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Quando l’autorialità diventa un problema: Nolan e Kaufman a confronto

Prima di questo articolo devo fare una doverosa premessa: adoro Christopher Nolan e Charlie Kaufman. Non mi sono perso nessun film di entrambi, dagli esordi a oggi. Following? Ce l’ho. Human nature? Mio. Li ho seguiti per l’intera carriera, che per il primo è stata in continua ascesa e decisamente più altalenante per il secondo, visto che dopo Eternal sunshine of the spotless mind il successo di pubblico è calato sensibilmente (non di critica, visto che Anomalisa la sua candidatura agli Oscar come miglior film d’animazione se l’è portata a casa). Entrambi sono usciti da poco con i loro nuovi film: Tenet, di cui ha probabilmente sentito parlare anche mia madre visto che è stato designato come il salvatore dei cinema di tutto il globo (sta andando così così, in Cina è stato superato da Mulan e in Italia, per un weekend, da After 2), e Sto pensando di finirla qui, terzo film che vede Kaufman nelle doppie vesti di regista\sceneggiatore e distribuito da Netflix.

Che piaccia o meno (soprattutto per Nolan gli hater sono agguerritissimi) entrambi sono considerati Autori con la A maiuscola, un traguardo che penso sia diventato un motivo per spostare l’asticella sempre un po’ più in alto. Ho esplorato il mondo dei sogni dentro ai sogni in Inception? Aspetta che coinvolgo un consulente scientifico e futuro premio Nobel per Interstellar (piccolo retroscena, raccontato da Luca Perri del Planetario di Milano: le onde gravitazionali non appaiono nel film perché c’era troppo girato e bisognava tagliare qualcosa dalla sceneggiatura…). Ho trasformato la sceneggiatura basata su di un libro in una che parla di me che cerco di scrivere quella sceneggiatura (che ci crediate o no è la storia dietro a Il ladro di orchidee)? Aspetto che rendo le cose ancora più confuse nel mio primo film da regista, Synechdoche, New York. Tenet e Sto pensando di finirla qui sono l’apoteosi (per ora) di questo gioco al rilancio, e hanno a che fare con le loro ossessioni più grandi: il tempo per uno, i meandri della mente per l’altro.

Tenet

Il cinema al tempo del Covid-19

Su internet abbondano le spiegazioni per questo film, una cosa che manco gli schemini delle parentele di Dark (a proposito, se qualcuno ha capito perché fanno esperimenti sui bambini in questa serie me lo spieghi, perché gli sceneggiatori NON LO HANNO FATTO). Tenet è stato ammantato dall’aura di film incasinato fin dal primo trailer, che in effetti incuriosiva un sacco senza nemmeno provare a far capire alcunché, e a conti fatti ha mantenuto quanto promesso: uscire dalla sala potendo dire di aver capito tutto, per filo e per segno, penso sia stato possibile solo per chi lo ha scritto. Con questa premessa non intendo dire che arriverete a fine visione senza aver capito niente della trama, ma che il film è talmente intriso di piccoli dettagli impiantati su un tessuto spazio-temporale parecchio complicato che arriverete alla fine cercando di fare mente locale su qualche particolare fondamentalmente irrilevante che vi è sfuggito.

La storia inizia con il Protagonista (John David Washington, figlio del più noto Denzel) coinvolto in un’operazione antiterrorismo all’interno del teatro dell’opera di Kiev. La sua missione è quella di salvare un agente compromesso e recuperare un misterioso oggetto, obiettivo per il quale è disposto a sacrificare la vita quando, catturato dagli attentatori, ingoia una pillola avvelenata durante la tortura. La pillola si rivelerà falsa, la sua missione un test di lealtà e il piano da sventare invece molto più complicato di quanto potesse immaginare: il Protagonista, affiancato dall’alleato Neil (Robert Pattinson) inizierà un giro del mondo “alla Bond” che lo porterà in India, Norvegia, Vietnam e Russia, svelando man mano un piano criminale dalle conseguenze potenzialmente disastrose per l’umanità intera.

Christopher Nolan ha il merito di aver realizzato un film visivamente incredibile, con scene d’azione che fatico a capire come abbia fatto anche solo a pensarle (figuriamoci a realizzarle), ma tutto questo impianto che fa spalancare la mascella viene sminuito da tre serissimi problemi.

1) La freddezza. Nolan è stato accusato varie volte in carriera di essere un regista freddo, ma io mi sono sempre sentito coinvolto empaticamente dalle storie dei suoi personaggi (tranne in Dunkirk, altro film dove l’impianto scenico mi è sembrato preponderante su ciò che veniva narrato). Con Tenet questo non è successo, e ho seguito le vicissitudini dei personaggi senza mai ritrovarmi realmente in ansia per nessuno di loro. Non è colpa della recitazione quanto dell’impressione che, per dirla con una frase attualissima, alla fine sarebbe andato tutto bene: non vi rivelo se l’impressione è esatta o meno, ma uno spy movie che non riesce a tenermi sulle spine per me ha qualche difetto profondo;

2) La sindrome da spiegone. Per tutto il film Nolan ci tiene a spiegarci nel dettaglio i concetti che reggono la particolare temporalità della vicenda, con l’apoteosi verso l’inizio di un personaggio (interpretato da Clémence Poésy) che ha l’unico compito di fare un tutorial al protagonista, ma in fondo tutto questo non fa che confondere le idee senza che ce ne sia davvero bisogno. Secondo George Rohmer de I 400 calci Tenet più che essere complesso è “scritto” in maniera da sembrarlo (provate a contare le volte che vengono usate le frasi “manovra a tenaglia temporale” e “paradosso del nonno”), e sono propenso a dargli ragione: richiedere linearità in un film che fa degli incastri temporali la sua ragion d’essere non avrebbe senso, ma se alla fin fine tutto questo invertire il tempo serve giusto a girare delle grandiose scene d’azione puoi evitare di fondermi il cervello con concetti da esame di fisica di cui non sento la necessità;

Serve una spiegazione?

3) I cliché narrativi. Ho letto commenti riguardanti la profondità del cattivo (spoiler: sì, c’è un cattivo nella vicenda), l’evoluzione di un certo personaggio lungo la storia, ma la verità è che per me Tenet, eliminati i viaggi nel tempo, è banale. So che dirlo dal basso della mia conoscenza cinematografica basata su tante visioni e nessuno studio è presuntuoso, ma non pretendo certo che questo articolo venga inserito nel Mereghetti: allo stesso tempo, con tutto il rispetto, ritengo che un film d’azione che pianta lì un cattivo per cui è impossibile parteggiare, la classica donna da salvare che diventa anche love interest del protagonista e il compagno d’avventure amico fraterno dopo trenta secondi che ti conosce non può avere la profondità dei personaggi come priorità. Il film vince inoltre il premio per la battuta più inutile: quando viene fatto notare che il successo del piano malvagio potrebbe causare la distruzione del mondo uno dei personaggi risponde “e quindi morirà anche mio figlio”. MA DAVVERO?

Quando qualche anno fa vidi Mad Max: Fury Road ricordo di essere uscito dal cinema entusiasta, pur recitando le parole “bellissimo, avesse avuto una trama sarebbe stato il film definitivo”. Le parti d’azione in Tenet provocano uno sbalordimento simile, ma qui c’è una trama che le collega: purtroppo non è quello il punto forte del film.

Sto pensando di finirla qui

Due sulla strada

La trama di Sto pensando di finirla qui, ridotta all’osso, è quanto di più semplice possa sembrare. Lucy, interpretata da Jessie Buckley, va col fidanzato Jake (Jesse Plemons) a conoscere i genitori di lui, piena di dubbi sulla loro relazione cominciata da poche settimane: arrivati alla loro fattoria comincia a notare molte stranezze, in un crescendo di inquietudine.

Sembra la trama di un film horror, vero? Così però non è. Kaufman, dall’arrivo alla fattoria in avanti, ci fa capire chiaramente che le cose non sono come sembrano, ma il suo interesse principale non è la rivelazione del mistero bensì la psiche dei protagonisti (fedele in questo alla fonte originaria, il libro omonimo dello scrittore canadese Iain Reid). Forse proprio per questo Sto pensando di finirla qui è un film di parole più che di fatti, ma i discorsi dei protagonisti sono spesso inutili ai fini della trama e culturalmente onanistici. C’è davvero bisogno di far recitare tutta intera una (lunga) poesia a Lucy solo per utilizzare velocemente quel riferimento più avanti? Minuti di film passati a parlare di David Foster Wallace erano davvero necessari a caratterizzare i personaggi (per me no, ma potete parlare di Foster Wallace anche in un film porno e io non mi lamenterò)?

Il film di Kaufman è gratuitamente verboso, tanto che nella scena della poesia ho pensato che il suo obiettivo fosse proprio quello di infastidire lo spettatore (potrei non essere lontano dalla realtà: nel già citato Il ladro di orchidee compare un famoso sceneggiatore che sconsiglia vivamente alcuni espedienti narrativi di cui la sceneggiatura abbonda). Forse, semplicemente, la sua voglia di farci entrare nella mente dei protagonisti è tale da sacrificare a questo scopo anche il ritmo narrativo.

L’apoteosi del ritmo

Guardandolo ho pensato a una piccola perla che consiglio di recuperare ai più ardimentosi, Waking Life di Richard Linklater, in cui un ragazzo vaga di sogno in sogno nel tentativo di risvegliarsi, ascoltando nel frattempo i monologhi dei personaggi incontrati nel percorso. Quel film (animato con la tecnica del rotoscope, utilizzata dal regista anche per il dickiano A scanner darkly) non aveva una vera e propria trama, tutto quello che interessava al regista era mettere in scena dei ragionamenti in maniera visivamente piacevole: il film di Kaufman invece una trama ce l’ha, ma l’impressione è che se la perda un po’ per strada quando rimane troppo affascinato dalle sue stesse parole.

Sto pensando di finirla qui è un film strano, non perfettamente riuscito, ma a fronte dei dubbi espressi qui sopra è un viaggio che sono stato contento di aver fatto. Sarebbe potuto durare molto meno, ma ha una sua poetica e la capacità rara di far empatizzare con personaggi fuori dall’ordinario: per la qualità media degli originali Netflix (megaproduzioni come Roma o The irishman escluse) è già grasso che cola. Piccola parentesi “dettagli che interessano solo me”: A) tre dei quattro attori principali presenti nel film hanno recitato nella serie Fargo (ognuno in una stagione diversa), tranne B) Toni Collette, che fra questo film, Hereditary e Knives out si sta specializzando in personaggi eccessivi come neanche Nicolas Cage.

Toni Collette in Hereditary, o “la sobrietà”

Questi sono le mie impressioni da semplice amante del cinema, ma se volete un parere più autorevole qui e qui trovate le recensioni dei due film realizzate da Critical Eye, un sito che vi straconsiglio al pari de I 400 calci, anche se per motivi diversi. Buona visione!

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

4 pensieri riguardo “Quando l’autorialità diventa un problema: Nolan e Kaufman a confronto

  1. A volte basta una storia semplice per riuscire a raccontare tematiche importanti e profonde che fanno parte della nostra vita e del nostro mondo. Kaufman è riuscito alla perfezione e in ciò (tra l’altro lo considero uno sceneggiatore e regista eccezionale) mentre Tenet ha sbagliato nel voler complicare inutilmente le cose. Diciamo che in realtà questo l’ho sempre considerato un grande difetto di Nolan: creare un’enorme complessità in storie in realtà semplici. È un difetto che a mio avviso avevo ritrovato anche su Interstellar ma che qui si nota parecchio. Considero ancora The Prestige come uno dei suoi film migliori in assoluto è anche uno dei film più interessanti di questi anni è spero che riesca a ritornare a quei fasti cercando di non complicare inutilmente le sue storie.

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    1. Concordo pienamente su The prestige, anche se il mio amore assoluto va a Memento. Forse il compromesso migliore fra voglia di complicare le cose e narrazione fluida è Inception: magari complica un po’ troppo le cose, ma ai personaggi volevo bene ed ero curioso di vedere come gli sarebbero andate le cose…a differenza di Tenet, dove ero piuttosto indifferente riguardo al loro destino.

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      1. Esatto. Io mi sono sempre sorpreso delle perso e che consideravano Inception complesso quando invece aveva una trama abbastanza semplice e lineare, però apprezzavo molto i suoi personaggi e soprattutto la storia di Cobb. Forse qui si sentiva molto la mancanza del fratello nella sceneggiatura.

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