
Qualche settimana fa sono incappato in questo articolo ad opera di Mauro Maraschi, autore anche di alcuni splendidi racconti, riguardante la necessità di ripubblicare quello che è stato un esempio per molti scrittori sudamericani, Macedonio Fernández: ho scoperto così la storia di un autore che non solo era considerato un maestro da Borges, ma è stato d’ispirazione anche per Cortázar, Arlt e Bolaño. L’articolo perora la causa della ripubblicazione dei suoi scritti e chiude con una nota positiva, cioè la riscoperta di autori come Osvaldo Lamborghini da parte di Miraggi Edizioni e, soprattutto, il ritorno nel catalogo Adelphi di un altro scrittore argentino di cui di lì a poco avrei incrociato l’opera nella libreria milanese Gogol & Company (pubblicità progresso, aiutate le vostre librerie di quartiere!): ovviamente è Juan Rodolfo Wilcock.

Di lui ho già accennato altrove, visto che per una casualità che sembra destino ho fatto tappa nel paese in cui è morto (Lubriano) a qualche giorno di distanza dall’acquisto de La sinagoga degli iconoclasti. Invogliato a sfogliarlo dall’articolo sopra citato, il libro mi ha convinto subito grazie a un inizio fulminante in cui vedevo mescolati il piacere Borgesiano per le false biografie e la sintesi Manganelliana sfoggiata in Centuria: trentacinque personaggi genialmente strambi tratteggiati nei momenti fondamentali della loro vita, il tutto in poco più di duecento pagine.
“Quanto a lui, Aram Kugiungian, la ruota del suo karma si era messa a girare, a quanto pareva, senza freno, forse per arrivare prima al termine fissato; il fatto è che ogni due mesi all’incirca Aram nasceva di nuovo, pur continuando a vivere negli altri corpi. Ovviamente l’aritmetica non vale per le anime, un’anima divisa per mille dà sempre mille anime intere, così come il Soffio del Creatore diviso per tre miliardi dà tre miliardi di Soffi del Creatore. Aram sapeva di essere il ragazzo armeno di cui si è detto: volle sapere chi altro fosse.
Dal telepata filippino José Valdés y Prom al teorico dell’inversione del tempo Félicien Raegge, con cui si apre e chiude il libro, Wilcock crea un percorso affascinante fra teorie bizzarre ma non sempre inventate, visto che alcuni spunti li ha ricavati da un libro chiave dello scetticismo scientifico, In the name of science del matematico Martin Gardner. Facciamo così la conoscenza di Roger Babson, fondatore di un istituto il cui scopo è trovare una sostanza capace di annullare la forza di gravità, dell’uomo incarnato in innumerevoli corpi Aram Kugiungian, del piano di Aaron Rosenblum per riportare il mondo alle condizioni dell’Inghilterra del 1580 (a detta dell’utopista “il periodo più felice della storia mondiale”) e di quello del dottor Alfred Attendu per far assurgere l’idiozia a condizione ideale per l’uomo.
“Qualsiasi movimento tendente a reinserire i deficienti, congeniti o accidentali, nella società civile, si fonda sul presupposto – certamente falso – che gli evoluti siamo noi, e loro i degenerati. Attendu rovescia questo presupposto, decide cioè che i degenerati siamo noi e i modelli loro, e dà così inizio a un movimento inverso, finora rimasto per ben individuati motivi senza altro seguito che l’antica ma tacita collaborazione delle massime autorità, non solo psichiatriche, tendente a esasperare negli imbecilli quel che li rende appunto imbecilli.”
Divertito e divertente, scritto in una prosa che ha molto in comune con quella dell’amico Borges, La sinagoga degli iconoclasti diventa però ostico laddove il suo autore si fa troppo affascinare dai temi che cerca di scandagliare. Scrivere le immaginarie recensioni delle opere teatrali di Llorenz Riber aggiunge solo pesantezza alla narrazione della carriera (inspiegabilmente di successo) di un regista ossessionato dai conigli, così come aggiungere i dettagli tecnici delle invenzioni di André Lebran o stilare la lunga lista di quelle di Jesús Pica Planas, fecondo autore di progetti inutili. Uno dei capitoli in cui Wilcock si fa più prendere la mano dalla smania esplicativa è legato al metabolismo storico, sorta di teoria secondo cui i conflitti in natura sono dovuti al gruppo sanguigno, movimento curiosamente attribuito ad un intellettuale (e proprietario di una fabbrica di dolci) di Abbiategrasso chiamato Carlo Olgiati: i particolari geografici permettono di rilevare un grande legame con l’Italia (Wilcock visse più di vent’anni nel belpaese, di cui ottenne la cittadinanza post-mortem), acuito dalla rivelazione, nell’ultima pagina, che il nome del folle teorico è quello del bisnonno del’autore.
La sinagoga degli iconoclasti è un fulgido esempio dell’inventiva letteraria argentina, leggero nei temi ma con una prosa rifinita alla perfezione. Non è esente da difetti, ma la brevità delle biografie di cui è composto (una pagina la più corta, dieci la più lunga se si esclude il caso particolare di Llorenz Riber) rende comunque agevole la lettura laddove Wilcock si distrae e perde di vista quella che è la sua abilità migliore, cioè rendere credibili i suoi personaggi attraverso esperienze e aneddoti piuttosto che tramite dissertazioni pseudoscientifiche. Non siamo ai livelli delle Tre versioni di Giuda borgesiane insomma, ma negli episodi migliori la soddisfazione è molto simile.
Racconti migliori: José Valdés y Prom, Aaron Rosenblum, Aram Kugiungian, Alfred Attendu, Henry Bucher, Luis Fuentecilla Herrera.