Racconto in musica 31: Il coraggio di guardarsi in faccia (ZiDima – Chiara)

A volte non so dire bene come sono arrivato a conoscere un gruppo che mi piace. Può essere che me l’abbia consigliato qualcuno, che abbia suonato in un locale che conosco senza però che sia riuscito a vederli, che abbia incrociato sui social o chissà dove una canzone e abbia deciso di approfondire. Non so quindi dire come sia venuto esattamente a conoscenza della musica degli ZiDima (azzardo totalmente a fallace memoria, come motore della conoscenza, una data alla Cooperativa Portalupi di Vigevano con i compianti Iceberg), di certo ho questo ricordo stampato in testa: io che solitario (nella not…ah no, questo è l’uomo tigre) me ne vado a quella bella iniziativa che era il Generator Party dalle parti di Ivrea (dove mi sarei goduto fra gli altri Muschio, Ruggine e Ash of Nubia), ascoltando a tutto volume il loro disco Buona sopravvivenza e soprattutto canticchiando a ripetizione questa canzone.

Gli ZiDima. il cui nome deriva da un verso di Pirandello (Zi’Dima, dentro la giara, era come un gatto inferocito) sono una di quelle band che, attraverso vari cambi di formazione, vive e lotta con noi (sì, mi piace un sacco usare questa formula) fin dagli anni 90. Il primo parto creativo ufficiale, dopo alcune demo autoprodotte e partecipazioni a compilation, è l’ep L’attesa del 2004, seguito due anni dopo da una compilation creata col collettivo Cadaveri a passeggio, che hanno contribuito a creare, che li porta a suonare per oltre quaranta date in giro per l’Italia. Questa mole di concerti viene condensata nel disco live Nostro lacerante amore del 2008, che anticipa di solo un anno Cobardes, uscito nel novembre 2009 in occasione dell’apertura del processo d’appello per le violenze nella scuola Diaz di Genova…sì, quando parlavo di lotta intendevo anche questo. Nel 2013 registrano il singolo Come farvi lentamente a pezzi, il cui video accompagna la mostra Muri Stracciati di Stefano Belloni, e che entrerà a far parte di Buona sopravvivenza, disco del 2015 grazie al quale ottengono ottimi riscontri dalla critica musicale e che portano in giro per un lungo tour. Qualche anno di silenzio e poi, nel periodo più necessario per dimostrare l’importanza della musica, ecco arrivare a ottobre di quest’anno Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare: sette canzoni che prendono il nome di altrettante persone (più una), un video realizzato nel centro sociale F.O.A. Boccaccio di Monza e un release party proprio in questo luogo, che da anni cerca di fare cultura lottando con continue minacce di sgombero. Gli ZiDima sono oggi Roberto Magnaghi (chitarra), Manuel Cristiano Rastaldi (voce e testi), Cosimo Porcino (basso) e Francesco Borrelli (batteria), e se vorrete intercettarli dal vivo il 31 ottobre li troverete a Saronno, al TelOS (Territorio Libero Occupato Saronnese).

Mi accorgo che ho parlato poco della loro musica qui sopra, un mix di noise rock e post-hardcore su cui si innestano alla perfezione la voce e le liriche di Manuel, musica che potete scaricare gratuitamente dal loro bandcamp (avvertenza solita: gratis non vuol dire che non potete comunque sovvenzionare la band in qualche modo). Tantissima energia, tantissima emozione, quelle che mi hanno portato a immaginare per la loro Chiara, seconda traccia del nuovo disco (col contributo vocale di Alessandro Andriolo dei Selva), una storia che svia dal significato originale cercando di mantenerne intatta la tematica portante: la voglia di riprendersi la libertà. Trovate come al solito il racconto sotto al link della canzone, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Il coraggio di guardarsi in faccia

Lo capisci che non possiamo più andare avanti così, mi dice con gli occhi lucidi e le mani che tremano, e per quel poco d’amore che mi è rimasto resto ad ascoltarlo mentre mi spiega che un suo amico, uno nuovo suppongo perché gli altri se ne sono andati tutti, potrebbe davvero aiutarci se solo io fossi un po’ gentile con lui, magari stasera stessa. Non pensavo che saremmo arrivati a questo punto, ma ci sono state così tante tappe nella discesa verso il fondo che ormai non riesco più a stupirmi. Almeno non ha il coraggio di guardarmi negli occhi mentre mi chiede cosa ne penso.

Penso, gli dico cercando le parole migliori che ho, che non mi sta bene, che l’unica cosa che non può costringermi a vendere è la mia dignità. Rovino sul finale questo bel discorso, dicendogli che se ne andasse lui, col suo amico, a farselo piantare nel culo. Quando si alza so già quel che mi aspetta, però una soddisfazione sono riuscita a togliermela.

Ma al primo schiaffo me ne accorgo subito che stavolta è diverso, che dopo i lividi e le costole incrinate ci può essere ancora qualcosa di peggio e ho paura, stavolta ne ho davvero tanta e cerco di strisciare via mentre mi tempestano i calci e sì, guardando verso la cucina penso a quanto vorrei avere un coltello in mano, la sua fredda lama a proteggermi dall’uomo che una volta mi amava e ora non si rende nemmeno conto che sta per uccidermi.

La suoneria del suo cellulare mi salva. Lo sento armeggiare frenetico sul tavolo ingombro, rispondere ancora ansimante con quella vocetta stridula che mi aveva fatto tanta tenerezza anni fa, quando non avevamo molto di più ma ci sentivamo fieri di quel poco. Quella fragilità mi aveva convinta a dirgli sì quando mi aveva chiesto di uscire insieme, prima di scoprire di essere la valvola di sfogo ideale per i suoi fallimenti, per il suo non sapersi imporre. Parla al cellulare di un ritardo inaspettato, di un problema risolvibile, e so che quel problema è il mio orgoglio. Quando riattacca sono lontana, non abbastanza per scappare ma spero quel tanto che basta per sfuggire alla sua furia. I suoi passi pesanti, in avvicinamento, mi fanno temere non sia ancora finita.

Non so quali siano le sue intenzioni quando mi afferra per i capelli, dopo che mi sono arrampicata a fatica sul bordo del lavello. Lo dico alla polizia, che non sono riuscita a leggerglielo negli occhi, anche se ho avuto il coraggio di guardarlo in faccia mentre affondavo la lama.

Ora il mio nome è ovunque, tutti vogliono sapere se sono pentita, ma di cosa dovrei chiedere scusa? Di averlo fatto io prima che lo facesse lui? Dicono che eravamo nella stessa situazione, ma non è vero: eravamo entrambi disperati, ma la mia disperazione era doppia. Abbiate almeno il pudore di non giudicarmi, dopo avermi ignorata, perché non dovrete convivere voi col senso di colpa per aver preteso, troppo tardi, la libertà.

Conoscete il mio nome, lo pronunciate con leggerezza, ma non sapete cosa voglia dire essere me.

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Racconti fantastici e dove trovarli: un piccolo sguardo al mondo delle riviste letterarie

La mia speranza più grande, per quanto riguarda questo blog, è che riesca un giorno a diventare qualcosa di molto vicino ad una rivista letteraria. Ci sono un sacco di bravi scrittori di racconti in giro, e unire il meglio della scrittura underground col meglio della musica indipendente sarebbe il coronamento di un piccolo sogno. Per questo motivo (e anche per spargere in giro i miei racconti più lunghi di tremila battute) negli ultimi mesi ho cercato di approfondire la conoscenza col florido sottobosco delle riviste letterarie: qualcuna già la conoscevo, qualcuna è stata una piacevole scoperta, in tutte ho trovato almeno un racconto che mi si è stampato in testa. Quella che segue è una piccola carrellata di ciò che mi sono ritrovato a leggere e ad amare, sperando che possiate anche voi appassionarvi ed entrare a far parte di quella cerchia sempre meno ristretta (si spera) di estimatori del racconto. C’è chi fa lo stesso lavoro tutte le settimane già da tempo, come ItaliansBookitBetter, io cercherò di farlo saltuariamente…e spero di riuscire a portare alcuni di questi narratori anche fra queste pagine.

Tre Racconti (Marco Parlato – Sotto di noi le stelle)

Tre racconti è probabilmente la prima rivista letteraria di cui ho sentito parlare, consigliatami da un’amica. Nata, e qui cito parola per parola il sito ufficiale, “per promuovere la lettura e la scrittura di storie brevi e originali dando spazio ad autori esordienti e a chi desidera confrontarsi con le sfide della narrazione”, Tre racconti oltre che una rivista letteraria valida, sia dal punto di vista estetico che dei contenuti, è anche un contenitore di articoli interessanti sul mondo della letteratura. Sono usciti finora nove numeri della rivista (che ospita, didascalicamente, tre narrazioni brevi per numero), con un silenzio che si protrae da gennaio 2019 ma che non significa che la redazione abbia messo i remi in barca: da pochi giorni infatti hanno riaperto la call per nuovi racconti, e anche se la selezione è ardua (io ho già collezionato due rifiuti, motivati con garbo) vale la pena tentare.

Il black bin è qui, sotto di me.

I primi giorni avevo un timore che, se proprio devo dirtelo, non si è affievolito. Quando lo sportello si apre sul vano di sicurezza, nel quale riverso le cartacce, rimango a guardare l’oscurità e tempo possa inghiottirmi.

Livia mia, a essere sincero ogni volta che apro il black bin sento la tua mancanza. Sento il vuoto riversarsi dentro di me, penetrare nei miei occhi come un fumo nero e maligno.

Marco Parlato, Sotto di noi le stelle

Il racconto di Marco Parlato è apparso sul numero 2 della rivista, in compagnia di un altro racconto davvero valido che è La donna del cecchino di Sara Gambolati. Concepito come uno scambio epistolare a senso unico, nella sua storia Marco crea un’atmosfera vicina ai migliori episodi di Black Mirror, inserendo un elemento anomalo nella vita di una persona qualunque che, come si scoprirà procedendo nella lettura, ha qualche segreto da nascondere. Potete leggere il racconto (e anche il resto della rivista) direttamente online grazie a questo link.

Carie (Giorgio Ghibaudo – Come te)

Carie è il classico esempio di come una passione possa portarti a ritagliare per essa una larga fetta del tuo tempo libero. Chi la realizza è infatti un gruppo di amici che vengono da ambienti lavorativi poco affini alla letteratura: dottori, illustratori (e all’interno della rivista questa presenza si sente), economisti, tutti con in comune l’amore per la lettura. E da leggere di sicuro hanno molto i creatori di Carie, visto che ogni numero (ne sono usciti finora dieci, più tre numeri speciali) ospita anche fino a venti racconti: se ne avete uno da parte di non più di 15000 battute provate a inviarlo a carieletterarie@gmail.com, la redazione vi farà sapere che ne pensa sia in caso positivo che negativo.

Tu, più basso di lui di almeno una spanna, durante le presentazioni avevi dovuto alzare gli occhi verso i suoi. Vi era bastato osservarvi un attimo, una stretta di mano tra due tredicenni più lunga e insistita del dovuto, un mezzo sorrisino complice. E per voi due fu tutto chiaro: Tom era uno “come te”. Vi eravate subito piaciuti. Passavate le giornate lì in montagna a sciare, a pattinare sul ghiaccio, a rincorrervi, a bersagliarvi con la neve, a parlare di vecchi film in bianco e nero consumando insieme quegli ultimi giorni del 1986.

Giorgio Ghibaudo, Come te

Il racconto di Giorgio Ghibaudo appare sul numero 1 della rivista, uscito a dicembre 2016 e dedicato, visto il periodo, al Natale. Fra racconti che affrontano il tema sfociando anche nel pulp il suo si distingue per l’elevata sensibilità con cui affronta l’omosessualità in età adolescenziale e lo spettro dell’AIDS (il racconto è ambientato negli anni 80), riuscendo al contempo a spiccare anche per l’elevata qualità della forma: l’autore si rivolge direttamente a uno dei due protagonisti, Marco, sfruttando efficacemente la seconda persona e creando un’empatia rara coi suoi personaggi. Per leggerlo dovete scaricare in pdf la rivista a questo indirizzo.

CRACK (Luca Sereno – Terra bruciata)

Oltre a scrivere benissimo Giorgio Ghibaudo è anche una delle menti che ha creato Carie e, non contento di tutto ciò, a Febbraio 2019 ha esordito con una nuova rivista. CRACK è un contenitore multiforme, visto che al suo interno convivono sia racconti che articoli di approfondimento e interviste a librerie indipendenti, case editrici (interessantissima quella a Black Coffee sul numero 5 della rivista) e chi più ne ha più ne metta. Ogni testo è poi accompagnato da un consiglio musicale ad hoc, caratteristica che da queste parti non può passare inosservata.

Sei numeri più due speciali, di cui uno appena uscito dedicato al tema del cibo, nato dalla collaborazione col festival Play with food – La scena del cibo e col Torino Fringe Festival. Nel caso vogliate pubblicare un racconto sappiate che anche per CRACK vale il limite di 15000 battute, mentre per tutte le altre curiosità questa pagina è stata creata appositamente per rispondere a ogni vostra domanda.

Luca dice che c’è chi si corazza per affrontare la battaglia, e chi invece brucia i raccolti, elimina le scorte, e infine riempie di tritolo il proprio castello. Questa strategia militare si chiama “terra bruciata”.

Tutti vogliamo solo vincere la nostra guerra.

Luca Sereno, Terra bruciata

Scegliere un racconto che fungesse da simbolo per la rivista è stato davvero arduo, ma quello di Luca Sereno è stato il primo di cui mi sono innamorato. Narrato in prima persona dal protagonista Davide, Terra bruciata è la cronistoria di una relazione che si esaurisce tragicamente, scandita dalle variazioni di peso di lui e della sua compagna Martina. Crudo e diretto, ma senza compiacimento, un pugno nello stomaco che lascia storditi e affascinati: potete leggerlo a questo link.

Colla (Mauro Maraschi – È successo sott’acqua)

Colla è sicuramente una delle riviste che lottano e resistono insieme a noi da più tempo. Nata nel 2009 da un’idea di Marco Gigliotti, Stefano Peloso e Francesco Sparacino, Colla vuole riunire al suo interno scrittori già affermati e nuove leve della scrittura, “incollando” insieme testi eterogenei senza vincoli stilistici. Si autodefinisce “Una rivista letteraria in crisi”, un po’ perché la crisi è un motore narrativo potente, che anche nella narrativa di intrattenimento può (e deve) mettere in crisi le certezze, e un po’ perché…be’, gli andava così.

Di Colla sono usciti ventotto numeri, l’ultimo a giugno 2020, e la mole di racconti che gli giunge è tale che al momento hanno dovuto chiudere agli invii. Io attendo fiducioso entro il 30 novembre il responso su un racconto che ho mandato, e chissà che dopo quella data non giungano buone nuove anche per chiunque voglia sottoporgli una propria storia: nel frattempo avete un sacco di materiale da recuperare, ché le riviste vanno anche lette per capire la loro linea editoriale e non solo sfruttate per poter dire “ho pubblicato anche io!”.

Sott’acqua siamo tutti pallidi e gonfi come cadaveri, lenti e vulnerabili. Se Theodore mi raggiungesse alle spalle so che, almeno qui, avrei qualche possibilità di contrastarlo, così come, se volessi, riuscirei a chiudere la bombola di Hannah: mi chiedo quanto tempo avrei, chiusa la bombola di uno, per raggiungere l’altro prima che se ne accorga, e mi chiedo quale delle due chiuderei prima, e mi chiedo se riuscirei, in questo silenzio eterno, indifferente, a fare un lavoro pulito, lento ma pulito, e se, una volta fuori dall’acqua, potrei riprendere la mia vita di quattro anni fa, a montare donne nude per 1.150 euro al mese, tornando a parlare la mia lingua, senza i continui giudizi sardonici di un chirurgo con la sindrome di Asperger o le stupide ripicche di una moglie bovina che succhia cazzi infetti a destra e a manca.

Mauro Maraschi – È successo sott’acqua

Con ventotto numeri a disposizione anche per Colla la scelta era davvero ardua. Il racconto di Mauro Maraschi però mi ha colpito particolarmente per il modo che ha di essere colloquiale e altamente descrittivo allo stesso tempo, riuscendo a creare inquietudine attorno alla bizzarra vicenda di un matrimonio sottomarino a cui il protagonista della storia è suo malgrado costretto a presenziare, in qualità di genero dello sposo. Poche righe e conoscerete tutto dei personaggi, delle loro vicende fino a quell’immersione, e sarete trasportati con l’ansia che monta fino a un finale inaspettato e narrativamente perfetto: potete leggerlo qui.

l’inquieto (Francesca Del Mar – Nato al freddo)

A proposito di ansia ecco che arriviamo a una rivista il cui sottotitolo è “periodico attacco d’anzia”. Anch’essa sulla breccia da parecchi anni, l’inquieto è stata fondata nel 2013 da Bernando Anichini e Martin Hofer e si può definire, dalle parole degli stessi autori, come “lo scontro frontale fra scrittura e illustrazione, la constatazione amichevole fra parole e disegni”. l’inquieto è probabilmente la rivista più eterogenea fra quelle che mi è capitato di leggere, segno di un’attenzione per le forme di narrazione non convenzionali davvero lodevole.

Quattordici sono i numeri usciti finora, ognuno caratterizzato da cover particolarissime. I contributi (che siano racconti, illustrazioni o proposte di collaborazione più generiche) sono ben accetti e la redazione assicura di rispondere a tutti: qui trovate maggiori informazioni.

Sono nato al freddo, sotto il cuore pulsante della terra, in un angolo di mondo con le pareti grigio acciaio.
Di quel periodo, oltre al gelo, ricordo: l’avvolgente sensazione di comunità; il peso dei miei genitori sopra di me; l’incrollabile certezza della realtà che vivevamo.

Così, il famoso poeta-gelatino-killer Citronov, descrive la propria infanzia nel suo primo romanzo autobiografico. E davvero al freddo Citronov era nato, in un’anonima gelateria d’immigrati calabresi a Neuchâtel, Svizzera.

Francesca Del Mar – Nato al freddo

Apparso sul numero 12 della rivista (Bengodi – Mondo senza testa), Nato al freddo di Francesca Del Mar se l’è giocata fino all’ultimo con The loneliest whale in the world di Mari Accardi nelle mie preferenze. Ciò che me lo ha fatto scegliere è la forma, folle e inconsueta, una storia che penso potesse apparire solo su questa rivista: quella di un gelato al limone che diventa senziente e crea una sua personale rivoluzione, una sorta di Limonov (non può che essere una citazione il fatto che il gelido protagonista faccia uscire un libro intitolato Il poeta messinese lo fa con i cucchiaini di plastica) la cui storia deve essere ancora scritta per intero…ma quel che c’è qui già basta. Lo trovate a questo indirizzo.

Questa è solo una prima selezione di riviste e testi, molte altre ce ne sono e ve ne parlerò quanto prima. E se volete invece farvi una cultura da soli vi invito a seguire la pagina Facebook Ti ho rivista, sempre aggiornata sulle nuove uscite nel variegato panorama delle riviste letterarie.

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Racconto in musica 30: Sostituzione (Mutiny on the Bounty – Dance automaton dance)

Se vi parlo di musica proveniente dal Lussemburgo cosa mi sapreste citare? Fino a poco tempo fa io potevo contare solo su un aneddoto, ovvero la frequentazione da adolescenti di una prestigiosa scuola di questa piccola nazione da parte di Brian Molko e Stefan Olsdal, futuri fondatori dei Placebo (secondo wikipedia si ignorarono bellamente). Poi andai a un concerto dei Valerian Swing a Milano, nel mai abbastanza rimpianto Lo Fi, e ad accompagnarli nel live trovai una band di pazzi scatenati che tiravano fuori dalle chitarre suoni assurdi: diventarono subito una delle mie band del cuore, nonché la mia band lussemburghese preferita…anche perché ancora ora non conosco altre band di quella nazione. Signore e signori, dal piccolo cuore dell’Europa eccovi i Mutiny on the Bounty.

Formatisi nel 2004 su spinta di Nicolas Prezor (chitarra) e Sacha Hanlet (batteria), la band già l’anno seguente licenzia il primo split condiviso con un’altra band lussemburghese, i Treasure chest at the end of the rainbow, in cui militava lo stesso Sacha. Il primo disco è del 2009, Danger mouth, e vi si trovano le influenze math rock che caratterizzeranno tutti i loro lavori unite a un certo gusto per il post-hardcore, testimoniato anche dalla voce sporca di Sacha: la band si fa notare, e calca i palchi con diverse band internazionali come Battles, 65 days of static e Russian circles. A seguito di una data nel prestigioso festival texano South by southwest (SXSW per gli amici) il gruppo convince il produttore e tecnico del suono Matt Bayles a lavorare al loro secondo disco, Trials, registrato in un mese a Seattle al Red Room Recordings Studio ed uscito nel 2012: è con questo disco che la formazione si stabilizza, grazie all’ingresso alla seconda chitarra di Clement Delporte e al basso di Cedric Czaika, e anche la loro musica comincia a mutare. Il frutto del lavoro di affinamento verso un sound completamente personale arriverà nel 2015 con Digital tropics, dove le chitarre spesso suonano quasi come delle tastiere e la voce viene abbandonata in favore di un approccio esclusivamente strumentale, decisione a mio parere vincente: niente, almeno di ciò che ho sentito, suona come i Mutiny on the Bounty del terzo album, e chissà cosa tireranno fuori dal cilindro il giorno che torneranno a pubblicare qualcosa…giorno che aspetto con ansia.

Dance automaton dance arriva proprio dall’ultimo disco, e presenta tutte le caratteristiche per cui ho imparato ad amarli: suoni particolari, ritmo elevatissimo, batteria marziale e incastri chitarristici perfetti. Con un titolo del genere e un sound così sintetico non potevo che finire dalle parti della fantascienza con l’ispirazione, quindi mi sono immaginato una fabbrica in un recente futuro, il gioiello dell’automatizzazione che renderà obsoleta la forza lavora umana…nel vero senso del termine. Trovate il racconto subito dopo il brano, arrivati a questo punto non posso che consigliarvi come al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Sostituzione

C’eravamo tutti quel giorno nello stabilimento, dal direttore agli operai all’ultimo dei magazzinieri in stage sottopagato, tutti col morale decrescente a seconda del ruolo e dello stipendio. Nessuno però se l’era sentita di mancare, di fare quello sgarbo all’AZIENDA, neanche i grandi vecchi che sputavano per terra e biascicavano mentre assistevamo all’inaugurazione della nuova linea produttiva automatizzata che avrebbe rivoluzionato il nostro settore e le tempistiche di produzione e blablabla…quella che ci avrebbe sostituito insomma, a noi mica a loro, i grandi vecchi che ci dicevano “noi ai nostri tempi sì che ci facevamo rispettare” ma a cui ora, a un passo dalla pensione, non gliene fregava niente di rischiare.

Il direttore fece un breve discorso che ascoltammo con mezzo orecchio, distratti da quell’ammasso di lamiere bianche e asettiche che aspettavano di mettersi in azione. Settemila pezzi al minuto, dieci volte quello che producevamo noi, saremmo stati al suo servizio per un po’ e poi grazie e arrivederci, avrebbe fatto da sola. Finito il discorso il nostro caporeparto la attivò, anche lui teso perché non capiva se fosse un bene o un male quella novità, e i bracci meccanici iniziarono subito a ruotare con alta velocità e basso ronzio. Silenziosa, efficiente, mortale, almeno per noi.

Poi iniziò il battito.

All’inizio fu solo un tintinnio costante, talmente fuori luogo che ci girammo tutti a cercarne la fonte. Uno dei nuovi assunti, un giovincello che una volta avevamo mandato a cercare un bancale di corrente e c’era andato, picchiava con la chiave inglese su una ringhiera, lo sguardo assente. Stavo per dirgli di piantarla, ma mi accorsi che con la mano tenevo lo stesso tempo, battendo sulla tasca con le chiavi di casa. In pochi secondi tutti, spinti da chissà quale forza, ci ritrovammo a picchiare contro tubi, ringhiere, persino contro i nostri stessi corpi per tenere un tempo costante e martellante, sempre più feroce, senza riuscire a fermarci.

La macchina aumentò da sola il suo ritmo produttivo, le braccia meccaniche che schizzavano ovunque e sembravano muoversi con una volontà propria, non più legata alla produzione che le era stata assegnata, sempre silenziosa ma sotterraneamente legata a noi, al nostro frenetico starle dietro battendo contro ogni superficie, estatici e sconvolti al tempo stesso, orripilate addirittura le figure apicali dell’AZIENDA col direttore che, costretto suo malgrado a sbattere la testa contro una saracinesca, guardava con occhi folli la macchina mentre la fronte gli si ricopriva di sangue, inerme quanto noi.

Andammo avanti così a lungo, coi muscoli che urlavano e le menti che si estraniavano perché non avevamo la sua autonomia e lei, la macchina, lo sapeva, tanto bene che quando all’improvviso il ronzio si fermò e potemmo finalmente crollare a terra esausti i nostri volti si puntarono su di lei, su quel che aveva prodotto, e vedemmo ciò che ci avrebbe sostituiti tutti da lì in avanti e per sempre.

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Dai racconti al romanzo senza perdere di sensibilità: La casa sul lago di David James Poissant

Non vi sta già simpatico?

Pochi anni fa, quando ancora la mia passione per i racconti era stimolata principalmente da motivi di “studio”, incappai nel primo libro di David James Poissant. Il paradiso degli animali è una di quelle raccolte di racconti che gli amanti del genere non dovrebbero lasciarsi sfuggire, soprattutto se amano Raymond Carver e il suo modo di affrontare storie apparentemente banali per farne specchio dell’umanità intera. Poissant descrive un campionario di personaggi che hanno fatto scelte sbagliate o che, nella maggior parte dei casi, sono ancora nel mezzo del guado, e lo fa senza giudizio, come se ognuna di quelle persone potessimo essere noi. Da quando ho preso l’abitudine di fare orecchie alle pagine dei libri (peccato mortale per qualcuno, al pari del – mioddio! – sottolineare le righe), in corrispondenza di frasi che trovo meritevoli di essere ricordate, solo due sono i libri che ho amato ma di cui le pagine sono ancora intonse (l’altro è il viscerale Dalle rovine di Luciano Funetta, letto in un solo giorno): è come se la tensione narrativa fosse stata talmente forte da impedirmi di staccarmene, anche solo per il tempo necessario a ragionare su una singola frase, o forse le storie di Poissant sono scritte così bene che non sono servite frasi infiorettate per farmelo capire.

Per questi motivi quando ho scoperto che sarebbe uscito il suo primo romanzo sono rimasto diviso fra la gioia e la delusione. Gioia, perché un autore che aspettavo da tempo tornava in libreria; delusione, perché anche lui era “cresciuto” e si era dato al romanzo.

Ora potremmo aprire un lungo discorso sul perché il racconto viene visto come un banco di prova e il romanzo come il salto verso la maturità, sul perché i lettori preferiscono concentrarsi su una storia sola piuttosto che su molteplici vicende o sull’annosa questione “le case editrici non vogliono raccolte di racconti perché non vendono o le raccolte di racconti non vendono perché le case editrici le boicottano?”, ma farei un torto a Poissant che, per quanto ne posso sapere, ha liberamente scelto di passare alla forma lunga senza una pistola puntata alla tempia da nessun editore. Certo mi è servita molta fiducia per avvicinarmi a un libro la cui seconda di copertina si apre con la frase “a volte devi lasciare quello che ami per amare quello che hai”, e la cui trama sembra melodrammatica all’eccesso: per fortuna la fiducia nell’autore e nella casa editrice (NN Editore raramente mi ha deluso) è stata ben riposta.

La trama, dicevamo. Tutto ruota attorno alla famiglia Sterling, riunita come consuetudine nella casa vacanze sul lago per una settimana che si preannuncia burrascosa: i genitori hanno deciso di vendere l’immobile, i figli (soprattutto il maggiore) non la prendono bene e la riunione sembra dover finire prima del previsto. Tutto questo sembra passare in secondo piano quando l’intera famiglia assiste impotente alla morte per annegamento di un bambino, ma è solo la scintilla per cominciare a fare i conti con gli scheletri nell’armadio che tutti si portano dietro.

«So che Michael è arrabbiato per la casa, ma capisco la tua posizione» dice, senza sapere bene il perché. Si sente una traditrice per non aver preso le parti del marito. In più non capisce bene perché vogliono vendere la casa. Ha l’abitudine di dire ciò che pensa gli altri vogliano sentirsi dire. Lo sa, ed è una cosa che la preoccupa. Ha un bisogno disperato di essere amata o semplicemente è come tutti gli altri?

Se l’espediente narrativo del weekend in cui tutti i nodi vengono al pettine non è esattamente il massimo dell’originalità, il modo in cui Poissant lo dipana è invece ammirevole. Ogni capitolo è dedicato a un personaggio, il che dà modo inizialmente di conoscere una parte del vissuto di ognuno dei protagonisti e di approfondire le loro storie personali man mano che si prosegue. Facciamo così la conoscenza dei genitori Lisa e Richard (apparsi già in una coppia di racconti dell’autore), accademici in pensione prossimi a trasferirsi in Florida per motivi mai realmente chiariti fra di loro; del primogenito Michael e di sua moglie Diane, in piena crisi per un figlio che lui non vuole; del secondogenito Thad e del suo compagno Jake, in crisi anche loro a causa di una relazione complicata per mille motivi. Non sono tutte belle persone, e soprattutto all’inizio non vi staranno simpatiche, ma entrare nelle loro vite darà modo di empatizzare con tutte le mancanze che le rendono dolorosamente imperfette.

«Non c’è un nome, sai» dice Lisa. «Ci sono parole per tutto il resto: orfano, vedova, vedovo. Ma nessuna definizione per il genitore di un figlio che se ne va prima di lui».

Ogni personaggio descritto da Poissant sembra credibile, merito di una grande attenzione al dettaglio e di una prosa asciutta ed essenziale, che raramente si concede dettagli stucchevoli. L’autore descrive persone colpite da lutti, dipendenze e traumi vari come se li avesse vissuti sulla propria pelle, con sguardo partecipe e non compiaciuto, e il lavoro gli riesce soprattutto nel delineare la figura di Jake, giovane pittore sulla cresta dell’onda con una dipendenza da sesso e porno e una crisi creativa che non rivela a nessuno, nemmeno al suo compagno: il modo in cui vengono descritti il suo mondo e l’arte della pittura è profondo e appassionato, pregio ulteriore per caratterizzare un ragazzo che è allo stesso tempo fragile e narcisista, dolce e crudele.

«Sentite» dice Jake. È la prima parola che pronuncia dall’inizio della cena, quando si è complimentato con Lisa per la minestra. Nessuno lo ascolta tra le grida e i borbottii, quindi si alza e ci riprova. «Devo dire una cosa».

E Jake dona agli Starling qualcosa che ha anche il vantaggio di essere vera.

«Sentite» dice «io non ho votato».

Occhi che si spostano, tempie che pulsano e Jake non può fare a meno di sorridere. Anche solo per una sera, è diventato per questa famiglia quello che è sempre stato per la sua. È il nemico comune, la piaga su cui tutti potrebbero scagliare il loro disprezzo. Questa sera è la voce che li salva da loro stessi.

Alla fine dei tre giorni in cui si svolge la vicenda tutti i personaggi impareranno a fare i conti con i propri traumi, in un percorso che non appare mai forzato. Il passaggio alla forma “lunga” ci restituisce un Poissant più aperto alla speranza di quanto non apparisse nei suoi racconti, ma tutto il romanzo è un percorso di espiazione che non fa sconti: crudo quando deve esserlo, in parte anche politico (un intero capitolo, da cui è tratto il brano soprastante, è dedicato a un litigio riguardante le elezioni americane del 2016) e senza mai dare l’impressione di scegliere la strada più facile per chiudere gli archi narrativi costruiti con tanta cura. Grazie a NNE per aver portato in Italia questo autore, ma mi permetto di fare una piccola critica alla casa editrice: il trafiletto con cui consigliano il libro in quarta di copertina, tratto distintivo di ogni loro libro, è stucchevole quasi quanto le inguardabili copertine delle edizioni E/O, e non rende giustizia a un libro che sa essere molto più incisivo di cinque righe piene di poetiche banalità.

Racconto in musica 29: Brucia ancora (Booty Ep – Warmer)

Poco meno di due anni fa, con l’associazione Asap – As Simple As Passion, organizzammo uno degli ultimi concerti nel mio ridente paesello natale, per una volta non in casa mia ma nello studio di yoga di un’amica riadattato per l’occasione in sala concerti. Suonò un duo canadese, e visto che casa mia non era stata smontata per farla diventare location mi era sembrato giusto farla diventare hotel improvvisato, tenendo gli artisti a dormire da me e passando la notte sul divano col gatto. La mattina dopo colazione, due chiacchiere stentate nel mio inglese scolastico e finimmo a parlare di Futurama (c’è un motivo, sulla porta della camera da letto c’era un poster enorme di Bender che intima “bite my shiny metal ass”). Scoprii così che il lui del duo, al secolo Francis Hooper, ha lavorato a una serie animata a tema fantascientifico, di cui per le mie ridotte capacità linguistiche capii solo dopo qualche secondo il titolo: da allora non mi vanto di aver avuto a dormire in casa mia una band canadese, che sono i Booty Ep di cui vi parlerò tra poco, ma di aver fatto colazione con uno che ha lavorato al primo episodio di quella gran figata galattica chiamata Rick & Morty.

I Booty Ep, formati dal suddetto Francis e da Alli Deleo, sono un duo di Vancouver, città dove gestiscono The Juniper Room, uno studio di registrazione che ospita anche performance di vario genere. Il loro primo Ep, What what and the who now, è uscito nel maggio 2018, anticipato dal singolo Snacks, e mostra già le principali influenze musicali del gruppo: synth pop, reminescenze anni 80, qualche beat hiphoppeggiante e una delicatezza rara. Dal vivo si fanno accompagnare da visual che rendono l’esperienza ancora più coinvolgente, cosa che in Italia hanno potuto già provare in tanti visto che non disdegnano sortite nella nostra nazione. Fra il 2019 e il 2020 hanno fatto uscire altre due tracce, Mascarpone e Airbag, tracce che presumibilmente finiranno nel loro nuovo disco che, leggendo questa intervista, dovrebbe essere composto da tracce “decisamente più upbeat, un po’ più influenzate dal jazz e poi chissà…”.

Warmer, seconda traccia del loro ep, mi aveva ispirato un racconto già poco dopo quella serata ceranese. Con la mia scarsa conoscenza linguistica non so dire se ci azzecca molto col testo della canzone, ma l’atmosfera sonora e il titolo mi hanno evocato immagini su una coppia scoppiata, in cui la fiammella dell’amore forse non si è ancora spenta del tutto. Mi piaceva riproporlo, se avrete voglia di leggerlo lo troverete come al solito dopo il brano: buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Brucia ancora

Così, quando comincio proprio a non farcela più, la lascio lì a sbraitare e me ne vado in cucina. A fumarmi una sigaretta, da solo.

Aspiro la prima boccata e cerco di creare il silenzio intorno a me, per un attimo quasi ce la faccio, chiudo gli occhi, mi rilasso, poi la sento che sbatte le ante in camera da letto e devo ricominciare da capo.

Voglio dire, un po’ la capisco, ma non mi sembra il caso di fare scenate del genere per così poco.

Vedo che nel cortile si accende una luce. La signora  del secondo piano si affaccia, si guarda intorno e poi fissa gli occhi su di me. Anche se è lontana posso riconoscere la sua espressione incazzata. Io faccio un sorriso e la saluto, e lei sbatte le persiane e se ne va.

Scommetto che è stata quella a chiamare la polizia l’ultima volta, troia.

Lei arriva come un treno fino in cucina. Sento che sbatte qualcosa per terra in salotto prima di entrare, e continua a gridare e gridare e gridare. Io non le do soddisfazione e continuo a fumare, tanto qualunque cosa dica sarebbe inutile. Ho perso l’ultima mezz’ora a scusarmi, e questo è il risultato.

Voglio dire, è solo un tradimento. Queste cose servono a dare pepe in una relazione, non l’ho mica sposata quell’altra. A lei invece sì.

Avrebbe già dovuto calmarsi. Così dovrebbero funzionare le cose. Invece va che la devo sempre far sfogare, quando torno tardi e non la avverto, quando voglio bere e lei dice che non devo. Cristo, non siamo mica nel proibizionismo le dico, e lei fa quel passettino indietro come se avesse paura.

Mai toccata con un dito, lo giuro. Ho rotto qualche piatto, c’è un’anta dell’armadio che penzola, ma con lei le mani le ho sempre tenute a posto. A quella sua amica è andata peggio, dovrebbe ringraziare invece di farla tanto lunga.

Ma lei no, continua. Schifoso, balordo, tutto il campionario. Io continuo a fumare, prima o poi si stancherà.

Così comincio a fissare la brace della sigaretta, per distrarmi. Ci punto gli occhi come se fossi strabico, e ad un tratto ho questo pensiero profondo. Penso che quella brace è destinata a spegnersi, perché la sigaretta finirà e non ci sarà niente con cui riaccenderla, mentre noi quella scintilla ce l’abbiamo ancora dentro.

Non si è ancora spenta. Brucia ancora. Finché morte non ci separi aveva detto il prete, e io ci credo davvero. Nonostante tutte le cazzate io a lei la amo.

Solo che quando mi giro per dirglielo lei se n’è già andata. Cazzo, ero talmente concentrato che non me ne sono accorto.

La vedo in cortile che passa, con un borsone enorme per mano. La chiamo e lei si ferma, e allora glielo dico.

Comunque io ti amo ancora, le dico. Ma lei mi guarda con aria triste, e poi se ne va.

Tanto tornerà, mi dico. L’ultima volta ci ha messo meno di un giorno a tornare. La prima volta che l’ho tradita ce ne ha messi due, mai di più.

Finisco la mia sigaretta e la butto in cortile. Resto ancora qualche minuto lì, in attesa. Ancora qualche minuto, mi dico, così inganno il tempo.

Così non penso a cosa farò se questa volta non torna.

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Quando la radio diventa uno strumento: alla scoperta del primo disco degli Zumtrio

Esiste un mondo musicale dove la parola “sperimentale” indica che l’artista che se ne fregia ha allargato il suo spettro sonoro alle innovazioni musicali del momento. Che ne so, immaginate Jovanotti che inserisce l’autotune nelle sue canzoni. Questo è il mondo musicale che vi fanno sentire le radio generaliste (cioè quasi tutte, comprese Virgin Radio, dove sentirete le classiche canzoni rock dei gruppi che conoscono tutti, e Radio Freccia, dove sentirete gli stessi gruppi con canzoni un po’ meno conosciute), dove l’innovazione è una chimera e le novità sono state masticate e digerite altrove prima di avervi accesso.

Poi c’è il mondo sotterraneo della musica indipendente. Non è che sia per forza un luogo fatato dove succedono solo cose belle, io ad esempio ho visto il concerto di Pollio al Ride di Milano augurandomi che il suo supporter Nove non diventi la nuova sensation trash indie del momento, ma sicuramente qui la parola “sperimentale” assume tutto un altro valore. E la radio, intesa come oggetto fisico, può essere addirittura usata come strumento.

Gli Zumtrio sono una band nata nell’alveo di Tempo Reale, un centro di ricerca, produzione e didattica musicale fondato da Luciano Berio a Firenze che dal 2012 ha inaugurato una collana apposita ( la Tempo Reale Collection) per documentare il lavoro di sperimentazione portato avanti negli anni. Radioscapes, primo album della band formata da Francesco Canavese alla chitarra elettrica, Stefano Rapicavoli a batteria e percussioni e Francesco Gioni, che si occupa dei synth e di una radio analogica processata in presa diretta, fa parte proprio di questa collana: solo tre brani, ma per un minutaggio che raggiunge quasi i cinquanta minuti.

L’improvvisazione è un elemento essenziale nella musica degli Zumtrio, catalogabile come un miscuglio di avanguardia elettronica e jazz sperimentale. Capace di improvvise convulsioni sonore quanto di momenti dilatati a base di feedback, nei tre brani che compongono Radioscapes la band esplora orizzonti musicali estremamente personali, con la radio a fare sia da collante che da elemento di disturbo.

California, il brano centrale del disco, è sicuramente quello che ha un percorso musicale più uniforme. Inizia con radi accordi di chitarra elettrica da blues desertico su cui si innestano frammenti radiofonici, prosegue dilatandosi a suon di feedback accompagnati da una batteria scarnificata e marziale per poi sprofondare in un magma di synth e risorgere nel finale con una chitarra che gioca a scratchare su un ritmica costituita da quella che sembra essere Set fire to the rain di Adele continuamente alzata e abbassata di volume. Nel mezzo, come vero elemento di disturbo dissonante, frammenti di Hotel California degli Eagles. Capite cosa intendevo quando parlavo di sperimentazione?

Il disco si apre con Un tavolino a parte, titolo che diventa chiaro quando a metà brano arriva un inserto radiofonico preso da un’intervista a una signora che racconta una storia letta su un libro di scuola nel dopoguerra. Caratterizzata da alcune false partenze (disturbi radio accompagnati da una chitarra in modalità Django Reinhardt, sostituiti dopo una breve pausa da una nota di synth ripetuta per un minuto buono con la frammenti radiofonici a farle da contraltare), il brano trova la sua anima quando abbraccia una specie di stoner ultradilatato a base di accordi distorti e batteria minimale: da lì si delinea un discorso sonoro in cui non stona nemmeno la pausa centrale con la storiella citata in precedenza, che anzi appare come la calma prima della tempesta. Preparato a dovere dai feedback che si affiancano e seguono l’inserto radiofonico, lo sfogo batteristico che imperversa per un paio di minuti è il perfetto epilogo per la tensione creata in precedenza, e congiuntamente agli accordi di basso (chitarra diatonica?) porta in territori simili a quelli esplorati dai Vonneumann con la loro Bassodromo. Poi torna la calma, e così si chiude sfumando.

Tutt’altra questione è l’ultimo brano, Giornate colorate. L’inizio tarantolato, che ricorda i momenti più estremi dei Mr. Bungle di sua santità Mike Patton, è uno specchietto per le allodole che lascia presto spazio a lunghe ed estenuanti rincorse sonore che sembrano però avere poco a che fare l’una con l’altra. Diversamente dagli altri brani non mi è rimasta l’impressione di un discorso sonoro coeso, e i venti minuti di durata passano con l’orecchio solleticato da qualche buona idea persa in un mare magnum di confusione.

È ovvio da quanto scritto finora che Radioscapes non è un disco per tutti, ma per i più coraggiosi ci sono abbastanza motivi d’interesse per mettersi all’ascolto (o per ascoltarli dal vivo, visto che saranno ospiti del Torino Jazz Festival il 3 ottobre, giorno successivo all’uscita dell’album). La radio che campeggia in copertina non è certo l’elemento che fa la differenza, e anzi i momenti migliori sono quelli in cui chitarra e batteria creano atmosfere desertico-lisergiche, ma in momenti come il finale di California dimostra di essere un elemento ancora grezzo ma con delle potenzialità. Volendo descrivere il disco con una metafora cinematografica, frutto della mia frequentazione di un cineforum sul cinema sudcoreano (in pratica sto navigando a vista), definirei l’esordio degli Zumtrio affine ai film di Kim Ki-duk, dilatati ma con una carica viscerale che ogni tanto esplode improvvisa…purtroppo però non siamo ancora dalle parti delle sue opere migliori.

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Racconto in musica 28: Pose anonime (Adam Carpet – Obsessed with casting)

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di collaborare ad alcuni concerti organizzati nello spazio culturale LaRoom di Vigevano, fra i quali quelli di Maria Antonietta, Bad Love Experience e Giovanni Truppi (artista che ha fatto uscire a inizio anno un Ep, 5, che unisce alla musica delle storie a fumetti: da queste parti non può che essere lodato un progetto simile). LaRoom è questo e molto altro: una sala prove, una scuola di musica, uno studio di registrazione, uno spazio per eventi e, da qualche tempo, ha anche affiancato a tutto questo un negozio di strumenti musicali. Merito della passione delle persone che ne fanno parte, musicisti anche loro, fra cui Alessandro Carnevale degli Anna Ox e Francesco Capasso, membro della band di cui parlo questa settimana: gli Adam Carpet.

Formatisi nel 2011, gli Adam Carpet sono una band in cui sono confluiti musicisti provenienti da svariate esperienze come Diego Galeri e Alessandro Deidda, batteristi rispettivamente di Timoria e Le Vibrazioni. Proprio la presenza di una doppia batteria è una delle particolarità della formazione, che viene completata da Silvia Ottanà e Francesco al basso e Giovanni Calella (già attivo coi Kalweit and the spokes) alla chitarra e al synth. Il genere è prettamente strumentale, in bilico fra l’elettronica e il post-rock, due anime che resteranno ben salde nel suono della band pur subendo un evoluzione continua, dal primo album omonimo (uscito per Rude Records nel 2014) fino all’Ep Hardcore problem solver del 2017. Nel mezzo, un album di remix uscito nel 2015 e un secondo disco, Parabolas, uscito nel 2016 per Irma Records.

Proprio dalla prima traccia di quest’ultimo ho preso ispirazione per il racconto di questa settimana. Obsessed with casting è una canzone dal ritmo avvolgente, agitata in alcuni punti da scosse sonore che mi hanno dato il punto di partenza per alcune svolte all’interno della storia. Il titolo e l’atmosfera mi hanno donato l’ambientazione, il resto spero renda giustizia alla musica: potrete valutare più in basso, subito dopo la canzone. Buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Pose anonime

Ogni città per me è un collage di immagini tutte uguali. Finestrini dei treni macchiati dalla pioggia, stazioni della metropolitana e fermate degli autobus, corridoi affollati in cui mettersi in fila ordinata.

Pose, sempre diverse e sempre uguali. Sorridi, girati, alza i capelli.

Sii sensuale, profonda, dolce.

Non socializzo granché quando vado ai casting. Ormai riconosco le facce, ma non riesco ad associarle ad alcun nome. Lo preferisco, così quando le vedo sui cartelloni pubblicitari sono solo immagini anonime. Depersonalizzarle aiuta, lenisce la sensazione di fallimento.

Sono mesi che cerco di vendere la mia immagine. Trucchi, abbigliamento, creme di bellezza. Sono giovane, il mio agente dice che è solo questione di tempo. Vorrei non credergli, sarebbe più facile mollare tutto e togliere spazio alla speranza.

Le notti in cui sogno la passerella, la musica assordante, i flash dei fotografi, la fama, quelle sono le peggiori. Mi sveglio nel pieno della notte, fissando il soffitto, senza capire nemmeno se sono a casa mia o da qualche altra parte.

Treni, metropolitane, autobus, raramente qualche albergo. Sorrisi, giravolte, capelli raccolti o sciolti. Poi, sempre lo stesso silenzio, a volte qualche risposta evasiva.

Troppo energica. Troppo corrucciata. Poco sensuale. Poco innocente.

Troppo poco.

La volta in cui sono stata scelta temevo di non essere all’altezza. A ogni flash, a ogni posa cercavo la delusione negli occhi del fotografo, ma non ci trovavo niente. Sentivo freddo, l’obiettivo mi faceva rabbrividire.

Non mi disse molto. Parlò solo una volta, mi chiese di essere me stessa. Avrei voluto chiedergli come si faceva.

Dopo lo shooting mi invitarono a una festa in discoteca. Volevo rifiutare, ma ci andai. Passai il tempo seduta, bevendo qualche cocktail, scambiando parole veloci e confuse con persone che non conoscevo, osservando il fotografo per capire cosa avrei dovuto fare, come funzionava il sistema, se dovevo essere carina o compiacente o sfuggente o chissà cosa fossero state le altre per raggiungere le copertine ma lui non mi guardava e io mi sentivo un’intrusa.

Quando mi accompagnò all’albergo fu cortese ma freddo. Mi sentii grata e sconfitta. Passai la notte a fissare il soffitto, a chiedermi se avessi dovuto alzarmi per andare a bussare alla sua porta.

A chiedermi se dovevo vendere il mio corpo, la mia anima o entrambi.

Il giorno dopo tornai a casa. Il mio agente era entusiasta, ma io ero sicura che quelle foto non sarebbero mai uscite. Ricominciai col mio solito tran tran, viaggi, pose, aspettative.

Poi un giorno vidi una faccia conosciuta sulla fermata dell’autobus. Una di quelle che c’era sempre ai casting. Era la mia.

Fissai il cartellone, mi guardai negli occhi alla ricerca dell’ansia, della disillusione, della tristezza e della fatica, ma non vidi niente di tutto questo. La mia immagine era una tela grezza dove ognuno poteva proiettare quello che voleva.

Vorrei essere lei.

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Come Borges incontrò Manganelli: La sinagoga degli iconoclasti di Juan Rodolfo Wilcock

Qualche settimana fa sono incappato in questo articolo ad opera di Mauro Maraschi, autore anche di alcuni splendidi racconti, riguardante la necessità di ripubblicare quello che è stato un esempio per molti scrittori sudamericani, Macedonio Fernández: ho scoperto così la storia di un autore che non solo era considerato un maestro da Borges, ma è stato d’ispirazione anche per Cortázar, Arlt e Bolaño. L’articolo perora la causa della ripubblicazione dei suoi scritti e chiude con una nota positiva, cioè la riscoperta di autori come Osvaldo Lamborghini da parte di Miraggi Edizioni e, soprattutto, il ritorno nel catalogo Adelphi di un altro scrittore argentino di cui di lì a poco avrei incrociato l’opera nella libreria milanese Gogol & Company (pubblicità progresso, aiutate le vostre librerie di quartiere!): ovviamente è Juan Rodolfo Wilcock.

Di lui ho già accennato altrove, visto che per una casualità che sembra destino ho fatto tappa nel paese in cui è morto (Lubriano) a qualche giorno di distanza dall’acquisto de La sinagoga degli iconoclasti. Invogliato a sfogliarlo dall’articolo sopra citato, il libro mi ha convinto subito grazie a un inizio fulminante in cui vedevo mescolati il piacere Borgesiano per le false biografie e la sintesi Manganelliana sfoggiata in Centuria: trentacinque personaggi genialmente strambi tratteggiati nei momenti fondamentali della loro vita, il tutto in poco più di duecento pagine.

“Quanto a lui, Aram Kugiungian, la ruota del suo karma si era messa a girare, a quanto pareva, senza freno, forse per arrivare prima al termine fissato; il fatto è che ogni due mesi all’incirca Aram nasceva di nuovo, pur continuando a vivere negli altri corpi. Ovviamente l’aritmetica non vale per le anime, un’anima divisa per mille dà sempre mille anime intere, così come il Soffio del Creatore diviso per tre miliardi dà tre miliardi di Soffi del Creatore. Aram sapeva di essere il ragazzo armeno di cui si è detto: volle sapere chi altro fosse.

Dal telepata filippino José Valdés y Prom al teorico dell’inversione del tempo Félicien Raegge, con cui si apre e chiude il libro, Wilcock crea un percorso affascinante fra teorie bizzarre ma non sempre inventate, visto che alcuni spunti li ha ricavati da un libro chiave dello scetticismo scientifico, In the name of science del matematico Martin Gardner. Facciamo così la conoscenza di Roger Babson, fondatore di un istituto il cui scopo è trovare una sostanza capace di annullare la forza di gravità, dell’uomo incarnato in innumerevoli corpi Aram Kugiungian, del piano di Aaron Rosenblum per riportare il mondo alle condizioni dell’Inghilterra del 1580 (a detta dell’utopista “il periodo più felice della storia mondiale”) e di quello del dottor Alfred Attendu per far assurgere l’idiozia a condizione ideale per l’uomo.

“Qualsiasi movimento tendente a reinserire i deficienti, congeniti o accidentali, nella società civile, si fonda sul presupposto – certamente falso – che gli evoluti siamo noi, e loro i degenerati. Attendu rovescia questo presupposto, decide cioè che i degenerati siamo noi e i modelli loro, e dà così inizio a un movimento inverso, finora rimasto per ben individuati motivi senza altro seguito che l’antica ma tacita collaborazione delle massime autorità, non solo psichiatriche, tendente a esasperare negli imbecilli quel che li rende appunto imbecilli.”

Divertito e divertente, scritto in una prosa che ha molto in comune con quella dell’amico Borges, La sinagoga degli iconoclasti diventa però ostico laddove il suo autore si fa troppo affascinare dai temi che cerca di scandagliare. Scrivere le immaginarie recensioni delle opere teatrali di Llorenz Riber aggiunge solo pesantezza alla narrazione della carriera (inspiegabilmente di successo) di un regista ossessionato dai conigli, così come aggiungere i dettagli tecnici delle invenzioni di André Lebran o stilare la lunga lista di quelle di Jesús Pica Planas, fecondo autore di progetti inutili. Uno dei capitoli in cui Wilcock si fa più prendere la mano dalla smania esplicativa è legato al metabolismo storico, sorta di teoria secondo cui i conflitti in natura sono dovuti al gruppo sanguigno, movimento curiosamente attribuito ad un intellettuale (e proprietario di una fabbrica di dolci) di Abbiategrasso chiamato Carlo Olgiati: i particolari geografici permettono di rilevare un grande legame con l’Italia (Wilcock visse più di vent’anni nel belpaese, di cui ottenne la cittadinanza post-mortem), acuito dalla rivelazione, nell’ultima pagina, che il nome del folle teorico è quello del bisnonno del’autore.

La sinagoga degli iconoclasti è un fulgido esempio dell’inventiva letteraria argentina, leggero nei temi ma con una prosa rifinita alla perfezione. Non è esente da difetti, ma la brevità delle biografie di cui è composto (una pagina la più corta, dieci la più lunga se si esclude il caso particolare di Llorenz Riber) rende comunque agevole la lettura laddove Wilcock si distrae e perde di vista quella che è la sua abilità migliore, cioè rendere credibili i suoi personaggi attraverso esperienze e aneddoti piuttosto che tramite dissertazioni pseudoscientifiche. Non siamo ai livelli delle Tre versioni di Giuda borgesiane insomma, ma negli episodi migliori la soddisfazione è molto simile.

Racconti migliori: José Valdés y Prom, Aaron Rosenblum, Aram Kugiungian, Alfred Attendu, Henry Bucher, Luis Fuentecilla Herrera.

Racconto in musica 27: La parete nera (iFasti – Lamore)

Ogni settimana cerco di ascoltare qualcosa di nuovo e/o qualche gruppo che già conosco che magari senza che me ne sia accorto ha pubblicato altro materiale. È un tentativo di mantenermi aggiornato sulla musica attuale che non mi farà comunque stare al passo con le mode (il mio approccio alla trap si è fermato a un paio di ascolti di un disco di Sfera Ebbasta, l’autotune mi fa l’effetto della kryptonite per superman, o dei gatti attaccati ai coglioni per usare espressioni meno nerd), ma in questo modo almeno non mi fossilizzo sui gruppi che già ascolto e rimando il momento in cui diventerò vecchio dentro e dirò cose tipo “eh ma dopo i (gruppo x) non è uscito più niente di valido”. Il lockdown sarebbe stato un fantastico periodo per ascoltare pacchi di musica, almeno per me che faccio l’operaio metalmeccanico e non dovevo andare comunque a lavorare, ma mi sono buttato sui libri e sulla scrittura e se ascolto un disco mentre leggo non capisco né una né l’altra cosa (stereotipo mode on: sono un uomo, non sono multitasking): qualche band però l’ho scoperta, ed una è quella di cui vi parlo questa settimana, cioè iFasti.

Se siete fra i quattro che seguono questo blog magari il nome non vi giungerà nuovo, per via di questa recensione del loro ultimo disco Tutorial. Nascono a Torino nel 2008 dalle ceneri dei Seminole, storica band del DIY italiano, e da subito portano nella propria musica temi a loro cari, visto il passato personale fatto di attivismo all’interno dei collettivi sociali. Il primo Ep Lei si è alzata dal sordo mormorio, arriva nel 2009, e l’anno dopo arriva già il primo disco Ovatta, arrangiato registrato e mixato dalla band stessa. Prima di Palestre, secondo disco uscito nel 2015, iFasti collaborano e sperimentano a più non posso: realizzano un Ep, Morula, registrato di getto in una sola notte durante un tour e contenente tre canzoni, quattro racconti e tante immagini, e partecipano alle colonne sonore virtuali dei libri La faglia di Massimo Miro, uscito per Maestrale Edizioni, e Off. In viaggio nelle città fantasma del Nordovest di Marco Magnone, uscito per Espress Edizioni e allegato al quotidiano La Stampa. A questo si aggiungono le partecipazioni nel primo periodo a Epidemia chimica, video del regista indipendente Umberto Ponti a cui regalano alcune canzoni del primo ep, e alla compilation autoprodotta Un disco grezzo, un disco che ci impegna, realizzata assieme ad altre quattordici band torinesi per prendere posizione su temi sociali tra cui l’uso di psicofarmaci sui bambini e la violenta discriminazione subita dagli immigrati.

Il resto è storia recente, viziata dalla pandemia: con tute le difficoltà del periodo iFasti hanno fatto il loro partecipando e promuovendo compilation come Nel vortice: sputi e sudore quando ancora si poteva di Scatti Vorticosi Records e Break the lock vol.1 del Collettivo Fuori dal cratere, e sono tornati finalmente a esibirsi live poco più di una settimana fa, allo Spazio 211 della loro Torino. Già nella recensione accennavo al fatto che la canzone che più mi aveva convinto del loro ultimo disco fosse Lamore, e proprio da questa ho tratto l’idea per un racconto che posso definire in qualche maniera “postmoderno”, visto che è infarcito di citazioni musicali (da canzoni che preferisco evitare come la peste): dal brano, e dallo splendido video che potete vedere più in basso, ho tratto questa suggestione, e ho cercato di infondere nella seconda parte del racconto la stessa tensione emotiva che mi assale ogni volta che la canzone muta pelle e da allegra si fa quasi angosciante. A voi la sentenza se il tentativo sia riuscito o meno, trovate il racconto subito dopo il brano: buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

La parete nera

Eravamo in quattro al bar e stavamo ammazzando il tempo bevendoci qualche birra e parlando delle nostre ex, il che mi metteva un po’ a disagio perché Topo era stato assieme alla tipa con cui uscivo ma diceva che non aveva nessun rimpianto, nessun rimorso, non so come faceva visto che io ci impazzivo per lei, aveva gli occhi dell’amore, verdi, e quando facevamo sesso quante espressioni di godimento sul suo volto, e più parlavamo più mi veniva voglia di andare via subito e andare a baciarla, a sentire se aveva ancora l’odore del sesso addosso, ma Ginko ne ha ordinate altre quattro e ce n’è voluta per convincerli a bercele in macchina, con Skala che la menava perché come al solito toccava a lui guidare anche se la macchina era la mia e noi a dirgli dai che stasera te ne troviamo una bella come una mattina d’acqua cristallina, e lui si è messo a ridere dicendo ma che cazzo vuol dire, basta che la trovo con le tette grosse, e quando siamo arrivati eravamo tutti belli allegri e lei era lì ad aspettarmi all’ingresso, con su un vestito tanto stretto che mi immaginavo tutto, così l’ho baciata mentre gli altri entravano dicendomi ci vediamo al bar ma io non avevo più voglia di bere, le ho detto voglio vederti ballare e siamo andati in mezzo alla pista a scatenarci, ha cominciato pure a strusciarmisi addosso, abbiamo continuato così per almeno un’ora perché ero tutto un bagno di sudore e quando lei mi ha detto che andava in bagno ho raggiunto gli altri, ne ho ordinata una e ho cominciato a dirgli di buttarsi anche loro in pista

volevo così tanto bene a tutti quanti

volevo condividere quel momento

ma mi sono interrotto perché c’era uno vicino ai bagni che stava parlando con lei e avvicinandomi la vedo che gli fa il dito medio e si allontana, ho fatto per chiederle cosa stava succedendo ma mi ha detto lascia stare e lo avrei anche fatto se non fosse che quello ha gridato sì brava vai con quel frocetto, così gli ho detto c’è qualche problema e quando quello mi ha fatto un sorrisetto gli ho tirato una centra proprio in mezzo agli occhi, è andato giù dritto e ho cominciato a dargli calci urlando a chi hai dato del frocio pezzo di merda e sono andato avanti finché Ginko non mi ha tirato via e giuro, quando mi sono girato erano tutti lì a guardarmi come fossi un mostro, anche lei si teneva una mano sulla bocca, e lì ho capito, come una rivelazione, che nessuno mi avrebbe mai voluto veramente bene, che c’era come una parete nera fra tutti noi e io avrei voluto tanto scalarla e spiegare cosa sentivo davvero, perché mi comportavo così, però non riuscivo a trovare le parole e quando mi hanno buttato fuori io ho aspettato che qualcuno venisse a farmi compagnia perché almeno volevo provarci a scusarmi, ma non è arrivato nessuno e allora ho capito anche che a questo mondo te la devi cavare da solo, non puoi fare affidamento su nessuno, men che meno sull’amore, così ho preso la macchina e li ho lasciati tutti lì, quegli stronzi, e da allora non li ho più sentiti.

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Quando l’autorialità diventa un problema: Nolan e Kaufman a confronto

Prima di questo articolo devo fare una doverosa premessa: adoro Christopher Nolan e Charlie Kaufman. Non mi sono perso nessun film di entrambi, dagli esordi a oggi. Following? Ce l’ho. Human nature? Mio. Li ho seguiti per l’intera carriera, che per il primo è stata in continua ascesa e decisamente più altalenante per il secondo, visto che dopo Eternal sunshine of the spotless mind il successo di pubblico è calato sensibilmente (non di critica, visto che Anomalisa la sua candidatura agli Oscar come miglior film d’animazione se l’è portata a casa). Entrambi sono usciti da poco con i loro nuovi film: Tenet, di cui ha probabilmente sentito parlare anche mia madre visto che è stato designato come il salvatore dei cinema di tutto il globo (sta andando così così, in Cina è stato superato da Mulan e in Italia, per un weekend, da After 2), e Sto pensando di finirla qui, terzo film che vede Kaufman nelle doppie vesti di regista\sceneggiatore e distribuito da Netflix.

Che piaccia o meno (soprattutto per Nolan gli hater sono agguerritissimi) entrambi sono considerati Autori con la A maiuscola, un traguardo che penso sia diventato un motivo per spostare l’asticella sempre un po’ più in alto. Ho esplorato il mondo dei sogni dentro ai sogni in Inception? Aspetta che coinvolgo un consulente scientifico e futuro premio Nobel per Interstellar (piccolo retroscena, raccontato da Luca Perri del Planetario di Milano: le onde gravitazionali non appaiono nel film perché c’era troppo girato e bisognava tagliare qualcosa dalla sceneggiatura…). Ho trasformato la sceneggiatura basata su di un libro in una che parla di me che cerco di scrivere quella sceneggiatura (che ci crediate o no è la storia dietro a Il ladro di orchidee)? Aspetto che rendo le cose ancora più confuse nel mio primo film da regista, Synechdoche, New York. Tenet e Sto pensando di finirla qui sono l’apoteosi (per ora) di questo gioco al rilancio, e hanno a che fare con le loro ossessioni più grandi: il tempo per uno, i meandri della mente per l’altro.

Tenet

Il cinema al tempo del Covid-19

Su internet abbondano le spiegazioni per questo film, una cosa che manco gli schemini delle parentele di Dark (a proposito, se qualcuno ha capito perché fanno esperimenti sui bambini in questa serie me lo spieghi, perché gli sceneggiatori NON LO HANNO FATTO). Tenet è stato ammantato dall’aura di film incasinato fin dal primo trailer, che in effetti incuriosiva un sacco senza nemmeno provare a far capire alcunché, e a conti fatti ha mantenuto quanto promesso: uscire dalla sala potendo dire di aver capito tutto, per filo e per segno, penso sia stato possibile solo per chi lo ha scritto. Con questa premessa non intendo dire che arriverete a fine visione senza aver capito niente della trama, ma che il film è talmente intriso di piccoli dettagli impiantati su un tessuto spazio-temporale parecchio complicato che arriverete alla fine cercando di fare mente locale su qualche particolare fondamentalmente irrilevante che vi è sfuggito.

La storia inizia con il Protagonista (John David Washington, figlio del più noto Denzel) coinvolto in un’operazione antiterrorismo all’interno del teatro dell’opera di Kiev. La sua missione è quella di salvare un agente compromesso e recuperare un misterioso oggetto, obiettivo per il quale è disposto a sacrificare la vita quando, catturato dagli attentatori, ingoia una pillola avvelenata durante la tortura. La pillola si rivelerà falsa, la sua missione un test di lealtà e il piano da sventare invece molto più complicato di quanto potesse immaginare: il Protagonista, affiancato dall’alleato Neil (Robert Pattinson) inizierà un giro del mondo “alla Bond” che lo porterà in India, Norvegia, Vietnam e Russia, svelando man mano un piano criminale dalle conseguenze potenzialmente disastrose per l’umanità intera.

Christopher Nolan ha il merito di aver realizzato un film visivamente incredibile, con scene d’azione che fatico a capire come abbia fatto anche solo a pensarle (figuriamoci a realizzarle), ma tutto questo impianto che fa spalancare la mascella viene sminuito da tre serissimi problemi.

1) La freddezza. Nolan è stato accusato varie volte in carriera di essere un regista freddo, ma io mi sono sempre sentito coinvolto empaticamente dalle storie dei suoi personaggi (tranne in Dunkirk, altro film dove l’impianto scenico mi è sembrato preponderante su ciò che veniva narrato). Con Tenet questo non è successo, e ho seguito le vicissitudini dei personaggi senza mai ritrovarmi realmente in ansia per nessuno di loro. Non è colpa della recitazione quanto dell’impressione che, per dirla con una frase attualissima, alla fine sarebbe andato tutto bene: non vi rivelo se l’impressione è esatta o meno, ma uno spy movie che non riesce a tenermi sulle spine per me ha qualche difetto profondo;

2) La sindrome da spiegone. Per tutto il film Nolan ci tiene a spiegarci nel dettaglio i concetti che reggono la particolare temporalità della vicenda, con l’apoteosi verso l’inizio di un personaggio (interpretato da Clémence Poésy) che ha l’unico compito di fare un tutorial al protagonista, ma in fondo tutto questo non fa che confondere le idee senza che ce ne sia davvero bisogno. Secondo George Rohmer de I 400 calci Tenet più che essere complesso è “scritto” in maniera da sembrarlo (provate a contare le volte che vengono usate le frasi “manovra a tenaglia temporale” e “paradosso del nonno”), e sono propenso a dargli ragione: richiedere linearità in un film che fa degli incastri temporali la sua ragion d’essere non avrebbe senso, ma se alla fin fine tutto questo invertire il tempo serve giusto a girare delle grandiose scene d’azione puoi evitare di fondermi il cervello con concetti da esame di fisica di cui non sento la necessità;

Serve una spiegazione?

3) I cliché narrativi. Ho letto commenti riguardanti la profondità del cattivo (spoiler: sì, c’è un cattivo nella vicenda), l’evoluzione di un certo personaggio lungo la storia, ma la verità è che per me Tenet, eliminati i viaggi nel tempo, è banale. So che dirlo dal basso della mia conoscenza cinematografica basata su tante visioni e nessuno studio è presuntuoso, ma non pretendo certo che questo articolo venga inserito nel Mereghetti: allo stesso tempo, con tutto il rispetto, ritengo che un film d’azione che pianta lì un cattivo per cui è impossibile parteggiare, la classica donna da salvare che diventa anche love interest del protagonista e il compagno d’avventure amico fraterno dopo trenta secondi che ti conosce non può avere la profondità dei personaggi come priorità. Il film vince inoltre il premio per la battuta più inutile: quando viene fatto notare che il successo del piano malvagio potrebbe causare la distruzione del mondo uno dei personaggi risponde “e quindi morirà anche mio figlio”. MA DAVVERO?

Quando qualche anno fa vidi Mad Max: Fury Road ricordo di essere uscito dal cinema entusiasta, pur recitando le parole “bellissimo, avesse avuto una trama sarebbe stato il film definitivo”. Le parti d’azione in Tenet provocano uno sbalordimento simile, ma qui c’è una trama che le collega: purtroppo non è quello il punto forte del film.

Sto pensando di finirla qui

Due sulla strada

La trama di Sto pensando di finirla qui, ridotta all’osso, è quanto di più semplice possa sembrare. Lucy, interpretata da Jessie Buckley, va col fidanzato Jake (Jesse Plemons) a conoscere i genitori di lui, piena di dubbi sulla loro relazione cominciata da poche settimane: arrivati alla loro fattoria comincia a notare molte stranezze, in un crescendo di inquietudine.

Sembra la trama di un film horror, vero? Così però non è. Kaufman, dall’arrivo alla fattoria in avanti, ci fa capire chiaramente che le cose non sono come sembrano, ma il suo interesse principale non è la rivelazione del mistero bensì la psiche dei protagonisti (fedele in questo alla fonte originaria, il libro omonimo dello scrittore canadese Iain Reid). Forse proprio per questo Sto pensando di finirla qui è un film di parole più che di fatti, ma i discorsi dei protagonisti sono spesso inutili ai fini della trama e culturalmente onanistici. C’è davvero bisogno di far recitare tutta intera una (lunga) poesia a Lucy solo per utilizzare velocemente quel riferimento più avanti? Minuti di film passati a parlare di David Foster Wallace erano davvero necessari a caratterizzare i personaggi (per me no, ma potete parlare di Foster Wallace anche in un film porno e io non mi lamenterò)?

Il film di Kaufman è gratuitamente verboso, tanto che nella scena della poesia ho pensato che il suo obiettivo fosse proprio quello di infastidire lo spettatore (potrei non essere lontano dalla realtà: nel già citato Il ladro di orchidee compare un famoso sceneggiatore che sconsiglia vivamente alcuni espedienti narrativi di cui la sceneggiatura abbonda). Forse, semplicemente, la sua voglia di farci entrare nella mente dei protagonisti è tale da sacrificare a questo scopo anche il ritmo narrativo.

L’apoteosi del ritmo

Guardandolo ho pensato a una piccola perla che consiglio di recuperare ai più ardimentosi, Waking Life di Richard Linklater, in cui un ragazzo vaga di sogno in sogno nel tentativo di risvegliarsi, ascoltando nel frattempo i monologhi dei personaggi incontrati nel percorso. Quel film (animato con la tecnica del rotoscope, utilizzata dal regista anche per il dickiano A scanner darkly) non aveva una vera e propria trama, tutto quello che interessava al regista era mettere in scena dei ragionamenti in maniera visivamente piacevole: il film di Kaufman invece una trama ce l’ha, ma l’impressione è che se la perda un po’ per strada quando rimane troppo affascinato dalle sue stesse parole.

Sto pensando di finirla qui è un film strano, non perfettamente riuscito, ma a fronte dei dubbi espressi qui sopra è un viaggio che sono stato contento di aver fatto. Sarebbe potuto durare molto meno, ma ha una sua poetica e la capacità rara di far empatizzare con personaggi fuori dall’ordinario: per la qualità media degli originali Netflix (megaproduzioni come Roma o The irishman escluse) è già grasso che cola. Piccola parentesi “dettagli che interessano solo me”: A) tre dei quattro attori principali presenti nel film hanno recitato nella serie Fargo (ognuno in una stagione diversa), tranne B) Toni Collette, che fra questo film, Hereditary e Knives out si sta specializzando in personaggi eccessivi come neanche Nicolas Cage.

Toni Collette in Hereditary, o “la sobrietà”

Questi sono le mie impressioni da semplice amante del cinema, ma se volete un parere più autorevole qui e qui trovate le recensioni dei due film realizzate da Critical Eye, un sito che vi straconsiglio al pari de I 400 calci, anche se per motivi diversi. Buona visione!

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