un grumo di saliva e tabacco sulla strada linda. Si rifugia in un angolo, sotto una colonna. Gli scappa da pisciare, si slaccia i pantaloni, lascia che la sua vescica si sfoghi. “Siate maledetti”, pensa di tutti loro, innaffiando un muricciolo. Un gatto scappa di corsa per lo spavento. L’eco delle urla sconce di quei balordi sfiata nei vicoli della città, assieme al miagolio rauco della bestia.

Finita la pisciata, rimedia quel mozzicone di sigaretta, se lo rimastica a lungo, sibilando ancora una volta il suo leitmotiv: Pazienza.

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Alla ricerca di un’alternativa: La fuga dei corpi di Andrea Gatti e La verità su tutto di Vanni Santoni

Letteratura e cinema sono pieni di narrazioni che parlano di comunità utopiche. Nella stragrande maggioranza dei casi (per quel che posso dire, a livello personale, in tutte) le storie parlano di come, partendo da ottime premesse (condivisione, amore libero, solidarietà… Aggiungete pure gli ideali che più si sposano col vostro spirito), il tutto ci metta poco ad andare in vacca, a conferma del detto homo homini lupus che nel diciassettesimo secolo il filosofo Thomas Hobbes riprese per teorizzare la natura prettamente egoistica dell’uomo: la collaborazione fra i giovani virgulti della società inglese diventa lotta intestina ne Il signore delle mosche di William Golding, la spiaggia vero cui si dirige Richard/Leonardo Di Caprio in The Beach (che, scopro solo oggi, è tratto da un romanzo dello sceneggiatore e regista Alex Garland) ci mette poco a mostrare tutti i suoi difetti, volendo ci sarebbe anche L’isola in cui Aldous Huxley ambienta il suo romanzo ma, non avendolo letto, non voglio fare ipotesi azzardate… E mi accontento quindi di citare la comunità apparentemente perfetta che, trent’anni prima, aveva immaginato in quel capolavoro distopico che è Il mondo nuovo.

Ma davvero l’uomo è lupo per sé stesso? Qualunque slancio utopico sembra non resistere alla tentazione di far crollare il castello di carte, come se ci fosse una natura benigna da cui noi siamo esclusi per nostra propria conformazione: per dirla come gli Skruigners, “è l’uomo che è sbagliato/ ma ci sono dentro”.

Nel dubbio, dovesse capitarvi, io un giro a un raduno della Rainbow Family of Living Light fossi in voi lo farei

Due libri letti negli ultimi dieci giorni hanno proprio come tema comunità utopiche e ricerca di valori altri, distanti nella forma e nel contenuto ma non così dissimili nell’anelito verso un modo diverso di intendere l’uomo: sono, come si evince dal titolo dell’articolo, La fuga dei corpi di Andrea Gatti (Pidgin, 2021) e La verità su tutto di Vanni Santoni (Mondadori, 2022).

Un cerchio sempre più stretto

La fuga dei corpi è la storia di Daniel e Vanni, due giovani italiani che decidono di lasciare le rispettive vite e mettersi sulla strada, in direzione della Spagna. Il loro è un rapporto simbiotico caratterizzato da dinamiche di potere in continuo cambiamento, costruitosi nel corso degli anni e cementatosi con la decisione di puntare verso un’utopica meta, la spiaggia di Cala Bruja, cercando nel frattempo di emanciparsi dalle aspettative di una società che vede nel viaggio solo “la promessa di un momentaneo oblio, prima di tornare a preoccuparsi delle bollette” e non una possibilità di cambiamento interiore.

Io posso contare su un centinaio d’euro nella mia carta prepagata, da utilizzare solo in caso d’emergenza. Daniel conta sui soldi del sussidio del padre. (Dei nostri soldi non parliamo mai; parliamo soltanto dei soldi che facciamo, non di quelli che abbiamo). Entrambi abbiamo scelto di vivere in questo modo, che richiede impegno e fantasia, ma non ci lamentiamo: la nostra tristezza è comunque più felice della felicità dei nostri avi. Teniamo d’occhio la strada e avanziamo. A volte crediamo di aver trovato un posto buono dove fermarci, ma poi scopriamo che più in là c’è qualcosa di meglio, perché ancora non sappiamo cos’è.

Mentre continuano a spostarsi, principalmente in autostop, Daniel e Vanni si sostentano esibendosi come artisti di strada, creando un cerchio col gesso attorno a loro che funge da catalizzatore d’energia. All’interno i due sono totalmente connessi, sprigionano una forza selvaggia che rapisce il pubblico e alimenta il loro legame, portando però presto anche a degli scontri: se all’inizio Vanni è un fedele gregario, la cui decisione di lasciarsi tutto alle spalle sembra dovuta ad una fascinazione per la figura forte e sicura di sé che Daniel incarna, le difficoltà del viaggio e gli incontri (e scontri) che li vedono coinvolti modificano questo rapporto, in un impeto di possessività che fa a pugni con la libertà cui anelano.

Era piacevole specchiarsi in quel volto, vedermi coi suoi occhi. Per me che avevo passato anni a costruirmi una morale inscalfibile, quello era il sigillo che la giustificava. In un certo modo, il mio pensiero esisteva, lo vedevo materializzato nei gesti e nel corpo del ragazzo che avevo davanti. Il suo sguardo era magnetico, emanava una curiosità vorace. Come se stesse dicendo Voglio conoscere tutto, raccontami tutto quello che sai.

L’arrivo a Cala Bruja, la supposta meta finale del viaggio, non fa che acuire le tensioni fra i due. La scoperta che il paradiso non è così bello come sembra (il leitmotiv esplicato a inizio articolo) si unisce alla consapevolezza che forse non esiste proprio un paradiso, che continuare a vagare e fermarsi sono scelte entrambe destinate alla sconfitta: Daniel perde il suo ascendente, Vanni avverte la possibilità di essere un individuo autonomo, ma nessuno dei due riesce a trovare un vero e proprio senso nelle proprie vite e, con la frustrazione, arriva la violenza.

Ma non si può conoscere troppo a fondo una persona. È come se restassimo all’imbocco di una caverna, accendessimo un fiammifero e chiedessimo in fretta se c’è qualcuno in casa. E chi c’era in casa sua, se non la mia stessa eco? Cosa voleva, in fondo, quel ragazzo che si riempiva la bocca di magia psichica e volontà di potenza, lui che nemmeno aveva mai letto Nietzsche fino in fondo perché lo sapeva già? E cosa speravo di trovare, io, seguendolo fin qua?

Daniel è il vestito indossato fino a ieri, fino a qui, dove spogliandomi di tutto adesso scopro di dover strappare l’ultimo strato, quello invisibile, ormai assorbito, plasmato sulla superficie del mio corpo. Come una ferita diventata talmente bella da non volersene più disfare.

Gatti racconta la storia dei due fuggitivi, dalla società e da loro stessi, alternando il punto di vista in maniera sempre più veloce, mostrando le convinzioni di uno e dell’altro che si formano e si sgretolano man mano che la libertà che cercano si trasforma in una chimera. La sua prosa ha un ritmo incalzante, si fa forza di frasi brevi e incisive per avviluppare il lettore nelle vicende dei due ragazzi e nelle loro riflessioni, a volte ingenue ma spesso profonde e condivisibili: il dramma, nello sgretolarsi del loro sogno utopico, sembra essere il non riuscire a crederci fino in fondo, non essere all’altezza del distacco che teorizzano e di un’unione più spontanea e disinteressata che sembra lì, a portata di mano, e invece risulta sempre un passo troppo in là.

Oltre il problema del male

Anche Cleopatra Mancini, la protagonista del romanzo di Santoni, è in viaggio, ma ancora non lo sa. Quando si imbatte in un video porno, in cui crede di riconoscere nella protagonista una ex fidanzata, Cleo comincia a farsi domande sull’annoso problema del male, all’inizio pensando a quello fatto personalmente nell’infanzia o nell’adolescenza ma andando presto più in profondità, addentrandosi nella filosofia, nella mistica occidentale e in quella orientale, arrivando persino a ritrovarsi a capo di un culto. Il suo è un percorso interiore ed esteriore che, come nei koan, si permea di paradossi: ogni volta che la sua ricerca sembra arrivare ad un punto, si accorge che proprio la ricerca di un punto è già un errore di per sé.

O c’era un ineludibile conflitto tra quantità e qualità, specie in una ricerca così elusiva quale era quella spirituale? Mi imponevo di rifiutare questa lettura, che portava con sé l’inconciliabilità tra salvezza individuale e salvezza collettiva (ed eccoci di nuovo a Morelli): ma allora la strada da seguire avrebbe dovuto essere quella di una politicizzazione di fatto della comunità? Poteva esistere un misticismo rivoluzionario, o solo una mistica della rivoluzione? O forse il punto, andando al cuore dei tantra, era che la sola vera comunità di ricerca spirituale può essere quella che, di fatto, non sta cercando niente di specifico?

Cleo (già protagonista di una delle sezioni di un precedente romanzo/saggio di Santoni sulla cultura rave, Muro di casse, che in un gioco metaletterario viene citato all’interno di questo romanzo) nella sua ansia di risposte finisce per esplorare diversi ambienti, dalla sede della facoltà di Lettere in Piazza Brunelleschi a Firenze al monastero femminile tibetano di Shugseb, dalle comunità spirituali della Toscana ad un rave in un ecovillaggio, addentrandosi sempre più in una vita completamente diversa da quella che la vedeva ricercatrice universitaria annoiata. Il suo è un cammino di conoscenza che passa per la narrativa contemporanea, le tecniche di meditazione, i testi sacri induisti e quelli teologici di Meister Eckart, tutti input che Santoni gestisce con solo apparente anarchia, lanciandosi in periodi verbali sovrabbondanti che riescono però a mantenere lucidità e coerenza, portando Cleo sempre un po’ più in là nel suo percorso, aiutata anche dalla filosofa Simone Weil come guida spirituale d’eccezione… O meglio di tulpa, forma-pensiero manifestata.

Di certo però, avendo frequentato da ragazzina il giro punk, avevo già una mia regola: lo straight-edge è sempre sospetto – e quelli, mi aveva spiegato l’amico durante la visita, non usavano nessun tipo di droga, manco una birretta, e neanche scopavano fuori dal matrimonio. Sospettosissimi.

Vedi, sorella, cantare Hare Krishna contrasta l’atmosfera peccaminosa del Kali Yuga, l’età attuale della discordia e dell’ipocrisia… Quando canti Hare Krishna, Krishna stesso danza sulla tua lingua… Quando canti Hare Krishna, Krishna è davvero soddisfatto! Insomma, più si canta Hare Krishna, meglio è.

Se’, bona. Bof, non mi ero accorta che sono già le sei… Grazie per la visita, sei stato anche troppo gentile.

Non vuoi cantare un po’ con noi? Almeno un po’?

La mia risposta istintiva, ai tempi del giro punk, sarebbe stato un pedatone anfibiato attraverso la tonaca, ma che valore può avere la posizione critica di chi non fa esperienza diretta di qualcosa? E così…

Hare Krishna Hare Krishna

Krishna Krishna Hare Hare

Hare Rama Hare Rama

Rama Rama Hare Hare…

Il libro di Santoni è un ibrido strano, una sorta di vademecum spirituale che è allo stesso tempo romanzo di formazione di un’anima, un testo che parla di concetti spirituali profondi e non manca di alleggerire continuamente i toni con un’ironia di fondo che non stona mai e anzi, sembra l’unico modo possibile per narrare questa storia. È qualcosa di simile a ciò che ha fatto Cristopher Moore col suo Il vangelo secondo Biff, amico d’infanzia di Gesù, in cui il futuro Messia e il suo migliore amico partivano per un viaggio che li avrebbe messi in contatto con tutte le principali religioni dell’epoca, mischiando sacro e profano: Santoni ci aggiunge uno stile trascinante da cui sprizza entusiasmo, un lessico a volte ostico (ma che non dà mai l’impressione di essere snob) e qualche accenno a cavalli di battaglia su cui si è espresso più volte, come l’utilizzo spirituale delle droghe (con tanto di polemica sul microdosing, di cui aveva parlato già nel saggio La scommessa psichedelica), la svendita di Firenze al turismo di massa e la funzione sociale aggregativa della cultura rave.

Era facile, mentre accadeva, pensare che fosse merito nostro; che avessimo trovato la chiave di qualcosa. E forse era pure vero, all’inizio: quando la comunità cominciò a crescere, e l’organizzazione e la dottrina con lei, poteva essere davvero perché offrivamo qualcosa di più o di meglio degli altri. Perché eravamo limpide e trasparenti, perché sapevamo ridere anche dei nostri preconcetti e non solo del mondo, perché gli esercizi spirituali di Kumari, figli delle parti più nobili del tantrismo shaivita del Kashmir e dell’Advaita Vedanta, erano effettivamente più potenti degli altri, Kumari li conosceva meglio di chiunque (almeno: meglio di chiunque in Europa) e le tecniche che stavo sviluppando per trasmetterli, per avviare gradualmente ma rapidamente alla pratica, funzionavano; di certo funzionava bene il far sperimentare il samadhi, inducendolo col corretto mix di molecole: sebbene non fossimo le prime a farlo, lavoravamo con maggior equilibrio e progettualità, forte delle esperienze passate, a seconda del peso somministravamo dai 200 ai 300 μg di LSD e dai 100 ai 150 mg di MDMA tre ore dopo.

Come quella di Daniel e Vanni anche la ricerca di Cleo sembra destinata al fallimento. Troppo difficile combattere l’ostilità della società, l’attaccamento verso le proprie convinzioni e verso i propri affetti, l’attaccamento verso l’attaccamento stesso… Eppure c’è qualcosa che risuona nelle pagine del romanzo, una luce che resta impressa anche una volta terminata la lettura. Forse dipende dal sentire intimo di ognuno di noi, dalla sensibilità verso temi che analizzano l’unità del tutto, ma a fine lettura mi è rimasta una sensazione di completezza, come se per ogni cerchio spezzato se ne possa trovare uno più ampio già formato, pronto ad accoglierci se solo abbiamo l’ardire di cercarlo. E, nel bel mezzo del Kali Yuga, non è affatto poco.

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