Racconto in musica 6: Il tesoro sommerso (Sabbia – A spada tratta)

Come per molti altri gruppi di cui ho parlato, e di cui parlerò, anche i Sabbia li ho scoperti dal vivo. Ai tempi avevano pubblicato solo una canzone, Torno a piedi (scaricabile gratuitamente dal loro Bandcamp come tutta la discografia), ma le altre canzoni mi si erano già stampate in testa al primo ascolto. Un merito non da poco per una band che fa musica strumentale e cerca, con successo, di trapiantare le suggestioni desertiche dello stoner in provincia di Biella.

A soli quattro anni dalla pubblicazione di quella canzone i Sabbia hanno già fatto uscire due dischi, l’omonimo Sabbia e Kalijombre, e altri pezzi non ancora editi è possibile sentirli a ogni loro live (tipo quello con i Pleiadees a inizi gennaio al Cox 18 di Milano). Colonna sonora ideale per chi cerca atmosfere lisergiche e brani ariosi (loro si definiscono sulla pagina Facebook “un mix fra vecchi film porno dei seventies e colonne sonore di space movies”), hanno nel sax di Giacomo Petrocchi un ulteriore segno di riconoscibilità.

A spada tratta è il brano che chiude Kalijombre, una lenta ascesa verso le esplosioni sonore che si trovano a metà e fine brano. Fedele a questa struttura ho cercato di raccontare una storia di discese e risalite, prendendomi la libertà di ambientarla sul mare (e sotto) nonostante la band abbia il deserto nell’anima. Buon ascolto, e buona lettura.

Il tesoro sommerso

Tutto iniziò grazie all’amore di suo padre per il mare e ad una sfida, lanciata da un bambino più grande dai capelli rossi e i denti sporgenti. Allora era gracile, quella coltre blu gli faceva paura, ma quando l’altro gli disse che non sarebbe riuscito a rimanere più di un minuto sott’acqua lui riempì i polmoni, immerse la testa e iniziò a contare. Aveva già il fuoco nelle vene, anche se il suo destino era al freddo.

Suo padre riconobbe il talento, lui che il mare lo venerava per passione e non per ambizione. Seguì il figlio, lo aiutò a superare le sue paure, lo accompagnò sotto le onde e di lì giù, sempre più giù, lunghi anni di esercizio e fatica, l’aria che non basta mai e la frustrazione, la rabbia, la pacatezza del padre a mitigarla, la conquista di nuove profondità col cuore che batte lento mentre una bracciata alla volta, in verticale, con la luce che scompare e solo i pesci per compagnia può gridare

 VITTORIA! L’emozione più grande, una gioia che si scatena dal petto e giunge a ogni più recondita fibra del suo corpo, un’esaltazione trattenuta nella lenta risalita verso la luce del sole e altre luci, i flash dei fotografi, le copertine dei giornali e suo padre che lo guarda con una lacrima che scende dagli occhi. È la vittoria del figlio, sì, ma l’abbraccio che li unisce incorona entrambi.

Ma qualcosa si spegne. Il record superato da stimolo si fa ossessione, con la freddezza delle profondità il figlio lascia il padre per nuovi allenatori. Pretende sempre più, ottiene sempre meno. Non c’è ora chi accoglie i suoi sfoghi, e per mantenere l’immagine di sé che gli altri vogliono vedere implode dentro, gelo fuori e fuoco all’interno. Torna ad aver paura del mare, arriva a odiarlo. Infine lo abbandona, sconfitto.

Ed è allora che torna sui suoi passi, torna al padre, un vecchio senza rimpianti né biasimi da fare che lo accoglie, lo abbraccia, calma i suoi tremori, lo accompagna di fronte al mare e gli dice ecco, guarda, l’acqua non è né buona né malvagia, è uno specchio, ti rimanda quel che sei e quel che vuoi essere, vittoria e sconfitta sono termini che non gli appartengono e puoi liberartene se vuoi, abbandonali alla corrente, e al di sotto della sua superficie immergendosi ancora una volta il figlio senza più ambizioni e aspettative finalmente una bracciata alla volta si sente

LIBERO! Quel che del mare lo terrorizzava ora lo manda in estasi, quella vasta distesa che non potrà mai abbracciare per intero gli ricorda le infinite possibilità, la moltitudine di vie da percorrere, le correnti non lo trascineranno più e il suo fuoco riscalderà invece di bruciarlo, non c’è profondità eccessiva a frenarlo né cautela necessaria per non risalire velocemente a ringraziare l’insegnante di una vita, l’acqua cheta che ha eroso con pazienza l’insicurezza, l’inquietudine e l’insoddisfazione per portare alla superficie quel che conta:

la felicità è al di là di ogni possibile traguardo.

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Altri modi di narrare una storia: What Remains Of Edith Finch e i walking simulator

Sono stato sempre affascinato dai modi interattivi con cui una storia può essere narrata. Da piccolo il mio amore per la letteratura è stato veicolato anche dai librogame, una sorta di libri interattivi in cui il giocatore-lettore aveva la possibilità di influenzare la trama operando in alcuni punti delle scelte (anche se, a onor del vero, nella stragrande maggioranza dei casi a cambiare era più il percorso che il finale vero e proprio). Anni dopo mi sono ritrovato a partecipare a sessioni di giochi di ruolo, sia da personaggio che da master, un altro modo affascinante per condividere storie e viverle in prima persona…se si tralasciano gli amici il cui unico interesse era tirare i dadi, uccidere qualcuno e addormentarsi nelle fasi in cui si sarebbe dovuto davvero interpretare il proprio personaggio.

I videogiochi sono stati un’altra passione coltivata negli anni, e ricordo con piacere molte trame (elemento per me spesso essenziale per godermi l’esperienza) e le sensazioni scaturite dall’esserne protagonista. Con gli anni la mia console casalinga (al momento una PS4) è stata sempre più utilizzata per guardare Netflix che non per giocare, ma un titolo ultimamente ha destato la mia attenzione tanto da convincermi a dedicargli un articolo, soprattutto in quanto esponente di una categoria che rappresenta per me il perfetto veicolo per attirare chi pensa ancora che l’ambiente videoludico sia inferiore rispetto al buon, vecchio libro: i walking simulator.

Videogioco o saga familiare?

La storia dei walking simulator inizia verso il 2008, quando lo studio indipendente The Chinese Room pubblica (inizialmente come mod per Half-life 2) un videogioco chiamato Dear Esther. L’interattività è ridotta ai minimi termini, tutto ciò che è richiesto al giocatore è di esplorare un’isola delle Ebridi mentre il protagonista della vicenda, e nostro alter ego all’interno del gioco, legge alcune lettere alla moglie e dipana man mano la serie di avvenimenti che l’hanno portato lì. Ancora oggi non si placano le polemiche fra chi considera Dear Esther un videogioco o meno, ma di successori spirituali ne sono spuntati a bizzeffe. The Stanley Parable, sviluppato più o meno nello stesso periodo sempre come mod per Half-life 2 da Davey Wreden, rappresenta uno degli esperimenti più curiosi all’interno del genere: nei panni di un dipendente che si ritrova improvvisamente solo nel suo ufficio, assillato da una voce che lo indirizza e parla di lui in terza persona, dobbiamo esplorare l’edificio in cui ci troviamo decidendo se seguire o meno le indicazioni date dal misterioso deus ex machina, in una esperienza meta-videoludica che si fa sempre più strana tanto più ci ribelliamo alle imposizioni della voce narrante.

Ci sono altre pietre miliari del genere, da Journey a Firewatch passando per The Vanishing Of Ethan Carter, e anche in Italia uno studio indipendente ha deciso di puntare su questo tipo di esperienza, raccontando in The Town Of Light la storia (ispirata a fatti realmente accaduti e basata su ampie ricerche) di una ex paziente del manicomio di Volterra che torna in quel luogo, ormai chiuso a seguito della legge Basaglia, per ricostruire quanto le è accaduto negli anni di internamento. Il titolo di cui voglio parlare è però un altro, e si chiama What Remains Of Edith Finch.

La casa, ambientazione e vera protagonista della vicenda

Nel corso del gioco indossiamo i panni di Edith Finch, una ragazza diciassettenne che torna nella bizzarra dimora di famiglia per mettere ordine nei misteri che avvolgono il suo albero genealogico. Esclusa una breve camminata iniziale all’aperto tutta la vicenda si svolge nella casa, dove attraverso una rete di passaggi segreti Edith avrà accesso alle stanze dei propri parenti deceduti negli anni, chiuse a chiave dalla madre per motivi mai spiegati.

Ogni camera, mantenuta inalterata nel tempo come veri e propri musei alla memoria, riflette gli interessi e il carattere dei suoi occupanti e, soprattutto, ne contiene i ricordi: che sia attraverso lettere, diari, blocchi di disegno o addirittura fumetti, Edith verrà a scoprirne le storie quasi sempre attraverso la loro voce.

Non mancano i momenti inquietanti

Man mano che si procede l’albero genealogico si completa, aiutandoci a far luce su tutti i misteri di cui la giovane protagonista non era mai stata messa a parte. Quasi fosse un romanzo interattivo possiamo sentire e leggere i pensieri della protagonista, con le parole che si formano davanti a noi mentre avanziamo, mentre la storia di ogni componente è narrata con uno stile sempre diverso, mantenendo come punto comune la vena surreale che circonda la fine di ogni parente estinto. Dal punto di vista grafico non si può che elogiare la fantasia con cui ogni storia è stata realizzata, ma questo sarebbe stato uno sforzo inutile senza una buona trama che ci convinca ad andare avanti.

Come raccontare una storia mentre fai volare un aquilone

Da questo punto di vista What Remains Of Edith Finch svolge perfettamente il suo compito. La strada è una sola, senza possibilità di errore (anche se, con uno spirito di esplorazione decisamente carente, è possibile perdere alcune stanze per strada), ma la curiosità di scoprire altro sulla famiglia della protagonista spinge ad andare avanti senza che ci sia mai un calo, affascinati e spesso commossi dalle vite delle fragili persone che hanno vissuto nella magione.

Vi sfido a rimanere indifferenti quando arriverete alla fine di questo episodio

Rispetto alla lettura di un libro il titolo sviluppato da Giant Sparrow vi occuperà sicuramente meno ore, ma per chi apprezza le belle storie è un’esperienza assolutamente consigliata: le vicende della ex bambina prodigio del cinema Barbara, del giovane operaio disintossicato Lewis, della matriarca Edie e tutte le altre che potrete scoprire nella vostra silenziosa esplorazione compongono un quadro che ha il respiro delle saghe familiari ben riuscite, costruito con poche parole che hanno il pregio di essere quelle giuste.

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Racconto in musica 5: L’essenziale (Massimo Volume – La ditta di acqua minerale)

I Massimo Volume non hanno bisogno di molte presentazioni. Band attiva sin dai primi anni 90, punto di riferimento della scena alternativa di quegli anni e fonte d’ispirazione per molti gruppi formatisi in seguito, si sono distinti nel mare magnum della musica italiana anche e soprattutto per il modo di cantare inconfondibile di Emidio Clementi, un parlato ipnotico il cui valore è amplificato da testi (sempre suoi) di rara bellezza. Hanno pubblicato quattro dischi prima di sciogliersi nel 2002, poi altri tre dopo la reunion nel 2008.

Il nuotatore, uscito poco più di un anno fa, è l’ultimo in ordine di tempo ed è l’ennesima conferma per la band bolognese, consolidatasi negli anni attorno allo stesso Clementi, al chitarrista Egle Sommacal e alla batterista Vittoria Burattini. Fra tutti i brani presenti sono rimasto particolarmente colpito dal secondo, La ditta di acqua minerale, tanto da affrontare (con buone probabilità di uscirne con le ossa rotte) la sfida di associare un racconto a una canzone che già di per sé dice tutto quel che c’è da dire, e di ciò che non dice non serve chiedere. Io ho provato ad andare temporalmente oltre, immaginando il protagonista della vicenda nella sua vita dopo la tragedia: il risultato lo potete leggere, come al solito, dopo il link della canzone. Buon ascolto, e buona lettura.

L’essenziale

Poteva andare molto peggio. Non so perché mi aspettavo un lavoro umiliante, tipo passare il giorno a fare fotocopie, a portare in giro faldoni pieni di documenti. Invece il lavoro è noioso, ma non pesante, e adesso per forza di cose ho meno responsabilità.

Mi sento più leggero.

Temevo il modo in cui mi avrebbero accolto i colleghi, ma sono gentili e disponibili. Scherziamo insieme davanti alla macchinetta del caffè, quando siamo in pausa, ridono alle mie battute e sono risate sincere. C’è una bella aria di cameratismo.

Ammetto di sentirmi in imbarazzo, a volte.

Sono stato moralmente deprecabile. Giocarsi la ditta a quel modo, con una moglie a casa, santa donna, e rischiando di far perdere il posto a tutti. Ma a loro questo sembra non pesare, i cambiamenti sono stati lievi dopo che mi hanno buttato fuori dalla mia azienda. Dopo che mi sono buttato fuori.

In fondo ero un buon principale, e a volte la gente non dimentica il bene che si è fatto. A volte succede.

Ho molto più tempo per me adesso. Faccio le mie otto ore, a volte qualche straordinario, e una volta arrivato a casa niente più pensieri. Passo le serate a casa parlando con mia moglie, santa donna che ha deciso di restarmi accanto nonostante tutto, non la sentivo ridere da chissà quanto tempo. Leggo molto, ogni tanto passo al bar, vedo qualche partita in tv con gli altri avventori.

Passano di lì anche quelli da cui mi sono lasciato rubare tutto, complici una donna di cuori ed un re di picche. Non ci salutiamo, giusto un cenno del capo per dimostrare di esserci riconosciuti, ma niente parole. Da queste parti funziona ancora così: tutti sanno, ma nessuno deve dirlo apertamente.

Li ringrazio. Lo ignorano, lo ignora mia moglie, a volte fingo d’ignorarlo anche io, ma dentro di me sono grato per tutto questo.

Ho passato una vita a rischiare, con l’ansia che mi svegliava nel cuore della notte. Al gioco andavo avanti finché non avevo recuperato tutto quello che avevo perso, fino a quando non ci avevo provato fino all’ultimo. Poi ricominciavo. Ma non vedevo davvero il fondo del baratro, credevo solamente di averlo scorto.

Così, quando tutto ciò che più temevo al mondo è successo, mi sono accorto che era meno peggio di quel che credessi. Che potevo smetterla di avere paura.

Ora ho meno cose, ma bastano. Non avrei mai creduto di poter pronunciare queste parole, ma sono felice. Forse il destino è nel nome, e io che porto quello di un apostolo, infarcito mio malgrado di morale e cristianità, non potevo che trovarmi ricco limitandomi all’essenziale.

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Correlazioni curiose: lo strano caso di Benevolenza cosmica e 7

Fabio Bacà e Tristan Garcia

In letteratura, così come in qualunque altro mezzo per raccontare una storia, i tropi narrativi abbondano. Come spiega questo interessante articolo de Il Post i tropi narrativi “sono cose ricorrenti usate per semplicità, comodità e a volte pigrizia da chi pensa e racconta storie di ogni tipo”: possono essere la funzione di un personaggio, la motivazione che riunisce i protagonisti della storia o un evento improbabile che accade nel momento sbagliato, ce ne sono a bizzeffe e c’è persino un sito che si diverte a raccoglierli. Utilizzare questi espedienti è una pratica talmente comune che quasi non ci si fa caso, è più difficile invece che un’idea tutt’altro che abusata possa essere alla base di due opere diverse. Quando poi questa coincidenza si verifica in un lasso di tempo molto breve c’è di che esserne incuriositi.

È esattamente quello che mi è successo con due romanzi diversi per tema, tono, editore e persino nazionalità degli autori, ma che fanno entrambi riferimento ad un concetto, quello della reciprocità, in maniera straordinariamente simile.

Il primo di questi è Benevolenza cosmica, il libro d’esordio di Fabio Bacà uscito per Adelphi a marzo 2019. Il protagonista della storia, Kurt O’Reilly, è per qualche strano motivo “perseguitato” dalla fortuna: i tassisti non gli fanno pagare le corse, operazioni bancarie casuali lo arricchiscono oltre ogni logica, tutte le donne sembrano all’improvviso trovarlo attraente. Per un uomo che ha affidato la sua vita alle rigide leggi della statistica una simile situazione, che sarebbe il sogno di chiunque, diventa un incubo ad occhi aperti da cui cercare di uscire al più presto.

Il secondo è 7, romanzo del francese Tristan Garcia edito da NNE a maggio 2018. Composto da sei storie apparentemente sconnesse l’una dall’altra, più una settima a fare da lungo trait d’union finale (struttura simile a Nove gradi di libertà di David Mitchell), all’interno delle pagine si trovano situazioni surreali, come una droga che permette di rivivere il proprio sé passato, sette dedite all’adorazione di dei alieni e antichi rulli di legno che recano incise tutte le canzoni della storia.

Qual è il punto di connessione?

In Benevolenza cosmica al protagonista viene a un certo punto instillata la convinzione che tutta la sua fortuna possa essere dovuta alla presenza, da qualche parte nel mondo, di una persona afflitta da una sfortuna altrettanto persistente e tenace. Una sorta di sua controparte speculare insomma, legata a lui per ignoti motivi.

“Secondo le sue credenze religiose a un periodo così lungo e ininterrotto di prosperità doveva necessariamente corrispondere un periodo speculare di sfortuna a carico di uno specifico essere umano, legato karmicamente a lui in virtù di chissà quali precedenti incarnazioni.”

Benevolenza cosmica

In 7 questa idea è alla base della seconda storia del volume, Sanguine. La protagonista è una bellissima modella, soggetta ogni pochi mesi a dermatiti inspiegabili che scompaiono solo soggiornando nella catapecchia in cui è cresciuta, in uno sperduto paesino francese. Qui incontra un uomo totalmente sfigurato, ossessionato da lei e convinto che fra i loro aspetti esteriori vi sia un legame speculare.

“Lei è bella perché io sono brutto. La chiamano Visage perché io non ho più una faccia. Ha rubato la mia, si è presa la mia parte”.

Sanguine, 7

Eviterò di andare oltre, lasciandovi il piacere di scoprire se e come questi concetti avranno un impatto all’interno dei due libri. Per gusto personale ho apprezzato più il libro di Tristan Garcia, trovando in quello di Bacà un disequilibrio fra la prosa forbita di alcuni punti e il tono colloquiale di altri, ma il punto che mi premeva rimarcare era questa insolita comunanza di tematiche. Borges, nel suo racconto L’immortale, scriveva:

“Omero compose l’Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre, almeno una volta, l’Odissea.”

Jorge Luis Borges, L’Aleph

Pensando alle sue parole non dovrebbe stupirmi la coincidenza, ma il bello della letteratura è anche questo: lasciarsi trasportare e creare fili invisibili fra le opere, persino quando gli autori ne sono all’oscuro.

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Racconto in musica 4: Adepti (Le Capre A Sonagli – Dancehall)

Ho scoperto Le capre a sonagli anni fa, recensendo il loro primo disco Sadicapra, e ammetto che la prima impressione non era stata positiva. C’era qualcosa che mi stonava in quel loro modo sghembo di fare musica, inclassificabile nel suo unire sfuriate proto-stoner, chitarre acustiche e, nell’ultimo brano, anche delle derive elettroniche. Poi arrivò Il fauno, ebbi la fortuna di vederli alla Repubblica indipendente di Lu e tutti i dubbi sparirono: un mio amico, dopo aver visto il bassista nel finale cominciare a placcare gente in mezzo al pubblico per poi correre giù dalla collina, disse “e quelli dopo che cazzo fanno?”. Più o meno la stessa cosa capitata ai Rolling Stones quando suonarono dopo James Brown al T.A.M.I. Show nel 1964, mi piacciono i paragoni importanti.

Da allora sono usciti altri due dischi, Cannibale e Garagara Yagi, li ho piacevolmente visti esibirsi un sacco di volte e sono stato placcato dal bassista altrettante al grido di “siamo tutti nudi! Ciuf ciuf!”. Mi sembrava doveroso quindi omaggiare una delle band più coinvolgenti e pazze dal vivo (e che è arrivata ad aprire per i Monster Magnet prima che chiudesse l’Italia intera) con un breve racconto.

Dancehall è la traccia d’apertura dell’ultimo disco, un brano di cui ho cercato di ricreare l’atmosfera ossessiva e martellante con frasi brevi e una storia stramba al punto giusto. E in seconda persona, giusto per complicarmi la vita. Sotto trovate la canzone, ma vi consiglio di ascoltare l’intera loro discografia e di andare a vedervi anche il video dell’ultimo singolo Cocktail. Buon ascolto, e buona lettura.

Adepti

Guardati intorno. Capannoni industriali abbandonati, campi di sterpaglie pieni di rifiuti. Una lunga, incerta fila di giovani barcollanti. Era quello che ti aspettavi?

Ti avevano promesso un’esperienza religiosa.

Entra. Passa il cancello. Sicurezza distratta, risate, vetri rotti. Una macchina abbandonata, giovani sul cofano, che ci fa qui? Ignorala. Prosegui. Musica alla tua destra. Luce. Buio. Luce. Buio. Fatti largo. Qualcuno ti spintona. Non guardarlo, non farti notare. Sii anonimo. Sei qui per osservare.

Punk dell’ultima ora accanto a fighetti in camicia e maglioncino. Ballano vicino ai canali di scolo, pozzetti maleodoranti pieni di chissà cosa. Guardati intorno. Guarda bene. Quel che cerchi di sicuro non è qui.

Esci. Aria aperta. Respira. Un ragazzo ulula, gli amici ridono, bevono vodka. Inutili. Cosa c’è là? Gruppi in fondo al viale. Raggiungili. Osserva le porte, destra, sinistra, destra, sinistra. Niente di strano. Là in fondo. Forse ci sei vicino. Ascolta la musica. Non sembra preparatoria?

Una ragazza bionda vestita di bianco ti anticipa all’interno dell’ultimo capannone. La musica rimbomba fra le pareti coperte di candele. Accanto agli ubriaconi e agli strafatti altri giovani con espressioni estatiche. In attesa. La musica si interrompe. Eccolo!

Non sembra niente di che. Ma senti qualcosa. Mette le mani sui piatti. Lo senti qualcosa, vero? Non perdere il controllo. La ragazza ti porge da bere. Non bere. Ti ho detto di non bere! La musica è celestiale. Ti senti beato. È davvero così? Cosa c’era in quel bicchiere? Il mondo rotea. Ti senti così bene.

Buio. Luce. Buio. Luce. Voci. Angeli? No, amico. Dovevi solo osservare. Ricordi? Per questo ti sei infiltrato. Osservare, raccogliere prove. Avevi un compito. Ora è tardi. Apri gli occhi.

È giorno fatto. Ti avevo detto di non bere. Lui è davanti a te. Il deejay. Il Re. Parla. Ha davvero questa voce? Sembra ridicolo. Ma tu sei legato. Dice che ti aspettavano. Loro non fanno sparire nessuno. Loro fanno adepti. Lo capirai, ti dice. Stai ascoltando? La droga è solo un mezzo. Vorresti scappare? Non puoi. Se solo mi avessi ascoltato. Li vedi?

Ora ti sono addosso.

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/handlogic: quando pop vuol dire classe ed energia

Non so bene perché, ma la musica degli /handlogic mi fa pensare al Natale. Mi era già capitato di fare questa associazione recensendo il loro primo ep, ma in quel caso ero giustificato dal periodo festivo. Il loro primo disco Nobodypanic invece l’ho spolpato solo in questi giorni, a distanza di un paio di mesi dal loro live al Circolo Ohibò di Milano, ma certi suoni e le atmosfere raffinate mi hanno comunque trasportato in una regione mentale dove imperversano abeti, neve e una certa nostalgia.

La band fiorentina, uscita da quel calderone di talenti che è il Rock Contest di Controradio (che fra gli altri ha tenuto a battesimo gli Offlaga Disco Pax e Samuel Katarro, ora King of the Opera), ha un suo modo ben riconoscibile di fare musica, pescando dal pop elettronico ma non lesinando sulle distorsioni e, in generale, su una gamma di suoni ampia e variegata, così come lo sono le atmosfere dei brani. Si va dai lenti minimali come Long distance relationship, A little lie e Perched (quest’ultima la meno riuscita del gruppo) a brani più solari come Gratitude, su cui aleggia un’atmosfera pop di inizio anni novanta, passando per una Ego che alterna soffici strofe a ritornelli sincopati in cui la vena elettronica si fa più aggressiva. Se proprio Natale dev’essere, insomma, gli /handlogic saranno i vostri parenti che ravvivano la festa andando fuori dagli schemi.

Communicate, nuovo singolo della band (di cui qui potete vedere il video), è il pezzo più energico del lotto, giocandosela alla pari con un’altra perla rara, ovvero la cover di Paranoid Android dei Radiohead. Gli /handlogic affrontano l’arduo compito rivoltando come un calzino la canzone originale, tenendo solo le parti che gli interessano e sfogandosi nel finale come e più di quanto facevano Thom Yorke e soci, per un effetto che dal vivo è ancora più dirompente. Ogni brano ha una sua peculiarità, e probabilmente vi ritroverete a canticchiare già dal ritornello dell’iniziale Supernatural, apripista ideale dell’esperienza sonora.

È sempre bello vedere una band confermare le buone impressioni, ma gli /handlogic non si accontentano e rilanciano alla grande. A fronte di pochissime pecche, Nobodypanic mette in mostra musicisti che creano musica accessibile con una cura per il dettaglio che piacerà a palati più esigenti. Un’ottima notizia per la musica italiana, ma ci sono le carte in regola per farsi notare anche oltre confine.

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Racconto in musica 3: Invasione (Gazebo Penguins – Penguinvasion!!)

Sono passati quindici anni da quando ho ascoltato per la prima volta i Gazebo Penguins. Avevo preso il loro disco durante una riunione del sito per cui scrivevo allora (tre amici in una stanza con una montagna di cd, non vi aspettate chissà che di professionale) incuriosito dalla cover, dal titolo del disco e dei brani, dal nome stesso della band. Li avrei amati anche solo per questi motivi, ma già alla prima canzone (Comodino: “whattafuck?!“) mi avevano conquistato le orecchie.

Come si poteva non amarli?

Li recensii entusiasticamente, forse il mio primo 5/5 da quando avevo iniziato a scrivere recensioni. Mi piaceva tutto, dai suoni all’energia fino a quella voglia di non prendersi sul serio che emergeva dovunque, nonostante il compito l’avessero preso davvero sul serio. Da lì iniziai a seguirli, solo virtualmente dato che dalle mie parti non arrivavano a suonare, e ricordo la delusione quando venne annullato un concerto alla Cooperativa Portalupi di Vigevano: era uscito il secondo disco The name is not the named, ma il botto non era ancora arrivato.

Quello arrivò con Legna, col cantato in italiano (perché volevano riempire gli stadi come i conterranei Ligabue e Vasco, annunciavano sul loro sito con la consueta ironia) e con un tour di un centinaio di date, se non più dato che la mia memoria è corta. Sono riuscito nel corso degli anni a intervistarli, parlarci un poco, giocarci a calcio balilla al circolo Big Lebowski di Novara, seguire le loro peripezie positive e non (il furto degli strumenti e quello all’Igloo Audio Factory, loro casa base), ho persino scoperto Borges grazie a questa canzone dell’album solista del cantante e chitarrista Gabriele “Capra” Malavasi. Soprattutto sono riuscito a vederli suonare molte volte, con le stesse emozioni della prima.

Nel 2020 i Gazebo Penguins festeggiano quindici anni di attività, e nell’attesa che il Covid-19 e varie peripezie personali mi lascino la libertà di vederli ancora su un palco ho deciso di festeggiarli alla mia maniera. Sotto trovate un racconto basato su un loro brano dal primo disco, Penguinvasion, nel quale ho cercato di ricreare attraverso il solo dialogo serrato l’incedere martellante della musica, cercando al contempo di mantenere viva l’anima surreale del titolo e del delirante video che Nicolò Gianelli ha realizzato. Se volete ripercorrere la carriera musicale dei Gazebo Penguins qui trovate tutti i dischi in free download, usanza di cui sono stati alfieri e per la quale hanno ulteriormente la mia imperitura stima. Al solito, buon ascolto e buona lettura.

Invasione

«Quindi capirete bene come sia assolutamente necessario…»

«Generale!»

«Soldato! Spero ci sia un buon motivo per interrompermi durante una riunione!»

«Signore siamo sotto attacco!»

«Cosa?»

«Un commando ha assaltato la nostra prima linea di difesa!»

«Chi osa mettersi contro di noi? Terroristi?»

«Ecco…sembrerebbe…»

«Soldato ogni minuto è prezioso! Chi ci sta attaccando?»

«Pinguini, Signore!»

«Cosa?»

«Pinguini imperatore per la precisione»

Brusio in sala.

«Soldato mi state prendendo in giro?»

«Nossignore! Non mi permetterei mai!»

«Cazzo di Pinguini»

«Sissignore!»

«Lo avevo detto che non c’era da fidarsi. Sediziosi e ambigui, ecco come li ho definiti fin da subito!»

«Cosa intende, Signore?»

«Bianchi E neri! Il mondo è bianco o nero, non c’è spazio per il dubbio! Il pinguino è un agente del caos, come le orche!»

«Signore, le orche mangiano i pinguini»

«Certo, non sono nemmeno capaci di collaborare! Buon per noi comunque. Soldato, quanti sono questi pinguini?»

«Non lo sappiamo di preciso, Signore. Indossano tute mimetiche»

«Tute mimetiche?»

«Sissignore!»

«Devono essere finanziati da qualcuno!»

«Ma da chi, Signore?»

«Comunisti!»

«Comunisti?»

«Attentano al nostro stile di vita, ancora una volta! Cercano di annientare la nostra individua…»

«Il comunismo è morto, Signore»

«Soldato, mi hai appena interrotto?»

Il soldato impallidisce. Brusio in sala.

«Chiedo perdono per la mia indisciplina, Signore!»

«Non sottovalutare i comunisti soldato! Tu non ci hai avuto a che fare! Avete usato i termoscanner?»

«I pinguini non sono a sangue freddo?»

«Soldato cazzo la biologia! Non sono fottuti serpenti, sono uccelli!»

Rumori nel corridoio. Brusio in sala.

«Soldato che succede?»

Il soldato esce.

Passa qualche secondo.

Silenzio in sala.

«Sono entrati Signore!»

«Sono arrivati qui?»

BANG! BANG! BANG!

«Caporale è impazzito?»

«Qweeeek!»

«È un pinguino travestito Signore!»

BANG!

«Fottuti pinguini! È un’invasione!»

«Qweeeeeeek!»

«Stanno entrando!»

BANG! BANG!

«Ommioddio cos’è quello?»

«QWEEEEEEEEEEEK»

«AAAAAAAAHHHHHHHHH!!!!!!»

«QWEEEEEEEEEEK»

«SOLDATO TORNI QUI! È INSUBORDINAZIONE!»

«QWEEEEEEK! QWEEEEEEK!»

BANG! BANG!

«FOTTUTI PINGUINI!»

«QWEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEK!»

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30 è il numero perfetto? I racconti sperimentali di Robert Coover

La sperimentazione mi ha sempre attratto, in qualsiasi ambito artistico. In letteratura negli anni ho cercato di capire quale senso trovasse James G. Ballard nel suo La mostra delle atrocità, mi sono perso nei deliri allucinogeni del Pasto Nudo di William S. Burroughs, ho cercato di visualizzare i brevi flash di cui è composto Anversa di Roberto Bolaño come fossero immagini di un film di David Lynch e ho sinceramente odiato (o quasi) tutte le novecentosessantasei pagine de L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. Nonostante in qualche caso la lettura sia stata più un supplizio che un piacere non ho mai smesso di cercare nuove forme di narrazione: dopotutto sono arrivato ad adorare David Foster Wallace partendo prevenutissimo con Infinite Jest (chicca per i fan, visto che l’associazione musica-letteratura qui è di casa: andate a vedervi questo video dei Decemberists, lo adorerete), segno che la fiducia nella parola scritta è cosa buona e giusta.

Quando ho trovato in libreria La babysitter e altre storie, edito da NN Editore, non conoscevo affatto Robert Coover, ma la prefazione di Luca Pantarotto è bastata per decidere di avventurarmi nel suo mondo. Non capirne appieno le coordinate mi ha attratto, una curiosità “professionale” verso ogni modo di declinare la forma racconto e la fiducia nella casa editrice hanno fatto il resto.

Come ne sono uscito? Estasiato ed esausto, in realtà.

Nei trenta racconti della raccolta (affidati ognuno a un traduttore differente) Robert Coover dà prova di essere uno sperimentatore nato, caratteristica che nei più di cinquant’anni di carriera qui condensati è rimasta sempre fra le sue priorità. Ogni racconto ha delle particolarità di trama o di forma, se non di entrambe, che lo rende in qualche modo unico. Già alla partenza, con la rilettura biblica de Il fratello, Coover si lancia in una prosa senza pause che ho divorato senza capire, se non strada facendo, dove esattamente volesse andare a parare. Era il 1962, e per quanto sappia poco dell’editoria di quegli anni posso solo immaginare quanto fosse inconsueto uscirsene con un racconto del genere.

“…e io dico a mio fratello «senti bello guarda che io ho un sacco di roba da fare questa stupidaggine la devi finire da solo io sai che vorrei aiutarti in ogni modo» e lui guarda altrove e dice «il tuo lavoro non ha importanza» e io «col cavolo che non ha importanza secondo te io e mia moglie poi cosa mangiamo voglio dire da dove credi venga la roba che ti spazzoli? mica puoi mangiarti questa stupida nave pronta a marcire sotto un sole micidiale» e lui fa un lungo sospiro e dice «no è che davvero non ha importanza» e si siede su un sasso con un’aria come stanca e guarda lontano sembra persino stia per mettersi a piangere dio santo…”

Un fratello

Il citazionismo è di casa, tra fiabe osservate da punti di vista diversi (La casa di marzapane, Variazioni su Riccioli d’oro e uno dei miei preferiti, Il ritorno dei bambini oscuri), universi cinematografici rivisitati (You must remember this, Cappello a cilindro) e incursioni nel mondo dei fumetti (L’uomo invisibile, Cartoni animati, L’uomo stecchino). Coover però non si limita a questo, esplorando modi di narrare che coinvolgono direttamente l’autore come elemento della storia: è il caso del racconto L’attizzatoio magico, in cui il controllo che il deus ex machina ha della sua storia sembra sempre in bilico, o de Il rabberciatore, prosa libera e quasi poetica su un’entità che, per citare la prefazione, “convinta di aver creato la mente, si rende conto troppo tardi di aver invece inventato l’amore”.

“Il pifferaio aveva infuso nella comunità un terrore di tutta la musica, che fu bandita per decreto in perpetuo. Tutti gli strumenti musicali erano stati distrutti. Canticchiare in pubblico era un reato punibile con il carcere e i bambini, che non le prendevano quasi mai, venivano sculacciati per questo. Ancora una volta, dipendeva dai bambini che se n’erano andati e dalla maniera ingrata e raggelante con cui se n’erano andati: non si erano nemmeno voltati.”

Il ritorno dei bambini oscuri

Se la vena creativa di Coover è da applausi, e lascio ai temerari scoprire quali altre invenzioni si nascondono nei restanti racconti, ho trovato però nelle pagine della raccolta poca emozione. In maniera simile a quanto mi è capitato con altri autori (penso al racconto Click di John Barth, contenuto nella raccolta La vita è un’altra storia edito da Minimum Fax, ma anche al Foster Wallace de La persona depressa in Brevi interviste per uomini schifosi) nei racconti de La babysitter e altre storie ho intravisto più una passione per l’esperimento in sé che per il coinvolgimento del lettore. Il racconto Il fantasma del palazzo del cinema, col suo confuso affastellarsi di visioni sovrapposte, mi sembra esplicativo di questo sguardo autocompiaciuto: un cinema abbandonato in cui lo sperduto custode si ritrova vittima delle stesse proiezioni a cui ha votato la sua vita, universo affine alla trilogia del Drive-in di Lansdale ma con molta più anarchia e in cui finisce per latitare, causa sovrabbondanza, la tensione.

“Annaspa contro l’alta marea di luce sfolgorante, che gli piomba addosso dalla cabina di proiezione, animata da ombre guizzanti, urtando il suo corpo come un fascio di raggi gamma. «Non mi serve la lancia, è solo un leoncino!» tuona una voce attraverso la cupola, una bomba fischia e alle sue spalle c’è un fragore come di un enorme specchio che cade. «Attenzione. È…aaarggghhh!». «Mi perdoni, signora». «Per tutti i diavoli, che cos’è quella roba?». «Passione che arde in tempi pericolosi e…». «Non vorrai dire che…?!». Il clamore si intensifica – «Quale terribile verità?» – e i suoi movimenti si complicano come in un sogno.”

Il fantasma del palazzo del cinema

La lettura di questa raccolta di racconti non è da affrontare a cuor leggero, e di sicuro non consiglierei il libro a chi cerca qualcosa di rilassante prima di andare a dormire. Sviscerare i mondi di Coover richiede impegno, e un plauso va a tutti i traduttori che hanno affrontato la sfida di rendere al meglio l’originale inglese nella nostra lingua. Una lettura ideale per chi non ha paura di scoprire qualcosa di nuovo e per chi scrive, e un buon modo per farsi un’idea di quanto può essere multiforme il mondo della narrazione.

Racconti preferiti: Il fratello, Il trucco del cappello, Il ritorno dei bambini oscuri, Farsi una birra, Variazioni su Riccioli d’oro.

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Racconto in musica 2: La stessa terra (La macchina di Von Neumann – Qui una volta era tutta campagna)

Von Neumann è, in maniera bizzarra, un nume tutelare della musica indipendente italiana, nello specifico di quella strumentale. Sono ben due le band che lo hanno “adottato” nel proprio nome, i romani Vonneumann e il gruppo brianzolo di cui trovate qui sotto un brano. Ho avuto piacere di conoscere entrambe le formazioni personalmente, scoprendo i qui presenti grazie alla classifica dei migliori album in free download del compianto sito Osservatori Esterni e intervistandoli prima di una loro data al Circolo Agorà di Cusano Milanino nel 2016 (qui l’intervista, per i curiosi).

La canzone è Qui una volta era tutta campagna, ed è la traccia di apertura dell’ultimo disco della band Formalismi, un album che nelle intenzioni dei componenti dovrebbe essere (traduco liberamente dall’inglese, come scritto sul loro bandcamp) “una scatola vuota da riempire”. Io l’ho fatto con un racconto già apparso su Indie-zone, lasciandomi ispirare dall’ariosità del brano e dalla marzialità batteristica del finale per una storia che parla di terra, confini e mitraglie. Buon ascolto, e buona lettura.

La stessa terra

«Quello che ci ha fregato a tutti è il concetto di proprietà» diceva mio nonno. «Quello, e la terra».

Ora, sporco di fango, bagnato fino all’osso, lo capisco più a fondo.

«È cominciato tutto con l’agricoltura» mi indottrinava. Fumava sigari puzzolenti con lo sguardo perso verso l’orizzonte, ed ovunque guardasse c’era quella terra che non sopportava.

Il panorama nelle nostre zone non concede molto alla fantasia. Si stende piatto e monotono, interrotto qua e là da un albero solitario. Verrebbe da guardare al cielo, ma è spesso grigio e mette ancora più tristezza.

È un microcosmo che invita alla concretezza, niente voli pindarici. Da altre parti mio nonno sarebbe passato per quello bizzarro, il tipo un po’ toccato che si guarda con un sorriso benevolo.

Qui era solo uno da evitare, persino per i suoi stessi figli. Forse per questo ci teneva a tenermi così stretto a sé.

«I primi confini sono stati tracciati quando l’uomo ha iniziato a coltivare» continuava. «Da lì in avanti non si è potuto più andare in giro liberi. “Questo posto è mio”, ha detto uno, e agli altri veniva subito voglia di prenderselo invece che andarsene da un’altra parte».

A sentire lui sembrava che tutte le tentazioni fossero nate con un aratro.

«E le caverne? Nessuno voleva quelle di un altro?» avrei voluto chiedere, ma ero troppo timido per farlo. Passavo per quello scemo in casa, perché ero molto silenzioso.

Forse mio nonno mi teneva con sé solo per questo, perché non lo zittivo come facevano tutti gli altri.

«Bisognerebbe bruciarli tutti, questi campi, così ci sarebbe meno invidia. Gli avvelena il cuore a questa gente di merda, l’invidia».

«Ma allora perché fai il bracciante?» gli chiesi una volta, quando proprio non ce la feci a starmene zitto.

«Perché solo questo so fare» mi rispose senza guardarmi, «lo schiavo». Rimanemmo in silenzio, poi all’improvviso mi prese per le braccia.

«Tu vattene appena puoi» mi disse con gli occhi umidi, «non farti ingabbiare». Poi si accese un sigaro, bestemmiando per darsi un tono.

Forse mi teneva con sé perché gli ricordavo com’era da giovane, e non voleva che facessi la sua stessa fine.

Mi spiace averlo deluso.

Io ho creduto in una terra dai confini molto più ampi dei suoi odiati campi. Quando mi hanno mandato a difenderla con un fucile in mano ho pensato che stessi facendo qualcosa di importante, io, quello che passava per scemo.

E ora sono qui, steso in una trincea, con la mitraglia che canta sopra la mia testa e voci che urlano in un’altra lingua poco lontano.

Sempre meno lontano.

Non ero preparato per tutto questo. Forse nessuno lo è. Forse sono solo quello strano, come mio nonno.

Come lui sono legato a confini che non andrebbero tracciati. Intrappolato nella terra, la stessa terra, a versarci il sangue. Spero che almeno per me ne valga la pena.

Che non abbia confuso i concetti di patria e di proprietà.

Mi sento ridicolo, ma se morirò qui fingete che sia stato un momento epico.

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Società malate a confronto: Joker Vs Parasite

Il risultato agli Oscar 2020 lo conoscete tutti: Joker, forte di ben 11 nomination, porta a casa solo due statuette (fra cui quella scontata, ma non per questo meno meritata, di Miglior attore per Joaquin Phoenix), Parasite invece trionfa conquistandone ben quattro su 6 nomination, fra le quali l’accoppiata mai riuscita nella storia Miglior film-miglior film internazionale. La sfida non era certo solo fra loro, ma già dopo essere uscito dalla sala dove ho visto il film di Bong Joon-ho un confronto fra le due pellicole mi è subito passato per la testa. Entrambi i film infatti guardano alla società in maniera critica, per quanto Joker sia ambientato negli anni ottanta e non nel presente, ma lo fanno in maniera molto diversa.

AVVERTENZA: il seguente articolo contiene anticipazioni della trama dei due film, quindi se non li avete visti leggete a vostro rischio e pericolo.

Joker ci mette nei panni di Arthur Fleck, disadattato a cui la vita ha dato ben poche soddisfazioni costretto a sbarcare il lunario come clown. Per tutto il film al povero Arthur vengono sbattute porte in faccia: i colleghi lo irridono (fatta salva una singola eccezione, un altro freak come lui in qualche maniera), il capo lo tratta come uno stupido, sul lavoro viene malmenato da alcuni ragazzini e viene anche preso per uno squilibrato quando cerca di far ridere un bambino sull’autobus. Quando entra in possesso di una pistola, secondo il classico principio di Cechov, si aspetta solo il momento in cui sparerà, e sono tre giovani yuppie in carriera a dargliene l’occasione: al nuovo Arthur che emerge dal sangue non viene però data nessuna chance dalla società, e le sue controverse soddisfazioni sarà costretto a prendersele lottando contro tutto e tutti, ignaro e sostanzialmente indifferente agli effetti che le sue azioni scatenano sul mondo che lo circonda.

Parasite invece ci porta nella vita di due famiglie agli antipodi, i poveri Kim e i ricchi Park. I primi sbarcano il lunario come meglio possono, costretti ad abitare in un seminterrato e così demoralizzati dalla loro situazione da non riuscire nemmeno a reagire quando un ubriaco urina davanti alla loro finestra, i secondi hanno invece tutti gli agi che la loro posizione e i loro soldi possono concedergli. Grazie al figlio Ki-woo la famiglia Kim inizia a infiltrarsi nella casa dei ricchi, con un piano geniale e sistematico che li porta a vivere alle spalle dei Park come i parassiti evocati dal titolo. In questa loro ascesa sociale non si curano delle vittime accidentali che lasciano lungo il percorso, se non quando la guerra fra poveri da loro iniziata non porterà a conseguenze irrimediabili per tutti i protagonisti della vicenda.

La lotta di classe in Joker è la battaglia di un uomo solo contro una società che lo emargina invece che aiutarlo a integrarsi, ma nella sua vicenda Arthur Fleck sembra avere a che fare con espedienti narrativi più che persone reali. Il collega lo sbeffeggia e ne causa il licenziamento senza un particolare motivo per avercela con lui, i tre potenziali stupratori nella metropolitana lo prendono di mira perché è una vittima più appetibile persino della ragazza a cui rivolgono inizialmente le loro attenzioni, la madre sull’autobus ritrae il figlio nonostante Arthur non stia facendo niente di male. La società che circonda il futuro Joker è priva di empatia, dura, una situazione che ai piani alti non migliora ma semmai peggiora: dal Thomas Wayne che si scaglia contro i poveri al Murray Franklin che sbeffeggia Arthur in diretta televisiva la New York dipinta dal regista Todd Phillips sembra avere davvero molto in comune con quella di Taxi Driver, il paragone più altolocato che è stato speso, ma il marcio appare sempre in qualche maniera monodimensionale. È una società in degrado perché così deve essere ai fini narrativi, e sebbene Arthur non viene dipinto come un eroe è quasi impossibile evitare di fare il tifo per lui.

Parasite, partendo da un tono molto più leggero, scatena lungo la trama un gioco al massacro che non lascia scampo a nessuno. La famiglia Kim non si fa domande quando provoca il licenziamento dei vecchi dipendenti, e anzi la madre Chung-sook rifiuta senza ripensamenti di dare una mano alla ex governante Moon-gwang quando questa le rivela il nascondiglio sotterraneo del marito. La stessa Moon-gwang non esita a farsi fa beffe di loro quando riesce a tenerli sotto scacco, trattandoli come ostaggi e facendogli la morale. I componenti della famiglia Park, quelli che in qualche maniera dovrebbero essere i “cattivi” della trama, sembrano per la maggior parte del tempo degli stupidi che non hanno la più pallida idea di come funzioni il mondo al di fuori del loro alveo dorato, e per certi versi è questo il concetto più spaventoso di un film che, quando vuole, riesce anche a fare paura: i ricchi non si rendono nemmeno conto del male che fanno, si accorgono di chi sta sotto di loro solo per la puzza. Eppure Bong Joon-ho vuole bene ai suoi personaggi, per quanto meschini essi siano, e se è pur vero che anche in questo caso si fa il tifo per gli outsider è altrettanto vero che tutti i personaggi hanno un’anima e delle motivazioni, condivisibili o meno. Sono reali, anche all’interno di un film dove gli stessi personaggi ci tengono a specificare nei dialoghi quanto tutto sia “così metaforico”.

In questo sta secondo me la grande differenza fra Joker e Parasite: l’uno ha a cuore unicamente il percorso del proprio protagonista, di cui la società tutta è l’avversario conclamato e che non ha bisogno di particolari approfondimenti, l’altro mette in scena uno scontro di classe in cui non vince nessuno perché la vita non fa distinzioni così nette fra buoni e cattivi. Emblematico è il finale di Parasite, in cui il giovane Ki-woo vede come obiettivo primario per i suoi scopi quello di diventare ricco, dimostrando la sua incapacità di pensare fuori dagli schemi: una società in cui fare soldi è l’unica soluzione ai problemi affossa ogni speranza di un futuro, se non migliore, quantomeno diverso.

La società di Joker fa paura, ma quella di Parasite ne fa ancora di più. E temo sia più simile alla nostra di quanto vogliamo credere.

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